Indagato per danno erariale Cascetta, il prof del Sì Tav

Ennio Cascetta non è facile da ingabbiare in una sola definizione. Professore ordinario di Pianificazione di sistema dei trasporti all’Università Federico II Napoli, presidente di Metropolitana Napoli spa, la società concessionaria della linea 1 della metro, ex assessore campano di Antonio Bassolino (ai Trasporti, ovviamente), tecnico prestato alla politica nel campo del Partito democratico (che pensò a lui per la successione di Bassolino). E ancora, è stato ex coordinatore della struttura tecnica di missione del ministero dei Trasporti dal 2015 al 2017, ruolo col quale ha attraversato il governo guidato da Matteo Renzi e un pezzo del governo di Paolo Gentiloni, nonché autore di Perché Tav, volume edito da Il Sole 24 Ore in libreria da un mese che fa un’analisi costi-benefici positiva delle tratte ferroviarie ad alta velocità (È infatti vicino a Pierluigi Coppola, il membro della commissione del ministero dei Trasporti che non firmò poi l’analisi costi-benefici sul Tav voluta da Toninelli). Ma Ennio Cascetta è soprattutto un ingegnere. Che, nonostante una serie di impegni lunga un chilometro, non ha rinunciato alla libera professione. E in questa veste avrebbe accumulato dal 2012 al 2015 una sfilza di incarichi professionali che sarebbero “incompatibili con lo status di docente ordinario”. A sostenerlo è la Procura della Corte dei conti campana – pubblico ministero Davide Vitale – che ieri ha notificato a Cascetta un invito a dedurre all’accusa di aver provocato un danno erariale di quasi 900 mila euro, per i quali ha disposto un sequestro conservativo “ante causam” dei conti correnti, delle polizze e di una barca da 12 metri, sottolineando una serie di donazioni ai figli per spogliarsi del patrimonio immobiliare. Secondo le indagini condotte dalla Guardia di Finanza, l’Ateneo di Napoli avrebbe subìto in silenzio le violazioni del regolamento per gli incarichi extra istituzionali “perché condizionato dall’indiscusso potere accademico nonché politico del docente”. Cascetta ha respinto tutto al mittente: “Accusa palesemente infondata per una cifra contestata con un conteggio davvero singolare, e sulla quale ho già pagato le tasse fino all’ultimo centesimo, mentre le donazioni ai miei figli sono di un periodo antecedente all’inchiesta”.

La perizia sui 12 viadotti: “Barriere non a norma”

Hanno sbagliato i calcoli. E così le barriere bordo ponte dei 12 viadotti tra Baiano e Benevento sulla autostrada A16 Napoli-Canosa gestita da Autostrade per l’Italia (Aspi), non sono più sicure come prima. E il problema potrebbe esistere anche su altre barriere di viadotti sparpagliati sull’intero territorio nazionale. Lo affermano i consulenti della Procura di Avellino, l’ingegnere Andrea Demozzi e il professore Mariano Pernetti, a pagina 58 e a pagina 74 della perizia depositata dal procuratore capo Rosario Cantelmo al Tribunale del Riesame.

I giudici erano stati chiamati a decidere sul ricorso contro il sequestro-bis dei new jersey lungo quel tratto in Campania, che ha comportato la chiusura di una corsia su due. Ma gli avvocati della società della famiglia Benetton hanno rinunciato alla discussione. L’azienda ha comunque ribadito la correttezza del suo operato e la sicurezza degli impianti di protezione lungo il tratto gestito da Aspi, e confida in un accoglimento delle proprie ragioni al termine dell’inchiesta che vede al momento tre indagati. Agli atti, però, c’è una consulenza commissionata dai pm che non condivide le argomentazioni dei tecnici di Autostrade su una questione delicata e riassumibile così: la sostituzione dei Liebig su quelle barriere, con nuovi sistemi di ancoraggio consistenti in barre filettate inghisate con la malta cementizia, può essere omologata? Ha mantenuto inalterati i requisiti di tenuta e di sicurezza delle barriere? Quegli interventi furono eseguiti da Aspi dopo la strage dei 40 morti del 28 luglio 2013: un bus turistico precipitò dal viadotto di Acqualonga dopo aver abbattuto un new jersey che avrebbe retto se i tirafondi non fossero marciti per l’incuria. Una sciagura che ha indotto Aspi a cambiare metodo di ancoraggio delle barriere esistenti sugli altri viadotti campani. Un metodo, però, bocciato dai consulenti della Procura dopo l’analisi della documentazione acquisita. “Le resistenze ricalcolate dai sottoscritti CC.TT. della Procura sono inferiori a quelle determinate dai Consulenti di Aspi, così come pure i relativi coefficienti di sicurezza (che divengono tutti minori di 1) – si legge nella perizia -. I calcoli svolti dai Consulenti di Aspi, in assenza delle necessarie motivazioni relative alle ipotesi sopra discusse, non sono probanti dell’equivalenza strutturale del nuovo sistema di ancoraggio (in malta) con quello preesistente al momento della sua installazione (Liebig). Non è possibile pertanto convalidare la presunta eguaglianza della resistenza dei due sistemi di ancoraggio”.

