Gli accordi di facciata al G20 premiano la linea di Putin

Quanto detto dal presidente russo Vladimir Putin circa la “l’esaurimento del liberalismo” – dichiarazione rilanciata da un’ampia intervista al Financial Times – ha creato subbuglio in Occidente. Ma è difficile dargli torto se si guarda al modo in cui la “comunità internazionale” gestisce le relazioni internazionali. La “tregua” raggiunta da Stati Uniti e Cina al vertice del G20 a Osaka lo conferma. Se il presidente Usa, Donald Trump, cerca di spacciare l’intesa come una sua vittoria, la decisione di riprendere i negoziati e congelare la minaccia americana di nuovi dazi sull’import made in China serve solo a prendere tempo.

Trump, tra l’altro, nel suo viaggio in Asia ha avuto in testa soprattutto la Corea del Nord e il desiderio di farsi una passeggiata sulla zona demilitarizzata con il “reietto” Kim Jong-un: “Lo incontrerei anche solo per stringergli la mano e salutarlo” ha detto con evidente gusto per il colpo a effetto. Poi ha definito “molto buono” l’accordo con la Cina per dilungarsi in una serie di riferimenti generici ai quali i media cinesi hanno risposto parlando di “cessate il fuoco” e dell’avvio dei colloqui su indefiniti temi “specifici” con pari dignità.

La sorpresa è maturata però sul nodo Huawei: potrà tornare ad acquistare i prodotti dai fornitori americani, in quella che è apparsa una concessione della Casa Bianca. “Le compagnie Usa possono vendere attrezzature a Huawei lì dove non ci sono grandi problemi con la sicurezza nazionale”, ha detto Trump. La rimozione della compagnia dalla lista nera del commercio Usa, coi gravi problemi sulla sicurezza nazionale segnalati da intelligence e Dipartimento della Giustizia, sarà però decisa solo verso la fine dei colloqui.

Per il resto il G20 si è chiuso senza particolari decisioni se non quella, piuttosto scandalosa, di darsi appuntamento il prossimo anno in Arabia Saudita. Incuranti delle violazioni dei diritti umani, della guerra nello Yemen e dell’omicidio Khashoggi, i 20 Paesi più forti economicamente andranno a omaggiare il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman, che ha tenuto il discorso di chiusura.

Difficile dare torto a Putin, quindi, quando dice che “anche la cosiddetta idea liberale ha esaurito il suo scopo”. Certo, il presidente russo parla da una posizione nazionalista, di grandezza russa che ha tutto da guadagnare dal fallimento di un mondo multipolare, solidale e cooperativo. Tanto più che questa situazione consolida la strategia di vicinanza con la Cina. Quel mondo, d’altro canto, disunito su tutto, trova sussulti positivi solo su interessi consolidati. Come l’accordo tra la Ue e il Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) siglato due giorni fa e che il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha definito “storico”. Verranno ridotti dazi e facilitate importazioni in Europa di prodotti del cono sud dell’America Latina. Solo che quell’accordo vede tra i firmatari dell’altra sponda dell’Oceano Atlantico l’odiato Jair Bolsonaro, presidente “sovranista” del Brasile che, ovviamente, non si è fatto nessun problema a siglare un’intesa con l’Unione europea. E, altro problema, l’accordo scontenta le associazioni degli agricoltori, come la nostrana Coldiretti, ma anche la più moderata e istituzionale Confagricoltura, che con il suo presidente Massimiliano Giansanti teme l’esposizione italiana su riso, agrumi, zucchero e pollame, mentre per le carni bovine “è elevato il rischio di squilibrare il mercato dell’Unione, a seguito delle concessioni accordate dalla Commissione, con un contingente di importazioni a dazio zero pari a 99 mila tonnellate l’anno”.

Nel commentare le parole di Putin ieri Enrico Letta, via Twitter, scriveva “Meno male che c’è l’Europa”. Ma l’Europa è quella che fa accordi che poi scatenano rancori e ribellioni, ieri più “no global” oggi più protezioniste. Ed è proprio in questo che confida Putin.

Mail Box

 

Le Olimpiadi della mestizia e dello sconforto

Noto una certa ostilità da parte del Fatto per quanto riguarda le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina. A mio avviso, le olimpiadi non lasciano altro che debiti e portano al fallimento. Nutro forti dubbi a proposito delle capacità organizzative dei politici italiani: caos, ritardi e lievitazione dei costi rappresentano alcune delle problematiche più evidenti. Ma rifiutare a priori l’organizzazione di grandi eventi è triste. Siamo diventati il Paese che evita le grandi opere e non siamo più in grado fronteggiare il malcostume. Nessuno osa toccare i grandi evasori e i grandi appalti della sanità o di altri settori della PA. Pur dichiarando apertamente che c’è un cancro da estirpare, ogni formazione politica propone la giusta cura solo a ridosso delle elezioni. Insomma, la colpa in Italia è sempre degli altri. Dobbiamo rassegnarci alla tristezza e a pensare in negativo o c’è la speranza, un giorno, di ritrovare il sorriso perduto?

