La ruggine si mangia il Mose. Le cerniere non tengono più

Sono da rifare le colossali “cerniere” del sistema Mose, le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte. La loro vita, da un punto di vista dei materiali e della conseguente funzionalità, prevista per 100 anni, in realtà è molto, ma molto inferiore. In alcuni casi e per alcune componenti arriva a 13 anni. Ruggine, corrosione, allagamenti, mancanza di manutenzione hanno determinato una situazione a dir poco catastrofica. Al punto che il Consorzio Venezia Nuova ha deciso di correre ai ripari con una gara internazionale per lo studio degli interventi, dei materiali più adatti, delle tecniche di protezione e, ove necessario, della sostituzione delle cerniere. In totale le cerniere sono 156, due per ogni paratia e sono costate circa un milione di euro ciascuna; le realizzò la Fit, del gruppo Chiarotto-Mantovani, il cui presidente Piergiorgio Baita fu coinvolto nello scandalo Mose. Per il momento il bando riguarda una base di 34 milioni di euro e una durata di dieci anni, il che non potrà non avere effetti sulla consegna dei lavori, previsti entro un paio d’anni.

È davvero scioccante la lettura del bando di gara numero 53 del 14 giugno scorso, che fissa la scadenza al 10 luglio. Il titolo recita:“Ricerca, sviluppo e fabbricazione dei gruppi cerniere-connettore delle paratoie presso le bocche di porto di Malamocco, Chioggia, San Nicolò e Treporti (sistema Mose)”. Riguarda tutte le bocche di porto dove entreranno in funzione le paratoie che, sollevandosi, dovrebbero impedire l’allagamento di Venezia in occasione delle acque alte. Me le cerniere non funzionano, le paratoie non si alzano. E il Mose non funziona. Responsabile del procedimento è la dottoressa Cinzia Zincone, che nella relazione introduttiva sintetizza una serie di criticità a dir poco agghiaccianti, se si pensa che la spesa complessiva per il Mose si aggirerà sui 5 miliardi e mezzo di euro, che l’inizio dei lavori risale al 2003 e che sono impegnati esperti e tecnici tra i più qualificati. Infatti, la situazione è monitorata e prevista da alcuni anni, come dimostra la documentazione allaegata al bando di gara.

LE CERNIERE. Tecnicamente sono chiamate cerniere-connettore e collegano le paratoie metalliche alle strutture in cemento armato che sono state collocate alle quattro bocche di porto della Laguna di Venezia. Sono le cerniere che fanno alzare le paratoie. Sono composte da un elemento “maschio” (peso di 10 tonnellate) installato sulle paratoie e da un elemento femmina (peso 24 tonnellate) sul cassone. La vita prevista per il Mose è di 100 anni. Nel progetto iniziale era di 50 anni per l’elemento maschio e di 100 anni per l’elemento femmina.

L’ALLAGAMENTO. I primi allarmi si sono verificati nel 2015 con una mareggiata e l’allagamento del cantiere di Malamocco. “Il fenomeno dei danneggiamenti del gruppo cerniera, in particolare degli steli, si è diffuso, con gravità diverse, su tutte le bocche” è scritto nel bando. Da un’analisi del certificatore Nace “si evince che l’umidità e la salinità delle condizioni dei locali risultava tale da compromettere non solo la durata degli steli tensionatori (parte del meccanismo, ndr) ma dell’opera nel complesso”. E si sono manifestati “problemi di percolamenti rossi nelle pareti del calcestruzzo”. Così sono stati avviati ulteriori studi su ossidazione e corrosione dei materiali.

La DURATA. I tecnici del Registro Navale Italiano hanno accertato che la corrosione degli “steli” è causata “da attacchi di natura galvanica a causa dell’accoppiamento elettrochimico tra il rivestimento in nichel e l’acciaio dello stelo esposto a un ambiente aggressivo costituito da atmosfera marina con presenza di condensa, sali e deposito”. Una progressione “rapida” della corrosione, “su aree sempre più estese”. Un vero attacco generalizzato. E così la durata dei meccanismi non arriva “a garantire la vita operativa richiesta di 100 anni”.

Tre gli scenari: che lo stato degli interventi rimanga quello attuale, che si applichino protezioni con pasta e grasso, che si intervenga anche sulle condizioni ambientali di temperatura e umidità. Qualche esempio? La zona strutturalmente più critica, ovvero il “sottotesta degli steli”, pur in presenza di manutenzione, avrà una durata di 13 anni. Praticamente è già da buttare. Se non si interverrà su “guarnizioni” e “filettature”, la loro durata di vita varierà tra i 27 e i 32 anni, meno di un terzo di quanto previsto. Ma solo in qualche caso il grasso porterà ad allungare la vita a 44 anni, meno della metà della durata del Mose. Solo intervenendo sulle condizioni ambientali (ulteriori costi) si potrebbero avere miglioramenti, ma senza raggiungere il secolo di vita.

IL BANDO. Ed eccoci al bando da 34 milioni di euro. Prevede iniziamente “uno studio sull’intero gruppo cerniera-connettore” per verificarne la vita probabile, ai fini di “una successiva soluzione di sviluppo industriale”.

In secondo luogo, dovranno essere cercate “soluzioni alternative al materiale utilizzato”, ovvero “una soluzione (lega/leghe/rivestimenti) tale da garantire la durata del gruppo per il tempo originariamente previsto dal progetto già redatto, stimato nel complesso di 100 anni”.

Il terzo obiettivo: la realizzazione industriale, con sostituzione delle cerniere corrose e inservibili. Quarto obiettivo: individuare un soggetto che si occupi della manutenzione.

SPESE IMPRECISATE. Basta la formulazione del bando per capire che le spese future per le cerniere e la manutenzione sono del tutto imprecisate, anche se il provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Roberto Linetti, aveva quantificato un anno fa circa 80 milioni di euro l’anno. Ma allora non aveva fatto cenno alla necessità di cercare nuovi materiali. Il bando da 34 milioni di euro prevede 5 milioni di euro per la realizzazione degli studi, 5 milioni per la manutenzione straordinaria dei gruppi-cerniere, 4 milioni per la manutenzione ordinaria e 20 milioni per la fabbricazione e l’installazione delle cerniere.

Ma mi faccia il piacere

Solidità. “Su Atlantia parole senza senso, danneggia un’azienda solida” (Cgil, Cisl e Uil contro l’annuncio del ministro Luigi di Maio sulla revoca della concessione ad Atlantia, che la renderebbe una società “decotta”, 29.6). L’aggettivo “solida” non è casuale: si riferisce ovviamente a ponti e viadotti.

Speranze. “Olimpiadi a Milano e Cortina. Una fiaccola di speranza” (Libero, prima pagina, 25.6). Che li arrestino tutti.

Lo storico. “Khomeini non sarà risparmiato” (Donald Trump, presidente Usa, annuncia le nuove sanzioni contro l’Iran, Twitter, 25.6). Purtroppo Khomeini è morto nel 1989. Però ci sono buone speranze per lo scià Reza Pahlavi.

