Il Pd si divide sulla Libia. Oggi i parlamentari dem si incontrano per decidere la linea da tenere al Senato sulle mozioni che riguardano il rinnovo degli accordi tra l’Italia e lo stato nord africano. Il partito è spaccato tra la linea Minniti – che aveva stretto quegli accodi durante il governo Gentiloni – e quella di Matteo Orfini, uno dei parlamentari saliti a bordo della Sea Watch 3. Lo stesso Orfini ha anticipato il tema dell’assemblea di oggi con un post su Facebook: per il deputato dem quelli libici sono dei “lager” e continuare a finanziare chi li gestisce è “inaccettabile”. “Spero che Zingaretti si schieri su questa linea – ha aggiunto Orfini – Sarebbe bello riuscisse a venire a discuterne con noi domani, quando riuniremo su questo il gruppo della Camera”. Sul tema ieri i parlamentari dem hanno già iniziato a confrontarsi via social. Il senatore Francesco Verducci è d’accordo con Orfini: “La Libia non è un ‘porto sicuro’, lo ha ammesso anche il ministro Moavero”. Di opinione opposta Lia Quartapelle, capogruppo dem in commissione Esteri alla Camera: “Il Pd ha già votato in commissione: noi diciamo sì alle missioni, una posizione tra l’altro già tenuta in passato. A chi chiede di cambiare questa linea suggerirei cautela.
“Servirebbe un altro congresso”
“Sarebbe meglio fare un congresso”. Basta l’invito di Romano Prodi, che pure di Nicola Zingaretti è stato un sostenitore felpato, per dare il senso della situazione del Partito democratico. A pochi mesi dall’insediamento del neo-segretario si addensano difficoltà e poca incisività. “Il bilancio sul Pd di Zingaretti?”. Per Prodi bisogna partire dal fatto che “il partito era in disfacimento. Lo ha ricostruito e ha riconciliato con fatica, e non è finita, le diverse correnti”. Però, a quanto pare non basta, “adesso comincia la fase di ricostruzione: c’è bisogno di un nuovo congresso in cui si ricominci a discutere e ci si diano obiettivi chiarissimi”. Prodi ne ha parlato domenica, ospite di In 1/2 h in più su Rai3. Il Professore non sembra preoccuparsi troppo di eventuali scissioni, magari su iniziativa di Carlo Calenda o Beppe Sala: “Tutti i partiti hanno più anime – spiega – se queste anime diventano incompatibili allora si faranno un loro partito, altrimenti si andrà avanti insieme. In ogni caso – osserva Prodi – il Pd avrà bisogno di allearsi se vuole arrivare al governo del Paese”.
Chiudere i confini o ius soli, il Pd è stretto tra due linee
Nel Pd fioriscono i manifesti politici. E disegnano volti diversi proprio sulla “madre di tutte le battaglie”, la posizione sul multiculturalismo e sull’immigrazione. Tema decisivo nella crisi che attraversa l’Europa e su cui tutte le famiglie politiche – socialisti, popolari, liberali, verdi, sovranisti e anche la sinistra radicale –, cercano di trovare un bandolo.
Il Pd, al suo interno, di posizioni ne ha almeno quattro: quella di sinistra più o meno classica (Nicola Zingaretti), quella pragmatica (Beppe Sala), quella energica e umanitaria allo stesso tempo (Marco Minniti) e, infine, un inedito liberalismo autoritario (Von Hayek?) sponsorizzato da Carlo Calenda.
Ieri il Foglio ha pubblicato la “rivoluzione immoderata” del neo deputato europeo. Tra le righe si potrebbe leggere anche immodestia, ma Calenda ci ha abituato all’ambizione leaderistica e alla voglia di giocare un ruolo di primo piano nella politica: logico che voglia volare alto.