Vito Coviello

 

Caro Vito, lei crede che Sion, Innsbruck, Calgary e Graz che si sono ritirate l’abbiano fatto perché sono tristi? In realtà sono felicissime di non dover sperperare miliardi e poi ripagarli con aumenti vertiginosi di imposte per 10-20 anni. La corruzione non c’entra: anche senza tangenti – come dimostra lo studio dell’Università di Oxford – l’Olimpiade è di per sé un affare in perdita per chi la organizza. Sempre.

M.Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Alla luce del vostro articolo del 28 giugno, riteniamo che la narrazione dell’articolo nella parte “Allontanamento del minore dalla sua famiglia, relazione falsa che assume per certo la violenza e invio del minore presso la struttura pubblica La Cura gestita da una onlus sovvenzionata dall’ente locale La Casina dei bimbi. Qui a Bubbiano, nel Reggiano, i piccoli venivano sottoposti a un lavaggio del cervello da parte di professionisti e privati, tutti riconducibili all’associazione Hansel & Gretel di Moncalieri (Torino)” induca il lettore a porre erroneamente sullo stesso piano soggetti indagati nell’inchiesta e realtà estranee ai reati contestati quali le associazione che rappresentiamo: Ass.Casina dei Bimbi Onlus e l’Ass.Nazionale Sentire le Voci APS. Nello specifico, a differenza di quanto da voi dichiarato, non abbiamo sovvenzionato nessuna gestione, ma solamente del materiale d’arredo antecedente l’apertura del centro. Vi chiediamo per questo una rettifica immediata, a chiarimento alleghiamo una nostra dichiarazione congiunta.

Claudia Nasi e Cristina Contini

Non era intenzione porre sullo stesso piano ‘La Casina dei bimbi’, che non è indagata in alcun modo infatti, con la struttura ‘La Cura’, oggetto invece dell’inchiesta “Angeli e Demoni’. La frase specifica è riportata negli atti: “Sulla scorta di indicazioni terapeutiche spesso ottenute mediante pressioni da parte degli assistenti sociali, l’invio dei minori presso una struttura pubblica denominata “La Cura” gestita da una Onlus sovvenzionata dall’ente locale (“La Casina dei Bimbi”) dove venivano sottoposti a terapia psicologica da parte di professionisti privati tutti invariabilmente associati alla associazione Hansel e Gretel e condividenti le medesime impostazioni scientifiche e metodologiche”. Nell’articolo non viene scritto che ‘La Casina’ abbia sovvenzionato la gestione, ma solo che La Casina sovvenziona (con il materiale d’arredo come voi specificate) la onlus che gestisce ‘La Cura’.

S. B.

 

Gentile direttore, ho letto con interesse l’articolo del 29 giugno, di Salvatore Settis e Tomaso Montanari sulla riforma del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ma essendo citato mi sento in obbligo di precisare quella che reputo una incomprensione. Non ho mai asserito che l’apposizione di un vincolo di interesse culturale sia a totale discrezione del Soprintendente, come si legge nell’articolo. Piuttosto ho sottolineato che dal 1909, la proposta di un vincolo era di esclusiva competenza del Soprintendente e la conferma spettava invece ad altri organi del Ministero. Neanche il ministro fascista Bottai nel ’39 ebbe il coraggio di cambiare questa procedura, perché non è questione di lana caprina. Così come una legge viene proposta da un gruppo di parlamentari o dal Governo e poi ratificata dalle Camere, così come in un processo, il procuratore propone una tesi accusatoria, ma il giudice poi decide la sua consistenza, che sia una entità terza ad apporre il vincolo rispetto a chi lo propone, ritengo sia una procedura più corretta e trasparente per le garanzie che essa offre ai cittadini. Una ultima osservazione, dare il potere di vincolo a una sola figura, un direttore generale, evidentemente cambia i principi fondanti dell’azione di tutela del Ministero. Questo viene fatto con una nuova riforma attraverso un semplice Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che non necessita di discussione parlamentare né di una ratifica delle Camere. Proprio come la riforma nel precedente Governo con il ministro Dario Franceschi: un metodo che ci trovammo a criticare assieme a Settis e Montanari. Cordiali saluti.

