Non ci sono più le mezze estati, ahimè

È arrivata l’estate, e con lei, i suoi luoghi comuni: il mare è bello, ma anche la montagna; dicono ci sia la crisi, ma i ristoranti sono pieni e la gente va in vacanza; il marito rimasto in città da perfetto uomo d’affari, si trasforma in lupo solitario, il problema è che non ci sono più le pecore di una volta; domani ci sarà il picco; sarà l’estate record per il numero d’incendi; non mangiate l’impepata di cozze prima di fare il bagno, dopo aver mangiato bisogna aspettare almeno 2 ore per evitare la congestione. Ho visto gente affogare solo dopo un’ora e cinquanta; che poi, quando una è sdraiata, si vede che ha il seno rifatto; oggi le cartoline non si scrivono più, io ne sto ancora aspettando una di Manolita, che è stata in vacanza a Foppolo 7 anni fa; una volta invece… Gianni Morandi non invecchia mai e comunque ha un suo pubblico; nulla disseta più di un buon bicchiere d’acqua fresca; puoi arrivare fino alla boa e poi però torni indietro; i mesi perfetti per le vacanze? Luglio e Settembre, ma quanto è bella la città ad Agosto, trovi sempre posto; con tutto ciò… Non è tanto il caldo, quanto l’umidità che t’ammazza; non ci sono più le zanzare di una volta; la spirale dello zampirone è instaccabile, si rompe sempre. So che alla Nasa stanno studiando un sistema per risolvere questo problema. D’altra parte, il termine zampirone proviene dal nome del suo inventore l’ing. Zampironi, che nell’800 lo inventò perché era perseguitato dalle zanzare in una ridente località della pianura Padana. Lo chiamavano Tuttounponfo. Non si può dire lo stesso dell’inventore del moschicida, che avrebbe voluto chiamarsi mosconi e invece purtroppo all’anagrafe era registrato come Rossi. Non c’è niente da fare nomen omen! Comunque il mare stanca; per quanto… Bella l’estate, non vedo l’ora venga l’inverno!

 

Salvini vs Rackete: quando l’etica sfida la legge dello Stato

Non è certo originale, ma il caso della Sea Watch con lo scontro durissimo tra il capitano Salvini e la comandante Rackete, richiama subito alla mente l’eterno dissidio tra Antigone e Creonte ovvero tra la legge pubblica dello Stato e la legge morale. Antigone, violando la legge della città, aveva provveduto alla pietosa sepoltura del fratello Polinice; il secondo, Creonte, sovrano di Tebe, custode inflessibile della legge, aveva perciò pronunciato la condanna di Antigone ad essere sepolta viva in una grotta sotterranea: “Non ho nessuna considerazione per chi tiene un amico in maggior conto della propria patria” (Sofocle, Antigone 182 ss.). Nonostante il verdetto, Tiresia, altro protagonista della tragedia sofoclea, intervenne per indurre Creonte a ritornare sui suoi passi, cosa che avvenne. L’austero sovrano, intimorito dall’indovino, decise di liberare la donna, ma il mutamento di decisione arrivò troppo tardi: Antigone si era già suicidata.

Ora, davvero i ‘poveri cristi’ dei migranti della Sea Watch possono essere la ‘posta’ del dolente dilemma tra legge umana e legge divina (o morale)? Si stanno davvero fronteggiando un Creonte e un’Antigone? Io, da sempre impopolare partigiano di Creonte, nutro qualche dubbio, e pure l’opinione pubblica è profondamente divisa. Allora, a parte che la combattiva Carola Rackete non mostra segni di cedimento o rassegnazione, possiamo chiederci se quel Decreto sicurezza sia davvero una “legge della città” fondata su valori condivisi? E, ancora, possiamo chiederci se, comunque, possa superare quell’antica “legge del mare”, in vigore da millenni, che obbliga al salvataggio di vite umane?