Slurp. “Salvini merita il Nobel per la Pace perchè sta cercando di difendere gli interessi del proprio paese usando le parole di grandi personaggi religiosi come papa Giovanni Paolo II” (Claudio Durigon, Lega, sottosegretario al Lavoro, Circo Massimo, Radio Capital, 21.6). O il Nobel per la Pece?

Paralimpici. “Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026: vittoria del M5S, dei lombardi e degli italiani!” (Movimento 5Stelle Lombardia, post poi rimosso su Facebook, 24.6). Pare che vadano fortissimo nel carling. E nel salto della quaglia.

Sempre sul pezzo. “Governo, Conte lavora al rinvio della procedura di infrazione” (Repubblica, 27.6). “Conti, Italia rimandata ad ottobre. L’Europa congelerà la procedura”, “Procedura Ue, nessun rinvio” (Repubblica, 28 e 29.6). “Conte mette fretta all’Europa”, “Conte sulla procedura: si apre o si chiude, non si può restare appesi” (Corriere della sera, 29.6). Quindi Conte lavora al rinvio a ottobre, però mette fretta all’Europa perchè non vuole nessun rinvio. Ah queste fake news di Putin!

C’è ladro e ladro. “Questa maledetta ladra in carcere per trent’anni, messa in condizione di non avere più figli, e i suoi poveri bimbi dati in adozione a famiglie perbene. Punto” (Matteo Salvini, Lega, vicepremier e ministro dell’Interno, Twitter, 24.6). Se invece rubasse 49 milioni, al governo.

Colpa di Virginia. “Ondata di caldo sulla Capitale, ma il piano anti-afa non c’è” (Il Messaggero, 26.6). “Temperature record, piano caldo fantasma” (Il Messaggero-cronaca di Roma, 29.6). Fa caldo, Raggi ladra.

Vita spericolata. “La Capitana Antigone… Carola ha dentro di sé l’ultima frase di Edipo: c’è una sola parola che ci libera dall’oscurità. E quella parola è amore” (Roberto Vecchioni, cantautore, Repubblica, 29.6). Ma per fortuna Antigone non aveva la patente nautica.

Il crocierista. “Al posto della capitana avrei fatto la stessa cosa” (Matteo Orfini, deputato Pd, La Stampa, 30.6). Ora, è vero che abbiamo tante colpe da espiare, ma una nave capitanata da Orfini no, non ce la meritiamo.

Stampa progressista. “Salario minimo: fino a sei miliardi i costi per le imprese” (Repubblica, 25.6). Mica dovranno mettere a bilancio gli stipendi dei dipendenti.

L’imboscata. “Il lancio di un’agenzia dice che voglio aprire un ristorante a Roma. Una idiozia assoluta. Ma come le scrivono? Ma chi controlla? Ma dove è finita la professionalità nel giornalismo?” (Maria Elena Boschi, deputata Pd, Twitter, 25.6). Per una volta che le attribuivano una cosa utile.

Consigli per gli acquisti. “Italiani, un popolo di sotto-assicurati. Aumenta la liquidità sui conti correnti: un modo poco efficace per proteggersi dagli imprevisti. La propensione alle tutele contro i rischi è meno della metà della media dei Paesi europei” (Il Messaggero, dossier di sei pagine, 28.6). Per puro caso, il gruppo Caltagirone è azionista delle Assicurazioni Generali. Ora sorge financo il sospetto che Il Messaggero abbia qualcosa a che fare con il gruppo Caltagirone.

Testine ad alta velocità. “Da qualche tempo manca dalle scene un’interpretazione del monologo di Travaglio ‘il Tav, non la Tav: è un treno’. Forse persino lui comincia a dubitare, e a rassegnarsi al fatto che l’acronimo si riferisce alla Tratta ad Alta Velocità, che in italiano è indubbiamente femminile” (Sergio Valzania, Il Dubbio, 28.6). No, gioia, si riferisce proprio al treno, che in italiano è indubbiamente maschile. Come l’analfabeta.

Il titolo della settimana/1. “Libra e modello Guatemala. Il piano Dibba terrorizza l’Italia” (il Giornale, 24.6). Transennate le frontiere.

Il titolo della settimana/2. “L’Europa sta con Carola” (Repubblica, 30.6). Fanno gli accoglienti coi porti degli altri.

Il titolo della settimana/3. “Il bene che ci può venire dall’Africa” (Eugenio Scalfari, Repubblica, 30.6). Ha deciso di accompagnarci Veltroni?

“Il MeToo abbatterà l’Apartheid di genere”

“Quanto sta accadendo alle donne nella società contemporanea è simile al movimento che ha portato all’abbattimento dell’Apartheid: finalmente il cammino per le pari opportunità sta accadendo davvero, e sarà irreversibile”. Parola di Jane Campion, signora del cinema mondiale approdata al Cinema Ritrovato di Bologna per accompagnare la premiere nazionale prevista stasera di Lezioni di piano restaurato, ma anche per tenere un workshop di regia agli studenti della International Filmmaking Academy.

Presente alla serata-evento record per pubblico (oltre 7mila persone) e passione di Apocalypse Now dell’“amico Francis” in Piazza Maggiore di due giorni fa (“L’energia degli spettatori riuniti davanti a un film ne modificano l’identità stessa”), la prima e finora unica donna ad aver vinto la Palma d’oro è da decenni la portavoce più rispettata del “cinema femminile”, sia in quanto regista che in quanto “costruttrice” di memorabili personaggi di donne. Eroine in perenne ribellione, “donne divise fra il desiderio d’amore e quello di trovare una propria identità, una voce libera e personale”.

“Da piccola – continua l’artista neozelandese classe 1954 – mi identificavo con le bambine protagoniste di alcuni film che vedevo in tv e già allora capivo istintivamente che una donna è sempre protagonista di se stessa. Il vero problema è che millenni di storia ci hanno rappresentato attraverso gli occhi degli uomini”. Ed è questo il nodo su cui la regista di opere grandi (come Bright Star e Portrait of a Lady) e sovversive (come In the Cut e Holy Smoke) vuole soffermarsi: “Finora la struttura patriarcale è rimasta impenetrabile, e questo vale anche per il cinema, per ottenere credibilità e quindi finanziamenti. Il fatto che noi donne siamo poco presenti ai festival cinematografici non è perché non siamo in grado di fare il cinema bensì perché fino a pochi decenni fa non ci era quasi permesso, mentre – paradossalmente – in tv abbiamo sempre avuto più spazio”. Non a caso Campion è stata fra le prime grandi cineaste a mettere a segno una serie tv di qualità uguale se non superiore al cinema, Top of the Lake, pluripremiata e ormai già modello d’ispirazione per altri giovani colleghi.