Francesco Prosperetti, Soprintendente Speciale di Roma

La riorganizzazione del Mibac proposta da Bonisoli – intessuta, ripetiamo, di luci e di ombre di merito e di metodo – riporta alla Direzione il compito di adottare il vincolo, ma sempre su proposta della Soprintendenza, cui continua a spettare l’attività istruttoria e la proposta finale. È esattamente questa procedura, che tiene insieme direttore e soprintendenti, a poter dare qualche garanzia in più di tutela del territorio: perché si spera che il potere politico e quello del denaro non riescano a controllare sia centro che le periferie. Già oggi, peraltro, il direttore può avocare a sé il vincolo, quando la soprintendenza è inerte: per questo a Roma non è stata distrutta Villa Paolina, per esempio.

Tomaso Montanari e Salvatore Settis

 

I NOSTRI ERRORI

Pubblichiamo la risposta corretta del direttore Marco Travaglio alla lettera di Gian Carlo Lo Bianco di ieri: “Caro Lo Bianco, anche la polemica basata sui fatti (non sugli insulti) può aiutare a sgonfiare i palloni gonfiati. Con Berlusconi e Renzi ha funzionato, non crede?”.

Contrordine compagni: la bufera dell’Ue arriva a ottobre

Gesù, era ora, con questo caldo è stato un mese d’inferno. No, mica per le temperature, è che per 24 giorni siamo andati in giro con quegli impermeabili gialli da pescatore nonostante la calura. Come perché? Noi siamo persone impressionabili e quando il 5 giugno abbiamo letto a tutta pagina su Repubblica: “Dall’Europa arriva la bufera” ci siamo affrettati a correre ai ripari. Diceva il quotidiano: “La Ue piega il governo… smonta i numeri… apre la procedura per debito… martedì si esprimeranno gli sherpa dei governi e sarà cruciale se il loro sarà un via libera secco”. Effettivamente poi Bruxelles ha avviato la procedura e gli sherpa quel martedì furono secchi, secchissimi. E noi, di conseguenza, daje con l’impermeabile. Poi questo venerdì, improvvisamente, dice: “Ue, la cambiale d’ottobre”. Come chi? Sempre Repubblica: “Bruxelles è pronta a rinviare a ottobre”. Certo, poi a ottobre ci sfondano per carità. Ma che è successo? Ieri dicevano così: “Dopo la durezza di inizio giugno, in molti sembrano oggi pronti a un’applicazione più morbida delle regole”. E perché? Il mutato contesto economico… tensioni… i dazi Usa vs Cina… manifatturiero… e poi Draghi… lo spread s’è abbassato… Insomma, la Bce va dicendo che farà l’unica cosa che può fare per tenere in piedi la baracca (un altro QE) e lo spread scende: senza quello i ricatti (aka procedura d’infrazione) non vengono benissimo. Occhio però: “La vera partita è tutta sui conti del 2020”. Giusto, vero. Ma fino a ottobre l’impermeabile si può togliere? Sicuri? Non è che riarriva la bufera?

Un governo balneare tra slip, anguria e cambiali al seguito

 

“Bruxelles pronta a slittare di tre mesi la procedura d’infrazione, ma poi l’Italia dovrà applicare una legge di Bilancio rigorosa”.

Repubblica

 