Il testo prende atto della crisi in cui versa il liberalismo, che “avrebbe bisogno di una sua Bad Godesberg”, dal nome del congresso della socialdemocrazia tedesca che mise in soffitta il marxismo. Si vede dal testo che Calenda capisce l’insidia portata avanti dal nuovo nazionalismo. Ma, per rispondere alla minaccia, si mettono in campo ipotesi paradossali come “il patriottismo inclusivo” e il ruolo di uno “Stato forte” che accanto alla “economia sociale di mercato” e al primato del “progresso e della tecnologia” disegnano un liberalismo che assomiglia più alla Cina che al canone anglosassone. Il paradosso può sembrare irriverente, la Cina ovviamente non ha il pluralismo politico che costituisce la base del pensiero liberale, ma il “patriottismo inclusivo” è un concetto che viene immesso nel circuito politico proprio con l’occhio rivolto al nazionalismo. E non è un caso, quindi, che la proposta in tema di migrazioni sia quella del “presidio dei confini” in luogo di un “generico altruismo”. “I confini aperti non sono un’opzione”, scrive Calenda, che propone una immigrazione “legale e selettiva” e soprattutto propone di farla finita con la prima fase della globalizzazione che ha permesso ai Paesi meno sviluppati di fare dumping sociale e quindi concorrenza sleale a partire dal costo del lavoro.
Sono parole che Matteo Salvini farebbe fatica a non sottoscrivere, e che disegnano un tentativo, non sappiamo quanto vincente, di coniugare liberalismo “il punto più elevato raggiunto dal pensiero politico”, con “indispensabile Stato forte” anche se non “pervasivo”. Lo Stato forte che gestisce politiche liberiste è il cuore del pensiero neoliberista, ma qui viene espresso in modo più diretto.
Calenda, dunque, va oltre anche Marco Minniti, che nella sua triade “Sicurezza, Libertà, Umanità” arriva a proporsi con una linea di fermezza sui migranti senza rinunciare all’ipotesi “concertativa” del coordinamento e del rapporto organico con la società civile. L’idea del “codice di condotta” delle Ong costituisce senz’altro un modo per imbrigliarle e controllarle, ma allo stesso tempo ne riconosce un ruolo, sia pure a rimorchio delle prerogative statali di ordine pubblico e sicurezza. E Minniti non si è finora spinto verso il patriottismo inclusivo e lo Stato forte.
Né tantomeno si spinge su questi lidi Nicola Zingaretti. Rispondendo a una serie di domande programmatiche fattegli domenica dal settimanale l’Espresso, il segretario del Pd ha elencato le sue ricette socialdemocratiche pallide, in cui la crescita del lavoro si sposa con lo sviluppo delle aziende (sembra logico, ma negli ultimi venti-trent’anni non è successo); il salario minimo non va regolato per legge, ma nei contratti; la centralità ambientale, “green”, dovrebbe sposarsi con le grandi opere come il Tav, e così via. Solo sull’immigrazione sembra esserci una linea più radicale, visto che Zingaretti propone il superamento della Bossi-Fini, la fine del reato di clandestinità, il ritorno dello ius soli, una legge sulla cittadinanza.
Poi c’è il pragmatismo di Giuseppe Sala che, sempre su l’Espresso, propone politiche di “buon senso” intervenendo sui problemi “dove ci sono”, ma poi rivendica il Daspo per i Rom.
Oscillazioni in un solo partito che segnalano una fragilità enorme, figlia dell’egemonia della Lega e dell’incapacità delle sinistre, e dello stesso liberalismo, di proporre un’alternativa credibile. Non a caso Vladimir Putin si è permesso di dire al Financial Times che il liberalismo “ha esaurito il suo scopo”. Ma la risposta, come nel caso di Calenda, sembra forte solo perché degli approcci di Putin o del nazionalismo che si aggira in Europa, senza più sembrare uno spettro, ha iniziato a nutrirsi.
Emma sotto attacco sui social: il sostegno di Turci e Mannoia
Era finita sotto attacco (social) già qualche mese fa, quando in febbraio, al suo concerto al Palasele di Eboli, dal palco aveva urlato ai fan: “Aprite i porti”. La sua pagina Facebook era stata invasa da insulti: “Apri la porta di casa tua”, “Stai zitta”. Tra cui il post costato l’espulsione al consigliere comunale di Amelia della Lega, Massimiliano Galli (“I Porti? Emma apre le cosce”). Ora si è ripetuto il copione. “Cogliona, canta che ti passa”, “stupidella”, “povera stronza”: sono solo alcuni degli attacchi a Emma Marrone, rea di aver espresso, sui suoi profili social, solidarietà alla capitana della Sea Watch Carola Rackete per gli insulti sessisti ricevuti sul molo di Lampedusa. La cantante salentina ha risposto alle offese (“Che bella cosa non essere come te. Che bella cosa non essere te. Eh sì, meglio cogliona, fidati”), ravvivando così la polemica. Spiccano i messaggi di sostegno delle colleghe Paola Turci, Fiorella Mannoia (“Avanti, scatenatevi pure, I vostri insulti sono come medaglie”), ma anche di Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti, attaccati a loro volta dagli utenti che si erano già scagliati contro Emma.