La perizia ricorda i crash test falliti nel 2015: quello positivo, del 2019, non rassicura del tutto perché gli interventi di sostituzione furono fatti nel 2014 e quasi certamente con le metodologie utilizzate per gli impianti dei primi crash test.

Con un impulsatore a ultrasuoni, l’Epoch Plus 4, i consulenti hanno verificato la lunghezza dell’ancoraggio dei tirafondi. Analisi a campione hanno riguardato il viadotto Acqualonga direzione est e il viadotto Bosco Grande direzione ovest. Nel 23% dei casi su Acqualonga e nell’8% dei casi su Bosco Grande la lunghezza è risultata inferiore al minimo previsto in progetto (300 mm). “Tali incidenze sono significative – è scritto – in quanto evidenziano una problematica potenzialmente diffusa su tutto il territorio nazionale in presenza di interventi analoghi a quelli realizzati nella tratta in esame: la metodologia di intervento di sostituzione dei tirafondi realizzata da Aspi può cioè determinare una lunghezza di inghisaggio inferiore a quella calcolata”. Conclusioni: “Nel tratto in esame le riduzioni della lunghezza di ancoraggio non sono in sè gravi dal punto di vista strutturale, ma evidenziano appunto una criticità insita nella modalità di intervento”. Che sommata ad altre criticità “crea una situazione di rischio in caso di urti di veicoli in svìo con elevato contenuto energetico”.

Morandi, un video fa tremare Aspi: fu lo strallo a cedere

Fino a oggi è stato il segreto più custodito dell’inchiesta sulla strage del ponte Morandi: non un semplice video, ma gli ultimi secondi di agonia del viadotto. Mai così da vicino, mai in modo così netto. Una sequenza di pochi secondi che per gli inquirenti è la prova madre di tutto il processo. Una ripresa che dimostra, nel contesto di altri elementi “concordanti”, che il crollo del viadotto Polcevera è derivato dall’alto, ed è stato provocato dal cedimento di uno degli stralli – i tiranti diagonali, anima in ferro e rivestimento in cemento – che avevano il compito di reggere tutta la struttura.

In quei frame, secondo l’accusa, c’è la chiave per leggere il reperto più importante, il pezzo numero “132”, inviato ai laboratori svizzeri dell’Enpa: si tratta di una sezione dello strallo a sud-est che per gli esperti potrebbe essere il primo punto di rottura; un pezzo di tirante collegato con l’antenna, ovvero la sommità della struttura, che avrebbe ceduto perché irreparabilmente danneggiato e sollecitato. Nelle tracce di “gravissima corrosione del metallo” di quel pezzo c’è, per chi indaga, la causa della tragedia: chi aveva in gestione il viadotto, non ha vigilato, non ha effettuato la manutenzione che andava fatta, ha lasciato decidere le vite di 43 vittime a un azzardo.

La registrazione è stata recuperata dagli uomini del Primo nucleo della Guardia di Finanza di Genova nel caos delle ore immediatamente successive al 14 agosto, quando i soccorritori cercavano ancora di salvare vite immersi nel fango e nei detriti. A riprendere meglio di ogni altro apparecchio la dinamica dell’incidente è stata una telecamera ad alta definizione della ditta Ferrometal, azienda della zona che l’aveva installata per ragioni di sicurezza. Mentre tutti gli altri filmati disponibili sono stati diffusi subito, il video della Ferrometal è stato secretato, una scelta che è andata anche ad alimentare teorie complottiste sul web. In realtà c’è una ragione dietro a questo riserbo: il pubblico ministero Massimo Terrile non voleva condizionare testimoni e consulenti tecnici, nella convinzione che quelle immagini parlino letteralmente da sole.

Ma cosa si vede in quella sequenza e perché è così importante? Innanzitutto perché indicherebbe finalmente una dinamica chiara: per gli investigatori a cedere è lo strallo fra la pila 9 e la 10, in un punto a ridosso della sommità; il resto della struttura, e in particolare l’impalcato (la parte piatta che sorreggeva le carreggiate), crolla in modo “sincronico”, cioè come se avesse perso il sostegno dall’alto. In altre parole, dopo la prima rottura, tutta la struttura collassa su se stessa dopo aver perso l’equilibrio. Inoltre perché spazzerebbe via le cosiddette ipotesi alternative: la bobina caduta da un camion, e un fulmine che avrebbe colpito una delle antenne.

La Procura di Genova ha iscritto sul registro degli indagati 74 persone, tra manager e tecnici di Autostrade per l’Italia e Spea Engineering (la ditta controllata da Aspi che aveva il compito di effettuare la manutenzione), dirigenti e tecnici del Ministero delle Infrastrutture, oltre a tutte le figure che si sono occupate del Ponte a partire dal 1992, anno del primo grande intervento di ristrutturazione effettuato prima della privatizzazione della rete autostradale. Ed erano stati proprio gli avvocati di Autostrade a lanciare un forte attacco alla Procura, accusata di ledere il diritto alla difesa degli indagati perché, durante l’incidente probatorio che dovrebbe accertare le cause del crollo, continuava a non mostrare “atti fondamentali”, tra i quali proprio il video della Ferrometal.

