L’attualità del “Moro”, nonostante i sovranismi

È incredibile quanto interesse per Karl Marx ci sia proprio nel momento in cui la sinistra è messa male. Almeno in Europa. Come anche il libro recensito in pagina ammette, Marx effettivamente capì in profondità il meccanismo dell’economia capitalistica, la fonte essenziale della produzione di profitto e, quindi, l’impossibile, o difficile a seconda delle gradazioni politiche, conciliazione tra gli interessi del primo e quelli della stragrande maggioranza dei lavoratori.

Il problema di Marx è che è stato troppo a lungo codificato e istituzionalizzato così da non riuscire a esprimere tutto il potenziale. Uno studioso italiano, Marcello Musto, autore di Una biografia intellettuale e politica

di Marx edita da Einaudi, insiste ad esempio sul ritorno di attualità del Marx politico ancora troppo stretto attorno alla fallimentare formula della “dittatura del proletariato” e che invece, nell’ultima fase della sua vita, quella dell’Associazione internazionale dei lavoratori e delle riflessioni sulla Comune di Parigi, conferisce valore alla “associazione di liberi esseri umani” e non certo allo Stato.

Poi c’è l’interesse per Marx a fini propagandistici e distanti dal suo pensiero. Come ad esempio la tesi, diffusa tra gli altri da Diego Fusaro, secondo la quale Marx osteggiava in tutti i modi le migrazioni e le considerava un modo per dividere la classe operaia. Viene citato a sproposito un suo scritto, artificialmente ritoccato, la lettera a Sigfried Mayer e a August Vogt del 9 aprile 1870, che invece dice: “In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi (…) Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo”. Vale integralmente anche oggi.

Il papà del socialismo elogiava la borghesia per fregarla meglio

“Io non sono marxista”. Se in un telequiz chiedessero oggi quale famoso personaggio storico pronunciò un giorno questa perentoria, categorica frase, nessuno indovinerebbe; perchè a pronunciarla fu proprio lui, Karl Marx, il grande filosofo, sociologo, economista e politologo tedesco (Treviri 1818 – Londra 1883). Siete sorpresi? Sbalorditi? Allora dovete assolutamente leggere Guida per il lettore contemporaneo de Il capitale di Karl Marx, di Luigi Ferrari, docente di Psicologia economica e del lavoro all’Università di Milano Bicocca; perché lo choc sarà forte e le scoperte tante. A cominciare da quella dell’elogio del capitalismo come “fattore di civilizzazione degli esseri umani” che Marx, a più riprese, tessé nella sua opera: un modo di produzione giudicato più avanzato rispetto a quelli precedenti e che prefigurava una forma migliore di convivenza umana. A 30 anni dalla fine della Guerra Fredda, che tra i tanti disastri provocò anche quello d’impedire uno studio obiettivo del contributo di Marx alle scienze umane (da una parte gli idolatri, dall’altra gli avversatori), Ferrari va alla riscoperta del Marx che pochi hanno veramente letto, analizzandolo senza pregiudizi e lontano da ogni approccio politico e propagandistico. E ci fa scoprire un Marx nuovo, antidogmatico, che stana la contraddizione dei fatti sociali e la affronta cercando di spiegarla, di interpretarla quasi psicoanaliticamente. Perché per Marx il funzionamento della società non è immediatamente visibile, ma richiede uno sforzo interpretativo complesso e profondo.

Marx che loda il capitalismo. Una formazione economico–sociale che lui stesso definisce “temporaneamente necessaria” in quanto pone quelle basi scientifiche, produttive e tecnologiche senza le quali non è possibile la società socialista/comunista. Il modo di produzione del capitalismo modella, secondo Marx, un uomo nuovo, diverso da quello di altre società: è il salariato, il cui assetto psicologico registra un elevamento rispetto alla mente del servo o dello schiavo. Il salariato, dice Marx, è “un agente libero che deve mantenere se stesso; è personalmente responsabile del modo in cui spende la sua mercede. Impara a dominarsi, in contrasto con lo schiavo che ha bisogno di un padrone”. Ancora: il capitalismo è una formazione economico-produttiva “efficiente” il cui scopo è produrre un maximum di plusvalore: “e nella misura in cui questo risultato non è raggiunto sovraccaricando di lavoro gli operai, è una tendenza del capitale quella di cercare di creare un dato prodotto col minimo dispendio possibile”. Persino la crescita dei bisogni dell’uomo e l’abnorme produzione di merci indotti dal capitalismo sono per Marx “funzione civilizzatrice”; perché creano il bisogno/desiderio di tempo per sè e per i nuovi bisogni da soddisfare, nella visione di Marx, in una società futura. Diversa.