“Se un’opera è di qualità, credo non ci sia differenza tra cinema e tv, ogni storia ha il suo formato e il suo mezzo giusto, basta saperlo trovare, per questo non ho nulla in contrario a Netflix e simili piattaforme”. E la citazione non è casuale, visto che il gigante dello streaming ha acquisito i diritti distributivi del suo nuovo film, The Power of the Dog, ispirato all’omonimo romanzo di Thomas Savage del 1967 che avrà per protagonisti la sodale Elizabeth Moss e Benedict Cumberbatch. “Si tratta di una storia che analizza la mascolinità, dopo tante donne mi sembrava il momento di cambiare genere!”.

Orgogliosa di aver dato nuova vita al suo capolavoro del 1993 – premiato non solo a Cannes ma anche con 3 Oscar –, restaurato in Australia con una ristampa digitale nuova dal negativo originale, Jane Campion spende parole di stima profonda per la nostra Lina Wertmüller: “Sono felice per il suo Oscar onorario, tutto meritato. La conobbi a Sydney quando ero studentessa di cinema e stava promuovendo l’uscita australiana di Pasqualino Settebellezze: era buffa con i suoi occhiali colorati, vivace e divertente, intelligentissima e totalmente ribelle alle regole. La amo, come apprezzo molto Liliana Cavani, anche lei una mia regista-eroina”.

Woody le suona all’America. Ma niente sold out

Se l’America “scarica” Woody Allen, l’Europa come sempre lo accoglie a braccia aperte. In particolare una accaldata Milano, in occasione del concerto dell’83enne maestro del cinema, al Teatro degli Arcimboldi venerdì, con la Eddy Davis New Orleans Jazz Band.

Il cineasta, amante da sempre della musica, è nuovamente nell’occhio del ciclone a causa delle reiterate accuse di abusi sessuali della figlia adottiva Dylan Farrow, che avrebbe subito quando era minorenne. Una storia che risale ai primi anni 90, per cui Allen non è mai stato riconosciuto colpevole. In America sull’onda delle polemiche, il colosso Amazon ha deciso di chiudere il contratto con il regista e non distribuire l’ultimo film A Rainy Day In New York, mentre in Italia uscirà per Lucky Red il 3 ottobre.

C’era dunque fermento in platea agli Arcimboldi per il ritorno del regista, e una quarantina di fan nel retro del teatro: Allen a sorpresa è sceso dall’auto blu per salutarli, uno a uno, sotto lo sguardo attento della moglie Soon-yi. Nel frattempo nel foyer si radunava il pubblico over 30, che per esserci ha sborsato dagli 87 ai 202 euro. Costi importanti in un momento di crisi, che forse hanno determinato il mancato sold out. “Siamo elettrizzati e sorpresi – ha detto ironicamente Allen, tra le risate generali – quando la gente viene a vederci”. Applausi a scena aperta per quasi due ore e standing ovation finale.

Mistero sull’annullamento della data del 30 giugno a Firenze. Gli organizzatori hanno dichiarato che è stato per “motivi logistici legati alle prove di Allen che farà alla Scala”. Qualcuno maligna che si siano venduti pochi biglietti. Non tutti gli italiani perdonano. Per la Scala, Allen ha curato la regia del Gianni Schicchi di Puccini, in scena dal 6 luglio. Ci sarà un pubblico diverso, non solo fan, e le contestazioni sono in agguato. Potrebbe esserci qualche americano in platea.

C’è troppa Olanda per le Azzurre: il sogno termina qui

Adesso che la musica è finita, gli amici sono pregati di non andarsene. Troppo bello, sognare. Prima o poi bisogna svegliarsi. È successo nella fornace di Valenciennes, ai quarti del Mondiale femminile: Olanda-Italia 2-0. Ce l’hanno messa tutta, le nostre. Sono crollate alla distanza, travolte dal rambismo delle rivali, un rodeo di spallate, torelli e colpi di testa. Resta, almeno spero, la traccia di un calcio che consideravamo di serie zeta.

Può essere che Milena Bertolini, rinunciando a una punta, Girelli, e blindando il centrocampo con Galli, abbia inviato un segnale di eccessiva prudenza. Chi vince festeggia, chi perde spiega: è così anche fra le donne. Per la cronaca, la ct aveva mescolato persino i terzini: Bartoli a destra, Guagni a sinistra (contro piè veloce Van de Sanden). La canicola ci ha riportato alle lacrime e ai crampi di Usa ’94, quando si giocava a mezzogiorno per via del fuso, e si era tutti fusi.

Nella classifica Fifa, l’Olanda è ottava, l’Italia quindicesima: carta canta. La lavagna di Sarina Wiegman ruota attorno ai sentieri che traccia Spitse e agli incroci delle punte, Van de Sanden, Miedema e Martens. Hanno cercato spesso, le orange, di cambiare fronte. Il pressing, quello, rimaneva ostaggio dell’afa.

Il quadrilatero delle azzurre operava ora in linea ora a rombo, con Giugliano perno arretrato, Bergamaschi e Cernoia ai lati, Galli “cacciatrice” delle dirimpettaie di turno (Groenen, Spitse). Per metà partita, l’atteggiamento bipartisan è stato timido, molto tattico. Si cercava l’errore come se fosse una borraccia, con Giacinti e Bonansea pronte a buttarsi sulle gocce. Campionesse d’Europa, si sapeva che le olandesi avrebbero imposto la fisicità, il fraseggio, la malizia. Sono state di parola.

Rari i brividi, almeno nel primo tempo. Una sponda aerea di Bonansea per Bergamaschi, troppo frettolosa al momento del dunque. E poi Giacinti, imbeccata da Bergamaschi: fuori di poco. Era sulla sinistra che si ballava, là dove Van Lunteren affiancava Van de Sanden. Ma per Giuliani, solo “telefonate”.

Alla ripresa, problemi muscolari per Bartoli: dentro Boattin. L’Olanda ha cominciato a guadagnare metri, come documentano i falò accesi da Martens e Groenen. Il passaggio al presente storico rende giustizia al racconto.

L’Italia arranca, fatica a togliersi il cappio dal collo. In attacco, non si tiene un pallone che è uno. Linari e Sara Gama, in versione Cannavaro, sono le ultime ad arrendersi. La ct Bertolini richiama Bonansea, sfinita, e si aggrappa alle imboscate di Sabatino. Dall’altra parte, esce Van de Sanden: tocca a Beerensteyn. Arrivano più facilmente al tiro, le olandesi. Santa traversa ci salva, al 58’, da una pennellata di Van de Donk. E che sventola a fil di palo, Sherida Spitse.

Ci costringono a una sorta di catenaccio che immagino non fosse nei piani. Ci hanno sfrattato dal centro del ring, Cernoia, Galli e Giugliano sono in apnea. Cedono i nervi, fioccano i gialli (Guagni, Gama) e così, al 70’, l’ennesima punizione – magari un po’ fiscale, ma calibrata come meglio non si sarebbe potuto dalla solita Spitse – produce l’incornata vincente di Vivianne Miedema.