Nel giorno in cui le immagini sono state messe a disposizioni delle parti, Autostrade per l’Italia ne ridimensiona il valore: “Il video, che peraltro non inquadra tutti i componenti essenziali del ponte, mostra la cinematica del crollo che potrà essere una delle basi per la ricerca della verità, che fin da subito abbiamo richiesto e perseguito, esplorando tutte le ipotesi. Ad oggi, sulla base del video e dei parziali risultati del primo incidente probatorio non è possibile affermare che il crollo sia stato determinato dal cedimento dell’attacco degli stralli”.

“A rischio l’intera rete di Autostrade: via la concessione”

Il disastro del ponte Morandi di Genova ha mostrato che Autostrade per l’Italia (Aspi) è inadempiente verso i suoi obblighi di concessionario e con colpe gravi verso gli interessi pubblici. Per questo lo Stato può revocare la concessione senza pagare le mega-penali regalate al gruppo controllato dai Benetton dalla convenzione del 2007. O quantomeno rinegoziare un rapporto “squilibrato”. La relazione degli esperti nominati dal ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli – che il Fatto ha visionato – è un atto d’accusa pesante, al punto che – spiegano i giuristi – “è venuta meno la fiducia del concedente (lo Stato, ndr) sull’idoneità del concessionario a mantenere in sicurezza la rete autostradale” affidatagli, cioè 3.000 chilometri di strade.

Leggendo le 62 pagine del documento si capisce perché i 5Stelle hanno alzato il tiro chiudendo all’ipotesi che Atlantia, la holding dei Benetton (ieri crollata in Borsa) partecipasse al salvataggio di Alitalia. È l’ultima tappa di una lunga interlocuzione. Dopo Genova, il Mit ha inviato tre note di contestazione, a cui Aspi ha risposto soprattutto con le controdeduzioni inviate il 3 maggio scorso (418 pagine). La commissione le fa a pezzi.

La relazione parte da una premessa: la convenzione del 2007 è stata un regalo ai Benetton frutto di “una disciplina speciale ed eccentrica rispetto a quella legale”, normata da leggi che pure le sono sovraordinate, come il codice civile, quello della strada e quello degli appalti. Il tutto blindato dall’approvazione “per legge”, grazie a una norma voluta dal governo Berlusconi (con l’ok della Lega) a maggio 2008, senza discussione. In Parlamento, per dire, “non si aveva contezza neppure del numero e, quindi, del contenuto delle convenzioni oggetto di approvazione per legge”. A pesare sono soprattutto gli articoli 8-9 e 9bis. Quest’ultimo prevede che, anche in caso di grave inadempimento, la concessione può essere revocata solo dopo aver pagato ad Autostrade i ricavi da pedaggio previsti fino alla scadenza del 2038, quando la rete tornerà allo Stato. Una somma stimata tra i 10 e i 25 miliardi, “insostenibile” e frutto “della cedevolezza” dei governi di allora ma che per i giuristi non è dovuta, visto che le colpe di Aspi rendono queste clausole capestro “non valide”.

Il cuore delle contestazioni riguarda gli obblighi del concessionario. Aspi sostiene di non avere la custodia legale del Morandi e che le uniche cause di inadempimento previste, riguardano solo “omissione” o “ritardo” dei lavori (articoli 8-9), a cui si può porre rimedio. La replica dei giuristi è dura: il concessionario (dice il codice della strada) ha i diritti e doveri del propietario, e il codice civile (articolo 1177) prevede che “l’obbligazione di consegnare una cosa determinata include quella di custodirla fino alla consegna”. La concessione peraltro obbliga “al mantenimento della funzionalità delle infrastrutture”. Aspi ha violato tutte e tre gli obblighi, un “grave inadempimento” che supera gli articoli 8-9 e rende nulla la maxi-penale. Gli esperti smontano anche la tesi di Autostrade secondo cui spetta a lei la ricostruzione del Morandi e che basta ricostruirlo per evitare contestazioni: se così fosse, spiegano, potrebbe collassare gran parte della rete autostradale e Aspi se la caverebbe ricostruendo le opere prima della fine della concessione. Invece la custodia “è immediatamente esigibile in costanza di rapporto concessorio”. Gli esperti contestano anche la pretesa di Autostrade di avere a che fare solo con la direzione competente del ministero: gli esperti terzi chiamati da Toninelli servono proprio perché i rapporti di forza sono squilibrati.

L’altro cuore della relazione riguarda le manutenzioni. Nelle 418 pagine inviate a maggio, Aspi spiega di aver fatto tutte quelle dovute. Gli esperti ricordano che, secondo la relazione della commissione ministeriale che ha indagato sul disastro, è dal 1999 che non venivano effettuati lavori di rilievo sul ponte (il 98% della spesa è precedente). E a nulla vale la difesa di Aspi che il concedente non ha mai avuto nulla da obiettare. La gravità dell’evento – spiegano – mina “l’affidabilità del sistema di controllo e manutenzione”, e solleva dubbi sull’intera rete autostradale: il punteggio di pericolosità del Morandi, per dire, è lo stesso di molte altre infrastrutture. Anche la via d’uscita di dimostrare di non avere colpe nel crollo non sussiste: per i giuristi non può essere dovuto a cause esterne. Aspi, annotano, dedica al tema solo una delle 418 pagine, con l’ipotesi della caduta di un grosso carico da un Tir in transito. Ma anche se fosse, sarebbe stato “il tratto finale di una sequenza in corso da tempo che il concessionario non è stato in grado di arrestare”.

