Carola rischia fino a 10 anni. Multe per migliaia di euro

Carola Rackete è ai domiciliari in un’abitazione di Lampedusa, piantonata dai finanzieri che l’hanno arrestata. Attende, domani ad Agrigento, l’udienza di convalida dell’arresto. Il salvataggio di 52 migranti, recuperati il 12 giugno dopo un naufragio a 47 miglia nautiche dalla Libia, in una zona teoricamente assegnata alla Guardia costiera di Tripoli per le attività di soccorso in mare, può costarle caro. Rischia grosso anche senza il decreto Sicurezza bis del ministro Matteo Salvini: l’ipotesi di reato, al momento, è “rifiuto di obbedienza a nave da guerra” e “resistenza o violenza contro nave da guerra”, articoli 1099 e 1100 del codice della navigazione. Solo il secondo, in teoria, può valere dieci anni di galera. “Vedremo se la motovedetta della Guardia di finanza può essere qualificata come nave da guerra, lei certamente non lo sapeva”, osserva l’avvocato Alessandro Gamberini, che assiste Rackete con i colleghi Leonardo Marino e Salvo Tesoriero

Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, che l’anno scorso incriminò Salvini per sequestro di persona nel caso Diciotti ed è da mesi il bersaglio di estremisti di destra che gli inviano proiettili e minacce anche per i figli, ieri si è espresso in maniera durissima contro la comandante della Sea Watch 3 per la manovra nel porto di Lampedusa: “Le ragioni umanitarie – ha detto – non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi in divisa lavora in mare per la sicurezza di tutti”. Salvini è pronto a fare da solo: “È già pronto un decreto di espulsione con destinazione Berlino”. L’espulsione di cittadini comunitari è possibile, con divieto di rientro in Italia per cinque anni, quando il loro comportamento “compromette la dignità umana, i diritti fondamentali della persona” o “l’incolumità pubblica, rendendo permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l’ordinaria convivenza”.

La comandante 31enne, tedesca dello Schleswig-Holstein, è indagata da giorni anche per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e inosservanza dell’ordine dell’autorità. E poi c’è il decreto Sicurezza bis che prevede il sequestro della nave al fine della confisca se sarà qualificata come reiterazione la ripetuta inosservanza dell’ordine di non entrare nelle acque italiane e di non avvicinarsi al porto di Lampedusa. In ogni caso ci sono le multe, fino a 50 mila euro, del decreto Salvini bis: secondo le informazioni che circolano saranno 16 mila euro per lei, 16 mila per la Ong tedesca Sea Watch e 16 mila per il proprietario della nave. Naturalmente ci saranno ricorsi e, in quella sede, potrebbero essere sollevare le questioni di legittimità costituzionale già avanzate da autorevoli giuristi sul decreto Sicurezza bis, anche per violazione delle norme di diritto internazionale sui salvataggi in mare. La nave nel frattempo è già stata sequestrata ma dalla Finanza a scopo probatorio e trasferita a Licata (Agrigento).

Ieri mattina, se la situazione non fosse precipitata nella notte tra venerdì e sabato, la comandante era attesa a Lampedusa per l’interrogatorio fissato dal procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella, titolare del fascicolo per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. La Procura sta valutando eventuali ipotesi di reato a carico di membri dell’equipaggio della Sea Watch 3.

La nave dei migranti in porto e i militari schiacciati sul molo

Poco dopo l’una della notte tra venerdì e sabato Carola Rackete, la comandante 31enne, decide di entrare in porto con i 40 migranti a bordo da 16 giorni. “Alle ore 1.15 l’unità navale V808 – scrive la Guardia di Finanza – in servizio di vigilanza alla motonave Sea Watch 3 alla fonda a 0,5 miglia da Lampedusa, notava che vi era movimento sui ponti di coperta della nave, che aveva avviato i motori e stava iniziando a muoversi, dirigendo verso il porto”, mentre “alcuni membri dell’equipaggio sistemano lungo il lato sinistro alcuni parabordi”, si legge nel verbale di sequestro della nave.

Segue l’invito per radio a fermarsi, ma la Sea Watch 3 ha confermato l’intenzione di andare in porto. Il tenente di turno, proseguono i militari, “ci ordina di porre in essere manovre volte a far desistere il comandante”. Nuovi inviti via radio, nessun effetto. “Pertanto – scrivono i finanzieri – venivano effettuati dei passaggi di prua a debita distanza e in totale sicurezza, cercando invano di far accostare la nave”. Sono le manovre a zig-zag descritte anche dai parlamentari che erano a bordo.

“Alle 01.40 circa – si legge nel verbale – la V808 entrava in porto e si ormeggiava al centro del molo commerciale”, quello dei traghetti, l’unico a Lampedusa per una nave di 50 metri. “Alle ore 01.45 circa la nave faceva ingresso nel porto nonostante l’unità V808 ormeggiata in banchina, con lampeggianti e luci di navigazione accese, e in maniera tale che lo spazio necessario all’ormeggio della nave Sea Watch 3 non fosse sufficiente. Il comandante della Sea Watch 3 non effettuava, nonostante tutte le segnalazioni, nessuna manovra per evitare la collisione, che effettivamente avvenne. La V808 veniva quindi urtata in banchina, mettendo in pericolo di vita l’equipaggio e le condizioni di galleggiabilità”, scrivono ancora i finanzieri. A quel punto, secondo il verbale, si apriva “uno spazio appena sufficiente per consentire all’equipaggio, con estrema perizia, a far sfilare l’unità navale. Eventuali danni strutturali saranno successivamente riscontrati”.