Gli ebrei italiani esiliati ricordano senza processare

Tutti i protagonisti di questo libro sono ebrei. Ma il libro è sull’Italia, che non viene processata e giudicata per le leggi razziali che hanno spostato, trasferito, cambiato rovesciato o distrutto la vita di tanti ebrei italiani. Qui si narra la storia di una grande famiglia ebrea profondamente italiana e – in Italia – già titolare di riconoscimenti , e legami della classe e della cultura. Sandro Gerbi, nel suo Ebrei Riluttanti, Hoepli Editore, storia della sua famiglia, sceglie, come sceglierebbe un regista, persone dal profilo forte e definito, con una vita piena e solida, e una straordinaria ramificazione di rapporti, dunque un gruppo ben identificato e ben riconoscibile, trasformando l’esodo in una grande avventura. E, come un regista, coglie in azione i suoi personaggi in due momenti della loro storia: mentre sono e vivono da protagonisti una buona vita (insieme a tanti italiani altrettanto importanti, colti, influenti, ma non ebrei) e mentre diventano esiliati in grado di capire in tempo che è necessario partire presto perché nessun privilegio ti salverà.

L’umiliazione è scansata nella forma (tutto sembra un trasferimento, una decisione spontanea di vivere altrove). E la nuova vita lontana è coperta dal buon successo professionale, e dai rapporti già esistenti con la vita internazionale. Inevitabile per me ricordare uno dei Gerbi in esilio, Claudio. La sua scelta, per sé e la sua giovane famiglia, era stata New York. A New York aveva continuato a fare il medico internista con un suo grande e affermato studio in Park Avenue. E aveva deciso (unico dei Gerbi ) di non ritornare in Italia. Una volta (sarà stato il 1960) sono stato a trovarlo e conoscerlo con Ugo Stille, il leggendario corrispondente del Corriere della Sera. Claudio Gerbi è diventato presto un amico, anche perché era un riferimento, oltre che per molti newyorkesi di Manhattan, per due gruppi diversi: gli esiliati che avevano scelto di restare a New York; e i nuovi del giornalismo e delle imprese italiane, gruppi che in quegli anni si espandevano negli Usa. Poiché ho indicato il drammatico punto di partenza (regime persecutorio, cacciata, esilio) il lettore si chiederà perché scelgo, nel ricordare la storia dei Gerbi, l’aspetto della loro vita in arrivo nei luoghi di esilio: seguo la scelta dell’autore. Nel narrare la vita della sua famiglia mentre cala sulla loro dignità e libertà la rete ignobile delle leggi sulla razza, l’autore sceglie lo sguardo da fuori: narra quello che accade non dal punto di vista soggettivo degli affetti, legami, nostalgie, sradicamento, rimpianto. Gli interessa osservare i nuovi mondi (dall’America Latina agli Stati Uniti), le nuove vite, la perseveranza o cambio di professione, la capacità di organizzare un nuovo network di contatti e di rapporti che continueranno dopo l’abbattimento del fascismo e del nazismo nell’Europa finalmente bonificata. Aiuta anche la scrittura, venata di un senso di fiducia, quasi una mite celebrazione della famiglia che si disperde e ritorna, e la trovata di chiamare in scena, nei momenti chiave della narrazione, dei “giusti” che hanno reso possibile la partenza e il ritorno.

Viaggio in Russia con papà Nobel: il ritorno dall’esilio di Solzenicyn

Il viaggio con papà quello di Ermolaj che accompagna il suo vecchio genitore – Aleksandr Solzenicyn – nel viaggio di ritorno nelle Russie dopo uno straziante ventennio di esilio nel remoto Vermont. Con la caduta dell’Urss, l’autore di Arcipelago Gulag – già premio Nobel per la Letteratura – può fare ritorno nella sua madrepatria. Ed è un viaggio in più di quindici città in due mesi, dal 27 maggio al 21 luglio 1994, in cui il vecchio e il giovane incontravano – oltre alle strade, alle piazze, e alle stazioni – il futuro di una popolazione resa libera ma priva di speranze. Solo degli sciagurati potrebbero immaginare di ricostruire l’Unione Sovietica ma sono dei senza cuore, senza alcun dubbio – dirà qualche anno più tardi, Vladimir Putin, l’attuale capo di Mosca – “quelli che non ne hanno nostalgia”.