Siamo ai titoli di coda. Serturini avvicenda Bergamaschi, l’Italia non c’è più, non ne ha più. Il raddoppio delle batave è solo questione di minuti, giunge all’80’, e anche stavolta con la specialità della casa: punizione di Spitse e colpo di testa di Stefanie van der Gragt, la stopper. Piangono, le azzurre, come capita spesso quando, dopo aver dato tutto e demolito il muro della diffidenza, si teme che i monsoni della propaganda possano tornare brezze.

“Stavolta Renato si fa da parte e tocca a Zero: ci divertiremo”

Renato sorride. Zero scalpita. Renato riflette, mangia, niente vino (“c’è un tour da preparare”). Zero in tour “ci andrebbe pure domani”. Renato accarezza Zero, lieve, senza trucco per lui, per anni gli ha tolto le luci, mentre adesso “è giunto il momento di restituirgli lo spazio che merita”. Vuol dire un disco di inediti in uscita il 30 settembre (compleanno sia di Renato sia di Zero) e una tournée già da sold out malgrado la distanza del debutto (1° novembre) e il periodo non proprio idilliaco per i live (Ligabue ne è testimone).

Momento di passaggio.

Io e Zero siamo figli dello stesso pensiero; però lui è molto rumoroso, è eccitato, desideroso di apparire, di divertirsi e divertire, di mostrarsi nella sua sfrontatezza, cerca attenzione, desidera l’abbraccio.

Mentre Renato…

È sempre stato il romanticone, con un’educazione cattolica forse influenzata dalle suore; si è offerto con parsimonia, senza troppi clamori.

Insieme?

Si sono equilibrati e hanno trovato un compromesso ragionevole per condividere un’esistenza; però da un certo punto in poi Renato ha preso il sopravvento, Zero è dovuto stare zitto, sottostare all’esigenza strumentale, armonica e melodica di Renato che gradiva una certa linea e un look meno trasgressivo.

Fino a quando…

Anche Renato si è reso conto di aver un pochino esagerato nello sbracciarsi, allora ha meditato e ha pensato che questo Zero è ora che torni a respirare e ha deciso che questo disco doveva essere la sua rivincita, anche con le sue trasgressioni.

Il video di “Mai più da soli” è girato a Londra.

Ci ha fermato la sicurezza.

Cos’ha combinato?

Volevano 100.000 pounds perché giravamo dentro i giardini della Regina senza permesso. Quando hanno avvicinato i ragazzi della troupe, alle obiezioni hanno risposto: ‘È un filmato privato’. E loro: ‘Con questa attrezzatura?’. ‘Ma noi ci trattiamo bene’. Abbiamo pure vestito Peter Pan da Zero.

Insomma, disco e tournée trasgressivi.

È l’aspetto classico di un atteggiamento che non può più essere tacitato.

Già i manifesti lo sono…

Non c’è dietro niente di studiato, ho solo detto ‘a questo Zero gli devo far fare una passeggiata all’aria aperta’. Ma senza che quegli ammennicoli di un tempo diventassero consunzione.

Quindi?

Renato è uscito ai tempi di Spalle al muro, e Zero, dalla quarantena, si è reso conto che una certa moderazione fa bene, soprattutto adesso che si spara molto nell’aria; soprattutto oggi che c’è voglia di stupire a prescindere, con eccessi: più parolacce dici e più ritieni di aver vinto.

Zero scriverebbe ancora Sbattiamoci, Triangolo, Baratto o Fermo posta?

Anni dopo è uscita Nuda proprietà, però uno deve anche mentalmente sedersi e porre delle questioni: c’è un’età per certe cose, e un’età per altre. Se uno ha ragionevolezza e coscienza, si sviluppa un processo evolutivo che non permette più di scrivere Sbattiamoci, ma di utilizzare la medesima ironia per contesti più seri e intoccabili.

Per cui?

La mia ironia ha ancora vent’anni, ma va inquadrata nella realtà odierna: il ventenne di oggi non è quello che ascoltava Sbattiamoci.

Con Spalle al muro è ripartita la sua carriera: nel 1990 aveva annunciato il ritiro.

Ero molto incazzato, e lo sono tuttora per via di Fonopoli: 16 anni impiegati, spesi per il progetto. Mi sono spezzato per ottenere dei sì, eppure è finita così, nel nulla, nonostante promesse e presunte attenzioni dei politici e degli imprenditori.

E poi?

Ho capito che per punire gli altri avrei punito me stesso, e non lo meritavo.

Il suo contributo, oggi.

Deve essere trasparente, ridente e un po’ rassicurante.

Colleghi alle soglie dei 70 sono andati in pensione.

Non riesco a immaginarmi senza pianoforte, senza scrivere qualcosa.

Impensabile.

E poi nessun uomo va in pensione, può solo decidere di aver bisogno di una vacanza più lunga; e se uno si convince di essere da pensione, ha già la morte sull’uscio di casa. Così è accaduto a mio padre.

Si esce dal mondo.

Se un attore termina la propria carriera, chiude il sipario, deve cambiare palco e trasmettere la propria esperienza ai giovani. Eppure questo Paese non fa bene il proprio lavoro: all’estero, per non perdere una ricchezza culturale, è il governo a instradare gli artisti verso l’insegnamento; da noi li vediamo sparire (ci pensa) . È morto Carlo Giuffré ed eravamo quattro gatti.

Senza memoria.

La gente ogni tanto va sollecitata, anche per questo ogni tanto le radio dovrebbero passare i vecchi successi italiani: il confronto aiuta.

Lei non ama i selfie, non aiutano “la memoria”.

Oggi è tutto pronto, tutto già scritto, il passato di queste nuove generazioni si materializza da solo, e la storia di noi è diventata un lusso, perché non c’è più quella vivacità di trenta, quarant’anni fa.

Quindi quando si avvicina un fan…

Gli spiego che non amo lo strumento, preferisco un abbraccio, una stretta di mano, due chiacchiere; non amo essere crocifisso, avere subito davanti alla faccia la ghigliottina.

Un trofeo.

Non è l’artista a parlare, ma la persona; poi vediamo come vengono trattati questi scatti, con un uso talmente variegato che diventa anche un po’ depravato; e sia ben chiaro: è minore l’impegno di un selfie rispetto all’autografo o due chiacchiere (scoppia a ridere). Tra un po’ i grandi produttori di cellulari mi manderanno una diffida (Squilla il cellulare). Scusate, è Lucy (Morante).

La sua ex fidanzata.

La conosco da quando avevo 23 anni ed era identica alla sorella di un amico, morta giovane: la somiglianza deve aver favorito il rapporto. Da allora siamo cresciuti insieme, pure in tournée.

La seguiva?