Nei filmati la motovedetta funziona. Ma certo se la sono vista brutta i quattro militari a bordo. Due hanno tentato con le mani di allontanare la Sea Watch. Parliamo di un barchino lungo 13 metri e mezzo e largo 4, stretto contro il molo di cemento, contro un bestione da 650 tonnellate. “Anche noi ci siamo impressionati”, dice Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, uno dei parlamentari a bordo, che guardava la scena dall’alto.

La manovra, raccontano tutti, è stata lentissima. Una volta in porto, la nave si è girata e si è accostata al molo di poppa. “Se avessero voluto impedire l’ormeggio senza rischi – dice Fratoianni– avrebbero avuto tutto il tempo di schierare i loro mezzi lungo il molo, senza persone a bordo”.

Ma perché tanta fretta di muoversi? “La comandante, sabato mattina, era attesa a Lampedusa per l’interrogatorio. Aveva capito che non le avrebbero consentito di entrare in porto, che avrebbe dovuto abbandonare la nave e non se l’è sentita”, spiega l’avvocato Alessandro Gamberini, uno dei suoi legali. “Non ha preso una decisione improvvisa, ha cercato di comunicare con la Capitaneria dove non c’era nessuno che parlasse inglese. Quando ha visto che la motovedetta non si spostava – dice ancora Gamberini – è scesa dal ponte per vedere, non voleva far male a nessuno. Disobbedienza sì, violenza no”.

“La situazione a bordo era insostenibile – aggiunge Fratoianni – anche perché le evacuazioni per motivi di salute facevano pensare ai migranti che chi stava peggio andava a terra: questo ha aumentato il rischio di atti di autolesionismo o che qualcuno si buttasse in mare. La comandante aveva chiesto anche a noi di fare turni di guardia di notte”.

Quando la nave si è ormeggiata, i finanzieri sono saliti a bordo e hanno arrestato Carola Rackete. Alle 2.50 l’hanno portata a terra tra gli applausi e gli insulti di due gruppi contrapposti. “Spero che ti violentino”, le gridava uno. I militari l’hanno portata in caserma, le hanno notificato gli atti, è uscita ieri mattina dopo sette ore. Ha chiesto scusa per l’errore nella manovra. “Prendiamo atto delle scuse – ha detto il generale Alessandro Carrozzo, comandante del reparto aeronavale della Finanza di Palermo –. Si è resa conto che ha causato un danno, ha riconosciuto, come si fa tra la gente di mare, di aver creato una situazione che non avrebbe voluto causare”.

Le due curve Sud

La banchina di Lampedusa invasa da due fazioni di esagitati che salutano la capitana Carola Rackete appena sbarcata e arrestata, alcuni insultandola e altri esaltandola, è la perfetta rappresentazione di questo povero Paese che non riesce più a ragionare, ma solo a tifare. E a twittare.

Chi volesse ragionare saprebbe distinguere tra ciò che ha fatto di buono la Sea Watch-3, cioè caricare da un gommone pericolante in acque libiche 53 migranti (un giorno magari le Ong ci sveleranno quale divina ispirazione le fa trovare sempre nel posto giusto al momento giusto nello sterminato Mediterraneo); e ciò che han fatto di inaccettabile, cioè infischiarsene della legge del porto sicuro più vicino (in Tunisia o a Malta) per creare l’ennesimo incidente politico col governo italiano, ricorrere al Tar contro il no di Roma e poi fregarsene della sentenza negativa, appellarsi alla Corte di Strasburgo e poi ignorare il verdetto contrario, violare i divieti di ingresso in acque italiane e di sbarco a Lampedusa, fino alla manovra spericolata e criminale di ieri, quando per poco non c’è scappato il morto tra i finanzieri della motovedetta schiacciata sulla banchina. Non lo diciamo noi fottuti giustizialisti. Lo dice il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, non certo sospettabile di filo-leghismo visto che aveva chiesto di processare Salvini per sequestro di persona e abuso d’ufficio per il caso Diciotti e ora ha disposto l’arresto in flagranza della Rackete: “Le ragioni umanitarie non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi, in divisa, lavora in mare per la sicurezza di tutti”. Lo ribadiscono gli uomini della Guardia di Finanza sulla motovedetta: “La Sea Watch non ha fatto nulla per evitarci, siamo stati fortunati: poteva schiacciarci”. E il Reparto Operativo Aeronavale delle Fiamme Gialle di Palermo parla di “un atto di forza inaspettato, un gesto irresponsabile che ti puoi aspettare da un narcotrafficante o un contrabbandiere su un motoscafo”. Cos’hanno fatto e cos’hanno da dire ora i parlamentari-crocieristi de sinistra saliti a bordo della Sea Watch per garantirvi la loro personalissima “legalità”? E i fan dell’eroina non potrebbero almeno smetterla di chiedere la liberazione di un’indagata che, magari animata dalle migliori intenzioni, commette illegalità che non verrebbero tollerate in nessuna democrazia del mondo?

Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra la simpatia umana che ispira la giovane cooperante e le ragioni del diritto, che non autorizzano chi compie un gesto umanitario a commettere reati.