E come uno straniero anziano e barbuto, in quell’attraversamento del continente euroasiatico, Solzenicyn coglie l’urgenza: tutelare diritti e proprietà dei venticinque milioni di propri connazionali esclusi dalla propria vita, “che si erano ritrovati” – annota Ermolaj – “con i passaporti di un impero scomparso e uno status giuridico indefinito”.

Ritorno in Russia, dunque. È il titolo di un libro di Aleksandr Solzenicyn, a cura di Sergio Rapetti, edito da Marsilio, contenente i discorsi e le trascrizioni di conversazioni dell’illustre esule nell’arco di tempo che va dal 1994 al 2008, ovvero l’anno della sua morte. Un “viaggio con papà”, questo dei due russi tornati nella distesa dove le distanze raggiunte dalla Transiberiano servono a contenere automobili di seconda mano, macchine della polizia crivellate da pistolettate, caramelle coreane, succhi e biscotti di Vladivostok e contrabbando di ogni genere in un posto dove la libertà si capovolge nella illegalità e solo il più forte – chi ammazza per primo, sparando dal pertugio di una palizzata – riesce ad avere ragione. Aleksandr ha cinquantacinque anni quando aveva dovuto lasciare Mosca, tre, invece, ne ha il suo Ermolaj, ed è per entrambi – quel loro ritorno – come una prima volta di azzurrissimo cielo sulla battigia del Bajkal, il lago più grande del mondo dove arriva la linea ferroviaria più lunga del pianeta. Padre e figlio che non erano mai stati insieme così tanto nella loro vita in quel viaggio si ritrovano l’uno accanto all’altro, sempre appiccicati l’uno all’altro, ciascuno riversando reciprocamente quel tanto di linfa che vivifica di poesia quel che resta della vita – e quel che se ne va, da lì a poco – in un vortice di pensieri e lacrime. Con tutto il rispetto dovuto ad Aleksandr, la nota introduttiva di Ermolaj – Il Ritorno – è un toccante capolavoro tutto di grazia e forza: “È stato così che papà e io abbiamo visto per la prima volta nella vita il Bajkal. E di lì, a quattordici anni, in una mattinata di sole come allora, di nuovo sulle sponde del Bajkal, ho saputo della sua morte”.

Se ne legge, parola dopo parola, una sceneggiatura vivida di colori che sono rumori, di suoni che disegnano nel viaggio l’apologo universale della misericordia che, simile a una spugna, assorbe in se stessa il carico di dolore di ogni anima per farne verzure, fiori, profumi e alture. Viaggiano, padre e figlio, e arrivano, dunque, a Mosca: “Avanziamo a fatica per lo stretto corridoio tra due ali di gente lungo la banchina, e poi pioggia, ombrelli, cineprese, il discorso di mio padre alla folla, automobili e la partenza dalla stazione verso casa…”. La casa, appunto, dove si nasce. Per non potervi mai più crescere.