Certo. Una volta, verso la fine degli anni 70, ero in tour, dormivamo nella stessa stanza d’albergo, quando alle cinque del mattino bussano alla porta. ‘Chi è?’. ‘Polizia. Dobbiamo entrare’. ‘Va bene’. E apriamo. Con modalità frettolose, rovistano dappertutto: era scappata una ragazzina di 16 anni e pensavano l’avessimo nascosta. Quei tempi erano così, strani, imprevedibili.

Fidanzati per quanto?

Mai e mai lasciati, e lo consiglio a tanti, perché non comporta una serie di rotture: godiamo della par condicio, ognuno ha le proprie ali.

Mai persi di vista.

Lei gode delle chiavi di casa e questo è un segnale di costanza; quando i rapporti sono troppo appiccicaticci producono stanchezza e una certa noia, o almeno credo; in realtà non ho mai provato a infilarmi le pantofole e una vestaglia, con accanto una opportunità di sentirmi sposato.

Però…

Credo sia indole, per questo non mi sono mai preoccupato più di tanto, sono sposato con 60 milioni di italiani, ai quali offro i miei servigi da quando sono nato.

Da sempre.

Come dice qualcuno: si nasce predestinati.

Ha mai scritto qualcosa pensando a Lucy?

Io no, ma ci ha pensato Ivano Fossati quando l’ha menzionata in Traslocando (“Lucy la fredda stava zitta seduta sulle scale e i ragazzi del trasloco per fare in fretta la trattavano male”).

In un’intercettazione del 2004, l’ex andreottiano Vito Bonsignore la vuole in un concerto elettorale. Ma lei si è rifiutato.

Davvero? Non lo sapevo. Comunque di inviti ne ho ricevuti parecchi, ma un artista, prima di preoccuparsi della coscienza politica del pubblico, dovrebbe pensare alla coscienza umana e sociale, magari così uno va al seggio più consapevole.

Però ci hanno provato in tanti.

Tanti, e non ho mai ceduto.

Candidature offerte?

Anche, e sono stupito di come si possa prendere un soggetto qualunque, magari un avvocato, un commercialista o un palazzinaro, e offrirgli o consegnargli le chiavi del Paese. Ci vuole gente preparata. E mi astengo dallo stringere la mano a chi si dedica alla politica solo per mestiere.

Anni fa ha indicato in Franco Califano un maestro di vita.

La sua maturità era tatuata sul corpo, uno che si è conquistato sul campo il tempo, la misura e la credibilità. E con una certa determinazione.

Molto differente da lei.

Non importa, la strada può essere diversa, magari uno ha preso una mulattiera, l’altro una via più larga, ma l’importante è arrivare al mare.

Quale era la strada di Califano?

La mulattiera, più irta, brulla, meno ospitale; io pure, ma avevo addosso dei paracadute, ero più coccolato dalla famiglia. Franco era solo. Con un padre molto distante e un fratello e un nipote morti a poca distanza e per la stessa malattia. Lui ha veramente sofferto, mai un dono dalla vita, si è conquistato tutto.

Ha dichiarato che la differenza tra lei, Mia Martini, Rino Gaetano e Gabriella Ferri è “il senso delle proporzioni”.

In realtà volevo spiegare che le reazioni di questi amici erano veramente da protagonisti, mentre le mie sono la somma dell’educazione di tutto il popolo che mi ha condiviso, a partire dalla famiglia e dagli amici.

Mentre la Ferri?

Era lo specchio di una Roma sciatta, disordinata, bella per questo, dove mancava autentico ottimismo; alla sofferenza non si dava quell’importanza tangibile. Io vivevo lo stesso disagio, la stessa incomprensione da parte degli altri, però era più ammortizzata, con una stabilità in dotazione.

Un senso dell’equilibrio.

E l’amore che ho provato per Gabriella e Mimì era il desiderio di trasmettere loro il mio appoggio, la mia presenza, condividere un pezzetto di quell’equilibrio.

Rino Gaetano.

Ho un rammarico: non avevo capito la sua debolezza, non avevo intuito la sua solitudine.

Vi frequentavate?

Purtroppo non tanto, era un po’ chiuso, anche nelle amicizie; ma quando ci incontravamo c’era sintonia e sembrava allegro, spensierato, e dentro mi sentivo soddisfatto dell’impressione.

Eppure.

Anche le sue canzoni esprimevano il desiderio di cambiare, una forte ribellione, non imbevute di malessere. In realtà era malinconico.

Questo desiderio di abbracciare l’ha sempre sentito?

Ho da sempre convissuto con una decisa solitudine: nella Roma dell’epoca ero l’ultimo di quattro figli, il piccolo non era ancora nato, e allora era normale mandare i figli in collegio.

Anche lei?

Io no, ma le mie sorelle sì, perché mamma era infermiera e papà poliziotto, quindi restavo solo con mia nonna e frequentavo i parenti anziani.

Per cui…

La comitiva, il cortile, i ragazzini li ho iniziati ad assaporare in seconda battuta e in uno scenario desolante.

Desolante?

In quegli anni nel centro di Roma non vivevano bambini, o era difficile incontrarli. Solo anziani. Poi ho scoperto i bimbi della Montagnola (a quei tempi periferia, oggi no, ndr) che si dilettavano con la mazzafionda, lo schiaffo del soldato o altri giochi dell’epoca.

Lei felice.

Sì, ma pesavo tre etti, e questi ragazzini di borgata crescevano con una muscolatura pronta, forse dettata dalla rabbia di vivere.

Tre etti…

Non solo da un punto di vista fisico, pure sociale: mi guardavano con sospetto, anche a causa del mio abbigliamento da ragazzino del centro.

Adriano Panatta racconta che la prima volta che l’ha vista “sembrava uno sciroccato vestito da marziano, con stivali, tuta e mantello”.

(Si alza in piedi e annuisce, e ride). Ero io.

Così audace?

Loredana Bertè era con Adriano, appuntamento sotto il balcone del Duce in piazza Venezia. Adriano butta l’occhio verso di me, strabuzza gli occhi, si gira verso Loredana ed esclama: ‘Dimme che non è quello’.

Un artista romano che apprezza.

Gigi Proietti: è uno dei romani più belli in assoluto. E lo conosco dalla fine degli anni 70, quando entrambi ci esibivamo nel tendone di piazza Mancini. Gigi otteneva begli incassi, io stavo crescendo.

Suo padre acquistava i i biglietti.

Sempre, e quando i colleghi provavano a cercare degli omaggi, quegli stessi colleghi che fino a poco tempo prima ci avevano insultato, rispondeva: ‘Per chi? Per quello svergognato? Per quello di sesso dubbio? Un biglietto per vedere quella creatura così inquietante?’. Si ritraevano immediatamente.

Una sua conquista?

Aver vissuto così e nella vita ho pagato tutto, gli ‘scontrini’ sono sempre con me, ed è una bella soddisfazione, è come aver saldato qualche debito, se mai ci fossero stati. Sono appagato.

Cosa si domanda più spesso?

Cosa avrei fatto senza la musica.