E non c’entrano nulla con Salvini che chiede arresti e condanne come se fosse il padrone dei magistrati e passa dalla parte del torto annunciando che i 42 migranti “possono restare in mare fino a Natale”. Parole e condotte che vanno censurate duramente, senza per questo tacere le illegalità della Sea Watch.

Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra l’apprezzamento per il coraggio di una donna che sfida le legittime leggi di un Paese che legittimamente non condivide con un atto di disobbedienza civile di cui si assume le conseguenze senza scappare né piagnucolare, opposta alla viltà di Salvini che dal suo processo è scappato grazie all’impunità parlamentare, e i doveri di uno Stato di diritto che non può farsi dettare la politica migratoria da un’Ong tedesca di bandiera olandese.

Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra le leggi di uno Stato democratico come il nostro e quelle di regimi totalitari o autoritari come l’Italia fascista, la Germania nazista, il Sudafrica dell’apartheid e l’India colonia britannica. Ed evitare paragoni impropri fra la capitana e i partigiani della Resistenza, Mandela e Gandhi. Il governo italiano non è frutto di un golpe militare né di un’invasione: è espresso dalla maggioranza del Parlamento regolarmente eletto un anno e mezzo fa, appena plebiscitata da consensi persino superiori alle Europee del mese scorso. Dunque le leggi italiane, giuste o sbagliate che siano, sono perfettamente legittime e conformi alla Costituzione, a meno di non accusare di alto tradimento i presidenti della Repubblica che le hanno promulgate (incluso Mattarella) e di incostituzionalità la Corte costituzionale che, quando interpellata, le ha validate. Oltretutto i reati contestati alla capitana (resistenza a nave da guerra, tentato naufragio e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) non li ha inventati questo governo, ma esistono nei codici dell’Italia e di tutti gli Stati degni di questo nome da tempo immemorabile. Certo, per battersi contro una legge c’è sempre la disobbedienza civile. Purché non venga spacciata per la nuova Resistenza, specie da chi, anziché salire sulle montagne, la combatte comodamente assiso sul suo bel sofà.

Chi volesse ragionare vedrebbe che le due propagande, opposte ma speculari, della Sea Watch e di Salvini hanno motivazioni diverse, ma si alimentano a vicenda. La Sea Watch schiva i porti più vicini per puntare sempre solo sull’Italia perché sa di trovarvi il nemico perfetto: Salvini. E Salvini ha bisogno di una Sea Watch al giorno perché è il nemico perfetto per dirottare l’attenzione generale dalle vere emergenze a quella fasulla, ma elettoralmente più lucrosa: l’immigrazione che, purtroppo per lui, ormai scarseggia. Altrimenti gli toccherebbe spiegare se vuole votare o no, perché non espelle un solo clandestino, dove prende i soldi per la Flat Tax, dove sono finiti i 49 milioni rubati dalla Lega, cosa deve ad Arata&Siri, perché difende a spada tratta i Benetton, Arcelor Mittal e gli affaristi delle grandi opere inutili. Cioè, quel che per lui è peggio, gli toccherebbe governare.

Maria Lai, ovvero l’arte di cucire il mondo

Sono molte le opera humanae che dalla Preistoria in poi hanno segnato quell’inesorabile processo chiamato “cammino della civiltà”: l’andatura bipede, i primi utensili in pietra costruiti dall’homo habilis, la scoperta del fuoco; e ancora le pitture rupestri nella grotta di Lascaux, il primo metodo di calcolo con l’abaco degli Assiri, la prima ruota presso i Sumeri. Eppure, una è per errore considerata minore: la costruzione del primo ago.

Apparso circa 20.000 anni fa, l’ago mutò la consuetudine dell’uomo sia perché generò la confezione dei primi indumenti, e dunque il senso del pudore, sia perché cucire le pelli consentì di fabbricare otri, di cui l’uomo poteva servirsi per trasportare l’acqua da conservare. In più, dentro l’otre si potevano introdurre pietre roventi per riscaldare l’acqua e in qualche modo cucinare il cibo. Nell’ago, dunque, risiede una potenza ancestrale.

È impugnando la stessa pulsione primaria dell’ago, e dunque del filo, che Maria Lai (1919-2013) pensa un’arte che cuce il mondo, che cioè lo tiene insieme. Lo dimostra l’opera situazionista Legarsi alla montagna (Ulassai 1981), la più celebre e primo esempio di “arte relazionale” in Italia. Durante l’evento, Lai coinvolse tutti gli abitanti del piccolo Ulassai a legare tra loro le case con un nastro azzurro di ventisei chilometri, per poi unirle al Monte Tisiddu, che torreggia sul paesino.

Oggi, nel centenario della sua nascita, il Maxxi (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma la omaggia con la retrospettiva Tenendo per mano il sole (a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli), che rende conto di tutta la sua produzione tessile. Soprattutto, però, ha il grande pregio di superare la cecità di alcune definizioni che in passato hanno qualificato la sua arte “folcloristica” o “femminile” in ragione di una praxis di natura nobilmente domestica.

L’inventio artistica di Maria Lai è assolutamente ancestrale, proprio come il gioco del mondo. Esposti i primi telai realizzati negli anni ’60 – Oggetto paesaggio (1967) e Telaio del meriggio (1967) con legno, spago, tela, tempera – quando abbandonò la pittura figurativa per sperimentare i materiali tessili, che applica su Tela del gins (1976) di filo, stoffa, tela. E ancora le fiabe cucite, tra cui spicca l’eponima Tenendo per mano il sole (1984), la prima realizzata, i libri oggetto cuciti come Ciò che non so (1984), che portano nell’arte l’entusiasmo della poesia.

