Il familismo accademico e la legge

Prendi l’abstract della conferenza di una studiosa (casualmente pupilla del prof locale in commissione) e lo fai diventare il “profilo” di un concorso da ricercatore. Prendi i punteggi per le pubblicazioni (magari nessuna internazionale), per l’attività didattica a contratto (magari tutta “in house”), o peggio per i “meriti organizzativi” (incarichi burocratici e commissioni), e li manovri per far vincere il precario storico della tua sede. Stabilisci un tetto alle pubblicazioni (10, 12), così non conterà nulla se un candidato ne ha 80 e un altro 15. Fai arrivare a pari merito due candidati (uno interno e uno esterno più forte), e lasci al Dipartimento la scelta. Pratiche normali a norma di legge, in un’accademia che recluta essenzialmente su base locale, prefigurando i vincitori a priori sia scegliendo arbitrariamente le commissioni giudicatrici (ogni Dipartimento nomina, elegge e sorteggia, e di norma a giudicare sono colleghi di fiducia dell’ordinario che bandisce) sia dissuadendo i candidati “scomodi”, quelli che un docente catanese intercettato definisce “stronzi da schiacciare”.

Questi ultimi, salvo colpi di fortuna, non hanno alcuna chance perché i posti sono quasi sempre “profilati” ad personam

, mentre per le posizioni di docente alcuni concorsi sono riservati agli interni, in altri la vittoria di un interno (un ricercatore che diventi associato, o un associato che diventi ordinario) è interesse economico vitale, poiché il Dipartimento spende la sola differenza di stipendio legata alla promozione (se vincesse un esterno servirebbero risorse per un intero budget da associato o da ordinario?). Il colmo della tristezza si ha quando la lottizzazione tocca i dottorati di ricerca, fondati su selezioni locali che spesso puniscono giovani promettenti ma senza un “padrino”, o troppo indipendenti nei loro interessi di studio.

A prescindere dal rilievo penale (ancora non sempre lampante), le notizie fin qui trapelate circa l’indagine “Università bandita” mettono in luce problemi strutturali che vanno ben oltre l’Etna, e che investono anche lo strapotere del Rettore e del Direttore generale, ai quali la legge Gelmini (2010) ha affidato ampi poteri “manageriali” (quando questi due si scontrano sono guai, come avvenuto 4 anni fa a Catania con le reciproche querele all’origine dell’inchiesta). Ogni Rettore vuole mantenere il controllo degli organi deliberativi, sia il Senato Accademico (declassato dalla Gelmini a un ruolo di ratifica) sia il Cda (per il 40% formato da membri esterni, e in vari Atenei fatto solo di “nominati” del Rettore): se a Catania usano i “pizzini”, in tutt’Italia sono prassi le strategie nascoste, i giri di telefonate e le basse manovre per garantirsi l’elezione di senatori e consiglieri obbedienti.

Per ora poco si muove sulla governance, ma, al netto di qualche dettaglio, il ddl Torto (M5S) sui nuovi ricercatori a tempo indeterminato, in commissione alla Camera, va nella giusta direzione: limita il precariato, ritorna ai concorsi nazionali, impone modelli di valutazione meno arbitrari, e limita quell’autonomia universitaria (legge Berlinguer) che ha consolidato le tristi logiche localistiche. Tuttavia, l’inchiesta di Catania (come già quella di Firenze del 2017) mostra come il principio delle combriccole e delle cordate sia ramificato in tutto il Paese. Né il deficit di democrazia degli Atenei né il malcostume potranno essere sconfitti finché vi saranno Consulte universitarie riunite per stabilire i reciproci favori, rettori che dissuadono candidati a suon di minacce, ordinari che concepiscono l’accademia come il distillato dell’“élite culturale della città” composta da un ristretto numero di famiglie. Non aiuta in questo senso, anche come messaggio, la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha escluso il matrimonio dalle fattispecie di parentela che inibiscono l’accesso ai concorsi (non puoi candidarti se sei cugino del Direttore di Dipartimento, ma puoi se sei suo coniuge!). I ricatti, le minacce, le ritorsioni, sono anzitutto una questione culturale: per fortuna l’accademia italiana non è solo questo coacervo di metodi paramafiosi, ma dietro alla patologia (e alle eventuali malefatte) c’è una legislazione che per troppi anni ha favorito (o tollerato) il male.