Muro, il poeta “viandante”: “Noi bipolari sulle frontiere”
Luigi Nacci è un poeta e “viandante” triestino. Classe ’78, insegna italiano in una scuola slovena a Trieste. Il suo ultimo libro, Trieste selvatica (Laterza), è un piccolo caso editoriale: da due mesi in cima alle classifiche di vendita. Nacci cammina per i boschi del Carso e dell’Istria, tra Italia, Slovenia e Croazia da dieci anni. Natura possente, poche case, confini liquidi: terre ibride, di tutti e di nessuno. “Proprio davanti a me – esordisce Nacci quando al telefono gli chiediamo del muro proposto dal governatore Massimiliano Fedriga – ho la prima pagina del Piccolo del 21 dicembre 2007, quando la Slovenia entrò in Schengen. Recita: ‘La festa di Trieste, confine addio’. È stato un momento speciale, per una città che ha subìto la Guerra fredda. E ora si parla di barriera lungo il confine? Vengono i brividi”.
Rispetto alla frontiera, Trieste e il Friuli-Venezia Giulia sono bipolari. C’è apertura, ma anche diffidenza proprio per via del portato del Novecento: guerra calda, guerra fredda, esodo istriano. Fedriga vuole intercettare questi sentimenti? “Se lo fa è rischioso”, prosegue Nacci. “Qui anche chi ha idee più conservatrici non vuole la barriera. Più controlli, per fermare i migranti, sì. Ma non la chiusura di un confine…”. Ogni giorno qui qualche decina di migranti, in arrivo dai Balcani, attraversa la frontiera. Nacci, nelle sue “viandanze” (le camminate che organizza come guida), ritrova gli stracci degli indumenti che segnano il passaggio. “Qualche giorno fa, ci hanno fermato dei doganieri sloveni, chiedendoci se avessimo visto clandestini…”. Il tono della voce fa immaginare una situazione grottesca. Il filo spinato che dal 2016 marca alcuni tratti della frontiera tra Croazia e Slovenia – e a cui Fedriga potrebbe ispirarsi – lo ha voluto Lubiana, proprio per fermare i migranti. “Ma non è servito a niente. Ha solo ucciso animali… Non ha fermato nessuno”.
I migranti della discordia sull’isola, con altri 70: “Noi torturati in Libia, lunga vita alla tedesca”
Per una passeggiata aspettano che il sole tramonti e cercano un po’ di fresco in giro per le strade di Lampedusa. Sono i 42 migranti che per 16 giorni sono stati bloccati a bordo della Sea Watch3, sbarcati sul molo commerciale dell’isola, durante la notte tra venerdì e sabato. “La vita qui è tornata a essere quella di sempre e non è facile nemmeno identificare coloro che erano a bordo della nave della Ong tedesca”, racconta don Carmelo La Magra, il parroco che ha dormito per una settimana sul sagrato della chiesa, in segno di solidarietà coi migranti. Ai 42 della discordia si sono aggiunti nelle ultime ore poco più di 70 migranti: arrivati a più riprese, chi a bordo di barchini, chi recuperato dalla Guarda costiera.
All’hotspot di Lampedusa, dove si trovano i 42 della Sea Watch3, c’è chi adesso appare più rilassato in volto, e c’è chi si lascia andare per qualche battuta in inglese o francese. Frammenti di un viaggio che ha nella Libia la tappa che torna sempre. “Torture, lunghi trattenimenti prima di imbarcarsi. Sono aspetti che, considerati i dettagli crudeli, spesso non hanno voglia di approfondire”, spiega Alberto Mallardo, rappresentante di Mediterranean Hope.
Ma c’è anche un sentimento comune di riconoscenza per la scelta della comandante di spingersi fino al molo. E così un coro che augura lunga vita a Carola Rackete è diventato una sorta di ritornello. Intonato sia davanti alla chiesa sia dai balconcini in prossimità delle stanze dell’hotspot. Gli inconsapevoli protagonisti dell’ultimo scontro Salvini-Ong ora trascorrono gran parte della giornata all’interno dell’hotspot di contrada Imbriacola. In attesa della ricollocazione che dovrebbe, potrebbe, sparpagliarli tra Germania, Francia, Lussemburgo, Portogallo e Finlandia.