Inutile dire che nel resto dell’opera la condanna che Marx decreta del capitalismo è durissima. Marx riferisce come già nel 1844 esperimenti di riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, fossero diffusamente praticati; e come gli ispettori avessero riscontrato l’entusiasmo degli operai, che avevano aumentato ritmi di lavoro e spirito di cooperazione. La produzione non era affatto calata e i datori di lavoro economizzavano molte spese fisse, come riscaldamento e illuminazione.

Ci fu un periodo in cui l’attenzione capitalistica all’umanizzazione del lavoro salariato fu alta: l’equazione “valorizzazione forza lavoro = aumento produttività” pareva nei fatti. Ma questa “naturale” evoluzione verso una forma di “democrazia industriale”, che pure continuò ad essere tentata e persino realizzata come nei casi virtuosi della Zeiss di Jena e più tardi della Olivetti di Adriano Olivetti, che investirono con convinzione nei loro dipendenti puntando su innovazione tecnologica e valorizzazione delle risorse umane, sperimentazione e rapporto col territorio, non si compì. Ferrari cita un recente studio condotto negli stabilimenti della Fiat–Chrysler (FCA) che dimostra come il tentativo di valorizzare la forza lavoro al fine di aumentare la produttività sia naufragato perché attuato attraverso l’eliminazione di quelle che Marx definiva le “porosità” del tempo di lavoro, e cioè i salvifici micro-istanti in cui l’operaio non fa nulla, divaga, riposa la mente. “Io non riesco a tirare il fiato tra una vettura e l’altra”, dice un operaio del marchio che fu di Marchionne. E vengono in mente i call-center, i riders, una miriade di nuovi lavoratori di oggi. Il Marx che non t’aspetti. E che 150 anni dopo è forse il caso di andare a riscoprire.

L’edicola e un gelato: l’angolo della felicità è a Fano, pure gratis

Appena varcato il piccolo ponte sopra il torrente Liscia, che immette nel centro storico di Fano, potete incontrare, come in uovo di Pasqua, l’angolo della felicità. Non lo riconoscereste in nessun modo. Non ci sono luci né suoni ad annunciarlo. E nemmeno effetti speciali o montagne russe acquatiche. Tutto in quell’angolo sembra ordinario, tipico di una località turistica affollata di umani e biciclette. Gente abbronzata generosamente, signori andanti, ragazze croccanti come d’uso. A sinistra un’edicola, a destra una gelateria. E, da lì in avanti, il corso del grande passeggio verso piazza XX settembre. Ma appunto: l’edicola e la gelateria. Disposte una di fronte all’altra. Come a formare un magnifico e immaginario arco di trionfo che attenda il forestiero ben disposto. Perché l’edicola è una bellezza. Un variopinto bazar all’esterno, come è frequente nei luoghi di villeggiatura, specialmente per attrarre i clienti più piccini. Altro che certe spoglie edicole di città in cui i giornali stanno prudentemente alle spalle del gestore. Invece, una colorata rassegna di oggetti di felicità infantile e, insieme, una autentica epifania di carta, quasi a smentire la crisi della stampa.

Metri di quotidiani, periodici, fumetti e libri in grande spolvero. Poi tre gradini, una specie di anticamera anche lei strabordante di buona mercanzia per lettori. E finalmente l’abitacolo a vetri, e una giornalaia sorridente. Angela, si chiama. Ciano di cognome. Se vi ha visto l’anno prima anche solo due volte, si ricorda, vi festeggia, vi dà il senso di un’amicizia fiorita in un batter d’ali e in cui un lunghissimo anno si è infilato come parentesi in attesa del nuovo incontro. Angela governa quell’angolo di strada offrendosi come sponda gentile per signore sole, o per persone bisognose di chiacchiera, attenta però che i clienti frettolosi non siano costretti in fila. Presenta le sue figlie, a lei quasi identiche, Francesca appena laureata in lingue a Urbino (“è l’università più vicina”, spiega la ragazza quasi a scusarsi), l’altra, Ilaria, studentessa di igiene dentale a Bologna. “Studiano cose molto diverse ma sono tutte e due brave ragazze”, dice con orgoglio. Angela esce dal suo abitacolo, vuol sapere come è andato l’anno, abbraccia te e chi sta con te, esprime un’ospitalità speciale, altro che il saluto di circostanza. Anzi, “Prendiamo un caffè alla gelateria di fronte” è il suo invito. Si va al Bar Pino.