Genitori, gli esami infiniti: “Bocciare un ragazzo lo aiuta a crescere, parola di docente”

Gentile Selvaggia, le scrivo in risposta al suo articolo sulle difficoltà dei genitori con l’esame di terza media dei figli. Le spiego la faccenda, da docente. Suo figlio in questi giorni ha imparato una lezione importante, cioè che con minimo sforzo e soprattutto non suo, si possono ottenere grandi risultati come una promozione, cioè un pezzo di carta che attesta la sua preparazione. Ora tutti sanno che questo pezzo di carta proprio non corrisponde alla verità. Ho imparato che ogni volta che c’è un ragazzo che odia la scuola c’è un problema: non è naturale odiare il luogo dove si possono scoprire tante cose, dare risposta a domande e farsene altre; se questo accade le cause vanno individuate nell’idea di scuola. Il fatto è che i giovani vanno svegliati alla curiosità, cioè alla ricerca del senso della vita. Ma questa ricerca viene minimizzata e vilipesa, perché richiede tempo, esercizio alla fatica, e soprattutto verità. Passo ad esaminare alcuni punti del suo racconto di madre. Che suo figlio sia stato sorteggiato per primo a lei è sembrata sfortuna: davvero crede che, avendo più tempo il ragazzo non avrebbe trovato il modo per perderne di più? (Più tempo avrebbe significato più tortura per lei, non migliori risultati). Il problema è che la preparazione è stata rimandata a ridosso degli esami: è diseducativo perché trasforma la preparazione in un terno al lotto e non in un’esperienza di crescita. Vede quanto conta darsi il tempo giusto? Così gli esami sono inutili: ecco perché suo figlio non capisce a cosa servono. È durante lo studio che si cresce. Ma studiando così, suo figlio, cosa ha imparato? Vengo alla seconda questione: la verità. Suo figlio ha di certo imparato che è meglio non ricercarla e non dirla: sa benissimo in cuor suo di non aver meritato la promozione. La cosa, quindi, è molto scottante: avete messo una pezza a un problema che tornerà; in secondo luogo, cala l’autostima. Ai ragazzi accade ogni volta che ottengono qualcosa senza merito. Provano un senso di inferiorità (talvolta diventa cattiveria) nei confronti di chi invece fa le cose come devono essere fatte. La verità, quindi, avrebbe fatto molto bene a suo figlio. In campo educativo vale quel bel proverbio napoletano (che io traduco per incapacità di scrittura in dialetto): il medico pietoso fa andare le piaghe in cancrena. Mi chiedo: perché ha esitato a fare in modo che suo figlio godesse (lo dico senza ironia) delle conseguenze delle sue scelte (se non studi non sarai promosso)? Era una grande occasione di educazione alla responsabilità. Le bocciature, se comminate con giustizia e senza toccare l’amor proprio (e qui sta la bravura dei docenti e dei genitori) diventano una palestra di vita, ti insegnano cosa significa lavorare per un risultato e aiutano a dare valore alle cose importanti. Infine, la ringrazio per aver trattato la scuola dal punto di vista dei genitori, un punto di vista importantissimo e che mi intenerisce sempre, ma rispetto al quale sollevo un dubbio: credo che crescere un figlio significhi non sostituirsi a lui nelle battaglie della vita, accompagnarlo, certo, ma non mettersi al suo posto. Lei gli esami da adolescente li ha già fatti.
Albertina

Gentile Albertina, il registro satirico dell’articolo forse l’ha confusa: mio figlio è un discreto disastro, ma per discreto disastro intendevo “con una media del sei e mezzo”. Poi per carità, sul fatto che abbia ampi margini di peggioramento nutro alcune certezze, ma diciamo che almeno per quest’anno ha meritato la sua mediocre promozione. P.s. In comprensione del registro ironico però va fortissimo, meglio di certi docenti!

 

“Punire gli stronzi, doveroso: invece ho ceduto, mi vergogno”

