Prendi l’abstract della conferenza di una studiosa (casualmente pupilla del prof locale in commissione) e lo fai diventare il “profilo” di un concorso da ricercatore. Prendi i punteggi per le pubblicazioni (magari nessuna internazionale), per l’attività didattica a contratto (magari tutta “in house”), o peggio per i “meriti organizzativi” (incarichi burocratici e commissioni), e li manovri per far vincere il precario storico della tua sede. Stabilisci un tetto alle pubblicazioni (10, 12), così non conterà nulla se un candidato ne ha 80 e un altro 15. Fai arrivare a pari merito due candidati (uno interno e uno esterno più forte), e lasci al Dipartimento la scelta. Pratiche normali a norma di legge, in un’accademia che recluta essenzialmente su base locale, prefigurando i vincitori a priori sia scegliendo arbitrariamente le commissioni giudicatrici (ogni Dipartimento nomina, elegge e sorteggia, e di norma a giudicare sono colleghi di fiducia dell’ordinario che bandisce) sia dissuadendo i candidati “scomodi”, quelli che un docente catanese intercettato definisce “stronzi da schiacciare”.
Questi ultimi, salvo colpi di fortuna, non hanno alcuna chance perché i posti sono quasi sempre “profilati” ad personam
, mentre per le posizioni di docente alcuni concorsi sono riservati agli interni, in altri la vittoria di un interno (un ricercatore che diventi associato, o un associato che diventi ordinario) è interesse economico vitale, poiché il Dipartimento spende la sola differenza di stipendio legata alla promozione (se vincesse un esterno servirebbero risorse per un intero budget da associato o da ordinario?). Il colmo della tristezza si ha quando la lottizzazione tocca i dottorati di ricerca, fondati su selezioni locali che spesso puniscono giovani promettenti ma senza un “padrino”, o troppo indipendenti nei loro interessi di studio.
A prescindere dal rilievo penale (ancora non sempre lampante), le notizie fin qui trapelate circa l’indagine “Università bandita” mettono in luce problemi strutturali che vanno ben oltre l’Etna, e che investono anche lo strapotere del Rettore e del Direttore generale, ai quali la legge Gelmini (2010) ha affidato ampi poteri “manageriali” (quando questi due si scontrano sono guai, come avvenuto 4 anni fa a Catania con le reciproche querele all’origine dell’inchiesta). Ogni Rettore vuole mantenere il controllo degli organi deliberativi, sia il Senato Accademico (declassato dalla Gelmini a un ruolo di ratifica) sia il Cda (per il 40% formato da membri esterni, e in vari Atenei fatto solo di “nominati” del Rettore): se a Catania usano i “pizzini”, in tutt’Italia sono prassi le strategie nascoste, i giri di telefonate e le basse manovre per garantirsi l’elezione di senatori e consiglieri obbedienti.
Per ora poco si muove sulla governance, ma, al netto di qualche dettaglio, il ddl Torto (M5S) sui nuovi ricercatori a tempo indeterminato, in commissione alla Camera, va nella giusta direzione: limita il precariato, ritorna ai concorsi nazionali, impone modelli di valutazione meno arbitrari, e limita quell’autonomia universitaria (legge Berlinguer) che ha consolidato le tristi logiche localistiche. Tuttavia, l’inchiesta di Catania (come già quella di Firenze del 2017) mostra come il principio delle combriccole e delle cordate sia ramificato in tutto il Paese. Né il deficit di democrazia degli Atenei né il malcostume potranno essere sconfitti finché vi saranno Consulte universitarie riunite per stabilire i reciproci favori, rettori che dissuadono candidati a suon di minacce, ordinari che concepiscono l’accademia come il distillato dell’“élite culturale della città” composta da un ristretto numero di famiglie. Non aiuta in questo senso, anche come messaggio, la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha escluso il matrimonio dalle fattispecie di parentela che inibiscono l’accesso ai concorsi (non puoi candidarti se sei cugino del Direttore di Dipartimento, ma puoi se sei suo coniuge!). I ricatti, le minacce, le ritorsioni, sono anzitutto una questione culturale: per fortuna l’accademia italiana non è solo questo coacervo di metodi paramafiosi, ma dietro alla patologia (e alle eventuali malefatte) c’è una legislazione che per troppi anni ha favorito (o tollerato) il male.