Il tempo di chiedere se ha la Libertà di Piacenza, 99.9 per cento che non ce l’ha, e così è, ma subito precisa che a saperlo il giorno prima te la fa arrivare, anche se altri direbbero “no, qui non lo compra nessuno”. Poi nella gelateria vuole che tu e le persone che ti accompagnano si siedano, un caffè almeno. Ti dice di essere felice per questa inaspettata compagnia, chiamando un signore che si muove spedito tra banco e tavoli. Leonardo è il suo nome. Vuole che anche lui ti accolga, ma non glielo dice da lontano tra gli avventori, sarebbe indelicato. Lo fa avvicinare, gli spiega sottovoce. Così lui ti scruta, e poi scruta le persone che ti stanno intorno. Un secondo e ha già notato una cosa che hai addosso, piccola, nascosta. Di fronte al mio stupore spiega che chi lavora in un bar vede tutto, che se mi riincontrasse tra un anno saprebbe dirmi esattamente come ero vestito oggi. È contento. Si appassiona alle storie dei miei amici, le ascolta guardandoli in faccia, lo sguardo appuntito quanto uno spillo, intenerendosi per quelle dei più giovani. Di vite giovanili Leonardo sa fin troppo. Una sua nipote restò intrappolata mortalmente nel concerto rap di Corinaldo, vicino Ancona, nello scorso inverno, a causa di quel bastardo urticante spruzzato sulla folla. Bastano poche parole. Chiama la giornalaia “Arcangela”, e lei si premura subito di chiarire che è un suo gioco quello di storpiarle sempre il nome con affetto. Ridono. In mezz’ora, senza dimenticare le brutture della vita, si è creato in quei pochi metri quadri un clima di allegria e di felicità che segnerà tutta la giornata. Quasi un’euforia. Penso – lo dico o non lo dico? – a un mondo nuovo e rivoluzionario, senza questa esplosione di iracondi e indifferenti, capaci di sentirsi declassati se devono tenere aperto un portone a qualcuno, o dare una informazione gentile a degli sconosciuti.

Una giornalaia, un gelataio. L’ingresso in una città. Tutto meravigliosamente gratis. E dire che per acciuffare una sembianza di allegria consumiamo stipendi e altro. Quando c’è l’angolo della felicità che ci aspetta. Basta vederlo.

Saldi d’arte: Velázquez all’asta. Il governo lo riporti in Italia

Se il ministro Alberto Bonisoli volesse legare il proprio nome a qualche impresa degna di essere ricordata, gli consiglierei calorosamente di provare a riportare in Italia il Ritratto di Donna Olimpia Maidalchini Pamphili di Diego Velázquez che dopodomani andrà all’asta da Sotheby’s, a Londra. La stima con cui andrà in vendita è tra i 2 milioni e 300 mila e i 3 milioni e mezzo di euro: meno di quanto costò il Crocifisso ligneo falsamente attribuito a Michelangelo, comprato tra mille fanfare dal governo Berlusconi nel 2008 e oggi esposto al Museo del Bargello per quel che è, opera di anonimo maestro legnaiolo del primo Cinquecento fiorentino. E se per caso non si trovassero i soldi, varrebbe la pena di chiedere ai grandi antiquari italiani di tassarsi, per comprarlo e donarlo al nostro Paese. La ragionevolezza della cifra – incredibilmente abbordabile per un’opera, documentatissima, di colui che Manet chiamava “il pittore dei pittori” – si spiega con le condizioni dell’opera, che ha indubbiamente molto sofferto. Ma sono sufficienti anche solo delle foto in alta risoluzione per essere stregati dalla qualità divina di quella figura: “Che ha una meravigliosa struttura, e al tempo stesso la colorazione di un Monet”.

Sono, queste, parole ispiratissime di Francis Bacon, il pittore del Novecento che è stato anche il massimo esegeta moderno dell’arte di Velázquez: e la sua frase si concludeva notando che di fronte a un’opera del sommo spagnolo “si avverte sempre il passaggio dell’ombra della vita”. In questo caso la vita di cui si sente passare – non senza un brivido lungo la schiena – l’ombra nera è quella della più discussa protagonista femminile (alla pari con la regina Cristina di Svezia) del Seicento italiano. Olimpia Maidalchini (1592-1657) era già una ricca, se non avvenente, vedova viterbese quando (nel 1612) si sposò a Pamphilio Pamphili. Alla morte di quest’ultimo, nel 1639, si strinsero vieppiù i rapporti col di lui fratello, il cognato cardinale Giovanni Battista Pamphili.

Quando, il 24 settembre del 1644, questi ascese al soglio pontificio, col nome di Innocenzo X, “si cominciarono a verificare i presagi della corte, che se il cardinal Pamphilio era papa, Olimpia sarebbe stata dominatrice” (così l’illustre storico contemporaneo Sforza Pallavicino, gesuita e cardinale). Roma non era pronta a una famiglia papale capeggiata da una donna, che peraltro pretese di occupare la scena pubblica con una forza ben maggiore – per fare un parallelo attuale – di quella delle first ladies americane. Quando Olimpia apparve accanto al cognato pontefice all’apertura della Porta Santa di San Pietro in Vaticano per il giubileo del 1650, grandissimo fu lo sconcerto della corte e della città. Nacque presto una floridissima letteratura di denigrazione, in cui si accusava Olimpia (detta ormai la Pimpaccia, o Olim pia, cioè un tempo religiosa e oggi invece per nulla…) di essere l’amante del Papa o di tenerlo soggiogato con incantesimi e malìe, e la leggenda nera della papessa secentesca arrivò fino all’Ottocento, quando Luigi Capranica pubblicò un (non memorabilissimo ma assai fortunato) romanzo dal titolo Donna Olimpia Pamfili. Storia del secolo XVII.