Cara Selvaggia, pensavo di essere risoluta e invece. Dunque, da 12 anni sono una dipendente di terra di quelle aziende che fanno servizi per le compagnie aeree e, di conseguenza, per i passeggeri. Ho iniziato da ragazzina e ho imparato tanto. Soprattutto, a farmi scivolare le cose addosso. Una delle più grandi difficoltà, come in tutti i mestieri, è relazionarsi con gli altri, dai colleghi ai passeggeri. È ancora più ostico col crescente bullismo di questi anni. Ho imparato a ignorare parolacce, insulti, sessismo di uomini che non sopportano donne al comando. E la prepotenza di chi compra un biglietto e vuole fare qualsiasi cosa perché “io ho pagato”. In breve: stasera ho deluso me stessa. Dopo una discussione per un bagaglio, un gentiluomo ha alzato il braccio urlandomi “io ti do un ceffone”. Ho denunciato l’accaduto al comandante: un uomo che minaccia violenza può essere pericoloso durante un volo aereo. Il comandante mi ha appoggiata ed era pronto a negare l’imbarco al gentiluomo. Ero stupita, perché in tanti anni non avevo mai trovato così tanto supporto. Anzi, ricordavo molti colleghi invitati ad ignorare insulti e aggressioni. Questo gentiluomo si è scusato, agnellino col comandante. Ma il comandante ha detto che le sue erano scuse di circostanza. Insomma, nel mio colloquio privato con il comandante ho ceduto, memore di colleghi che hanno dovuto presenziare a udienze e dare spiegazioni. Ho lasciato volare impunito uno stronzo, che non imparerà mai. Forse per colpa di chi, come me, sceglie di evitare un problema invece di cercare giustizia… Ora quella che si vergogna sono io! Spero saprò perdonarmi, perché questo lavoro si fa pretendendo rispetto.

G.

Cara G., non gliel’hai fatta passare poi così liscia: il cafone è stato redarguito dal capitano, suppongo davanti ad altri passeggeri, e quindi un po’ di sana gogna l’ha subita. Detto ciò, spero che tu abbia incidentalmente fatto caricare il suo bagaglio su un aereo diretto in Nuova Caledonia.

 

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La speranza è cercare poesia: Pasquale Stiso il cantore del Sud

Caro Coen, ti scrivo da un luogo qualsiasi di questa Italia bollente ridotta a deserto di umanità. Non ti parlerò di corpi migranti e di capitani di ventura assurti a ministri, né degli indifferenti paraculi e dorotei che gli tengono bordone. Per un momento basta! Voglio parlarti di chi, giù al Sud, va in giro a cercare poeti. Paolo Speranza è uno di questi. Professore di materie letterarie nei licei, giornalista e ricercatore, da anni studia vita e opere di Pasquale Stiso, poeta, ma anche avvocato degli ultimi, militante politico e sindaco del suo paese, nato ad Andretta (Irpinia profonda) nel 1926 e morto tragicamente nel 1968. La sua produzione letteraria è sconfinata (poesie, articoli, racconti, il soggetto del film La Donnaccia, di Silvio Siano), e Paolo ha impiegato un decennio buono per riordinarla e riproporla nel libro Il poeta ritrovato. Il Sud universale di Pasquale Stiso, tra impegno politico e letteratura(edizione Mephite). Ci sono le poesie dedicate alla vita e al restare ragazzo, “anche se i fili bianchi compaiono alle tempie e l’ombra della morte s’insinua sottile nel mio cuore”. Quelle per il popolo dolente della sua terra, l’Irpinia, dove “essere povero / è qualcosa di più / è un freddo / che ti agghiaccia le ossa”. Il racconto dell’emigrazione nell’Italia degli anni Cinquanta–Sessanta. Paolo Speranza ha scavato nella miniera inesauribile di Stiso, ha riordinato materiali per proporli nel nostro tormentato oggi. E ha fatto bene. Perché, spiega lo scrittore Sandro Abruzzese nella postfazione, “rileggere Stiso, vuol dire comprendere d’un colpo non solo quanto le lancette della storia siano state riportate indietro dalla colta barbarie del nostro tempo, ma anche quale sia la strada da riprendere e con quale abnegazione affrontarla, perché oggi è sempre più chiaro che se c’è un futuro, questo avrà di certo un cuore antico e simile, molto simile a quello della civiltà perduta di Stiso”.