A chi ha i capelli grigi (tendenti al bianco) i governi balneari della Prima Repubblica suscitano le nostalgie dei vent’anni quando, come nei ricordi sfumati della bella età, tutto andava bene anche se in realtà tutto andava come sempre. Per non sbagliarmi, ho letto su Wikipedia che erano esecutivi nati “con un mandato di breve termine, di transizione o decantazione, al fine di dare una tregua con una ‘pausa estiva’ a tensioni politiche particolarmente aspre all’interno di una maggioranza parlamentare”. Se davvero Bruxelles ci concederà luglio, agosto e settembre per rimettere a posto i conti sarà forse la prima volta che l’abitualmente arcigna Ue si mostrerà benigna, in considerazione delle alte temperature stagionali oltre che dei nostri guai. Quanto alle “tensioni politiche della maggioranza”, niente di nuovo sotto il Solleone, con la differenza però che oggi un governo balneare sembrerebbe già in qualche modo incorporato in quello gialloverde. Un po’ come certi vezzosi modelli cabrio, col tetto pieghevole in tela da abbassare nei viaggi vacanzieri. Oddio, alla luce di debito, deficit, spread, disoccupazione, autonomie regionali e delle prossime Sea Watch in arrivo, più che una decappottabile a Conte, Salvini e Di Maio servirebbe un mezzo blindato. Tuttavia, nel vocabolario della politica, il verbo “decantare” può assumere un suono riposante. Tra i suoi significati, infatti, non c’è solo quello che indica la separazione di un liquido dalla feccia per renderlo più limpido. Ma anche: “Celebrare con alte lodi” e, soprattutto, “cantare in musica”. Anche qui (ah la memoria malandrina) ci sovvengono, insieme al “Disco per l’Estate”, i cinema all’aperto dei film con De Sica, Boldi, Calà e i “cretini di un’Italia felice” (Enrico Vanzina). Se ci sarà concessa, la tregua sposterà probabilmente più in là (a primavera?) le lancette delle elezioni anticipate diradando i litigiosi vertici di Palazzo Chigi (ora che anche i talk show si sono spiaggiati). Mentre sul terreno dell’Italia smutandata, il Salvimaio si è già portato avanti: dall’avvocato in brachette che apostrofa il premier al Capitano che, sempre da un balcone, si manifesta in slip e tubo innaffiatore, proprio come il ragioniere del piano di sopra. Insomma, sul bagnasciuga ritroveremo l’Italia dell’eterno rinvio, con cocomero, timballo e cambiali al seguito (in attesa dei mini bot). Quanto a noi dopo aver sfogliato sotto l’ombrellone le foto sbaciucchianti dei leader con le fidanzate, nell’assopirci cullati da “Sapore di sale”, Giuseppe Conte ci sembrerà un Giovanni Leone messo a dieta. Per cortesia, svegliateci a ottobre.

La storia non può essere una prigione

Fu alla fine della calda estate del 1985, durante l’epoca chiamata in seguito “gli anni della stagnazione” sovietica, che vidi per la prima volta la città di Leopoli. Per un giorno e mezzo il mio treno si era diretto verso Leningrado, fermandosi di tanto in tanto in piccole città, ognuna con una triste stazione ferroviaria, un sudicio binario, un chiosco dove si potevano comprare biscotti secchi.

Ricordo di aver avvertito quel senso di frustrazione che sempre accompagnava i viaggi in Unione Sovietica. A quell’epoca, gli stranieri venivano relegati in determinate città, su strade speciali e treni riservati. Mentre sorseggiavo il tè, guardavo fuori dal finestrino e desideravo sapere di più di quella piatta e incolta campagna che si estendeva appena oltre i binari. Per me era un territorio proibito, inaccessibile quanto la luna. E poi, piuttosto inaspettatamente, il mio desiderio venne esaudito. Il treno si fermò. Eravamo arrivati nella città di Leopoli, nell’Ucraina sud-occidentale. Un annuncio fu trasmesso a sorpresa. Il treno necessitava di riparazioni e si sarebbe fermato per qualche ora, i passeggeri avevano il permesso di scendere.

Era come se qualcuno mi avesse detto che si poteva entrare nella cornice di un quadro: saltai giù dal convoglio tuffandomi nel paesaggio proibito. Alcune ore dopo, mi trovavo in un vecchio cimitero ricoperto d’erbacce. Tutt’intorno a me, un migliaio di monumenti alla travagliata storia di Leopoli. Scostai le erbacce dalla faccia di una massiccia lapide e vidi il simbolo K & K: Kaiserlich und Königlich, imperiale e reale, il simbolo austroungarico scolpito sotto l’epitaffio. Lì vicino, addossate l’una all’altra, c’erano bianche pietre tombali di marmo su cui erano incise eleganti scritte in polacco. Alcune tombe erano ucraine, contrassegnate dalla croce della chiesa greco-cattolica ucraina. C’erano altresì tombe sovietiche più nuove, sormontate da una stella rossa. Tante nazioni, una seppellita sopra l’altra, tante persone diverse, che si contendevano un po’ di spazio – allora avevo la sensazione che il cimitero custodisse la storia segreta del monotono paesaggio sovietico. Ritornai verso il treno.