Era dunque fatale che quando il pittore del re di Spagna Filippo IV si trovò a Roma avesse l’occasione di ritrarne la vera padrona. Un’iscrizione posta dietro la tela, con un inequivocabile marca di possesso e relativo numero di inventario, certifica che proprio questo è il quadro che appartenne a Olimpia stessa, poi passato al cardinale Camillo Massimo (grande collezionista e amico personale di Diego) e quindi al voracissimo collezionista Gaspar de Haro y Guzmán, ambasciatore spagnolo a Roma e poi viceré di Napoli, cui appartenne anche la sublime Venere dello stesso Velázquez oggi alla National Gallery di Londra.

Poter finalmente vedere – e, magari, riuscire a portare in Italia – questo celebre quadro perduto non appaga solo una curiosità storica, o erudita: significa conoscere una pagina suprema di quella grande, misteriosa critica del potere che si snoda nell’opera di Velázquez, annunciando la libertà e l’acutezza di Goya.

A Roma nel 1650 Diego dipinge il suo schiavo Juan de Pareja, esaltandone l’enorme dignità umana, poi la pochezza del cardinal nipote Camillo Astalli e infine il Papa stesso, in uno dei ritratti più alti e terribili della storia dell’arte.

L’11 luglio del 1650, e cioè un mese esatto prima di ritrarre Innocenzo, Diego aveva dipinto questo quadro: un quadro atroce, perché il volto tumefatto e arrossato della cinquantottenne papessa, sfatta dall’arsura dell’estate romana, vi campeggia come in una messa a nudo del potere.

Quanto siamo lontani dall’austera e volitiva dignità che il pur grandissimo Alessandro Algardi aveva scolpito nel busto in marmo di Olimpia allora concluso non da molto. Sotto il grande velo vedovile qua c’è solo un corpo: brutto e infelice almeno quanto quello del cognato papa. Oltre trent’anni prima il cardinale Barberini non aveva per nulla gradito il ritratto che Velázquez gli aveva dipinto a Madrid: gli era sembrato troppo severo e malinconico. L’eterno potere romano non si riconosceva nella dura verità che Velázquez riusciva a impastare nei suoi colori: e questa meravigliosa forza iconoclasta non è l’ultima delle ragioni che dovrebbero indurci a riportarlo a Roma, questo incredibile anti-ritratto del potere.

Il lido “da amaca” più bello d’Europa è sulle rive lituane

Istruzioni per l’uso: l’articolo nuoce gravemente alla salute, se l’estate è senza vacanze. Come per le medicine, meglio partire dagli effetti indesiderati. Ma se avete un gruzzolo e tempo libero, o il portafogli vuoto ma la fantasia al galoppo, prendete nota.

Una classifica sorprendente, quella delle migliori spiagge “da amaca” del mondo, firmata Lonely Planet. È la guida turistica dell’era analogica, quando gli esperti tracciavano una linea per dividere le cose belle dalle cose brutte, e le persone si fidavano. Dalla top ten resta fuori l’Italia, Maldive, Seychelle e i litorali più in voga. L’unica spiaggia europea è in Lituania, sul Mar Baltico davanti la Svezia, dove la neve ricopre il suolo per 80 giorni l’anno e le temperature (d’inverno) vanno a picco a meno 30. Poi c’è la classifica di TripAdvisor, la guida digitale gratis e fai–da–te, dove utenti anonimi scrivono recensioni e scambiano opinioni. Lì si trovano le mete che ti aspetti: Cuba, Bahamas, Brasile. C’è pure l’Italia. Ma il Bel Paese svanisce dalle preferenze degli esperti.