Le Olimpiadi no anzi sì … Salvini fa retromarcia e Milano rischia

In via Moscova, cuore di Milano, l’altro giorno, c’erano 43 gradi. Mai nessuna città sede di Olimpiadi invernali è stata così torrida. Circola in Rete un fotomontaggio divertente. Greta, la paladina svedese dell’ambiente, sorregge un cartello: “Vi vedo che esultate ma non ci sarà neve nel 2026”. Forse non nevicherà dal cielo. Ma quella “sparata” dai cannoni che la producono (costosamente). Salvano le stazioni invernali dal tracollo. Non dalle polemiche dei Verdi che contestano lo spreco delle risorse idriche alpine, sempre più magre. Pur sapendolo, noi accaniti sciatori siamo egoisti, caro Enrico, non rinunciamo alle settimane bianche. Dunque, viva i Giochi, quelli della neve e del ghiaccio. Non quelli di Mammona: l’assalto alla diligenza carica d’appalti e investimenti. Persino il Cio non si fida, ed è tutto dire, visto la tolleranza dimostrata verso passate gestioni scellerate dei comitati organizzatori. Ha stanziato un miliardo e manderà degli 007 per controllarne il corretto impiego. I soldi fanno gola, eccome. Persino il ducetto del rosarietto, fiero nemico delle Olimpiadi, ne è diventato un fan: “Daranno lavoro ad almeno ventimila persone e porteranno 5 miliardi di Euro di valore aggiunto per l’Italia”. Smentendo i suoi tweet e post: “No alle Olimpiadi Romane, prima scelta giusta del Governo che ha dato retta alla Lega” (14 febbraio 2012). “Renzi propone Olimpiadi a Roma nel 2024. FOLLIA, sarebbe Olimpiade di Sprechi” (15 dicembre 2014). “Gente che in tutta Italia aspetta una casa e un lavoro da anni. E Renzi pensa di fare le OLIMPIADI. Ricoveratelooooo” (21 dicembre 2014). “Qualche settimana fa ricordo Renzi e Marino che presentano Roma come città olimpica. Mi viene da ridere” (8 ottobre 2015). Sala, il sindaco, ammonisce: “No agli amici degli amici”. Però concede ai colossi internazionali dell’immobiliare di cannibalizzare la metropoli lombarda. Sempre più vetrina del capitalismo globali. C’è il rischio di creare nuove frontiere urbane. Coi Giochi specchietti per le allodole.

Bannon, Benedetto XVI e lo spettro dello scisma d’Occidente nella Chiesa

C’è un grosso dubbio che si staglia sullo sfondo della versione che Frédéric Martel – l’autore francese di Sodoma, sull’omosessualità nella Chiesa e in Vaticano – ha dato sabato sul Fatto del suo colloquio con Steve Bannon, l’ex guru di Trump oggi ispiratore del sovranismo internazionale che vede in papa Francesco uno dei suoi nemici.

Al netto, infatti, della rottura tra Bannon e il cardinale Raymond Burke (una delle figure maggiori del clericalismo anti-bergogliano) dopo l’incontro dell’americano con il francese ateo e gay, la domanda finale è una soltanto. Cioè: la battaglia finale contro il pontefice argentino “ecologista” e di “estrema sinistra” terminerà con un nuovo paventato scisma d’Occidente tra i cattolici, fomentato e finanziato dai ricchi tradizionalisti americani?

Lo spettro aleggia dal 2015 (in Italia il primo a parlarne fu Luigi Bisignani, per conto della cattomassoneria nera) e fa parte delle tre strade dei clericali di destra per liberarsi della misericordia francescana. La prima è quella di far decadere il papa in quanto eretico sul piano dottrinale: dopo i Dubia sull’Amoris Laetitia, l’ultima botta è arrivata dal cardinale Walter Brandmüller che accusa il prossimo Sinodo dell’Amazzonia di eresia e apostasia per le temute aperture sul celibato dei preti e sul sacerdozio femminile. Brandmüller e Burke sono due dei quattro cardinali dei Dubia.