“Ho agito per necessità”. Ma il pm accusa Carola
“Ho agito per necessità entrando in porto, sinceramente ero convinta che la motovedetta si sarebbe scansata”. Carola Rackete racconta questo al procuratore Salvatore Vella nella calda giornata che la vede protagonista ad Agrigento dopo l’episodio avvenuto a Lampedusa dove la capitana della Sea Watch non si è fermata all’alt delle forze dell’ordine, fino alla collisione con la motovedetta della Guardia di finanza che occupava il molo. Ed è stata arrestata.
Solo oggi la giudice Alessandra Vella deciderà sulla richiesta della Procura di Agrigento di convalida dell’arresto e di divieto di dimora nella provincia di Agrigento, quindi anche a Lampedusa, per i reati di rifiuto di obbedienza a nave da guerra, resistenza o violenza contro nave da guerra e navigazione in zone vietate. Nella sua giornata più lunga Carola non è però da sola: con lei tante persone che l’hanno salutata al porto, al grido di “Carola, Carola” dimostrando la propria solidarietà tra grida e lacrime, striscioni e bandiere: “Noi vogliamo l’accoglienza”. Applausi anche dopo le tre ore di interrogatorio, davanti al tribunale di Agrigento, da dove ha parlato anche l’avvocato Alessandro Gamberini: “La decisione di Carola di attraccare a Lampedusa non è fondata su delle impressioni avute annusando l’aria ma da una situazione che poteva degenerare: i migranti potevano essere protagonisti di episodi di autolesionismo, di suicidio, e qualcuno si poteva buttare in mare”. Di altro avviso è il procuratore capo Luigi Patronaggio, il quale ha escluso lo stato di necessità e ritenuto volontario l’atto di Carola Rackete: “Non si tratta di una azione di bisogno – ha spiegato – perché la nave aveva ricevuto assistenza medica ed era in contatto per ogni tipo di altra assistenza. Ha invece svolto una manovra azzardata con i motori laterali che ha prodotto lo schiacciamento della motovedetta sulla banchina: un atto fatto con coscienza e volontà”.
Gli avvocati contestano la qualifica di nave da guerra della motovedetta con la quale c’è stata la collisione, confermata anche dalla difesa: “L’arresto – sostiene Gamberini – fa leva su una strana norma del codice della navigazione sulla resistenza a una nave da guerra. Questa è una sopraelevazione della qualificazione giuridica. La motovedetta è una nave militare ma non da guerra”. Stato di necessità e nave non da guerra sono i due punti centrali della difesa.
La giornata ad Agrigento era iniziata con gli applausi di sindacati e associazioni all’arrivo della capitana tedesca nel porto di Porto Empedocle, dove lei ha ricambiato il saluto, esausta, ed è terminata con le parole le parole del ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Merita il carcere”. Ma in carcere non andrà. “In ogni caso – ha detto ancora il vicepremier – siamo comunque pronti a espellere la ricca fuorilegge tedesca”, come è possibile in casi eccezionali anche per i cittadini comunitari. Gli avvocati della donna sono però tranquilli: “Non ci sarà un decreto di espulsione anche perché c’è un altro procedimento nel quale Carola dovrà essere ascoltato. Quindi il ministro dovrà trattenere le sue ire”. Il 9 luglio infatti Carola Rackete dovrà tornare in Procura per rispondere del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. discussa separatamente. “Si discuterà se il salvataggio dei migranti è stato effettuato per stato di necessità – ha detto Patronaggio – dopo aver verificato se ci sono stati contatti tra i trafficanti di essere umani e l’equipaggio della Sea Watch, per questo motivo si è agito con una perquisizione sulla nave”.
Per domani i rappresentanti della ong tedesca sono stati chiamati alla Camera per un’audizione sul decreto Sicurezza bis che ha fatto infuriare il sottosegretario leghista all’Interno, Nicola Molteni: “Vengono considerati interlocutori dei fuorilegge che speronano le navi”. A scuotere la giornata anche la diffusione di una foto segnaletica di Carola Rackete negli uffici di Lampedusa: è stata aperta un’inchiesta interna della Questura.