Ecco la lista delle spiagge più belle del mondo secondo Lonely Planet: Dahab (Egitto), Penisola curlandese (Lituania), Jambiani (Zanzibar, Tanzania), Costa del Kerala (India), Pulau (isole Perhentian, Malesia), Kai Islands (un arcipelago Indonesiano), Isla Mujeres (Messico, di fronte Cancun), North Stradbroke Island (Australia), Ko Pha–Ngan (isola thailandese), Punalu’u (Hawaii, Stati Uniti). Quattro lidi asiatici, due in Africa, uno a testa per l’America del nord, l’America del sud e l’Australia. Sarà pur vero che i ricchi apprezzano la culla della civiltà, d’estate: ma forse non leggono Lonely Planet, perché in classifica non c’è traccia del Mediterraneo. La spiaggia più bella del mondo, secondo la prestigiosa guida, si affaccia sul golfo di Aqaba nel mar Rosso, in Egitto, a Dahab: 1300 abitanti sulle rive del Sinai del Sud. Consultando TripAdvisor Italia, in cerca di “cose da fare” a Dahab, si nota che l’attività più gettonata conta 3 recensioni. Salgono a 8100, i commenti sulla Baia do Sancho, arenile delle isole Fernando de Noronha in Brasile, Oceano Atlantico: è la spiaggia più bella del mondo secondo il social del turismo. Ecco la classifica suggerita dagli internauti di TripAdvisor: Baia do Sancho (Brasile), Varadero Beach (Cuba), Eagle Beach (Aruba, Caraibi), La Concha Beach (San Sebastian, Spagna), Grace Bay Beach (Turks and Caicos), Clearwater Beach (Florida), Spiaggia dei conigli (Italia), Seven Mile Beach (Grand Cayman), Playa Norte (Isla Mujeres), Seven Mile Beach (Giamaica). Nessuna è tra le mete “da amaca” suggerite dalla guida cartacea. Due classifiche, due stili di viaggio. Il criterio, per la Lonely Planet, è sorprendere: “Proporre ai nostri lettori qualcosa di nuovo e sconosciuto”, dice il caporedattore Angelo Pittri dall’Ulysses fest, la rassegna dei viaggiatori in scena a Rimini. Nel magma della rete, invece, nessun criterio: vige la psicologia della folla, o l’intelligenza collettiva, nel bene e nel male.

Tutti al mare: ecco come scegliere l’acqua più blu

Guardiamo le stelle prima di farci il bagno. No, non basta controllare se un comune ha la bandiera blu per decidere dove andare in vacanza, anzi potrebbe accadere che la bandiera blu ci porti in una località dove solo uno spicchio d’acqua è veramente blu mentre a due passi il mare ha un forte carico di batteri. Il “Tripadvisor” del mare pulito lo troviamo solo on line, sul portale del ministero della Salute, ed è lì e solo lì che scopriremo se il posto che abbiamo scelto per la nostra vacanza al mare è davvero privo di Escherischia coli e Enterococchi, i due parametri microbiologici che vengono esaminati per l’esame della qualità delle acque di balneazione. Basta cliccare sulla città o sul paese scelto per le vacanze al mare e ci appariranno le spiagge con acqua “eccellente” e quelle con acque “scarse” e troveremo evidenziati anche tutti i divieti temporanei di balneazione, insomma le acque davvero pulite e quelle meno, secondo la direttiva Ue numero 7 del 2006, che è l’unica che fa testo. E che ci garantisce un monitoraggio costante e affidabile della qualità del mare, dando i punti, anzi le stelle, a ogni tratto di costa facendo una media dei risultati delle analisi degli ultimi cinque anni: tre stelle “eccellente”, due “buono”, una “sufficiente” e zero per “scarso”. Dove “scarso” significa divieto assoluto di balneazione.

E così scopriremo, per fare un esempio, che la bandiera blu assegnata a Giulianova, una cittadina abruzzese molto frequentata dai turisti, in realtà non è stata data a tutto il litorale, ma solo a due tratti mentre altre due spiagge a nord e a sud immediatamente confinanti, sono “temporaneamente vietate per inquinamento”. Oppure a Numana, nelle Marche, e Praia a Mare in Calabria, dove rispetto a un tratto classificato “scarso” con tanto di divieto di balneazione, ci sono altre zone vicine con la bandiera blu. Oppure Pesaro, dove nonostante la classificazione “eccellente” delle acque e la bandiera blu assegnata al comune, quest’anno sono comparsi diversi divieti (poi revocati).

Il fatto è che molti Comuni bluffano, per non danneggiare il turismo. E con una serie di escamotage aggirano la direttiva Ue. Intanto sono ancora troppo pochi i lidi che espongono all’ingresso il cartellone con l’indicazione dello stato di salute delle acque. Si limitano, magari, a pubblicare i risultati delle analisi e di eventuali divieti sull’Albo pretorio del Comune, ma sanno che i turisti non ci pensano a spulciare lì. La comunicazione invece secondo la direttiva comunitaria è fondamentale, e su ogni spiaggia dovrebbero essere indicate le stelle, così come per gli alberghi, e tutti gli eventuali problemi di balneabilità.

Poi ci sono amministrazioni che fanno anche di peggio: se un tratto di spiaggia viene classificato “scarso” per cinque anni di fila, dovrebbe diventare vietato alla balneazione per tutta la stagione e non c’è analisi o intervento sulla depurazione che tenga, ma le amministrazioni più furbe spostano il punto di prelievo per le analisi, cambiano nome al tratto da campionare e si fanno beffe della Ue. Succede a Pescara per esempio, tanto per restare in Abruzzo, dove il tratto chiamato via Balilla è diventato nel sesto anno “via Leopardi”, semplicemente spostando il punto di campionatura ed evitando così il divieto di balneazione permanente. Alla faccia della salute dei bagnanti.