Infine i pupi di pane e le altre sculture con materie che, provenendo da un mondo quotidiano legato alla realtà sarda (reti da pesca, paglia, sassi) e private della loro funzione pratica, vengono trasformate in espressivi capolavori attraverso l’incantesimo dell’arte. Per una tale magia è necessaria un’artista che sia anche un po’ fata, proprio come Maria Lai.

Pinocchio era massone: Melis indaga nella Milano d’agosto

Pinocchio era massone? Una parabola iniziatica anziché una favola per bambini? Il professore Bernardo Docci d’Orni, accademico in pensione, ne è stato convinto fino all’ultimo istante della sua vita, prima di essere ritrovato cadavere nella sua villa milanese, insieme con l’aitante maggiordomo tuttofare (ma non ricchione per dirla in modo verace alla Paolo Isotta). Entrambi uccisi.

Un doppio omicidio che è un rompicapo, da far impazzire il commissario Norberto Melis, promosso primo dirigente della questura meneghina. Siamo nell’estate del fatidico Ottantanove, alla vigilia del crollo autunnale del Muro teutonico di Berlino. Melis indaga e la sua inchiesta si trasfigura in un viaggio nei misteri dell’“antichissima tradizione sotterranea che percorre la letteratura italiana”. E non solo quelli, a dire il vero.

In ogni caso, attenzione. Docci d’Orni non era un chiacchierone da talk complottistici. Qui non siamo nel filone del sensazionalismo alla Giacobbo, tanto per intenderci. Trattasi piuttosto di materia tosta e serissima, da scovare in tomi nobili vecchi di secoli. In fondo, poi, a dare ragione al povero studioso su Pinocchio era l’appartenenza di Carlo Lorenzini in arte Collodi alla massoneria risorgimentale, altra roba rispetto alle logge piduiste e affaristiche che hanno buttato in buco nero e sinistro il buon nome dei grembiulini italiani, si pensi a Collodi stesso o al primo sindaco novecentesco di Roma, Nathan. Pinocchio, dunque. “Il più grande testo iniziatico della letteratura italiana dopo Dante”. Perdipiù, quando è stato ammazzato, il professore aveva un manoscritto sulla scrivania intitolato Il rituale dell’impiccagione. E la sua morte sembra proprio l’acme di un rituale, tra coltellate e spari. Una lenta tortura e gli aguzzini che non hanno portato via nulla.

Polvere d’agosto è l’ultimo imperdibile romanzo di Hans Tuzzi al secolo Adriano Bon, scrittore ormai cult per chi conosce le sue opere e che si può definire in vari modi: raffinato, coltissimo, sofisticato. La sua prosa segue il filo dell’understatement tipico di chi ha un’eleganza innata e non esibisce uno snobismo classista, volgarmente aristocratico. Anche perché il piacere di leggere Tuzzi è favorito dalla velocità con cui contamina le sue storie. Così dopo una dotta dissertazione di un amico massone del professore buonanima ecco l’esplosione di Lambiase, poliziotto emigrante che lavora con Melis. La padronanza della lingua napoletana è perfetta: “‘Chitammuorte’ ruggì Lambiase, ’na vecchia che da sola facisse scappare ‘nu lione…’”.

La vecchia in questione è la sorella del defunto Docci d’Orni, una famiglia con le palle nello stemma nobiliare ma non ricchissima. Chi ha ucciso il professore, allora? Melis, al solito, ha il conforto dell’erudita compagna Fiorenza, conforto decisivo come nel caso di Aldina Martini che smaschera la nostra ignoranza di lettori (se volete scoprire chi è o che cos’è Aldina non resta che leggervi il libro). La trama principale incrocia una vicenda di periferia fatta di pedofili sdentati, mamme di camorristi, spacciatori mussoliniani (ah, il fascismo eterno!) e milanesi rompicoglioni alla vecchia maniera.

Droga e mafie, da un lato. Massoneria e rituali e omidici, dall’altro. L’intuizione di Tuzzi alla base di Polvere d’agosto è notevole. Melis (e noi con lui) si confronta con le ossessioni di questo Paese, talvolta mali atavici e inestirpabili. Il potere arruffone e arraffone, ovviamente, è Roma e l’opportunismo da salotto è vivisezionato come un’opera di Grosz, pittore tedesco: “Tutti eran come le oscene creature ritratte da Grosz, giallicci e grinzosi o gonfi e rossi, la testa calva, il becco oscuro e occhi dallo sguardo insostenibile dove la ferocia ingorda s’alterna alla viltà e nei casi meno infami ad una inconsapevole malinconia: quella di chi consuma la vita nel traffico dell’istante, dimenticando che l’uomo è mortale e perciò guarda il cielo”. Magnifico.