Anche se partii dall’Europa qualche giorno dopo, Leopoli continuò a tormentarmi. L’viv, o Lvov, o Lwow: al momento della mia visita era sovietica, ma era stata polacca prima della Seconda guerra mondiale, austroungarica fino alla Prima guerra mondiale, e prima ancora parte della Confederazione polacco-lituana. Era stata abitata perlopiù da ebrei, ma c’erano anche armeni, georgiani e tatari. Ora erano gli ucraini a rivendicarla, dopo averla ripopolata negli anni 40; gli ebrei se ne erano andati, i polacchi erano stati deportati e le altre nazionalità disperse ai quattro venti. Si erano consumati dei massacri e delle tragedie terribili. Il cimitero era stato davvero una testimonianza della storia della città: un tempo era un luogo multilingue, multinazionale e multiculturale, oggi non più. Non appena potei, ci ritornai. Durante il mio secondo viaggio a Leopoli, nella primavera del 1991, trovai la città pressoché identica. Il vecchio cimitero infestato d’erbacce era ancora lì, insieme alle case fatiscenti, le piazze di acciottolato e le strade deserte che mi ricordavo dall’ultima, fugace visita. Questa volta, al centro del parco principale, vidi però alcune donne anziane in piedi sotto la bandiera blu e gialla, intente a vendere spille di metallo a forma di tridente, il simbolo nazionale dell’Ucraina. Giovani uomini, pelle ruvida e capelli lunghi, ridevano e scherzavano e vendevano giornali con l’inchiostro sbavato che titolavano “Ucraina libera,” “Ucraina democratica” e “L’Ucraina agli ucraini”. Gli anziani erano riuniti a piccoli gruppi e discutevano di politica. Di fronte al teatro dell’opera, un altro capannello si stava accanendo contro una statua di Lenin, colpendola ripetutamente. Quando tornai il giorno dopo, Lenin non c’era più. Il monotono paesaggio sovietico che una volta avevo contemplato dal finestrino era stato alterato per sempre.

Nel 1990, quel genere di espressione – “L’Ucraina agli ucraini!” – era fonte di preoccupazione. In Occidente, quello che stava succedendo a Leopoli veniva già descritto come parte “dell’ondata nazionalista” che allora si diceva si stesse diffondendo nell’Europa dell’Est e nell’ex Unione Sovietica. L’Ucraina era travolta da un movimento indipendentista che innervosiva i leader mondiali. Il presidente George Bush senior, durante una visita a Kiev nel 1991, disse agli ucraini di abbandonare questa strada pericolosa: “Viva l’Unione Sovietica,” disse. Ma contrariamente ai suoi desideri, l’Ucraina conquistò l’indipendenza qualche settimana dopo, insieme alle repubbliche sovietiche. Dopo qualche mese, l’Unione Sovietica cessò di esistere. Quell’ondata nazionalista – le donne anziane che vendevano le spille con la bandiera, i giovani con i giornali, le persone che demolivano la statua di Lenin – aveva spazzato via uno Stato totalitario. Leopoli stava cambiando, ma sarebbe stato in meglio o in peggio?

Nel 2018, tornai ancora una volta a Leopoli, 25 anni dopo la mia prima visita e 18 anni dopo la seconda. Questa volta, le abitazioni fatiscenti erano state ristrutturate e riparate. Le strade di ciottoli erano gremite di ristoranti, di turisti, di gente che si affrettava a sbrigare le proprie faccende. Ero a Leopoli per una ragione: era stato pubblicato in ucraino il mio libro sulla storia dell’Ucraina (La grande carestia, da poco pubblicato anche in Italia per Mondadori, ndr). Ero ospite al Festival del libro di Leopoli, un grande evento culturale, proprio come la Milanesiana in Italia, che riunisce migliaia di persone nel centro della città. Mentre passeggiavo accanto agli stand dei libri, sentii parlare molte lingue – francese, inglese, e anche ucraino, russo e polacco – e trovai anche volumi scritti in lingue diverse. Gli oratori si trovavano lì per discutere di storia, letteratura, politica e arte. I capannelli di persone che discutevano davanti al teatro dell’opera erano spariti. Invece, conobbi il sindaco della città, un ucraino con molti viaggi alle spalle abituato a parlare con i sindaci di altre città europee e che sognava di riportare Leopoli in Europa.

Il cimitero in rovina è stato restaurato: si può ingaggiare una guida che porta in giro i turisti e mostra i monumenti ai cittadini polacchi, ucraini e russi. La città è il centro di una nuova industria informatica, così come una mecca per gli storici. In altre parole, a livello spirituale Leopoli è diventata ancora una volta un luogo multilingue, multinazionale e multiculturale. Vi sto raccontando la storia di Leopoli perché per me è sinonimo di speranza. Leopoli è un luogo con un passato di tragedie, guerre e dittature. Ma le comunità possono sopravvivere alle tragedie, alle guerre e alle dittature, e poi ristabilirsi.

La Storia non è una maledizione né una prigione, non condanna nessuno o nessun luogo a un particolare destino. Noi possiamo cambiare i luoghi in cui viviamo, possiamo renderli migliori. La gente di Leopoli c’è riuscita. Possiamo riuscirci anche noi.