Volendo andare a colpo sicuro, ecco la mappa del Touring e di Legambiente, dove insieme al mare viene valutata anche la qualità ambientale: al primo posto c’è il comprensorio Pollica e il Cilento Antico (provincia di Salerno, Campania); al secondo Castiglione della Pescaia e la Maremma toscana (provincia di Grosseto, Toscana); al terzo Posada con le terre della baronia e il Parco di Tepilora (provincia di Nuoro, Sardegna). Ma anche il litorale di Chia, nella Sardegna meridionale, con il Comune di Domus de Maria.

“Il fatto è che nei tratti con acqua ‘scarsa’, il divieto di balneazione può essere rimosso solo dopo due analisi positive consecutive durante l’anno in corso più la rimozione delle cause della contaminazione – spiega Augusto De Sanctis del Forum H20 – per esempio l’ampliamento del depuratore o altri interventi sugli scarichi fognari. In questi anni abbiamo visto riaprire alla balneazione solo grazie alle due analisi consecutive, senza dimostrare di aver risolto realmente i problemi di contaminazione, con il risultato che puntualmente le analisi poi tornavano negative e si doveva rimettere il divieto. Nei tratti con acqua ‘scarsa’ per 5 anni consecutivi, infatti, dovrebbe scattare il divieto per l’intera stagione, non derogabile”.

Secondo l’European bathing water quality, basato sui dati 2018, solo in quattro Paesi il 95% delle spiagge hanno registrato una qualità “eccellente” delle acque: Cipro (col 99,1%), Malta (98,9%), Austria (97,3) e Grecia (97%). Anche se il nostro Paese ha una percentuale comunque elevata di acque “eccellenti”, pari al 90% contro una media europea dell’85%, è anche tra quelli col più alto numero di spiagge di bassa qualità (con 89 tratti “scarsi”, pari all’1,6% e un incremento rispetto al 2017 da 79 spiagge scarse a 89) insieme alla Francia, che però ha registrato un’inversione di tendenza (con 54 spiagge) e la Spagna (50). “Le modalità e i criteri di campionamento sono omogenei per tutta Europa – spiega De Sanctis – Ovviamente cambia il numero di tratti per ogni regione (ad esempio, il Molise ne ha 24, la Sardegna e la Puglia oltre 600). La balneazione, essendo un tema di carattere sanitario, deve basarsi sulla prevenzione. Poiché le analisi non si fanno tutti i giorni ma una volta al mese e i risultati arrivano per ragioni tecniche dopo due giorni dal prelievo, la Ue ha stabilito che è meglio basarsi su un sistema di classificazione fondato sui dati pregressi. Questo perché un tratto classificato ‘eccellente’ che, quindi, negli ultimi anni non ha mai avuto problemi, difficilmente ne avrà in futuro”. E d’altronde, che la bandiera blu significhi poco e niente basta considerare che i criteri per l’assegnazione, stabiliti dalla Fee (Fondazione per l’Educazione ambientale) sono di varia natura: dalla balneabilità delle acque, ai rifiuti, all’educazione ambientale, all’efficienza energetica, dove la qualità del mare incide al massimo per 10 punti e tutto il resto invece può superare i 60 punti.

Se poi si sovrappongono le spiagge con la bandiera blu con quelle censite dal ministero della Salute, si scopre che una spiaggia imbandierata è giusto al centro di due spiagge vietate alla balneazione. Come si fa a ritenere un tratto di mare balneabile anche se è delimitato da due tratti inquinati? È un mistero.

In migliaia allo show del guru-curatore che sfida i medici

La signora Francesca Giarrizzo agita un ventaglio celeste con un ritratto della Madonna di Medjugorje. Sorride entusiasta. Elenca i numerosi malanni scomparsi grazie allo “stile di vita Life 120”: addio cervicale, artrosi, l’odioso reflusso gastroesofageo. Si sbraccia: “Mi si è abbassato il valore di fibrinogeno da 600 a 200! Guardi, guardi, le mostro le cartelle!”. Ci fidiamo. È venuta appositamente da Catania a Roma per un atto di fede (più o meno laica): il miracolo di un giornalista pubblicista senza alcun genere di formazione scientifica che sostiene di guarire le persone grazie a un nuovo regime alimentare e ai portentosi integratori di sua invenzione.

Si chiama Adriano Panzironi: un signore eccentrico dai lunghi capelli ondulati, titolare di una tv privata (canale 61 del digitale terrestre) dove promuove da anni la sua via alternativa alla salute. Chi ha davvero bisogno dei farmaci? Nessuno. Abbandonate pasta, pizza, riso, legumi, patate e qualche altro alimento nocivo (i “carboidrati insulinici”); concedetevi il lusso di qualche composto naturale messo in commercio da Panzironi medesimo e andrà tutto bene. Camperete non 100, ma 120 anni. Life 120 vi farà passare il diabete, il morbo di Crohn, pure l’Alzheimer. Panzironi ne è certo: “Cambieremo per sempre la storia della medicina ufficiale”.