“Università bandita”

Un codice di comportamento sommerso per predeterminare nell’Università di Catania gli esiti dei concorsi, che venivano “cuciti” addosso a chi doveva vincerli. Nessuno spazio per il merito. Gli altri candidati erano “da schiacciare” e chi osava fare ricorso se la doveva “piangere”. È il vaso di Pandora scoperchiato dalla Procura etnea sfociata nella sospensione da parte del Gip del Rettore dell’Università del capoluogo etneo, Francesco Basile, e di nove professori con posizioni apicali all’interno dei dipartimenti dell’ateneo, tutti indagati per associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Tra gli indagati anche altri due rettori, Eugenio Gaudio, della Sapienza di Roma, e Marco Montorsi, dell’Humanitas di Rozzano (Mi) . L’operazione è stata denominata “Università bandita”. Nel fascicolo aperto su accertamenti della Digos sono iscritti complessivamente 66 indagati: 40 professori dell’Università di Catania e 20 degli atenei di Bologna, Cagliari, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. Indagate anche altre sei persone a vario titolo collegate con l’Università di Catania. Sarebbero 27 i concorsi ‘truccati’ ma si indaga anche su altre 97 procedure concorsuali.

Ricerca sul cancro, risultati ritoccati per ottenere milioni

Il vizietto di Photoshop. Scienziati impegnati nella ricerca sul cancro hanno manipolato le immagini dei loro studi, riuscendo così a ottenere successo, carriera, nuovi fondi per le loro ricerche. La Procura di Milano ha appena concluso un’indagine lunga e complessa, che fornisce un quadro devastante: professoroni stimati e rispettati, luminari della ricerca che manovrano milioni di euro provenienti da fondi pubblici, donazioni private, raccolta del 5 per mille, sono stati beccati ad “aggiustare” la documentazione poi pubblicata dalle più prestigiose riviste scientifiche internazionali.

I professori indagati sono Pier Paolo Di Fiore (dell’Ifom, il centro di ricerca dedicato allo studio della formazione e dello sviluppo dei tumori a livello molecolare), Alberto Mantovani (dell’Humanitas, l’istituto di ricerca e cura della famiglia Rocca), Pier Giuseppe Pelicci (dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia fondato da Umberto Veronesi), Marco Pierotti, Maria Angela Greco, Elena Tamburini e Silvana Pilotti (dell’Istituto nazionale dei tumori).

Hanno manovrato finanziamenti milionari, provenienti dal ministero della Ricerca, dal ministero della Salute, dall’Istituto superiore di sanità, dal Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche). Hanno ricevuto, solo nel periodo analizzato dalla Procura, tra il 2005 e il 2012, cifre altissime: 9,37 milioni Di Fiore; 3,06 milioni Mantovani; 1,48 milioni Pelicci; 3,60 milioni Pierotti.

“Dalla prima analisi di polizia giudiziaria sui centri di ricerca milanesi”, scrivono i pm, “emergevano nove pubblicazioni, consultabili liberamente, che contengono manipolazioni, più o meno gravi, delle immagini attestanti i presunti esperimenti”. Altre indagini scoprivano “ulteriori 17 pubblicazioni che contenevano manipolazioni delle immagini”. Poi i due consulenti scientifici incaricati dalla Procura di Milano hanno analizzato “159 articoli scientifici riferibili agli autori in trattazione e contenenti immagini ottenute con la tecnica della gel elettroforesi”. Dopo aver ridotto il campo a un campione più ristretto, hanno concluso che “sulle 32 analizzate, 25 pubblicazioni scientifiche sono risultate oggetto di manipolazione”.

Si sono costituite come parti civili nell’inchiesta, dunque come “persone offese” dagli indagati, l’associazione di consumatori Codacons, l’Associazione italiana per i diritti del malato, l’Istituto nazionale dei tumori di Milano e, infine, l’Airc, l’associazione italiana per la ricerca sul cancro, che gestisce ogni anno milioni di fondi dedicati agli studi sui tumori. Quest’ultima però non è passata indenne dalle critiche dei pm milanesi, che hanno segnalato “gli evidenti conflitti d’interesse all’interno di Airc, la cui commissione consultiva scientifica decide sulla destinazione dei finanziamenti (raccolti in prevalenza con il meccanismo del 5 per mille) a favore di studi scientifici condotti dagli stessi componenti”. Tutto in famiglia.

Gli scienziati iscritti nei registri dei reati dai pm Francesco Cajani e Paolo Filippini sono stati indagati per falso in scrittura privata, falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico e truffa. Dopo tre anni di inchiesta, i pm hanno concluso che i fatti sono stati accertati, le manipolazioni sono state provate, ma non esiste in Italia un reato che permetta di mandarli a giudizio. Così Cajani e Filippini non hanno potuto far altro che chiedere al giudice dell’indagine preliminare, Sofia Fioretta, l’archiviazione del caso.