Risposta?

Nessun medico né psicoanalista la prescriverebbe come rimedio per guarire noia, timidezza, malessere o altre frustrazioni . Ma quando ci si imbatte nella musica, un senso di leggerezza e di pace si fanno sentire. Eccome.

E…

Non sono ancora del tutto guarito. Sono ogni giorno che passa sempre di più ‘Zero il folle’. Per piacere non fatemi guarire.

Chiamarsi Zero per lei.

È come essere eternamente pronto sul marciapiede della stazione per saltare sul primo treno. Non è mai importante in quale direzione, mentre è fondamentale il contenuto del bagaglio e lo slancio nell’affrontare il viaggio.

(Canta Renato Zero in “Naturalmente strano”: “Io sono strano, forse per questo più umano e già. Io sono strano, se vuoi vedere che effetto fa… sali sul treno…”).

Viaggi “proibiti”, stasi e “bella ciao”: l’ultima estate di Berlino est

L’estate del 1989 è stata l’ultima estate “normale” della Ddr. Dopo appena tre mesi tutto sarebbe stato diverso, inimmaginabile. Abbiamo incontrato cinque cittadini di Berlino est che ci hanno raccontato quei mesi di quiete prima dell’autunno in cui cadde il Muro.

 

Renate Fischer: “Voto truccato e la catena umana di 600 km”

“Nell’estate del 1989 ho compiuto 25 anni, ero all’ultimo anno di Teologia. Volevo diventare pastora evangelica”, racconta Renate che oggi fa l’assistente sociale in una clinica di malattie oncologiche infantili. “Per le elezioni comunali a Berlino del 7 maggio volevamo inserire qualcuno nella lista, ma non ci siamo riusciti. Siamo comunque riusciti a fare gli osservatori. Abbiamo fatto una sorta di exit poll ed è venuto fuori che la partecipazione al voto era molto più bassa del 99,9% che all’epoca veniva dichiarato, molti ‘no’ non erano stati registrati. Era chiaro che c’erano state irregolarità. Credo che sia stato un po’ l’inizio della resistenza dell’89. Da quel momento ogni 7 del mese c’è stata una protesta”. “Una data importante per noi è stata il 4 giugno con il massacro di Tien-an-men. Quando abbiamo saputo che la linea ufficiale della Ddr era di sostegno alla Cina abbiamo avuto paura. È stato un segnale anche per noi”. “Gli ultimi tre anni di vacanze prima dell’89 avevo viaggiato con degli amici per l’Urss. I viaggi organizzati però a noi non interessavano. Però c’era una sorta di passaggio segreto, un’escamotage per viaggiare: il ‘visto di transito’. Se la domanda veniva accettata si avevano tre giorni di tempo per raggiungere il luogo indicato sul foglio. Noi abbiamo usato il visto per viaggi durati anche sei settimane. Bisognava stare solo attenti a non essere controllati, e poi si sapeva quali valichi di frontiera erano controllati e in quali bisognava pagare qualcosa. Nell’89 ho ricevuto un invito da un movimento ecologista per andare in Lettonia. In teoria non ci saremmo potuti allontanare di oltre 50 km e invece siamo partiti a luglio e abbiamo visitato Lituania, Lettonia, Estonia e poi siamo andati a Mosca e infine giù con il treno fino in Uzbekistan e Tagikistan”. “Il 23 agosto eravamo a Vilnius quando cadeva il 50º anniversario del patto Ribbentropp-Molotov. Per quell’occasione era stata organizzata una catena umana di oltre 600 km che andava da Tallinn a Vilnius. Abbiamo partecipato anche noi. A Tallinn, nella piazza del mercato, abbiamo visto discutere pacificamente delle persone davanti a una cartina geografica dove erano segnalati con dei punti i gulag di Stalin. Non c’era polizia, l’atmosfera era pacifica. Io e i miei amici ci siamo guardati interdetti: ‘Da noi una cosa del genere non potrebbe mai succedere’. Ciò di cui non ci siamo minimamente accorti è stata l’apertura dei confini ungheresi. Eravamo 5000 km lontani… Non dimenticherò mai il viaggio di ritorno: era il 15 settembre e ci sediamo su un aereo dell’Aereoflot a Mosca. Salendo prendo due giornali, uno era della Ddr, Die Junge Welt, e l’altro era dell’ovest, la Frankfuerter Allgemeine Zeitung. Parlano dell’apertura dei confini in Ungheria e di quante persone sono scappate dalla Ddr. Io e i miei amici ci siamo guardati: ‘Oddio, in quale paese stiamo tornando?’”. Renate rievoca quel momento: “Quando sono tornata i compagni di studio mi hanno accolto con sorpresa, ‘ah, sei di nuovo qui? Pensavamo fossi andata anche tu in Ungheria’”.

 

Jens Sparschuh: “La Ddr e il copyright dell’ovest”

“Nell’89 avevo 34 anni. Lavoravo come autore per la radio e come scrittore. Qualche anno prima avevo lasciato l’università dove facevo l’assistente per la cattedra di Logica formale: un giorno avevo sentito alla radio che il professore con cui lavoravo, durante un congresso a Colonia, aveva deciso di rimanere all’ovest”, racconta Jens Sparschuh, nel suo studio di Pankow, inondato di carta. “Avevo già pubblicato un paio di libri nell’89 e il terzo era finito sotto la lente della censura perché parlava di un immaginario istituto per la critica marxista delle anime. Il partito lo aveva interpretato come una satira della Ddr, cosa che in effetti era”. Quindi la pubblicazione si era fermata. “Avevo iniziato a collaborare come autore per le radio dell’ovest, Radio Bremen e Norddeutscher Rundfunk. Mi capitava di viaggiare in treno all’ovest passando da Friedrichstrasse” – la stazione dei treni che si trovava allora vicino al confine tra Berlino est e ovest. “Friedrichstrasse, con gli ufficiali con il loro sguardo gelido e le uniformi, pareva essere abitata da statue di cera di Madame Tussauds: sembrava già un pezzo di passato nel mondo contemporaneo”. Su questa stazione Sparschue ha scritto un radiodramma: Bahnhof Friederichstr. Un museo. “Quell’estate eravamo in vacanza in una dacia a sud di Berlino ed erano venuti a trovarci in auto degli amici dall’ovest. Avevano ascoltato per caso Stazione Friedrichstrasse ed erano preoccupati per me: ‘Incrociamo le dita che non succeda niente’. Si trattava di un pezzo di humour nero. Solo dieci anni prima, quello stesso pezzo avrebbe suscitato un po’ di confusione, ma a quel punto non così tanto. Io credo che nell’89 la dirigenza della Ddr avesse già mollato”. “Non ho mai avuto grandi problemi con la Stasi. La spiegazione che mi sono dato è che all’epoca chi lavorava per l’ovest riceveva i soldi del copyright in marchi della Bdr e il cambio era di 1 a 4. Questo denaro finiva nell’ente della Ddr che si occupava di diritti d’autore e che poi pagava gli autori in marchi dell’est, con il cambio 1 a 1. Allo Stato restava la differenza, circa 2.000 marchi dell’ovest per ogni radiodramma. Se pensiamo che un mese di affitto costava 56 marchi dell’est, erano un bel po’ di soldi”.