Siamo nel 1989, non dimentichiamolo, e l’Italia si avvia alla prima storica implosione del sistema politico, il regime craxian-andreottiano. E sarà un peccato quando prossimamente il nostro amato Melis scorgerà il profilo sconcio del berlusconismo: quello, infatti, come più volte detto da Tuzzi sarà il momento del congedo per il vicequestore promosso primo dirigente. A suo modo resterà un poliziotto all’antica, nel senso più alto del termine, specchio forse del suo inventore, finanche occhiuto indagatore dei vestimenti ché l’abito fa sempre il monaco. L’originalità di Tuzzi è tale che rovescia i luoghi comuni e ci gioca con un sapiente uso della lingua italiana che spicca “nel tristo ciarpame dell’editoria moderna”. La soluzione dell’enigma giunge inaspettata e tra esoterismo e realtà si disputa un duello all’ultima pagina.

L’opera si veste da ologramma

Un’immagine umana luminescente – un ologramma che ricorda i manichini di De Chirico e Savinio – è la proiezione di una figura di donna: si tratta dell’installazione Neural Mirror di Cristina Vatielli, che verrà inaugurata domani nella ex Chiesa della Manna d’Oro all’interno della nuova edizione del Festival dei 2Mondi di Spoleto (da ieri fino al 14 luglio). L’artista utilizza la tecnologia dell’Intelligenza artificiale per leggere, rielaborare e letteralmente mettere in scena le peculiarità fisiche del visitatore. Si deve questa esplorazione nella scienza implicata all’arte, dunque all’uomo, a Maria Teresa Venturini Fendi, presidente della Fondazione Carla Fendi partner del festival umbro. “L’intelligenza artificiale ha molte applicazioni in tutta la nostra vita: nel lavoro, nel sociale, nella vita domestica e quindi anche in abito artistico” sostiene la presidente, a cui interessa “non l’utilizzo dei robot nell’arte come gadget, ma ciò che può scaturire dall’interazione, dall’interattività tra macchina e uomo nell’immagine, in una composizione musicale, in uno spettacolo di danza.” Sempre nella giornata di domenica, infatti, verranno proiettati il documentario Ecce Robot (per la regia di Gabriele Gianni), in cui una voce artificiale, attraverso immagini e interviste di repertorio, racconta la storia e le implicazioni dell’AI – dai visionari progetti di Alan Touring fino alle molteplici derivazioni della robotica contemporanea –, e AUTOMATICA, una music video performance del musicista Nigel Stanford in cui i bracci robotici di un’industria suonano strumenti musicali e si trasformano in una Rock Band. Infine, verrà conferito il Premio Carla Fendi, giunto all’ottava edizione, a due importanti scienziate nell’ambito della soft robotica: Cecilia Laschi e Barbara Mazzolai.

Basta guide: in valigia solo romanzi “turistici”

Lo spazzolino da denti, d’accordo: non va dimenticato. Lo spray antizanzare: indispensabile, col caldo che fa. La guida turistica? Sempre meglio avercela, in valigia, a meno di non voler ricorrere a un cicerone locale o immaginario: un libro – squisito romanzo o fiction camuffata – che racconti la meta del viaggio in modo insolito, fasullo e artefatto eppur più vero del vero, come i girasoli di van Gogh, “dipinti e nient’altro, ma adesso per capire un girasole in natura bisogna prima rivedere van Gogh” (© Artaud).
Prendendo spunto dal report 2019 di TripAdvisor – che ha individuato le mete estive più gettonate –, ecco la nostra cernita di titoli prêt-à-porter, freschi di libreria.

Minorca capricciosa. Nella più sobria e pensosa delle Baleari va a svernare, da tempo, lo scrittore e poeta olandese Cees Nooteboom, pluricandidato al Nobel. Il suo 533. Il libro dei giorni uscirà mercoledì con Iperborea ed è un diario di terra e di mare, di arbusti e fiori, libecci e quiete: a Minorca i “cactus sembra quasi che abbiano voglia di sposarsi oggi stesso, anche se non è chiaro con chi”. Al loro gioioso temperamento si sovrappongono “i capricci del vento”, e il mare che “ha il tempo di pensare”. Troppo: “Si dice che uno dei paesi dell’isola abbia la più alta percentuale di suicidi in tutta la Spagna”. Diversamente allegra è pure Maiorca, già buen retiro di Thomas Bernhard, uno che amava il mare perché è “meglio della montagna. Quella rende ottusi”. Chi invece preferisce Ibizia si compri un’agenda della vita notturna.

Disperarsi a Londra. Della Capitale britannica scrive Claudia Durastanti ne La straniera (La nave di Teseo), finalista al premio Strega e là emigrata nottetempo “per le ragioni sbagliate”. Londra è una città plumbea, in cui chi vi vive “sente sempre l’influsso di una torre oscura… l’emanazione fluorescente della disperazione”. Non è un romanzo per vecchi romantici, né un vademecum apocalittico per prepararsi all’apocalisse della Brexit, ma sismografa con grazia il sentimento del tempo: l’estraneità, turisti o migranti che si sia. Non a caso, “i primi luoghi che ho amato sono stati un cimitero, un cinema e uno skate-park”: luoghi sospesi tra la vita e la morte, la realtà e la finzione, il gioco e la caduta. L’arte è un via di fuga a buon mercato, qui: lo confermano le street gang come i “Soldiers of Shakespeare. La letteratura infesta le strade… Più vivo a Londra più aumenta la mia sindrome di impostura”.