Foto di Mussolini in ufficio: carabiniere punito dai superiori
Vicino alla sua scrivania, in caserma, aveva affisso un quadretto con l’immagine di Benito Mussolini e altre immaginette di epoca fascista. Per questa ragione un appuntato dei carabinieri della Val di Susa è stato punito dai suoi superiori con un giorno di consegna, sanzione ora confermata dai giudici del Tar del Piemonte. A segnalare l’immagine del duce a un parlamentare, che aveva interpellato il comandante della Stazione, era stato un No Tav nel marzo 2016. Nello stabilire il giorno di consegna, gli ufficiali non contestano il “mero possesso” degli oggetti, ma la loro “ostensione” nell’ufficio, soprattutto considerando che l’appuntato sapeva che “il soggetto indagato, condotto presso il suo ufficio, risultava di area antagonista e sottoposto a misure cautelari” insieme ad altre persone tra cui una accusata “di oltraggio a pubblico ufficiale per aver gridato ‘fascista’ a un carabiniere”. Secondo i magistrati amministrativi, i doveri del militari devono essere letti alla luce della Costituzione che è “fondata sui valori dell’antifascismo e di ripudio dell’ideologia autoritaria fascista” e “pone il principio di apoliticità delle forze armate medesime”.
“Tav, cambiamo i componenti italiani della commissione intergovernativa”
Quelli che non ci stavano continuano a non starci. Anche se per un pezzo del Movimento di governo la Torino-Lione non pare più un mostro, e quindi sulla tratta si può trattare e chissà se alzare bandiera bianca. Per questo il M5S di Torino, nato e cresciuto attorno al no al Tav, prova la contromossa. In una nota congiunta chiede di riportare la trattativa al tavolo della commissione governativa italo-francese, e soprattutto invoca “la sostituzione dei rappresentanti italiani”, partendo da quella del capo-delegazione Paolo Foietta.
Così scrivono i parlamentari Alberto Airola e Jessica Costanzo, la capogruppo in Regione Francesca Frediani e tutti i consiglieri comunali di Torino. Un segnale che non è piaciuto ai piani alti del Movimento, dove la linea rimane quella di lasciare il dossier nelle mani del premier Giuseppe Conte, per non andare al corpo a corpo con la Lega e guadagnare tempo. Peraltro non tanto, stando a quanto detto dallo stesso Conte pochi giorni fa a Osaka: “Il percorso sulla Torino-Lione è stato delineato, abbiamo fatto una valutazione costi benefici, e ciò ha aperto un confronto con i nostri interlocutori che sono due, la Ue e la Francia. Ma questo percorso si sta chiudendo”. Invece la vecchia guardia no Tav di Torino vorrebbe un’altra strada: “È ora di attivare il tavolo della commissione inter-governativa, visto e considerato che quest’anno la presidenza è affidata all’Italia. In questa sede, dopo la sostituzione dei rappresentanti italiani, potranno essere discusse le forti criticità dell’attuale progetto così come emerse negli anni, ammesse dall’Osservatorio, dalla Corte dei Conti francese e fotografate nella analisi Costi Benefici disposta dal ministero dei Trasporti”.
E il succo politico al Fatto lo ribadisce il veterano Airola, senatore al secondo mandato: “Noi vogliamo ridiscutere integralmente l’opera nella commissione, e chiediamo a Conte di sostituire innanzitutto Foietta. L’avanzamento dei lavori segnerebbe un terremoto nel M5S, perché metterebbe a rischio la giunta di Torino e io stesso sarei costretto a dimettermi”. Fonti del Mit però obiettano: “Che senso ha fare queste nomine se non vuoi realizzare l’opera?”.
“Chi ha fatto il Mose sapeva di usare materiali scadenti”
Lo stesso progettista del Mose aveva dubbi sul tipo di materiali scelti per le enormi “cerniere” che serviranno per alzare le paratoie mobili a difesa di Venezia dall’acqua alta. Ma si sentì rispondere dall’ingegnere Giovanni Mazzacurati, padre dell’opera e gran ciambellano della tangenti in Laguna: “Non si preoccupi, ingegnere. Fra quindici anni né io né lei saremo ancora qui”. L’avvocato Giuseppe Fiengo, uno dei due commissari che sta gestendo il Consorzio Venezia Nuova dopo lo scandalo e gli arresti di cinque anni fa, ripesca dalla memoria quello che è molto di più di un aneddoto. È l’indicatore di come fu pensata la grande opera, senza guardare oltre l’orizzonte, nonostante la durata di vita sia programmata per cento anni. L’acciaio in pochi anni è già corroso dalla ruggine, le cerniere rischiano di non funzionare e si mette in cantiere uno studio sui materiali e sulle sostituzioni delle cerniere.