 

Sylvia Hobus: “Alexander Platz suonava ritmi sudamericani”

“Avevo 18 anni quell’estate. Mi ero trasferita da poco in città: mia madre mi aveva trovato un posto per una formazione professionale come segretaria in una grande azienda di Berlino”. Sylvia la incontriamo in un caffè negli Hackeschen Höfen, nel centro di Berlino, accanto al Chamaeleon Theater di cui oggi gestisce l’amministrazione. “Quell’estate la Fdj – Frei Deutsche Jugend, l’organizzazione giovanile comunista – aveva organizzato un festival musicale ad Alexander Platz. Venivano a suonare tanti gruppi musicali da tutto il mondo. Lì ho conosciuto molti amici e soprattutto è lì che ho incontrato mio marito. Lui era cantante di un gruppo di musica cilena e io la ragazzina con gli occhi sgranati che lo guardava davanti al palco”. “Non sono andata in vacanza nel 1989. Ero in formazione e non avevo soldi. Ma Berlino per me era già abbastanza eccitante. Ascoltavo Inti.Illimani, Illapu, Mercedes Sosa, ma anche il gruppo tedesco Modern Talking. Mio marito era arrivato a Berlino dal Cile nel ’78 e frequentavamo soprattutto cileni o coppie tedesco-cilene”.

 

Steffen Ramp: “La paura di dire ‘no’. Anche ai vantaggi”

“Nel giugno dell’89 ho compiuto 20 anni. Facevo una formazione professionale come operatore di calcolatore che poi mi avrebbe permesso di iscrivermi all’università. Lavoravo con enormi calcolatori con nastri magnetici”, racconta Steffen Ramp, che incontriamo nella mensa della Lufthansa System, dove oggi è impiegato come informatico. “In quell’estate ho fatto la mia prima vacanza da solo con Sylvia, la mia fidanzata. Siamo stati in Turingia 4 o 5 giorni. Era la prima volta che facevo una vacanza tramite l’Fdgb, il sindacato della Ddr. All’epoca vivevo con i genitori, quindi un po’ di libertà era bella”. “Tornato al lavoro a Berlino, mi è capitato tra le mani una copia del programma dell’Sdp – il Sozialdemokratische Partei, da cui è nata la Linke – che allora non era ufficiale. Ho letto quel foglio in bagno e l’ho buttato nel wc. Ero spaventato: con documenti illegali si poteva andare in prigione. Lavoravo nel Dipartimento di Elaborazione dati dell’ente delle Finanze della Ddr. Il direttore mi aveva segnalato durante l’inverno del 1988-’89 per lavorare nel Sed”, il partito della Ddr. “Non volevo, ma non era facile dire di no senza passare guai. Mi hanno proposto tre anni di servizio militare, poi avrei potuto studiare Informatica all’università con uno stipendio da impiegato di buon livello. La proposta era ottima. Mi hanno convocato per un colloquio con i miei genitori. Il problema era come dire di no: non doveva sembrare un disaccordo politico e nemmeno un disinteresse economico. I miei hanno avuto l’idea di dire che le mie condizioni di salute andavano prima verificate. Il partito non aveva preso informazioni e abbiamo guadagnato tempo. Poi è arrivata l’estate e… il partito aveva altre cose a cui pensare a quel punto. In quel periodo ho iniziato a leggere sempre di più giornali dell’Est, come Neues Deutschland e Junge Welt, e al tempo stesso sentivo la radio dell’ovest. Ogni giorno le discrepanze tra le informazioni si facevano più interessanti. Ma non sono andato alle manifestazioni. La cautela era una di quelle cose che si imparava presto nella Ddr: cosa dire, a chi, su quale argomento. Oggi l’angoscia maggiore è perdere la casa o il lavoro. Nella Ddr questo non era un problema: restare disoccupato era impossibile, a meno che non entravi nelle mire della Stasi”.

 

Elke Bitterhof: “All’improvviso qualcuno non c’era più”

“Nell’89 avevo 39 anni. Fino a qualche anno prima avevo lavorato alla tv della Ddr come conduttrice di programmi come il Berlin Journal, come presentatrice tv e come vicedirettrice del Festival dei canti politici organizzato dalla Fdj, l’organizzazione giovanile comunista. Era una manifestazione gigantesca che si teneva nel Palast der Republik e alla Volksbuehne, il teatro storico di Berlino Est. Durava dieci giorni, venivano 60 gruppi musicali da tutto il mondo. Ho lavorato lì fino all’86. A un certo punto era arrivato un funzionario che aveva detto a un gruppo: ‘Questa canzone non potete cantarla”. Io però al momento dell’ingaggio dei gruppi avevo dato la mia parola. All’improvviso mi sono ritrovata impotente, mi ha fatto così male che ho lasciato il lavoro”, racconta Elke Bitterhof nella sua casa colorata di Maerkisches Ufer con affaccio sulla Sprea e un pappagallino che svolazza libero per la casa. “L’estate del 1989 la ricordo come un periodo bellissimo. Dopo aver lasciato il festival e la tv, io e mio marito – un musicista sudamericano – abbiamo fatto una tournée insieme a Dresda. Lui suonava e io cantavo e scrivevo canzoni. Facevamo world music e cantavamo soprattutto canzoni latino americane ma anche Bella Ciao. Ci portavamo dietro i bambini”. “Tornata dalle vacanze sono andata dal medico e non l’ho trovato, era andato in Ungheria per poi attraversare la frontiera. C’era un tempo in cui erano stati gli artisti o le persone famose a lasciare la Germania, all’improvviso era la gente normale. Noi stavamo bene, non ci pensavamo a partire. Una sera siamo andati nel nostro ristorante preferito, si chiamava ‘1900’, a Prenzlauerberg. Era l’unico ristorante buono di Berlino est, lo chef era un nostro amico cileno e riuscivamo sempre a evitare la fila. Un giorno di agosto ci siamo andati e lui non c’era, partito per l’ovest. Un’amica mi ha ricordato che in quell’estate, ogni giorno che ti sedevi nella mensa dove lavoravi, ti guardavi intorno per vedere chi c’era ancora. E chi era andato via”.