La seconda strada è invece quella di costringere Bergoglio alle dimissioni per lo scandalo universale della pedofilia nei seminari: qui si collocano le accuse tardive di monsignor Carlo Maria Viganò. Infine, lo scisma. Appunto. Secondo il sito Stilum Curiae del vaticanista Marco Tosatti – tra i più seguiti nel network anti-Francesco – sarebbe proprio la paura dello scisma a frenare il papa emerito Benedetto XVI nelle sue alterne critiche al successore. Al punto da firmare insieme a Francesco un libro contro gli abusi che esce oggi. Giusto per mantenere un fragile equilibrio.

Facce di casta

 

Bocciati

A CIASCUNO IL SUO. “C’è la legge europea che prescrive che tutti i nuovi arrivati sul territorio europeo devono essere registrati e devono essere prese le loro impronte digitali, non ci sono eccezioni a queste regole e le conseguenze sono le procedure di infrazioni, ma non siamo a questo stadio”: Natasha Bertaud, portavoce della Commissione europea, si limita a svolgere il suo ruolo e a dar suono all’infinità di contraddizioni in seno all’Unione sul tema immigrazione. La Seawatch e i 42 migranti trattenuti a bordo per giorni hanno fornito una dimostrazione plastica dell’irresponsabilità e della totale assenza di volontà di risolvere la questione di tutti i protagonisti in commedia (che tragedia è solo quella dei disperati a bordo). Ne dà prova il ministro Salvini che, mentre tiene bloccate 42 persone a qualche miglio da Lampedusa da giorni per mostrare il polso duro con le Ong, finge di non accorgersi di centinaia di sbarchi fantasma che avvengono sulle stesse coste nel frattempo; o che minaccia di non prendere le impronte digitali a chi sbarca, violando di fatto il Trattato di Dublino, senza aver mai fatto nulla per cambiarlo. Lo stesso fa l’Europa sul fronte opposto, che mentre finge interesse per i migranti, sguazza in un limbo normativo che non la costringe a quota obbligatorie, si fa bella della parola ‘solidarietà’ quando riesce a redistribuirne qualche decina e minaccia sanzioni allo Stato di primo arrivo qualora si stancasse di sobbarcarsi la stragrande maggioranza del peso da solo. Con gli immigrati non ci si riesce, l’ipocrisia invece è stata distribuita benissimo in parti uguali.

voto 2

 

LAVAGGI DI MANI RESPONSABILI. Ankie Broekers–Knol, sottosegretaria olandese responsabile per l’Immigrazione, risponde così alle richieste italiane di redistribuzione dei migranti: “L’Olanda si assume la sua responsabilità in quanto stato di bandiera” della Sea Watch 3, ma “questo non significa che si prenderà i migranti”. Con circa due millenni di ritardo scopriamo che Ponzio Pilato è vivo e lotta con gli olandesi.

voto 2

 

OTELLO DI BILANCIO. Alle situazioni gravi ma non serie in Italia siamo abbastanza avvezzi, ma il clima carnevalesco raggiunto questa settimana con il nascondino delle coperture tocca livelli che avrebbero lasciato a bocca aperta persino Flaiano. Massimo Garavaglia, viceministro all’Economia, a chi gli chiede dove la Lega pensi di trovare le copertura per finanziare una flat tax che vale 15 miliardi, mentre un’altra parte del governo è in affanno a recuperare denaro in giro per evitare la procedura d’infrazione, risponde così: “Le coperture non le dico altrimenti Di Maio me le ruba…”. Battuta molto simpatica per carità, se non fosse per il fatto che di battuta non si tratta: il clima in cui i due alleati di governo si accingono a produrre una legge di bilancio condivisa ricorda la serenità e la fiducia presenti nel capolavoro di Shakespeare, l’Otello, poco prima che il Moro vada ad uccidere l’amata Desdemona, sospettata d’infedeltà. Speriamo che “Il governo del cambiamento” non si riveli essere una tragedia shakespeariana inedita.