Traduzione di Licia Vighi

Anne Applebaum 2019

Siamo responsabili del mondo intero, non solo del nostro orto

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. E Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il Regno di Dio”. Un altro disse: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il Regno di Dio” (Luca 9,51-62).

Compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme. Questo viaggio è figura del cammino che ogni cristiano è chiamato a percorrere insieme a Cristo, al Suo seguito, senza condizioni, senza preoccupazioni alternative!

Per Gesù si è trattato di un itinerario d’incondizionata obbedienza al disegno di salvezza del Padre, obbedienza filiale e libera, che condivide l’amoroso irrompere di Dio nella storia dell’uomo. La passione di Dio è proprio l’uomo, credente o ateo, giudeo o samaritano, senza aggettivi: morte e peccato non possono continuamente bloccarne l’amore, la libertà e il perfezionamento. “A muso duro”, diremmo noi oggi, Egli si determina interiormente ed esteriormente a compiere nella sua vita la promessa di Dio fatta nell’Antico Testamento.

Allora il viaggio e la sua urgenza acquistano una valenza esistenziale maggiore per Lui, per i discepoli, per la Chiesa: Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il Regno di Dio. Siamo sollecitati a curare non la nostra porzione di campo, la nostra proprietà, ma a farci carico e a guardare con responsabilità al mondo intero, che attende un’aratura promettente e fruttifera. Essere cristiani implica una fiducia che consenta di affrontare ogni difficoltà, di scegliere il Signore con decisione assoluta, con dedizione irremovibile, con il coraggio che operando distacchi dovuti mai perde di vista la realtà della vita autentica: lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il Regno di Dio.

La vita dei credenti è animata da un annuncio, dall’esperienza della buona notizia, che è resa più credibile anche dalla testimonianza di una rinuncia, laddove sia richiesta: ti seguirò dovunque tu vada. Per questo Paolo ci ricorda, come ai Galati, che ci vuole un supplemento di libertà: Cristo ci ha liberati per la libertà! (Gal 5,1). Stare dietro al Signore riguarda la relazione tra Lui e noi: non è possibile scaricare sugli altri o sulle vicissitudini impreviste gli insuccessi esistenziali della nostra vita e della fede. Conviene affidarsi totalmente allo Spirito: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. Lo Spirito, infatti, sviluppa nel cristiano libertà e carità le quali, mentre liberano per grazia il cuore dalle molteplici schiavitù, ci determinano nella fedele sequela del Signore.

La scelta libera e consapevole, sostenuta dalla forza e dalla dolcezza dell’amore con cui Dio ci ama, ci ottiene che non venga meno la nostra fedeltà, espressa nel generoso e continuo servizio ai fratelli. Verremo elevati in alto verso il destino felice che attende anche tutta l’umanità.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Contro Autostrade, il Tav e l’Ilva serve politica, non giuristi

Le convulsioni che scuotono il governo giallo-verde trasmettono all’Italia un assurdo messaggio. Sembra che il sistema economico, in crisi antica e profonda, si possa governare solo a colpi di propaganda o di pareri legali. Manca una cosa in mezzo: la politica. Basta guardare i più recenti terreni di scontro nella maggioranza. Sembra che le forze politiche, ma anche gli stessi ministri non siano in grado di fare niente senza prima consultare un oracolo tecnico. Elettori semplici o assidui leoni da tastiera per partecipare alla discussione pubblica devono studiare precipitosamente tomi di diritto. La politica non è più in grado di tracciare la rotta. Come hanno scritto ieri sul Fatto Beppe Grillo e il suo neurologo, “la vera questione è che la Sea Watch non è quotata in Borsa!” e ciò consente a Matteo Salvini di essere “un eroe contro i deboli”. È una questione di rapporti di forza. Su alcuni fronti il M5S è già sconfitto e dissimula il fallimento fingendosi impegnato in sottili disquisizioni giuridiche.

Il caso Atlantia è, da questo punto di vista, esemplare. Il premier Giuseppe Conte il 15 agosto scorso, a poche ore dal crollo del ponte Morandi, scrisse, non sulla Gazzetta Ufficiale ma sulla nota rivista giuridica Facebook, parole definitive: “È chiaro che ci sono responsabilità e la giustizia dovrà fare il proprio corso per accertarle. Ma il nostro governo non può rimanere ad aspettare. Per questo abbiamo deciso di avviare le procedure di revoca della concessione alla società Autostrade”. Dieci mesi dopo il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli aspetta ancora lo studio di una commissione di esperti chiamati a studiare se ci sono i presupposti giuridici per revocare la concessione. Proprio mentre il vicepremier Luigi Di Maio ripropone la “caducazione”, politicamente sacrosanta. Ma il tema è appunto politico: se il ponte Morandi non è stato tirato giù da un missile, si può lasciare la rete autostradale in mano a un gestore che, se viene giù un viadotto, dice “strano, non me l’aspettavo”? La questione è politica e politica dev’essere la risposta, i pareri legali devono seguire, come l’intendenza di Napoleone.