Guerra a destra

Il primo articolo sull’incontro tra Frédéric Martel e Steve Bannon è apparso sul sito conservatore LifeNews (ora è stato rimosso). Il cardinale Raymond Burke, uno degli esponenti più in vista del fronte conservatore nella Chiesa, si è indignato e ha annunciato la rottura dei suoi rapporti con l’istituto Dignitatis Humanae, la scuola di formazione politica legata a Bannon che sta partendo vicino a Roma. Burke su Twitter contesta l’ipotesi – per nulla concreta – di un film sull’omosessualità in Vaticano ispirato al libro Sodoma di Martel. Ma soprattutto contesta gli apprezzamenti di Bannon a Sodoma e la sua scarsa sensibilità ai temi della morale sessuale: “Sono in completo disaccordo con una serie di affermazioni del signor Bannon per quanto riguarda la dottrina e la disciplina della Chiesa cattolica romana”. Per questo “ho terminato ogni relazione con il Dignitatis Humanae Institute”.

Steve Bannon pronto alla crociata: “Il Papa è di estrema sinistra”

L’invito a pranzo di Steve Bannon, l’ex consigliere di Donald Trump, mi arriva via sms, per domenica 19 maggio. Mi invita a raggiungerlo nella sua suite all’hotel Bristol, che secondo i giornali costa 8.000 euro a notte. Perché un americano della destra cattolica estrema cerca un ateo di sinistra e gay dichiarato? Non potevo rifiutare di incontrare uno dei più noti strateghi politici e uno degli oppositori più duri di papa Francesco.

A Roma Steve Bannon è vicino al Dignitatis Humanæ Institute, un’associazione e lobby discreta, di cui è presidente il cardinale Raymond Burke. Il consiglio di amministrazione raggruppa alcuni dei prelati di orientamento più estremo del Vaticano e degli ambienti cattolici integralisti. Il progetto di Bannon è creare nel monastero di Trisulti una scuola di formazione estremista, “L’accademia giudaico-cristiana occidentale”. Burke e il suo collaboratore Benjamin Harnwell vogliono creare un movimento per spingere la Chiesa nella “giusta direzione”. Cioè contro le idee di papa Francesco.

All’Hotel Bristol, Bannon esordisce complimentandosi per il mio libro Sodoma: dice di essere rimasto stupito dalla lettura e di aver chiesto a un suo amico giornalista a Roma se davvero l’80 per cento dei preti e cardinali in Vaticano sono gay. “Mi ha risposto: ti sbagli, Steve, non è l’80, ma piuttosto il 90”, racconta ridendo.

Steve Bannon è intelligente e, di fondo, un libertario: sulla morale sessuale non ha alcun tabù. Secondo lui la battaglia a Roma non si deve combattere sul tema della questione sessuale, anzi, la Chiesa dovrebbe voltare pagina perché quello è un tema divisivo.

Bannon non sembra affatto sconvolto dalla mia ipotesi che i principali cardinali della curia siano omosessuali. Siamo anche d’accordo sulla diagnosi: la questione della morale sessuale divide la Chiesa, ma questa battaglia non ha più ragion d’essere, è diventata schizofrenica e ipocrita visto quanto l’omosessualità è diffusa in Vaticano. Su tutti gli altri punti, invece, siamo in disaccordo. Per Bannon è fondamentale la lotta contro l’Europa federale, contro l’immigrazione, contro il comunismo cubano-venezuelano e, ovviamente, contro la Cina e l’Islam. E per queste ragioni bisogna opporsi a papa Francesco.

Nelle sue interviste recenti, Bannon ha lanciato l’offensiva contro il Santo Padre con i toni che lo contraddistinguono. Secondo lui, le ostilità sono state aperte da Francesco quando, nel suo viaggio in Messico, ha sfidato Trump celebrando una messa alla frontiera e denunciando coloro che “costruiscono muri invece di ponti” e che, dunque, “non possono dirsi cristiani.

Oggi Bannon attacca il Papa in quanto “alleato del partito di Davos” e per le sue posizioni ecologiste: “Il Papa è politicamente schierato, ha aderito alle idee dell’establishment globalizzato, tra cui il cambiamento climatico: è un verde, non è più nemmeno di centrosinistra, ormai è di estrema sinistra”. Secondo Bannon, il Papa appartiene al filone della Teologia della Liberazione, il movimento post-marxista nato in America Latina che predicava una “opzione preferenziale per i poveri”. In una recente intervista con NCRegister, Bannon, ha detto che “la Chiesa cattolica è oggi controllata da un gruppo che viene dalla Teologia della Liberazione, la scuola di Francoforte ormai ha conquistato Roma, tutto quello che fanno è ispirato a Gramsci: c’è una guerra per l’egemonia culturale”.

Quanto alla Cina, Bannon si oppone con toni durissimi alla strategia del compromesso voluta dal Papa. Quello di Pechino, dice l’ex consigliere di Trump, “è un regime totalitario” che sta diventando “uno Stato in cui la sorveglianza di massa dei cittadini è senza precedenti nella storia”. Con un Paese così, “nessun accordo segreto è possibile”. E se il Papa ci prova, “firma un patto col diavolo”.

Bannon è critico anche con il vertice organizzato in Vaticano a febbraio contro gli abusi sessuali: “È stato un disastro”, anche se quelle vicende stanno “corrodendo” la Chiesa e sono prossime a diventare “metastasi”. Però il Papa, sostiene Bannon, non ha fatto nulla per lottare davvero contro gli abusi.

La base per la guerra di Bannon al Papa, l’accademia “giudaico-cristiana” nel monastero di Trisulti, è però a un punto morto, bloccata da un ricorso amministrativo. Ma lui assicura: “Il progetto è partito, l’Accademia esiste già, cominceremo a formare persone”. Nel monastero oppure, se sarà impossibile, a Roma.

Il colpo di scena più recente è stato la lotta fratricida scoppiata tra il cardinale Burke e Steve Bannon. Anche io, senza volerlo, mi sono trovato coinvolto nella polemica: un articolo del sito di estrema destra LifeNews ha raccontato la mia discussione con Bannon sulla morale sessuale e l’omosessualità nei termini che ho riassunto qui. Burke si è detto scioccato al punto da decidere di rompere ogni rapporto con Bannon (l’articolo di LifeNews era stato approvato dallo stesso Bannon).

Al termine del lungo pranzo – più di due ore, noi due da soli – mi restano delle domande sulle motivazioni di Steve Bannon. Perché mi ha voluto incontrare? Vuole spaccare il fronte dei suoi oppositori? Voleva informazioni per identificare i gay in Vaticano? È omofobo o segretamente gay? Niente di tutto questo. Eterosessuale e storico, Bannon è piuttosto gay friendly nel privato. Ma a Roma affronta tre battaglie in cui ha bisogno dei cattolici: una guerra contro l’Islam e il nazionalismo cinese; una difesa delle radici cristiane dell’Europa e, infine, una sfida a quel Papa troppo progressista che, con le sue posizioni sulla povertà, sulla Cina e sul mondo arabo, è diventato il suo nemico naturale.

Che sia ancora il pesce-pilota di Donald Trump in questa crociata o che agisca da solo, è evidente che Steve Bannon si sta preparando ai prossimi combattimenti. È al centro della guerra tra il Papa e il presidente americano. Francesco è l’avversario globale di Donald Trump.