La parte finale della relazione si occupa di come procedere. Lo Stato ha il diritto di revocare la concessione senza penali, ma gli esperti ammettono che non si può escludere il rischio di perdere nel contenzioso. Di certo il governo dovrebbe eliminare la norma del 2008 voluta da B. che costringerebbe a far ripartire l’iter di approvazione della concessione. C’è però una seconda strada: “Rinegoziare la concessione per ricondurla all’interno dei canoni di equilibrio ed equità tra le parti”. È la linea caldeggiata dalla Lega per venire incontro ad Atlantia.

M5S caccia altre due deputate dissidenti: via Vizzini e Giannone

Venerdì al Direttivo della Camera aveva promesso la scure contro “chi non è in linea”, e la scure è arrivata. Ieri sera, su diretto impulso del capo politico Luigi Di Maio, i Cinque Stelle hanno espulso due deputate al primo mandato, Gloria Vizzini e Veronica Giannone. Due dichiarate dissidenti, già tra le firmatarie nel novembre scorso di una lettera al capogruppo alla Camera Francesco D’Uva in cui una quindicina di eletti si opponevano al decreto sicurezza e invocavano “maggiore collegialità” nel M5S. Otto mesi dopo, di sera, il blog delle Stelle cala la sentenza. Fuori Giannone, 37 ani di Galatina (Lecce), e Vizzini, 40enne di Caltanissetta ma trapiantata in Toscana. “Questa decisione è stata presa a seguito delle segnalazioni delle ripetute violazioni dello statuto e del codice etico del Movimento e dello statuto del gruppo Parlamentare della Camera” si legge sul portale. Nel dettaglio, alle due deputate vengono rimproverate “le assenze alle votazioni finali di vari provvedimenti fondamentali, condivisi e sostenuti dal nostro gruppo. E a questo si aggiungono le votazioni in difformità dal gruppo di numerosi emendamenti contrari alla linea politica del Movimento e per le quali entrambe hanno ricevuto un richiamo formale, la partecipazione in conferenze stampa gravemente lesive dell’immagine del M5S, oltre che la mancata restituzione forfettaria dal mese di ottobre 2018 a cui sono tenuti per regolamento tutti i parlamentari”. E questo è un punto importante, perché diversi eletti 5Stelle non restituiscono da mesi, furibondi per il meccanismo a loro avviso troppo macchinoso delle restituzioni. E pesa anche la protesta contro la piattaforma web Rousseau, quella gestita da Davide Casaleggio, a cui vanno ridati ogni mesi 300 euro. La certezza però è che nel Movimento sono tornate le espulsioni. Lo scorso fine settimana si era ricominciato con il foglio di via per la senatrice di Paola Nugnes, vicina al presidente della Camera Roberto Fico, rea di aver annunciato l’addio al Movimento in un’intervista al Manifesto lo scorso 23 giugno, e di aver votato contro la fiducia al governo sul decreto Crescita. Ora tocca a Giannone e a Vizzini, che in un’intervista al Fatto in febbraio aveva rivendicato il voto favorevole su Rousseau all’autorizzazione a procedere per Salvini sul caso Diciotti. “Il voto ha certificato che siamo spaccati” sosteneva.

Nomine, Macron ammette il fallimento

Nel programma del Consiglio europeo riaggiornato a stamattina alle 11 a Bruxelles, c’è già in programma una cena. Con l’incubo “fumata nera” per il Consiglio europeo più lungo della storia. Domani il Parlamento europeo deve votare il suo presidente e prima di quel momento, i leader europei devono riuscire a trovare un accordo sulle nomine dei “top job”. Altrimenti il rischio è quello di abdicare alla loro funzione e lasciare all’aula di Strasburgo il compito di dirimere la questione, con l’elezione di un presidente che di fatto condizionerà le caselle successive. Sul tavolo per la guida della Commissione ci stanno soprattutto due nomi del Ppe: il francese, negoziatore della Brexit, Michael Barnier (che però ha il veto di Angela Merkel) e il premier croato, Andrej Plencovic. Ma l’impressione è che non sarà semplice e che le carte vere potrebbero essere coperte.