Negli Stati Uniti, i giudici hanno condannato e in alcuni casi perfino messo in carcere ricercatori che avevano manipolato i loro studi. In Francia la presidente del Cnrs (l’omologo del nostro Cnr), Anne Peyroche, è stata recentemente rimossa dalla sua carica per aver manipolato ricerche. In Italia invece la frode scientifica non riesce ad essere perseguita penalmente. “Le accertate manipolazioni”, scrivono i pm nella loro richiesta d’archiviazione, “sia pure preoccupanti dal punto di vista dell’impatto scientifico, rimangono per l’attuale legislazione prive di rilevanza penale”.

E spiegano: “I finanziamenti Airc, sia pure ingenti quanto ad ammontare in relazione ai fatti di cui al presente procedimento penale”, sono da considerarsi “erogazioni a opera di privati, di conseguenza il fatto illecito ricadrebbe nell’ambito dell’ipotesi di una truffa semplice ai danni di ente privato e sempre qualora si dimostri il nesso di causalità tra il finanziamento e il mendacio”.

Cajani e Filippini concludono che questo caso “impone una seria riflessione sulla necessità di una disciplina penalistica ad hoc in grado di fornire una adeguata tutela nel contrasto delle frodi scientifiche”, come già è stato fatto per quelle assicurative e per quelle sportive. La Procura manda comunque gli atti alla Corte dei Conti, per “le opportune valutazioni” in merito alla “rendicontazione dei finanziamenti pubblici erogati dal Cnr”.

Catania, la regola dell’ateneo: “Il tuo bando è il prossimo”

Le assegnazioni delle cattedre non seguivano un metodo meritocratico, valutando curriculum o pubblicazione, ma sarebbero state decise in modo illecito da rettori e docenti tramite pressioni, bandi pilotati, composizioni collegiali orientate, riunioni inesistenti, verbali falsificati e sbarramenti per partecipanti esterni. Nelle 1.700 pagine del gip di Catania Carlo Cannella, è ricostruito un sistema della spartizione delle nomine, messo in risalto dall’inchiesta della Procura guidata da Carmelo Zuccaro, che coinvolge molte università italiane. Tra i numerosi casi, c’è quello della docente Velia D’Agata, figlia dell’ex procuratore di Catania Vincenzo D’Agata, candidata al concorso di professoressa di prima fascia di Anatomia. Padre e figlia sono indagati per turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, in concorso con il rettore Francesco Basile, il direttore del dipartimento, Filippo Drago e il rettore della Sapienza di Roma, Eugenio Gaudio.

Per farle ottenere il posto, Basile e Drago avrebbero deciso di attribuire più peso all’anzianità di abilitazione rispetto ad altri e proprio il direttore del dipartimento avrebbe promosso “la modifica dei criteri dipartimentali per le graduatorie”. C’è però l’incognita della partecipazione di un altro candidato, Sergio Castorina, che intanto si è abilitato, al quale sarebbe stato suggerito di non presentarsi. “Nel giro di sei mesi sistemo tutto ti bandisco un altro posto, sono io d’accordo con il Rettore (Basile, ndr)”, avrebbe detto Drago secondo la ricostruzione di Castorina. Quindi sarebbe intervenuto in prima persona lo stesso Basile, che avrebbe promosso “il raggiungimento di un accordo” tra i due candidati, che garantisse a Castorina almeno la leadership interna al dipartimento.

In molti passaggi si auspica la partecipazione del rettore della Sapienza, Gaudio, come membro interno per un’eventuale commissione “ex art. 18”, ovvero una procedura aperta anche a candidati esterni. Procedura che lo stesso Gaudio avrebbe sconsigliato. “Ha detto assolutamente no, – dice la D’Agata incercettata mentre parla con Basile in un incontro al quale partecipa anche suo padre, l’ex procuratore di Catania, Vincenzo D’Agata – perché lui dice se si presenta il Nobel, ovviamente lo vince il Nobel”. Il rettore catanese però la tranquillizza: “Va be ma insomma questa cosa la risolviamo”. E infatti, la procedura viene modificata con il passaggio un “ex art. 24” che di fatto circoscrive il bando solo a candidati interni. Lo stesso verrà fatto in seguito anche per il bando di Castorina.

Un altro caso riguarda la selezione per un contratto di ricercatore di tipo B (che dopo tre anni permette di diventare professore associato) in storia contemporanea, sempre all’Ateneo catanese. In questa vicenda, il cardine sarebbe il docente Giuseppe Barone, membro interno della commissione e Direttore del Dipartimento di Scienze politiche, che in concorso con la collega Giovanna Cigliano, associato della Federico II di Napoli, avrebbero condizionato il bando in favore di Sebastiano Granata, a danno di altri nove candidati. Lo stesso Granata, si legge negli atti, avrebbe contribuito “a selezionare i commissari compiacenti”, fornendo a Barone i numeri di telefono dei professori da contattare e aiutandolo anche nella “parte valutativa degli altri candidati in modo da stilare una graduatoria che lo vedesse al primo posto”. Tra i docenti ‘prescelti’ c’è la Cigliano, che avrebbe avuto “un debito di riconoscenza” nei confronti di Barone. Nell’analizzare i vari candidati, il direttore del dipartimento non usa mezzi termini: “Vediamo chi sono questi stronzi che dobbiamo schiacciare”.