Avvocato Fiengo, non c’è solo una spesa di 34 milioni di euro, una briciola per un’opera da 5 miliardi e mezzo. C’è un problema di tenuta dei materiali e di previsione della spesa per la manutenzione.
Questa gara non deve creare allarmismo. Stiamo facendo una cosa innovativa, una procedura europea per un “dialogo competitivo”, un partenariato per l’innovazione. Siccome si sono manifestati effetti indesiderati e criticità, ma non c’è uniformità di vedute sulle cerniere, dopo tre anni di analisi, abbiamo deciso di coinvolgere le migliori imprese per programmare cosa va fatto. Ed è per questo che abbiamo allegato tanti documenti al bando, facendo un’operazione trasparenza.
Ma lo stato dei materiali non sembra dei migliori.
Questi materiali sono un po’ vecchi, furono scelti nel 2006-2007. L’andamento dell’umidità è stato maggiore del previsto, nessuno si è preoccupato di installare impianti di condizionamento nelle gallerie. E quindi sono incerti i tempi di mantenimento. La ruggine è cominciata subito, anche se l’opera è programmata per durare un secolo. Non sono state fatte analisi di rischio e funzionalità, necessarie per un manufatto immerso nell’acqua. Con il bando ci siamo aperti al dialogo con le imprese.
Il materiale, ben che vada, durerà la metà di quanto previsto..
Lo ha accertato il Registro Navale Italiano. Sappiamo che i materiali per un po’ di anni reggeranno. Ma poi?
Lo scopo?
Fare chiarezza, avere un quadro operativo, sapere quali problemi potremo avere fra dieci anni, mettere assieme un quadro di gestione del Mose. Non possiamo definire i costi se non sappiamo, ad esempio, quanti bulloni devono essere sostituiti, come e con che ciclicità vanno smontate e ripulite le paratoie.
Possibile che lo studio dei materiali sia stato così carente per componenti delicate come le cerniere? Se non funzionano, le dighe non si alzano.
Il progettista del Mose, l’ingegnere Alberto Scotti, aveva delle forti perplessità sul materiale, sosteneva che avesse dei difetti e potesse manifestare una minore resistenza all’acqua. Ne avrebbe voluto uno molto più costoso.
Non fu ascoltato?
L’ingegnere Giovanni Mazzacurati – è registrato agli atti del processo – gli disse; ‘Tra 15 anni non ci saremo più né io né lei…’. Questo dimostra come si è lavorato pur di fare l’opera.
Anche le paratoie richiedono una manutenzione continua.
Il Mose è immerso in un ambiente molto vivo. Sulle paratoie abbiamo trovato di tutto, cozze, vongole, i pescatori vanno lì per cercare le orate. Basta una permanenza in acqua di pochi mesi e si riempiono di alghe, di detriti. Per non parlare della sabbia, che solo a Venezia viene considerata un rifiuto e non un sedimento da smaltire con determinate regole e costi molto maggiori.
Si può dire che il costo di manutenzione e di attività del Mose sarà di 100 milioni all’anno?
Sono numeri così… che partono dai 100 milioni all’anno previsti per i primi tre anni dell’avviamento. Ma anche su questo dobbiamo avere un approccio progressivo, confrontarci con scelte che sono state sbagliate.
Ad esempio?
L’idea della grande opera, che risulta impattante da un punto di vista paesaggistico e architettonico alle bocche di porto, dove troviamo costruzioni alte 28 metri, quando si potevano realizzare edifici molto più bassi. Uno spreco di cemento.
Come lo spiega?
Le imprese che facevano parte del Consorzio hanno pensato a fare fatturato. Con la gestione commissariale abbiamo rotto questo meccanismo di chi voleva solo fare tanti soldi, visto che servivano anche per la corruzione. Ed è per questo che ci siamo fatti tanti nemici.