New York dorme sempre. Miglior romanzo del 2018 in America, solo ora pubblicato in Italia da Feltrinelli, Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh è un gioiellino di humour nero, la storia di una giovane e bella ragazza dell’Upper East Side che decide di “ibernarsi”, ovvero stordirsi di psicofarmaci per dormire giorni e giorni di fila: il sogno di Amleto, il piglio di Oblomov. Se vivere è un mestiere, lecito è concedersi un anno sabbatico dalle angosce: “Avrei potuto ricominciare senza rimpianti, rafforzata dalla beatitudine e dalla serenità”. Manhattan è il testimone ottuso di questa scelta, così improbabile e assurda per la metropoli che non dorme mai. Ma siamo nel 2000: non c’è nulla di esistenzialistico o patetico in quest’anno che scadrà poco prima dell’11 settembre. Con risveglio di tragica bellezza.

Cherchez Paris. Molto di più di corrispondenze giornalistiche (tra il 1923 e il 1945), queste cartoline di Alberto Savinio conservano il profumo dei più preziosi Souvenirs (Adelphi), cesellati da penna adamantina e muriatica. Adieu Ville Lumière, questa Parigi si rivela per quello che è: “civettona”, popolata da gente che “la poesia non ha mai saputo veramente dove stesse di casa” e che “al mangiare ci tiene più che a cosa al mondo”. All’ombra della Tour Eiffel sfila l’“esercito alimentare”, seguito da donne “farcite di multiforme ingegno” e affette dal “microbo del sentimentalismo”. L’Opéra è “raggrinzita ma tenace”; le “chiese addolorate”; i “Grands Boulevards americanizzati”. Perfino gli intellò sono stucchevoli, dall’“effetto delle parole di Colette sulle vie digerenti” a Gallimard, “roccaforte di tutti gli isterismi letterari di Francia. Leviamoci il cappello”. Impareggiabile, poi, la stoccata a Leonardo: “Nella fredda sala del Louvre, il suo (di Raffaello, ndr) piccolo San Giorgio gliel’hanno collocato alla sinistra della Gioconda. A far da paggio. Che ‘schiacciante’ vicinato! Monna Lisa, lì accanto, fa una figura da levatrice patentata”.

Creta nera. Nel 2006 Petros Markaris aveva ambientato La lunga estate calda del Commissario Charitos (Bompiani) a Creta: protagonista un gruppo di terroristi, come nel recente Il tempo dell’ipocrisia (Nave di Teseo), in cui i killer si firmano con il sinistro pseudonimo di “Armata degli Idioti Nazionali”. Di delitti al sole non ce n’è mai abbastanza, e la trama l’abbiamo già raccontata sul Fatto. Da ricordare, però, che un’altra isola greca, Santorini, vanta una libreria raffinatissima: l’Atlantis Books, con titoli in quasi tutte le lingue del mondo e libri rari o pregiati, come ad esempio la prima stampa de Il piccolo principe.

Trip senza advisor. Ma chi l’ha detto che “l’unico vero viaggio non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi?”. Proust, ma aveva torto, almeno per Michel Pollan, che spiega Come cambiare la tua mente (Adelphi). E come, se non con Lsd? Un viaggio psichedelico – dai fricchettoni della letteratura alle neuroscienze – da farsi comodamente stravaccati in poltrona, sotto il getto dell’aria condizionata. Alla fine, però, per ripigliarsi vale sempre la regola della nonna, che è poi la stessa del maestro buddista: “Dopo l’estasi, il bucato”.

Idlib, assalto ai turchi: Putin frega Erdogan

Mentre il presidente Erdogan si svegliava a Osaka per partecipare al G20, almeno un soldato turco veniva ucciso e altri tre rimanevano feriti in un attacco sferrato dall’artiglieria di Damasco contro uno dei 12 punti di osservazione turchi stabiliti nella roccaforte ribelle di Idlib, nel nord-ovest della Siria, al confine con la Turchia.

Si tratta del primo militare di Ankara la cui morte viene attribuita a un raid dell’esercito siriano da quando tre mesi fa il presidente siriano Bashar al Assad, con il consenso e il supporto fondamentale di Mosca, ha dato il via ai bombardamenti contro i jihadisti di Tayir al Sham (ex al Nusra), la coalizione di estremisti islamici legati ad al Qaeda e Lnl, ovvero l’ex esercito siriano libero sostenuto dalla Turchia. Le autorità turche hanno subito convocato l’incaricato diplomatico di Mosca ad Ankara minacciando di rispondere con una “dura punizione”. Gli attacchi sono stati lanciati da territori controllati dalle forze governative siriane e, secondo una nota ufficiale del ministro della Difesa turco, sarebbero stati effettuati deliberatamente contro i militari turchi e non contro i ribelli come invece sottolinea il governo siriano. Dopo l’evacuazione dei feriti, i militari turchi hanno aperto il fuoco sulle posizioni delle forze governative siriane da cui sono stati lanciati gli attacchi. La Siria e la Russia hanno iniziato a bombardare l’ultima roccaforte siriana – dove sono convogliate in questi 8 anni di guerra tutte le formazioni terroristiche e ribelli – lo scorso aprile facendo molte vittime anche tra i civili. Il ministro degli esteri siriano Walid al-Moualem ha più volte ripetuto che Damasco non vuole alcun conflitto con la Turchia sottolineando tuttavia che “Idlib è parte del territorio siriano e noi combattiamo solo contro i terroristi”. Tradotto: l’esercito turco ha invaso illegalmente il nostro territorio ma il nostro obiettivo rimane la distruzione dei gruppi terroristi.