Risultano anche riunioni telematiche mai fatte e firme posticce. “Allora io ho già inviato tutto, ma formalmente lo devo fare alle 12”, spiega Barone alla Cigliano che risponde: “Quindi siamo riusciti a rifare la firma? Perché là c’era quel problema!”. Il direttore replica: “Si, abbiamo fatto un’operazione straordinaria, di cuci, taglia e incolla”. Barone è anche indagato per truffa perché avrebbe creato ad hoc un “fantasioso convegno fittizio” per elargire “somme di denaro per il viaggio, il vitto e l’alloggio” alla Cigliano, garantendole “illecitamente” che non anticipasse “nessuna delle spese per il viaggio” per la seduta della Commissione. Il titolo del convegno è “Volontari italiani in Russia durante la grande guerra” e prevede anche un catering: il contributo di 460 euro è erogato però alla Cigliano, per voli Napoli-Catania, più 300 euro di vitto e una somma “non ancora determinata” per l’alloggio.

Il pm Longo e quel fascicolo da togliere al collega Ielo

L’ex pm Giancarlo Longo racconta alla procura di Perugia come, secondo lui, sarebbe stato gestito il fascicolo sull’imprenditore Ezio Bigotti che nasce a Torino, transita a Roma e giunge infine al suo ufficio nella procura di Siracusa, dove ne chiede l’archiviazione: “Per la vicenda Bigotti, per cui avevo chiesto l’archiviazione.. avevo richiesto e ottenuto l’archiviazione da parte del Gip. (…) Ed in quel momento mi sono un po’ meravigliato perché comunque il procedimento mi sembrava abbastanza pulito in quel momento, insomma, era un procedimento che poi dopo… per il quale io ho fatto delle consulenze, ho chiesto l’archiviazione ed è stato archiviato”.

Longo riferisce di aver avuto notizie in merito dall’avvocato Giuseppe Calafiore: “Calafiore mi ha detto parlando di come questo fascicolo poi da Torino fosse arrivato a Siracusa”. Ed ecco la versione ottenuta da Calafiore: “…attraverso l’interessamento del fratello del Procuratore Pignatone (il professor Roberto Pignatone, ndr) erano riusciti a far assegnare il fascicolo Bigotti proveniente da Torino non al dottor Ielo (Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma, ndr) ma al dottor Musolino (Saverio Musolino, pm di Roma, ndr). E ancora: “…poiché Amara era in rapporti con il dottor Musolino, dietro la promessa di una… Smart per la moglie del Musolino aveva fatto sì che il fascicolo per competenza fosse mandato a Siracusa. Poi la questione della Smart non so se sia vera, se l’avete verificato, non glielo so dire, questo è quello che mi ha detto Calafiore”.

La versione è stata radicalmente smentita dal pm Musolino, che per questa deposizione risulta indagato a Perugia, e al Fatto risulta che la Guardia di Finanza non ha mai trovato una Smart tra le auto nella sua disponibilità. Riferendosi alla consulenza disposta da lui stesso nel fascicolo Bigotti, Longo poi aggiunge: “… Calafiore mi ha riferito che in una riunione Ielo avrebbe detto: ‘ah, ma la consulenza è bona, però dovrebbero arrestare per circonvenzione di incapace a Musolino’, fece questa battuta, riferita… cioè Ielo in una riunione con la Guardia di Finanza avrebbe fatto questa battuta riferita al fascicolo Bigotti e al fatto che questo fascicolo fosse arrivato a Siracusa. Nella consulenza che ho fatto io sarebbe stata.. la consulenza era buona ma avrebbero dovuto arrestare per circonvenzione di incapace lui”.

Non sappiamo se questa battuta sia stata realmente detta, ma al Fatto risulta un elemento più importante: l’aggiunto Ielo non ha mai visto la consulenza disposta da Longo anche perché, per il fascicolo in questione, esistevano già atti sufficienti a renderla inutile. Del trasferimento del fascicolo a Siracusa, al Fatto risulta che l’ex procuratore Pignatone non sapesse nulla.