Per ora l’Agcom gli ha affibbiato una multa da 264mila euro perché il suo canale “ha trasmesso informazioni pubblicitarie potenzialmente lesive della salute”, l’Ordine dei medici di Roma l’ha denunciato per esercizio abusivo della professione, scienziati e ricercatori ne hanno sconfessato ogni credibilità, pure l’Ordine dei giornalisti del Lazio l’ha sospeso dall’albo. Eppure lui va avanti. Di più: prospera.

La signora Francesca insiste: “Ho preso medicine per anni… Pantorc, Pandecta… Niente! Con Life 120 è scomparso tutto da mattina a sera”. Il marito, Angelo Romano, sostiene di aver risolto un problema sempre più angosciante alla prostata “grazie all’Orac Spice” (uno degli integratori di Panzironi, 40 euro a boccetta)”.

E non è il racconto di pochi invasati: al Palazzo dello Sport dell’Eur arrivano in migliaia. Per entrare nel palazzetto c’è una fila di venti minuti.

L’organizzazione è in grande stile. Spopolano il libro di Panzironi (“Vivere 120 anni”) e i suoi integratori; si assaggiano i salumi, le carni, la cioccolata, i latticini senza lattosio: tutti prodotti marchio Life 120. C’è uno spazio fitness, una stanza dove i consulenti del guru indirizzano gli adepti verso salute e felicità, una sala conferenze dove si espongono teorie particolari: il dottor Claudio Sandri, “medico chirurgo omeopata” di Perugia, racconta alla platea estasiata tre casi clinici di tumori guariti perfettamente grazie alla vitamina C (solo “65 grammi alla settimana”).

Sembra un film: nell’anno del Signore 2019, a Roma, un santone mobilita un esercito di fedeli in un palazzo dello Stato (seppure gestito da una società privata). Pare si segua un copione: un grande Truman Show alla vaccinara. Ma è tutto vero. Giura Maria Rosaria Mastrovito, una signora di Martina Franca (Taranto): “Ho avuto di tutto: diabete, sciatica, reflusso. Da 7 mesi non tocco medicine, con la dieta ora sto bene”. Antonio, romano, 66 anni, ha la divisa e il cappellino blu degli “angeli di Life 120”, i volontari (decine) di Panzironi: “Con questa cura ho perso 30 chili”. Paolo Tozzi sostiene di averne persi 20. Non è né un invasato, né un analfabeta, ma un ingegnere aerospaziale. “Avevo un ernia espulsa, non riuscivo a scendere dal letto. Life 120 mi ha rimesso in piedi”. Con lui c’è il figlio Simone, studente universitario: “Soffrivo per problemi depressivi e di concentrazione. Sono passato da 92 a meno di 70 chili. È cambiato tutto”. Persino la moglie di Paolo (e mamma di Simone) avrebbe guarito una cisti di Baker: “Ce l’ha avuta per 25 anni – dice il marito – si doveva operare. Con la cura Life 120 il bozzo è scomparso in 6 mesi”.

Il ministro della Salute Giulia Grillo ha giurato guerra a Panzironi, l’ha paragonato alla truffatrice delle televendite Wanna Marchi; al PalaEur sono stati mandati anche i Nas per vigilare sui prodotti venduti. Ma il commercio prosegue fiorente. Il fatturato dichiarato dall’impresa di famiglia – con Adriano c’è anche il fratello Roberto – è sui 20 milioni di euro l’anno. Di soldi, a giudicare dall’opulenta manifestazione dell’Eur, ne girano parecchi. Il giornalista guaritore si cala tra i suoi fan solo in serata, dopo aver passato il pomeriggio “nel suo ufficio”. Si prende il palco al centro del palazzetto, adornato da una sobria scenografia classica con colonne e capitelli ionici. Il pubblico è sempre in adorazione.

“La concessione Autostrade è revocabile senza penali”

Le prime informazioni sulla relazione degli esperti del ministero dei Trasporti indicano che il governo ritiene di poter revocare la concessione ad Autostrade senza maxi-penali. Le 62 pagine del rapporto muovono dal crollo del ponte Morandi, il 14 agosto scorso, che era parte del tratto in gestione ad Autostrade. Secondo gli esperti del ministero, l’azienda concessionaria era tenuta a restituirlo integro allo Stato, proprietario dell’infrastruttura, al termine del contratto. Il disastro configura quindi “un grave inadempimento che consente la revoca unilaterale della concessione”, secondo la sintesi filtrata alle agenzie di stampa ieri sera. La soluzione intermedia, cioè la revoca della concessione soltanto nel tratto ligure, non viene però considerata praticabile. Resta l’arma finale: la revoca della concessione sull’intero territorio nazionale, quella “caducazione” evocata dal premier Giuseppe Conte all’indomani della tragedia, quasi un anno fa. La revoca significherebbe in pratica distruggere il modello di business di Autostrade e mettere in crisi anche la holding di controllo Atlantia, che fa capo alla famiglia Benetton.