La Russia e la Turchia, l’anno scorso avevano stipulato un accordo per creare una zona demilitarizzare nella regione nord-occidentale dove vivono circa tre milioni di persone. Ma questo accordo ha vacillato fin dall’inizio del 2019 a causa della mancata implementazione della prima tappa della road map da parte dei gruppi jihadisti. Questi avrebbero dovuto consegnare le armi ai “garanti”, ma non lo hanno fatto, continuando a combattere tra loro costringendo parte della popolazione a fuggire oltre confine e, ora, a causa della chiusura dei valichi con la Turchia, a cercare ripari di fortuna sotto gli ulivi. La situazione dei civili si sta aggravando non solo per i bombardamenti siriani e russi ma anche per le condizioni climatiche e soprattutto per l’impossibilità di ricevere aiuti dalle organizzazioni umanitarie che non hanno ottenuto il permesso di entrare nella piccola regione per allestire campi profughi e fornire aiuti di base. Le Nazioni Unite hanno più volte lanciato l’allarme sull’ennesima catastrofe umanitaria che coinvolge i civili siriani. La tensione nell’area è aggravata dai rapporti molto tesi tra Turchia e Stati Uniti, storici alleati Nato, a causa della virata a favore della Russia di Ankara che ha deciso di acquistare il sistema di difesa antimissile russa S-400 anziché i Patriot Usa.

La Cassazione ha deciso: Vincent Lambert può morire

La sorte di Vincent Lambert ora è rimessa nelle mani dei medici, che in qualsiasi momento possono staccare le macchine che lo alimentano. L’ex infermiere di 42 anni, tetraplegico da quando è stato vittima di un incidente stradale nel 2008, vive bloccato in un letto dell’ospedale di Reims, in stato vegetativo, da più di dieci anni. E da sette è al centro di una battaglia legale che oppone la moglie, Rachel, favorevole, come i medici, a interrompere le cure, e i genitori, che insieme ad atri figli si battono invece per tenerlo in vita.

Il suo caso drammatico, simbolo suo malgrado del dibattito sul fine vita in Francia, è stato già al centro di 34 decisioni di giustizia. La sentenza di ieri della Corte di Cassazione è definitiva: i giudici hanno di fatto autorizzato il medico di Vincent, il dottor Sanchez, a staccare la sonda che alimenta e idrata il paziente, nel rispetto della legge Claeys-Leonetti del 2016 (revisione della legge Leonetti sul fine vita del 2005) che vieta l’“ostinazione irragionevole” sui malati senza alcuna speranza di miglioramento.

Il protocollo di fine vita, che prevede una “sedazione profonda” fino alla morte, può riprendere. In tutti questi anni, tutte le Corti, nazionali e internazionali, e i tanti periti intervenuti sul caso, hanno dato ragione ai medici di Vincent. Per loro tutto il possibile è stato tentato ma purtroppo la condizione di semi-coscienza del paziente è irreversibile. Il 20 maggio, dopo l’ultima conferma del Consiglio di Stato del 24 aprile, il dottor Sanchez, con l’accordo di Rachel Lambert, ha dunque staccato il sondino dell’alimentazione. Ma, poco dopo, a sorpresa, la Corte d’appello di Parigi, su richiesta dei genitori di Vincent, aveva ordinato lo stop della procedura e le macchine erano state riattaccate.

È una lunga e drammatica battaglia quella di Viviane e Pierre Lambert, iniziata nel 2013, da quando cioè i medici, non ottenendo risultati, avevano deciso, per la prima volta, di interrompere le cure sul figlio. Da allora i genitori si sono rivolti a tutti i tribunali francesi arrivando fino alla Corte europea dei diritti umani. Tutti i loro ricorsi sono stati respinti, ma sono riusciti a rinviare una conclusione che sembra diventare sempre più inevitabile. In ultimissimo ricorso Viviane e Pierre Lambert hanno fatto appello al Comitato dell’Onu per i diritti delle persone con handicap, che ha chiesto alla Francia di dar loro il tempo di analizzare il caso.

Le misure provvisorie dell’Onu però sono solo consultive e non possono sospendere una decisione di giustizia francese. La Cassazione ieri, dichiarando i giudici non competenti, ha dunque cancellato la sentenza in Appello che aveva ordinato la ripresa delle cure nell’attesa proprio del responso del comitato Onu, permettendo di riprendere la procedura del fine vita. “Non ci sono più ricorsi possibili. Questo è il punto finale”, ha detto l’avvocato di Rachel Lambert, Patrice Spinosi. I legali dei genitori invece minacciano di denunciare il dottor Sanchez per “omicidio premeditato su persona vulnerabile” se Vincent dovesse morire.

Per loro non è un malato in fin di vita ma una persona con un handicap grave. “Il solo fatto che sia handicappato non giustifica l’interruzione delle cure – ha detto l’avvocato Jérôme Triomphe –. Questa è discriminazione”. Il ricorso al comitato Onu è dunque per loro legittimo. Dure sono anche le parole contro lo Stato che, facendo ricorso in Cassazione, si è schierato dalla parte dell’ospedale di Reims: “La Francia non può mettersi da sola al bando delle nazioni civilizzate e rischiare di essere condannata dall’Onu in futuro”, ha detto il legale, minacciando procedure giudiziarie anche contro alcuni ministri.