Il professor Roberto Pignatone, contattato dal Fatto, ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione. Il suo nome viene menzionato in un’altra parte del verbale: “…ero stato avvisato – dice Longo – che Amara era venuto a conoscenza di una mail che il Procuratore De Lucia aveva inviato al dottor Pignatone di Roma, in cui c’era allegata la bozza della misura cautelare che stavano preparando a Messina. E di questa bozza … Amara era venuto a conoscenza tramite il fratello del dottor Pignatone. Infatti gli dice: ‘guarda, ti vogliono arrestare, vai in fretta e furia e nominati 1’avvocato'”. Versione smentita da Amara e Calafiore. Al Fatto risulta che nessuna mail di questo tipo fu inviata dal procuratore di Messina De Lucia al collega Pignatone. Sempre parlando del professor Roberto Pignatone Longo racconta: “…Calafiore diceva: ‘Guarda, tu ti potresti nominare anche il dottor Roberto… il fratello del Procuratore per qualche consulenza importante’, però non mi ricordo bene nello specifico, ‘perché è una persona che collabora con lo studio Amara, quindi se tu cerchi una persona brava fuori dal contesto nominati a questo’…”: “ Perché bravo – domanda la pm di Perugia Gemma Miliani – o perché fratello di Pignatone?”. “ Penso per entrambe le cose”, risponde Longo, “sia perché era bravo e sia perché nominare e far partecipare il fratello del Procuratore poteva avere il suo vantaggio in qualche modo, non so in che termini”.

Infine – come in parte già rivelato da l’Espresso – Longo fa anche i nomi della presidente del Senato Casellati e dell’ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Longo dice di aver cercato entrambi per spingere la sua nomina a procuratore di Gela o di Ragusa.

Longo ha già patteggiato una condanna per corruzione in atti giudiziari, tra i quali si conta anche l’inchiesta farlocca costruita, secondo l’accusa, per danneggiare l’inchiesta milanese sulla presunta maxi tangente pagata da Eni per acquistare in Nigeria il giacimento di petrolio Op 245.

Longo nel verbale è molto vago sull’ipotetica corruzione del magistrato, allora membro del Csm, Luca Palamara. Dice di aver saputo dall’avvocato Calafiore che qualcuno a lui legato avrebbe pagato Palamara per appoggiare la candidatura di Longo stesso a procuratore di Gela. Però Longo dice che Calafiore non gli disse chi e come avrebbe pagato. A leggere il verbale è evidente che le accuse di Longo, peraltro smentite da Calafiore, sono un de relato abbastanza evanescente: “Palamara l’ho incontrato credo a maggio – giugno 2016 presso i campetti di calcetto a Roma (…)io gli ho detto: ‘ho fatto la domanda per Ragusa’ e lui mi disse praticamente: ‘sì, va bene, Ragusa, però secondo me ti converrebbe, visto che comunque sei abbastanza giovane, fare domande per qualche piccola Procura del centro nord, quindi eventualmente le prossime…, adesso per Ragusa vedremo insomma com’è la tua posizione”.

La pm Gemma Miliani entra nel vivo: “Senta dottor Longo, lei ha sentito l’imputazione, si parla di 40.000 euro dati. Su questo che cosa ci vuole dire?”. E Longo: “Devo dire che questa è una cosa che mi ha riferito Calafiore nell’estate 2016, quindi dopo che ho incontrato Palamara (…) al Lido San Lorenzo ho incontrato Calafiore e mi ha parlato del fatto che la candidatura di Gela, e quella di Ragusa ma in particolare quella di Gela, non era andata a buon fine nonostante lui fosse intervenuto tramite Amara e altri soggetti su Palamara con la dazione di circa 40 mila euro. Però io sinceramente le devo dire la verità, Dottoressa, non mi ha detto: “Glieli ho portati io”. So che lui ha detto “sono stati dati 40mila euro per Palamara” però non è stato specifico nel dire chi glieli ha dati questi 40 mila euro. Poi dopo lui mi ha detto che erano per la mia candidatura a Gela. Perché lui che contesto me lo dice? Dice: “ma scusa tu sei andato da Palamara, ne hai parlato con lui… ma tu lo sai che ero quasi sicuro che ti nominassero a Gela anche perché con Palamara con 40 mila euro siamo intervenuti, sono intervenuto con Palamara con 40 mila euro che non so se l’ha dati, adesso non mi ricordo chi li ha dati questi 40 mila euro”.