Questo governo è spaccato in due, con linee opposte su temi come questi. Inutile chiamare gli esperti come foglie di fico per coprire l’incapacità di fare una scelta e sostenerla con la forza necessaria. La verità è che Salvini non vuole sfidare gli interessi della famiglia Benetton, quindi la concessione di Atlantia non si tocca nemmeno con un fiore, qualunque cosa abbiano scritto gli esperti giuridici nel loro parere comunque inutile, come si è rivelata purtroppo la celebre analisi costi-benefici sulla Torino-Lione. Hanno chiesto all’economista Marco Ponti di dimostrare che l’acqua è bagnata, cioè quelli per la Torino-Lione sono soldi buttati. Lui lo ha fatto ed è subito iniziato il tiro a segno, con semianalfabeti impegnati a discettare sui decimali delle accise del 2051. E sul caso Ilva si obbliga il Paese a interpretare l’aggrottar di ciglia di più o meno autorevoli penalisti per non guardare in faccia la realtà: o l’acciaieria di Taranto va avanti inquinando fino al 2023, quando gli impianti saranno a posto, oppure chiude. La discussione sullo scudo penale copre una spaccatura politica sul futuro dell’Ilva, sulla scelta se chiuderla o no.

La morale è semplice. Se vuoi chiudere l’Ilva, fermare l’Alta velocità o togliere le autostrade ai Benetton devi perseguire gli obiettivi facendo politica e alleanze. Di Maio ha vinto le elezioni politiche del 4 marzo 2018, ma da quel giorno su queste partite è stato costretto a fare un passo avanti e due indietro. Funziona così. Chi non ci credesse si faccia dire da una commissione di giuristi che cos’è la politica.

È un esecutivo non biodegradabile

Uno dei due partiti che formano il governo italiano si chiama Lega. Non ha storia, non ha regole, non ha ideali, non ha missioni, non ha punti di partenza da raccontare (li vuole nascondere o sono continuamente cambiati o sono illegali) o punti di arrivo da indicare come il coronamento di un ideale o di un sogno. Il monologo (parla sempre una persona per tutti) parla di regioni, di territori, di nazione, di tutti gli italiani che vengono prima (sono 60 milioni, prima di chi?, in quale lista?),

Al momento si direbbe che la Lega presidia territori (alla Lega piace molto questa parola avventurosa, l’ha imposta anche agli altri partiti) in cui è bene recarsi, in cerca di pepite o di qualche altra convenienza che un gruppo così sfacciato, e pronto a qualunque violazione di regole, non potrà che condividere con fedeli compagni di viaggio.

Una volta questa era gente che credeva nella secessione. Era un’idea, ma comportava rischi e duro lavoro politico.

Molto più conveniente forzare il governo centrale (che poi sono loro) a cedere ricchezza italiana a certe regioni, ovvero un governo ‘fai da te’ in cui peschi e tiri fuori dal sacco quello che ti conviene, e abbandoni i resti per chi non c’è. Non è vero che hanno escluso il Sud, prendendogli i voti e lasciandoli vivere nelle loro ingegnose trovate illegali. Prima di tutto perché ‘ndrangheta e camorra ormai vivono bene anche al Nord. E poi perché se siamo tutti legati a un unico partito che le cose le fa invece di raccontarle, si facilita la vita di tutti e si possono buttar via una volta per sempre le vecchie ideologie parruccone.

Intanto, intorno a questa Lega, che da una parte dispone della ricchezza del Nord e dall’altra condivide quella di tutti, si sente un fremito di vitalità, rappresentata dal coraggio di rispondere a tono a tutti anche a rischio di sembrare maleducati. Il risultato, invece, è forza, determinazione, gente decisa che piace perché prende i soldi e scappa (i 49 milioni della Lega) e poi torna sul posto e reclama i suoi diritti, usando la parte della parola d’ordine non detta: prima gli italiani va bene, serve al popolo. Ma “prima la Lega” è il vero lasciapassare che spiega il governo.

Niente appare più immobile dell’altro partito di governo definito con insistenza “movimento”, non partito, al punto da mettere una V maiuscola nella grafica della parola, per essere sicuri di trasmettere la tensione vitale della nuova creatura.