La trattativa è andata avanti per tutta la notte tra domenica e lunedì: prima i bilaterali, poi la cena, poi ancora bilaterali, poi di nuovo vertice. Ma alla fine, ieri mattina Donald Tusk, attuale presidente del Consiglio, ha sciolto la seduta e ha rimandato tutto a oggi. I tentativi di accordo finora si sono infranti davanti a una serie di crisi “strutturali”. Prima di tutto quella della Merkel, che ha insistito fino all’ultimo minuto utile (e a più riprese) per Frans Timmermans (Spitzenkandidat socialista) presidente della Commissione e Manfred Weber (Spitzenkandidat popolare) dell’Europarlamento. Le spaccature dentro la Csu tra favorevoli e contrari a Weber sono andate di pari passo a quella del Ppe. E qui si arriva alla seconda crisi strutturale, con una famiglia europea profondamente divisa che si è scagliata contro la Cancelliera: il blocco di Visegrad (Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania), ma anche Croazia e Irlanda. E poi, è andato in crisi l’asse franco-tedesco: al G20 di Osaka la Merkel e Emmanuel Macron avevano trovato un accordo di massima. E sulla base di quello hanno provato a riproporre Timmermans ancora ieri mattina, dopo il no del Ppe. Risultato? È saltato tutto. “È un fallimento. Stiamo dando una brutta immagine per il Consiglio e per l’Europa”, ha detto il presidente francese in conferenza stampa, senza mezzi termini. E mentre Tusk ha continuato a guidare le trattative, per tutta la giornata di ieri, nessuno schema sembrava avere successo. Prima di tutto per il muro contro muro di Ppe e Pse. Gli europarlamentari popolari ieri hanno ribadito che per loro l’unico candidato alla guida della Commissione resta Weber. A meno che non si faccia da parte lui. E che comunque si tratta di una poltrona che tocca a loro.

Il Pse, viceversa, continua a rivendicare la guida della Commissione per Timmermans. A un certo punto di ieri pomeriggio si ipotizzava di “spostare” lo Spitzenkandidat socialista alla Presidenza del Consiglio Ue, lasciando Weber alla guida del Parlamento e lavorando per portare alla guida della Commissione un popolare. In alternativa potrebbe persino rientrare la candidata dell’Alde, Margarethe Vestager. Ma fonti socialiste ribadiscono perentorie: “Senza Timmermans alla Commissione, Weber non lo votiamo”. E da più parti, l’unico commento che arriva è “tutto in alto mare”.

Nel frattempo, il premier Giuseppe Conte è riuscito a stare in partita: nel nome del no al diktat dell’asse franco-tedesco e a colpi di incontri bilaterali ha riunito sul no a Timmermans 10 Paesi oltre all’Italia. E con questa motivazione è pure riuscito a ricomporre la rottura interna con Matteo Salvini, che all’olandese si era opposto dal primo momento. Oggi si ricomincia.

Auto connesse, il wi-fi voluto solo per Volkswagen

La faccenda è complicata di suo e lo è ancor di più perché c’è di mezzo il pazzotico processo legislativo Ue. La possiamo riassumere così: da circa un anno è in corso una guerra tra lobby e all’interno dei governi sul futuro dell’auto connessa, tecnologia che entro pochi anni cambierà il mercato e, ovviamente, si candida a essere volano di innovazione tecnologica nonché fonte di pacchi di miliardi per costruttori e fornitori di servizi (tra cui chi gestisce il bancomat delle autostrade). Ecco, la guerra si concluderà in un modo o nell’altro giovedì 4 luglio a Helsinki, durante il meeting informale dei ministri europei della “competitività” (il nostro Sviluppo economico).

L’Italia, bizzarramente, ci arriva senza una posizione chiara, anche se potrebbe finire per essere l’ago della bilancia in uno scontro fratricida in cui, ad oggi, le più “obsolete” Volkswagen e Renault stanno vincendo su Ford, Daimler, Psa (Peugeot e altre) e l’intera industria europea delle Tlc.

Per capirci su quanto conti questa partita, un report dell’Osservatorio Autopromotec calcola in 270 miliardi il valore del mercato al 2025. Nel frattempo sono già programmati investimenti per decine di miliardi in pochi anni: ovviamente le applicazioni più ovvie riguardano la sicurezza, ma c’è anche la gestione della guida, la connessione con semafori, luci e quant’altro fino alla futuribile e forse non augurabile guida senza pilota. Un pezzo, e di rilievo vista la tradizionale funzione guida del settore automobilistico, del cosiddetto “Internet delle cose”.

Qual è il problema? Una penetrante azione di lobby, che dice molto sulla trasparenza del processo legislativo a Bruxelles, ha fatto sì che la Commissione europea violasse il principio della “neutralità tecnologica” teoricamente in vigore in Europa: in sostanza, il legislatore impone gli obiettivi, come arrivarci sta alle imprese. Sull’auto connessa, invece, un cosiddetto “regolamento delegato” dell’ottobre 2018 impone per “i sistemi di trasporto intelligente”, brutalizzando la tecnologia wi-fi su cui si muovono Volkswagen e Renault: tutti gli altri sistemi dovranno essere resi compatibili con questa.

Problema: molte case automobilistiche e tutte le aziende di Tlc stanno invece puntando sul 5G, la prossima generazione di Internet. In molti si sono chiesti perché scegliere la tecnologia più vecchia. Perché così hanno chiesto alla Commissione, su mandato delle loro maggiori aziende dell’auto, i governi tedesco e francese a ottobre: peccato che Stati Uniti e Cina, all’avanguardia nel settore, stiano progettando l’auto connessa sul 5G. Quale tecnologia usare non è una scelta minore, visto che la rete infrastrutturale su cui funzionerà va in gran parte costruita: per capirci, la Repubblica italiana ha da poco concesso le sue frequenze 5G a Telecom e altre aziende per oltre 6 miliardi di euro, però ora la Ue potrebbe spostare per legge un mercato ricchissimo su altre frequenze, quelle del wi fi. Una discreta beffa.