Secondo Longo Calafiore “quasi sbottando” avrebbe detto: ‘A Gela non sei stato nominato nonostante Palamara abbia ricevuto 40 mila euro’ però me l’ha detto Calafiore e io non l’ho visto, né ho parlato di denaro con Palamara”. Questo è quello che ho dichiarato pure l’altra volta, poi Calafiore che abbia detto il vero, abbia detto il falso o abbia millantato come ha millantato tante altre volte questo io non lo posso sapere, perché poi lui era un pozzo senza fondo insomma Calafiore”. La pm chiede a Longo una sua valutazione da ex pm e lui “da un lato pensavo fosse verosimile però dall’altro in quel momento (…)la mia considerazione per Calafiore stava cominciando un po’ a scemare (…)perché alla fine non si è mai realizzato nulla di quello che mi ha detto”.

Conte avverte Mittal: “Basta immunità, privilegio cancellato”

Il premier Giuseppe Conte nella conferenza stampa a margine del G10 di Osaka, in Giappone, ha affrontato anche il tema dell’ex Ilva di Taranto. E quindi la questione dell’immunità penale dei suoi vertici, senza la quale i nuovi proprietari di ArcelorMittal minacciano la chiusura dello stabilimento. Il presidente del Consiglio ha avvertito il colosso multinazionale dell’acciaio con parole piuttosto dure: “Pensare che si possa gestire un’azienda solo a condizione di avere un’immunità penale è un privilegio”, ha detto. L’immunità era “un’eccezione, su cui è intervenuto il Parlamento, che l’ha eliminata. Ripeto: il Parlamento è sovrano, io confido solo che gli investitori non abbiano affidato le loro valutazioni di investimento a questa regoletta”. Il premier si è mostrato comunque ottimista. “Mi auguro – ha aggiunto – che le preoccupazioni sull’Ilva rientrino”. E ha concluso: “So che la questione è seguita con molta attenzione dal vicepresidente Di Maio che all’Ilva sta dedicando tantissime energie con molta generosità, sin dall’inizio”.

Torna “Mara Hari” Carfagna: le parole di “Luca” sull’inciucio fanno rivoltare FI

Non si può dire che sia un periodo di pace e serenità in Forza Italia. Le intercettazioni di Luca Lotti pubblicate ieri da La Verità hanno contribuito ad alzare ulteriormente – non che se ne sentisse il bisogno – il livello dello scontro interno.

Nella conversazione carpita dal solito trojan, “Lampadina” – ex ministro e braccio destro di Renzi – confessa al pm Luca Palamara che siccome Matteo è immobile (“non si muove… non si muove”), lui comincia a guardarsi intorno. E dice di aver avuto un abboccamento per un nuovo soggetto politico moderato con Mara Carfagna (“Io sto parlando con la Carfagna… con un pezzo di Forza Italia… con un pezzo di moderati”).

Forza Italia è già un partito praticamente tagliato a metà (e con la costante minaccia di abbandono di Giovanni Toti): la popolarità di Mara presso buona parte dei colleghi non è scintillante. Ieri nessuno dei parlamentari azzurri ha sfruttato pubblicamente l’affaire Lotti per attaccarla, ma in privato i suoi nemici parlano eccome: si sentono sempre più legittimati. Nessuno ci mette la faccia – “non possiamo permetterci di commentare intercettazioni, sarebbe un autogol” – ma diversi di loro sono prodighi di aneddoti. Perché “le manovre di Mara” sono note a tutti, da tempo. “Non solo le sue – dice un senatore azzurro – a Palazzo Madama c’erano movimenti piuttosto evidenti tra quello che resta del Giglio magico e alcuni dei nostri, in particolare Paolo Romani. Oppure la collega Urania Papatheu, particolarmente in asse con il renziano Davide Faraone”.

Per sottolineare la particolare comunanza di intenti tra la moderata Mara e gli orfani del renzismo, c’è pure chi sostiene che il fidanzato di lei (Alessandro Ruben) abbia chiesto a Filippo Sensi (ex spin doctor di Renzi) di trovarle un portavoce. Insomma, quei “movimenti plastici” verso il Pd per lavorare a un nuovo partito (e svuotare Forza Italia), “sono sicuramente veri e anche piuttosto evidenti”, secondo i nemici della Carfagna.

D’altro canto, per loro è sempre “Mara Hari”: il nomignolo ironico con cui l’aveva ribattezzata Alessandra Mussolini, paragonandola alla danzatrice-spia, icona del primo Novecento, condannata a morte come traditrice della patria (francese).

A quei tempi (era il 2010) la Carfagna veniva accusata di meditare la fuga dal Pdl per raggiungere Italo Bocchino e gli altri finiani di Fli. Per fortuna di Mara non se ne fece nulla. Stavolta chissà.