Autostrade e Atlantia, ovviamente, non si arrenderanno senza combattere. Ma i tecnici radunati dal ministro Danilo Toninelli sostengono che le carenze di manutenzione a Genova mettono in discussione la sicurezza dell’intera rete. E quindi il governo avrà buona probabilità, anche se non la certezza assoluta, di riuscire a vincere. Il crollo del ponte Morandi renderebbe infatti nulle o almeno non applicabili le clausole che regolano la rescissione del rapporto tra lo Stato e il concessionario. In pratica Autostrade potrebbe reclamare soltanto gli investimenti non ancora ammortizzati e quelli realizzati nell’ultimo anno, che il governo farebbe poi pagare all’azienda subentrante, rendendo l’operazione priva di costi aggiuntivi per lo Stato. Non sarebbe quindi applicabile la clausola rescissoria che Autostrade ha più volte detto di essere pronta a invocare, cioè il pagamento dei 20 miliardi che equivalgono agli utili che la concessione garantisce all’azienda fino al 2038, sulla base di un contratto che ha lasciato praticamente tutto il potere al privato e nessuno allo Stato.

Il ponte di Genova, dicono gli esperti, ha cambiato tutto. Secondo l’agenzia AdnKronos, però, i tecnici di Toninelli mantengono un certo grado di prudenza e “non escludono che Autostrade per l’Italia possa avanzare pretese in sede contenziosa né tantomeno escludono che riesca ad ottenerle”.

Atlantia, da settimane, ha già affilato la propria strategia difensiva per resistere al governo e soprattutto al vicepremier M5S Luigi Di Maio che ieri sera ha detto di voler “andare avanti come un treno” e nei giorni scorsi parlava del gruppo dei Benetton come di una azienda “decotta”, visto che può perdere la concessione. La società oggi guidata da Giovanni Casellucci, che fino al crollo del ponte guidava anche Autostrade, ha già un ricorso al Tar pendente perché contesta di essere stata esclusa dalla ricostruzione del ponte, a Genova, mentre deve pagare un conto stabilito unilateralmente dal commissario, il sindaco della città Marco Bucci: 439 milioni di euro.

Ma la partita vera è quella per la concessione. Qualche settimana fa Atlantia ha mandato un corposo dossier con le risposte alle contestazioni del governo che, sottolineano dall’azienda, non riguardano in alcun punto la gestione specifica del ponte Morandi e del tratto ligure della rete. Poiché l’iter giudiziario che deve accertare le responsabilità penali è ancora all’inizio – seconda udienza dell’incidente probatorio – Atlantia replicherà al governo che non ci sono elementi per assegnare in modo così perentorio le responsabilità.

La guerra sarà violenta e non si combatterà solo su Genova: Atlantia contesta anche le nuove regole per determinare i pedaggi appena stabilite dall’Autorità di regolazione dei trasporti. Senza un “atto aggiuntivo alla concessione”, è la linea di Atlantia, non possono entrare in vigore. Anche su quel punto si profila un contenzioso giudiziario.

L’unica certezza, al momento, è che Atlantia e i Benetton sono fuori dall’operazione di salvataggio di Alitalia. Le discussioni erano a buon punto, mancava il via libera del premier Conte. Ma ora, forse anche per il troppo entusiasmo della Lega nel coinvolgimento dei Benetton, sembra saltato tutto. E i Cinque Stelle si preparano a contendere a Salvini i titoli dei tg con la loro battaglia. Non contro Sea Watch, ma contro Autostrade.

Morra: “Una loggia protegge la latitanza di Messina Denaro”

Nicola Morra lo dice in pubblico, durante un incontro a Castelvetrano (Trapani) a cui partecipano anche Don Ciotti di Libera e il magistrato Roberto Tartaglia: “Sono convinto che Matteo Messina Denaro sia latitante grazie all’aiuto di qualche loggia massonica”. Il senatore del M5S, presidente della Commissione parlamentare antimafia, ha lanciato un messaggio di sfida al super boss proprio nella sua città natale. E ha promesso di continuare a visitare Castelvetrano, come testimonianza di presidio permanente di questo territorio: “Questo è il primo di una serie di incontri. Ricordo che la prima volta sono venuto qui 17 anni fa, nel 2002, perché volevo conoscere la cittadina in cui è nato Giovanni Gentile. Dobbiamo smettere di parlare della Sicilia associandola ai grandi boss, come se il ricordo prevalente debba essere quello della schifezza che è stata Cosa Nostra. Sono territori in cui si è prodotta cultura. Sappia Messina Denaro che si sta lavorando affinché venga consegnato allo Stato e possa dare conto delle collusioni che ne hanno favorito la latitanza. Allora ci sarà da divertirsi”.