voto 4

“Ascoltate gli alberi i veri rivoluzionari sono nei boschi”

“Mi sono convertito. Ma la fede non c’entra. Ho cambiato il modo di scrivere e guardare la vita. L’individuo non può essere il centro. Serve una prospettiva nuova, o forse antica, in cui tutto il mondo, non solo l’uomo sia raccontato”. Richard Powers è tra gli scrittori americani più noti. Ma il suo ultimo libro, Il sussurro del mondo (La Nave di Teseo), ha spiazzato tutti. Protagonisti accanto agli uomini sono gli alberi.

Powers si scrolla di dosso il ruolo del predicatore. Da ogni suo gesto emerge una naturale delicatezza (non fragilità). Ospite della rassegna Una Montagna di Libri, a Cortina d’Ampezzo, a ogni lettore dedica tempo. Di tutti ricorda il nome. Eppure il suo libro (premio Pulitzer 2019) per molti è il manifesto di una rivoluzione ecologista.

Richard Powers, lei si definirebbe un “ambientalista”?

No, sono uno scrittore. Diciamo uno scrittore ambientale.

Lei è anche uno studioso. Ha approfondito la botanica. Ma i suoi libri precedenti avevano una prospettiva più classica. Cosa è cambiato?

Ogni libro è diverso. Cambiano lo stile e l’approccio al mondo. Ci sono scrittori che hanno un unico disegno, un filo conduttore in tutte le loro opere. E altri, come me, che cambiano a ogni libro. Però dopo Il sussurro del mondo il mio modo di raccontare non sarà più lo stesso.

Una “conversione”, appunto…

La letteratura occidentale degli ultimi secoli era basata sul romanzo interiore. La prospettiva era quella dell’individuo o, al massimo, delle relazioni tra persone. Ma prima non era così, il centro non era soltanto l’uomo. Sono voluto tornare qui.

Un ridimensionamento del ruolo dell’uomo?

No. Anzi, c’è una certa dolcezza: non è soltanto l’individuo che dà un senso all’esistenza. Uomo e natura non sono separati, ma insieme partecipano a un disegno che va oltre il nostro passaggio.

Perché ha scelto gli alberi?

Guardi questi pini – Powers indica i boschi di Cortina – gli alberi vivono insieme. Si sostengono nelle difficoltà, si scambiano informazioni attraverso spore e funghi. Hanno un’organizzazione basata sulla cooperazione, non sulla competizione.

C’è chi dice che partendo dal punto di vista degli alberi lei proponga una nuova visione della società. Non vogliamo buttarla in politica…

Sì, invece, parliamo di politica. Vivo in un paese dove c’è qualcuno che ha la pretesa di ricostruire la piramide sociale: gli uomini sopra le donne, i bianchi sopra i neri, l’America sopra il resto del mondo.

L’ambientalismo può essere la rivoluzione?

A volte gli ambientalisti in politica sembrano solo un altro gruppo di interesse. Possono essere molto di più, non rappresentare solo un settore della nostra vita. L’ambiente non è una questione a sé. Pensiamo all’origine delle parole “ecologia” ed “economia”. La radice è comune, la parola greca òikos: casa.

Eppure in Italia e in altri paesi d’Europa l’ambientalismo non attecchisce…

Trump dice che non dobbiamo preoccuparci dell’aria e dell’acqua. Ma noi viviamo sull’orlo di una catastrofe. L’Europa ha rinunciato al suo ruolo di proposta di un post capitalismo basato sulla cooperazione. Ecco, questo ho provato a scrivere, invertiamo la prospettiva: ricordiamoci che siamo solo una parte di un grande disegno. Puntiamo sulla cooperazione più che sul confronto. Ripartiamo dagli alberi.