Zinga, Lotti e Palamara. Il Pd: “No comment”. Il pm: “Parlo il 2 luglio”

“Non intendiamo commentare le intercettazioni pubblicate ieri”. Così il capo della segreteria del Pd, Marco Miccoli, a proposito delle intercettazioni apparse sul quotidiano La Verità che tirerebbero in ballo anche Nicola Zingaretti nell’ambito di un colloquio captato tra il pm di Roma Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione, e il deputato dem, Luca Lotti, a processo nella Capitale per il caso Consip.

Lotti, secondo quanto trascritto nel brogliaccio, si dice pronto a sponsorizzare il nome di Palamara per la nomina a Garante della Privacy. Ma soprattutto nell’ambito del colloquio tra i due spunta il nome di “Nicola”. In relazione sia alla candidatura al posto di peso su cui si dovrà esprimere a breve il Parlamento, sia subito dopo aver parlato della Procura di Firenze dove, secondo Lotti, “c’è una situazione difficile”. Ma poi è Palamara che chiede a Lotti se con “Nicola ci hai parlato”. “Io – dice Palamara, ma non è chiaro se si tratti dello stesso Nicola decisivo per la corsa alla Privacy – ci ho parlato e riparlato”.

Insomma Luca Palamara parlava o no con Nicola Zingaretti? “Parlerò nelle sedi opportune dopo il 2 luglio” fa sapere Palamara al Fatto senza smentire né confermare se la persona di cui parlavano era proprio Nicola Zingaretti. Che, anche lui, sceglie la strada del silenzio che si è imposto dopo il terremoto provocato dalle presunte combine sulle nomine in importanti uffici giudiziari, e in particolare per la corsa al successore del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. L’attivismo di Luca Lotti, testimoniato dalla presenza nel dopocena che è costato il seggio al Csm di quattro consiglieri togati, e i suoi rapporti con Palamara hanno squassato non solo Palazzo dei Marescialli ma pure il Pd. Creando più di un mal di pancia tra quanti chiedevano che l’ex ministro renziano venisse cacciato dal partito senza troppi complimenti.

Ovviamente questa nuova intercettazione pubblicata ieri rischia di ridare fiato a chi ha guardato fin dalla prima ora con sospetto all’atteggiamento tenuto nei confronti di Lotti dal neo segretario Zingaretti. Che almeno finora si è accontentato della sua autosospensione dal partito. Dove la tensione è al massimo. Anche se tra gli alti graduati della nuova segreteria si tende a minimizzare la vicenda della nuova intercettazione a livello di “millanteria” di Lotti.

“Nel Pd non si è mai fatto il nome di Palamara per la nomina a Garante della Privacy. Zingaretti non ha mai fatto trapelare in nessun modo di aver assunto un impegno con Lotti. C’è la candidatura forte di Luigi Manconi sostenuto da Gentiloni. Perché mai il segretario avrebbe dovuto rompere con il presidente del suo stesso partito? Comunque il nome di Palamara non è mai stato fatto”, suggerisce chi ormai ha fatto il callo all’atteggiamento di Lotti. La parola d’ordine oltre al silenzio è gettare acqua sul fuoco.

Ma al di là delle vere o presunte millanterie di Lotti, cosa lega Luca Palamara a Nicola Zingaretti? Sull’assunzione di sua moglie Giovanna Remigi alla Regione Lazio, Palamara nega di aver avuto ruolo. Certamente il pm capitolino e Zingaretti hanno in comune la conoscenza di Fabrizio Centofanti. Che ha messo nei guai entrambi: sarebbe proprio lui il presunto corruttore di Palamara per i soggiorni alberghieri donati al magistrato in cambio del suo intervento al Csm contro un pm siciliano finiti sotto la lente di ingrandimento della procura di Perugia. Ma è dalle confidenze di Centofanti a Giuseppe Calafiore, arrestato nella maxi-inchiesta sul giro di presunte tangenti pagate da legali di importanti aziende per ottenere sentenze favorevoli al Consiglio di Stato insieme all’altro avvocato Pietro Amara, che scaturisce l’avviso di garanzia ricevuto da Zingaretti a marzo dalla Procura di Roma. Confidenze in cui il lobbista avrebbe parlato di erogazioni verso Zingaretti. E sempre riconducibili a Centofanti sarebbero le erogazioni a favore di Maurizio Venafro, già capo di gabinetto di Zingaretti, per una consulenza a una sua società operante nel campo idroelettrico e con interessi nell’attività amministrativa regionale.