La nuova creatura è indispensabile alla nuova vita di governo perché serve alla Lega come i piccoli ponti che consentono ai passanti di non finire nell’acqua quando c’è alta marea a Venezia. Per esempio, se Salvini vuole andare a chiudere i porti italiani e non ha il potere di farlo, gli basta farlo sapere a Toninelli, ministro Cinque Stelle delle Infrastrutture, dunque dei porti, che provvederà subito.

Per esempio se Di Maio vuole apparire il protagonista dell’esplosione del ponte di Genova (che è un po’ la prima pietra della ricostruzione dopo la disgrazia) troverà il Tg – controllati dalla Lega – già occupati e dovrà far buon viso alle riprese che non lo includono.

Nonostante ciò, inspiegabilmente, Di Maio si affretta a schierarsi con Salvini se si tratta di lasciare in mare e al sole a 40 gradi su plancia di metallo per 15 giorni, 40 profughi salvati dalle prigioni libiche.

Non si tratta di senso umanitario, si tratta di politica. Quel sostegno ha fatto dono a Salvini di un buon tesoretto di voti.

Diciamo la verità: nessuno saprebbe rispondere a un nuovo venuto o a uno straniero che volesse sapere: “Ma alla fine, chi sono i Cinque Stelle? E vogliono cosa, per chi, con chi?”.

Certo, hanno cosparso di progetti lo spazio (sempre più stretto) intorno a loro. Ma sono progetti così complicati che essi stessi non riescono a raccontarli prima che finisca una trasmissione o una tavola rotonda. E allora sono costretti a proteggersi con l’auto-elogio, l’auto-celebrazione del già fatto, rimpiangendo e protestando ogni volta che il senso vero dell’evento non è stato colto.

Questo doppio governo, in cui uno guadagna molto per sé, all’altro non spetta nulla, e nessuno dei due può dire di avere fatto qualcosa di utile per il Paese da governare, è come un oggetto di plastica: se porta danno, come molti temono, non è biodegradabile.

Firenze, il quadro rubato dai nazisti tornerà a Palazzo Pitti

Il dipinto “Vaso di Fiori” del pittore olandese Jan van Huysum sarà restituito alla Galleria di Palazzo Pitti a Firenze. I ministri degli Esteri di Germania e Italia Heiko Maas ed Enzo Moavero si recheranno a Firenze per l’occasione, la data dell’evento è in via di definizione. Il dipinto era stato rubato dal museo fiorentino durante l’occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale e da allora è rimasto in Germania. Per il ritorno del quadro, Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi, alle quali appartiene Palazzo Pitti, si era pubblicamente speso lo scorso mese di gennaio. “Grazie, dunque, alla stretta cooperazione fra i due ministri Maas e Moavero – afferma la Farnesina in una nota – il quadro, uno dei lavori più importanti del maestro olandese, può ora tornare al posto che gli era stato assegnato, quasi due secoli fa, dal Granduca di Toscana Leopoldo II della casa di Lorena”. “La battaglia è stata dura, oggi c’è una grande vittoria per tutta l’Italia”, è il commento del direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt all’annuncio della Farnesina che la Germania restituirà il dipinto trafugato durante l’occupazione.

“Ad Auschwitz e a Dachau gli ebrei si divertivano”

Altro che forni crematori, camere della morte e lavori forzati. Ad Auschwitz, a Dachau e negli altri campi gli ebrei si divertivano: avevano a disposizione persino delle piscine per il relax. L’Olocausto? Fantasie. Primo Levi? “Solo una testa di c… e un cog…”. Parole e ricostruzioni che un professore avrebbe fatto ai propri alunni; alcuni studenti hanno raccontato tutto a un altro insegnante, che a sua volta ne ha discusso col dirigente scolastico. E così Gino Giannetti, professore di discipline plastiche al liceo artistico “Eustachio Catalano” a Palermo, è finito al centro di una indagine della Procura, che ha affidato alla Digos il compito di accertare se l’insegnante abbia commesso il reato di “negazionismo”. A rivolgersi agli inquirenti è stato il preside Maurizio Cusumano, che ha consegnato una relazione all’ufficio scolastico provinciale col materiale raccolto tra cui conversazioni nella chat di Messenger che l’insegnante usava per inviare a una studentessa dei link con foto e video negazionisti della Shoah. Il docente inoltre avrebbe invitato i suoi studenti a iscriversi a Forza Nuova, il movimento di estrema destra. Da tre anni il negazionismo in Italia è reato: prevede pene da due a sei anni di reclusione.