La decisione di Juncker e soci non è rimasta senza risposta. Reuters ha rivelato che Deutsche Telekom e Bmw hanno subito inviato una lettera al governo tedesco per chiedere di bloccare il testo; il governo francese, spinto da Psa e dai big delle Tlc, ha già cambiato idea. Il treno, però, è partito e la lobby Volkswagen & C. fa le cose per bene. Quando della materia si è occupato l’Europarlamento, ad aprile, è stato come guardare una puntata di House of cards: la commissione Trasporti ha votato contro il lock-in tecnologico della Commissione, ma poi in Aula il risultato è stato 304 voti a favore del wi-fi contro 270. Il relatore Dominque Riquet non l’ha presa bene: “La mia obiezione è stata appena respinta: nessun rispetto per la neutralità tecnologica e testimonianza dell’efficacia delle lobby”. La commissaria ai Traporti Violeta Bulc (quella con cui trattiamo sul Tav) ha invece festeggiato: secondo lei il wi-fi è una tecnologia “economica e facile da implementare”. Finito? Nient’affatto.

Nella Babele del processo legislativo europeo mancano quelli che comandano davvero, i governi: il Consiglio europeo può porre il veto agli atti proposti dalla Commissione e votati dall’Europarlamento; in questo caso serve però un’ampia maggioranza qualificata per bloccare il favore a Volkswagen. Ad oggi le squadre sono composte così: a favore ci sono solo 3 Paesi (Belgio, Austria, Polonia), per il veto si sono schierati in 9 (tra cui Francia e Spagna) ma ne servono più del doppio. Gli altri 18 Paesi sono divisi equamente tra quelli che hanno espresso “dubbi” e “preoccupazioni” legali e quelli – tra cui l’Italia – che non hanno ancora detto nulla. Se nessuno parla, vincono Volkswagen e Renault.

Isolato? Il Quirinale dimostra il contrario

L’idea che il governo Conte sia “isolato” in Europa, nell’ambito della trattativa sul rinnovo della Commissione, non regge, se non alla prova dei fatti, almeno dei fatidici tre indizi che fanno una prova.

Il primo dato è tecnico: la presidenza della Commissione europea si indica a maggioranza qualificata, cioè con il 55% dei voti degli Stati membri in rappresentanza del 65% della popolazione. Uno Stato importante come l’Italia, fondatore della Ceca e della Cee, potrebbe facilmente immettersi in una minoranza di blocco, magari formata dagli esclusi, e conferirle una speciale dignità, basata sullo status di uno dei quattro grandi Paesi della Ue. E non è un caso, secondo indizio, se ieri da Palazzo Chigi hanno diramato una nota che ricorda l’iniziativa di Conte che “si è trovato davanti il muro franco-tedesco, compatto nel voler imporre un pacchetto ‘prendere o lasciare’”. Su questa posizione, dice ancora Palazzo Chigi, “Conte è riuscito a portare anche gli altri Paesi che già erano contrari al nome di Timmermans, costruendo una rete e creando un fronte ampio di 11 Paesi”. Così il fronte franco-tedesco ha cominciato “a sgretolarsi”. Ricostruzione ovviamente di parte e che omette di ricordare che la proposta Timmermans, avanzata da Angela Merkel, è stata bocciata, come ricostruisce il sito Politico.eu, dall’assemblea dei popolari che avrebbero “umiliato” la Cancelliera. Resta comunque il fatto di un’attività giocata dall’Italia, pur nella difficoltà della situazione.

Ma è il terzo indizio, che definisce così la prova, a rendere conto del mancato isolamento italiano: l’appoggio che ieri Sergio Mattarella ha voluto dare platealmente all’esecutivo sul tema dell’infrazione europea. Un appoggio che delinea un rapporto diretto con Giuseppe Conte che difficilmente non comprende anche la partita della Commissione. E che potrebbe avere, come carta italiana nella Commissione stessa, il nome di Enzo Moavero.

Procedura e Ue: il Colle dà uno scudo al premier

Giunto nel punto più stretto dell’imbuto. Giuseppe Conte trova una mano tesa sulla soglia del tunnel. Quella del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che da Vienna prova a tirarlo fuori, dando un futuro al suo governo: “Noi crediamo che la procedura di infrazione non abbia ragione di essere aperta”. Ossigeno per il premier: non a caso fornito nel giorno in cui il Consiglio dei ministri vara l’assestamento di bilancio, che prevede maggiori entrate e minori spese per un totale di 7 miliardi, così da ridurre il deficit del 2019, avvicinandosi al 2 per cento del Pil chiesto dalla Commissione europea. E viene anche approvato un decreto per “congelare” un miliardo e mezzo di risparmi su reddito di cittadinanza e quota 100 derivanti da domande inferiori a quanto inizialmente stimato.