Lunedì, Viviane Lambert porterà la sua causa davanti alla Corte dei diritti umani di Ginevra e denuncerà quello che secondo lei è l’“accanimento” della Francia contro suo figlio.

Harris fa nero Biden. Sanders non sfonda. Derby Castro-O’Rourke

Tutti contro Donald Trump, l’avversario comune, definito “bugiardo” e “razzista” e preso di petto sull’immigrazione: “Nel gennaio del 2021 diremo ‘Adios Trump’”. Ma anche tutti contro tutti, perché bisogna sfoltire il gruppo, buttare fuori i comprimari, frenare i battistrada. Così, Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama, otto anni alla Casa Bianca, finisce sulla difensiva, nel secondo dibattito in diretta tv fra gli aspiranti alla nomination democratica per Usa 2020.

I candidati sono così tanti – 24 – che due palchi successivi di dieci ciascuno non bastano a farceli stare tutti. Più ricca la seconda serata: i grandi vecchi, Biden e il senatore Bernie Sanders, si battono fra di loro, ma devono soprattutto difendersi da Kamala Harris, senatrice della California, aggressiva e competente.

La Harris non dà tregua a Biden: gli contesta i risultati di Obama, pure sul fronte dell’immigrazione, dicendosi contraria alla politica dei rimpatri forzati; e gli rimprovera battute dal sapore nostalgico sui tempi del segregazionismo e ritrosie sull’integrazione razziale nelle scuole negli anni Settanta.

Biden, la Harris, Sanders e il sindaco di South Bend Pete Buttigieg sono gli unici a parlare oltre dieci minuti ciascuno nella seconda serata. Nella prima, il tempo di parola è meglio distribuito: Cory Booker e Beto O’Rourke hanno oltre dieci minuti, ma quelli che ne escono meglio sono Elizabeth Warren e il sindaco di San Antonio Julian Castro, partito in sordina, ma che forse sta ingranando. Deludente, la prima sera, il sindaco di New York Bill De Blasio, poco presente e poco incisivo; impalpabile, la seconda, Andrew Yang, origini cinesi – ha parlato per meno di 3’ –. La presenza di alcuni tenori ha polarizzato il secondo dibattito: le idee progressiste di Sanders sono state animatamente dibattute, ma il senatore del Vermont non è stato il protagonista della serata. Biden doveva mostrarsi al passo con i tempi e fare dell’esperienza un vantaggio, non un handicap, per evitare che il suo vantaggio dei sondaggi iniziali evapori.

La prima sera, con meno stars sul palco, c’erano stati meno attacchi personali e più discussioni sulle politiche: sono venute fuori divergenze sull’immigrazione e sull’economia; ed è chiaramente emerso lo spostamento a sinistra dei democratici, nella scia del trionfo dell’ala liberal alle elezioni di mid-term. La sfida maggiore? Per molti, il clima; per alcuni, la Cina o la Russia. Queste le pagelle di alcuni protagonisti del doppio dibattito:

Joe Biden, 77 anni non ancora compiuti, voto 7. Se la cava bene, con il sorriso, anche quando lo mettono alle strette. Un outsider, Eric Swalwell, lo aggredisce: “Quand’ero bambino sentivo un politico dire che avrebbe passato la torcia, lasciato spazio ai giovani. Quel politico era Joe Biden”. L’ex vicepresidente prontamente replica: “La torcia, per ora, la tengo ancora in mano io”.

Bernie Sanders, 77 anni già compiuti, voto 6. Le sue idee sono molto discusse (e molto criticate), ma lui non riesce a essere protagonista. Partecipa agli attacchi a Biden, ma è vulnerabile sul fronte dell’età, e soffre il fatto di non essere al centro dell’attenzione, ne pare persino un po’ indispettito.

Kamala Harris, 54 anni, voto 8 . La senatrice si prepara a essere una delle protagoniste della corsa alla nomination: madre indiana, padre giamaicano, può colmare in fretta il gap di notorietà. C’è già chi le cerca un partner per il ticket presidenziale. Spigliata, sicura, determinata, e anche ironica, è dentro tutti i momenti topici.

Pete Buttigieg, 37 anni, voto 7. È un cocco della stampa di qualità e liberal, piace ai columnist del Nord-Est e della California, è gay – sposato con un insegnante di una Scuola Montessori –, ha sorriso gentile e battuta pronta: “Questo a Washington è il momento della mia generazione”.

Elizabeth Warren, 70 anni, voto 7. Le tocca il dibattito meno brillante, ma lei è più a suo agio quando può spiegare che quando deve battibeccare. A chi le chiede se i suoi programmi economici non rischiano di frenare la crescita, risponde: “l’economia sta andando alla grande” per “una fetta sempre più sottile di gente ricca”.

Cory Booker, 50 anni, voto 5. Ci si aspettava di più dal senatore nero, la cui oratoria ricorda quella di Obama, ma che non gestisce bene tempi di risposta troppo stretti.

Julian Castro, 44 anni, voto 6 e mezzo. L’ispanico che non t’aspetti c’è: si misura con Beto O’Rourke, 46 anni, voto 4 e mezzo, l’ispanico che t’aspetti e che c’è poco. Castro insiste sulla decriminalizzazione dell’immigrazione illegale e sfida O’Rourke a fare altrettanto. Sono entrambi texani: può diventare un derby a per il campione degli ispanici.