Di Maio vuole il giro di vite: “Chi non è in linea andrà fuori”

Un post per ricordare che ci sono almeno un centinaio di procedure aperte nei confronti degli iscritti, e che il nuovo strumento sulla piattaforma Rousseau, quello per le “segnalazioni”, funziona a pieno regime. È in sostanza il testo che oggi dovrebbe apparire sul blog delle Stelle su richiesta del capo politico M5S Luigi Di Maio, deciso a dare il segnale di un giro di vite, innanzitutto agli eletti. “Chi non sarà in linea con il Movimento, per esempio non votando i provvedimenti, verrà accompagnato alla porta”, ha in sostanza spiegato venerdì in una riunione del Direttivo della Camera. Il capo politico teme brutte sorprese, anche in Parlamento, e non vuole concedere pretesti o varchi alla Lega per una crisi di governo che per lui sarebbe ferale. Così ora arriverà un segnale anche sul blog. Ma contrariamente alle indiscrezioni circolate nelle scorse ore, non dovrebbero arrivare espulsioni per deputati o altri eletti di peso, a breve. Il post di oggi dovrebbe ribadire che lo strumento “segnalazioni” – indirizzo email a cui si possono segnalare iscritti, candidati ed eletti che non rispettano i principi che stanno alla base del M5S – è in piena attività. E che nelle prossime settimane arriveranno decine di espulsioni.

“I soldi ai sindaci dalle paghe dei parlamentari”

Il salario minimo dei sindaci è proprio quello che ci vuole. Perché a sentire il presidente di Legautonomie nonché primo cittadino di Pesaro, Matteo Ricci, la questione delle indennità degli amministratori locali si potrebbe riassumere in una battuta di un Carosello degli anni ’70: e che c’ho scritto Jo Condor? “Lavoriamo più dei consiglieri regionali. E a differenza dei parlamentari che hanno lauti compensi, siamo responsabili di tutto quello che firmiamo e votiamo”, spiega Ricci che ha le idee chiare pure su cosa si aspetta dal suo partito, il Pd: “Zingaretti dovrebbe trasformarlo nel partito dei sindaci e confrontarsi con noi per costruire le strategie utili a battere i populisti che si sconfiggono stando tra la gente e non nei salotti. Ma purtroppo è ancora il Pd delle correnti”.

Una cosa alla volta: voi sindaci volete più soldi.

Guido un Comune di quasi 100mila abitanti e per fare il sindaco a tempo pieno prendo 2.500 euro al mese. Ma poi ci sono molti miei colleghi di Comuni più piccoli che non vanno oltre i 7-800. A prescindere dalla grandezza dei Comuni bisogna elevare l’indennità minima a 1.500 euro. Al di là di tutto, è una questione di dignità della funzione istituzionale.

Ma i sindaci hanno spesso un altro lavoro o sono pensionati.

Noi amministratori lavoriamo più di chi sta in Parlamento o nei consigli regionali: non c’è sabato o domenica che tenga, siamo sempre a contatto con i cittadini. E va data una risposta a questo impegno carico di responsabilità. A prescindere se abbiamo o meno un altro reddito, erogare una indennità minima per tutti, lo ripeto, è una questione di dignità. E bene ha fatto il Pd a trasformare in una proposta di legge le nostre richieste.

Quindi c’è il suo zampino dietro la proposta depositata al Senato da Antonio Misiani che pochi giorni fa è stato scelto da Zingaretti come responsabile del Dipartimento economia della nuova segreteria dem?

Avevamo organizzato un convegno a cui abbiamo invitato i parlamentari sul servizio civile che rendono i sindaci al Paese a fronte di indennità da fame, altro che casta.

Quanto costerebbe questa misura?

Basterebbe limare di un 5-10% gli emolumenti di deputati e senatori. Tra i politici noi siamo quelli più esposti dal punto di vista delle responsabilità. E allora un’indennità di dignità ci vuole assolutamente.

Gli altri lavoratori per i quali i 5S vorrebbero il salario minimo sono meno degni?

Sono tanti i lavoratori sottopagati e penso che in qualche modo si debba intervenire sui salari orari di base. Ma mi rendo anche conto che bisogna far crescere il lavoro che si trova sempre meno, senza indebolire il sistema produttivo delle imprese.

Mi scusi ma il Pd non dovrebbe occuparsi principalmente dei lavoratori?

La nostra parola deve essere lavoro. E ambiente. E certamente anche sicurezza: non bisogna aver paura di dire che la ricetta di Minniti, che coniuga rigore e accoglienza, è l’unica linea politica percorribile per il centrosinistra: l’immigrazione non si gestisce dai salotti o sui social e lo sappiamo bene proprio noi sindaci.

Lei è stato tra i 50 sindaci che hanno sostenuto la candidatura di Minniti prima che si ritirasse.

La candidatura autorevole di Minniti è arrivata troppo tardi. Quanto a Zingaretti, che ho appoggiato, ognuno si fa la squadra che vuole, ma il Pd deve diventare il partito dei sindaci e dei territori: è l’unico modo per sconfiggere i populisti che non li batti con le élite e le correnti.