Guarda caso, tutto questo lo decide un Cdm senza Luigi Di Maio e con Matteo Salvini, che se ne va dopo pochi minuti, ufficialmente furibondo proprio perché Di Maio non c’era, per giunta “dopo avermi attaccato su Autostrade”. E si riferisce agli strali dell’altro vicepremier su Facebook, poco prima: “Il silenzio della Lega sulle concessioni, dispiace, fa sentire ancora più protetti i Benetton”. Ma il 5Stelle fa sapere di aver comunicato la sua assenza per motivi familiari “già il 27 giugno”. Poco dopo lui e Salvini si sentono, ed è la milionesima tregua tra i due vicepremier, di certo non ansiosi di partecipare a un Consiglio dei ministri che ha dovuto concedere parecchio alla Ue. Ma le sciarade non possono rallentare Conte.

Un premier trapezista per forza, che con una mano deve rifare i conti, e con l’altra deve tessere la tela per la partita delle nomine in Europa, ovviamente legata a quella della procedura. Anche per questo appena torna da Bruxelles Conte rivendica il no al socialista Timmermans come presidente della commissione europea, cioè all’asse franco-tedesco, o ancora meglio “al metodo del prendere o lasciare”. E ovviamente da Palazzo Chigi giurano che il muro di Salvini a Timmermans non c’entra nulla. “Prima di partire per Bruxelles domenica il premier aveva sentito i due vicepremier, anticipando loro che si sarebbe riservato di valutare il nome del candidato socialista, nella convinzione che non servisse un veto”.

Ma alla fine Conte dice no, “perché l’Europa è a 28 e non a 2”, sostengono da Palazzo Chigi. Dove assicurano di aver creato un fronte contro il duopolio Merkel-Macron, “con altri 11 Paesi, quindi non solo con quelli di Visegrad”. Altro che Conte isolato, altro che presidente sotto schiaffo della Lega è il sottotesto. “E poi Conte potrebbe sostenere Timmermans per altri incarichi” aggiungono da Chigi.

Però la nota di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e amica del blocco di Visegrad, è un bacio al curaro: “Se la notizia venisse confermata non potremmo che complimentarci con Conte”. Ma al premier premono più le parole di Mattarella. Uno scudo per lui e il ministro dell’Economia Tria: “Il disavanzo di bilancio in Italia è passato dal 2,4 al 2,1 tra il 2017 e il 2018, l’avanzo primario è passato dall’1,4 all’1,6: dati di trend positivi”. Ma non solo: “Vi è una condizione di base di economia italiana di grande solidità, non a caso l’Italia è la terza economia dell’Unione ed è la seconda manifattura d’Europa”. Quindi, tira le fila Mattarella, “le indicazioni sono rassicuranti”.

Qualche ora dopo, dal Quirinale precisano: “Il presidente fa sempre il tifo per l’Italia, ed è ovvio che in una fase come questa sostenga chi sta cercando le risorse per evitare la procedura d’infrazione”. Cioè Conte e Tria, legati a doppio filo al Colle, che le risorse le hanno trovate anche con una sorta di scambio. Perché il miliardo e mezzo di risparmi da reddito di cittadinanza e quota 100 non poteva essere conteggiato prima del monitoraggio di settembre sull’erogazione delle misure, spiegano fonti di governo.

Quindi nell’attesa verrà “offerta” all’Europa la stessa cifra, ricavata da mancati trasferimenti ai ministeri. A settembre, una volta completato il monitoraggio, in manovra finiranno i risparmi da reddito e quota 100. Insomma, per il 2019 i numeri escludono una procedura, che infatti va verso il rinvio. La vera partita è sul 2020, nella legge di Bilancio.

La congiura dei fatti

Ormai è chiaro ed evidente: c’è un complotto della realtà che si diverte, per motivi imperscrutabili, a mettere in cattiva luce i giornaloni e a smentire ogni giorno le loro profezie di sventura. Prendete l’“Italia isolata sulle nomine Ue” (titolone unico dell’ultimo mese): pare che ora, senza il voto dell’Italia, non si riesca a formare la nuova Commissione. Quindi isolata un par de ciufoli. Prendete la procedura d’infrazione contro l’Italia. Data per certissima nella versione classica autunno-inverno, sventuratamente sfumò a dicembre. Ma poi, quando ormai nemmeno le cassandre in servizio permanente effettivo ci speravano più, ricicciò nel modello primavera-estate. La annunciò in pompa magna Repubblica il 5 giugno: “Dall’Europa arriva la bufera… La Ue piega il governo… smonta i numeri… apre la procedura per debito… martedì si esprimeranno gli sherpa dei governi”. L’Apocalisse era questione di ore. Del resto lo diceva già Totò a Peppino e a Mezzacapa: con le bùfere non si scherza: “Sono per la strada, dappertutto… entrano nei palazzi, salgono le scale…”. E Mezzacapa: “Acqua, vento… e nebbia!”. Totò: “Ah, questo m’impressiona! Tutto, ma la nebbia!”. Mezzacapa: “A Milano, quando c’è la nebbia, non si vede”. Totò: “Perbacco… e chi la vede?… Se i milanesi, a Milano, quando c’è la nebbia non vedono, come si fa a vedere che c’è la nebbia a Milano?”.

La scorsa settimana, in stereofonia, Repubblica e

Stampa titolavano entusiasti e patriottici:

“Procedura più vicina”. E descrivevano il premier Conte come un uomo disperato, in preda agli attacchi di panico, forse persino spettinato, nell’ansia di rinviare l’amaro calice:

“Conte lavora al rinvio della procedura di infrazione” (Repubblica, 27.6). Ma gli altri, quelli bravi, mica ci cascano: eh no,

“accelerano”. Poi, all’improvviso, la gelata:

“Conti, Italia rimandata ad ottobre. L’Europa congelerà la procedura” (Repubblica, 28.6). E la controgelata:

“Procedura Ue, nessun rinvio” (Repubblica, 29.6). Anzi, addirittura:

“Conte mette fretta all’Europa”, “Conte sulla procedura: si apre o si chiude, non si può restare appesi” (Corriere, 29.6). E Mattarella? Non parlava, ma era descritto a far di no col capino, sconsolato dinanzi al governo degli incapaci che ci porta dritti al

default e fuori dall’euro. Poi purtroppo Mattarella ha parlato:

“Non vedo ragioni per aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia. Il disavanzo è passato dal 2,4 al 2,1 tra il 2017 e il 2018, l’avanzo primario dall’1,4 all’1,6. Una condizione dell’economia italiana di grande solidità. Il governo sta presentando ciò alla Commissione per dimostrare che i conti saranno in ordine”.

Tradimento! Ma allora lo dica, il presidente, che vuole suicidi di massa nelle migliori redazioni. Dev’essere in combutta con l’Istat, che ha comunicato i dati sull’occupazione. A maggio è salita al 59%, il valore più alto da quando sono disponibili le serie storiche (il 1977): +67 mila occupati su aprile e meno disoccupati (al 9,9%, -0,2% in un mese, il dato più basso da febbraio 2012, anche fra i giovani: -0,7 in un mese). E i lavoratori dipendenti con contratti stabili aumentano più di quelli a termine (+27 mila contro +13 mila). Anche qui è chiara come il sole la congiura ordita da imprenditori e salariati, che si son messi d’accordo per sputtanare la Confindustria, lo sciopero generale di Cgil-Cisl-Uil e i migliori quotidiani al seguito, con i loro oracoli sui milioni di posti sterminati dal dl Dignità, dal famoso “blocco di centinaia di cantieri” (Tav in primis) e dalle frasi dissennate di Giggino Di Maio contro Atlantia e Mittal, tipiche della “cultura anti-impresa e anti-lavoro” del M5S.

“Le imprese: ‘Non faremo più assunzioni. E a rimetterci saranno sempre i lavoratori’” (Stampa, 29.6.2018).

“Decreto imbecillità: Di Maio fa la guerra ai precari per facilitare la disoccupazione” (Libero, 3.7).

“Tante regole e poca dignità” (Repubblica, 3.7).

“Di Maio fa saltare 100 mila posti di lavoro” (Giornale, 4.7).

“Imprese e calcio contro il decreto sui contratti. ‘Meno occupati’” (Corriere, 4.7).

“Salvare le imprese dalla gogna populista. Mobilitarsi. Molta Cgil, poca dignità. Il decreto Di Maio è un colpo non al precariato ma all’occupazione. La Gigi Economy è la cultura del sospetto applicata al mondo dell’economia. Contro un nuovo orrendo pauperismo di massa” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 4.7).

“Il dl Dignità è un disastro. Un mix di incompetenza e populismo. Aumenteranno i disoccupati” (Carlo Calenda, 5.7).

“Berlusconi smonta il dl Dignità: ‘A rischio un milione di posti’” (Giornale, 9.7).

“Sul fronte del lavoro, nei freddi numeri della Ragioneria dello Stato non si vedono all’orizzonte benefici occupazionali, ma addirittura il rischio che restino a casa 8 mila persone l’anno” (Repubblica, 12.7).

“Di Maio brucia 80.000 posti. E lo scrive pure. Il decreto Dignità farà calare il numero di occupati” (Libero, 14.7).

“Il ‘miracolo’ gialloverde. Bruciati in pochi giorni 500 mila posti di lavoro” (Giornale, 15.7),

“Siamo passati dalla promessa di un milione di posti di lavoro all’assicurazione di bruciarne almeno mezzo milione” (Nicola Porro,

ibidem). “Non è il decreto dignità, è il decreto disoccupazione. Di Maio non è il ministro del lavoro, è il ministro della disoccupazione” (Matteo Renzi, 24.7).

“Dl Dignità. Una mamma è la prima vittima: ‘Perdo il lavoro’” (Repubblica, 27.7).

“Allarme Federmeccanica: il 30% delle imprese non rinnoverà i contratti per il decreto Dignità. Almeno 53 mila persone non potranno essere riavviate al lavoro per il limite massimo dei 24 mesi” (Stampa, 6.12).

“Già persi 600 mila posti di lavoro” (Giornale, 22.12).

“Il lavoro al tempo dei gialloverdi. Incertezza e burocrazia. Gli industriali giudicano il dl Dignità firmato Di Maio. Che ha prodotto un incremento minimo. E precario” (Espresso, 17.3). E questi sono gli esperti. Poi ci sono gli incapaci e i loro complici: i fatti.