A Roma emergenza rifiuti. Campidoglio: “Colpa della Regione”

Si è svegliata tra i miasmi la Capitale, alla vigilia del weekend più torrido, tra cassonetti in fiamme nel quartiere Portuense e ispettori Asl in giro per tutta la città a segnalare all’Ama i cumuli di rifiuti più insopportabili, per dimensioni e posizione. E la sindaca Virginia Raggi si sente “in guerra, la guerra dei rifiuti” e scrive su Facebook: “Incendi nei Tmb, fuoco ai cassonetti, danni alle strutture e ai mezzi di Ama. Roma è sotto attacco e non siamo solo noi a dirlo. Parlano i dati, le inchieste e i report delle forze dell’ordine”. Intanto, fanno sapere dal Campidoglio, è partito il piano straordinario di pulizia della città, con l’igienificazione e la sanificazione attorno ai cassonetti con “1500 interventi al giorno”, in particolare vicino agli ospedali. Un allarme lanciato ieri anche dalla Regione Lazio, che aveva messo in allerta le Asl: “C’è una situazione di grave degrado urbano”, spiegano dalla Roma 1. Il sistema è in affanno, con gli impianti saturi o fuori uso, e la spazzatura che di conseguenza si accumula. Dal Campidoglio l’amministrazione Raggi si difende: “Scarsa collaborazione della Regione”, in ritardo “nell’approvazione del suo piano rifiuti”.

L’eterno ritorno dello “Sciacallo” non basta per riscrivere la storia

Una perizia disposta dalla Corte d’assise che sta processando il nero Gilberto Cavallini per la strage di Bologna ha fatto esultare i neri Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, già condannati per l’attentato: “Dimostra che noi siamo estranei e conferma il ruolo di Carlos”. È, nelle speranze dei due terroristi dei Nar (i Nuclei armati rivoluzionari), la rinascita della “pista palestinese” che attribuirebbe l’attentato al gruppo guidato da Ilich Ramírez Sánchez detto Carlos, lo “Sciacallo” del romanzo di Frederick Forsyth. Terrorista, mercenario, venezuelano per nascita, palestinese per cittadinanza, sedicente rivoluzionario marxista-leninista, forse agente del Kgb, Carlos, insieme a due terroristi tedeschi di estrema sinistra, Thomas Kram e Christa Margot Frohlich, è stato più volte negli anni scorsi indicato come possibile responsabile della strage, che sarebbe stata provocata da esplosivo palestinese: l’ennesimo depistaggio, secondo i magistrati, per cercare di salvare i neri dei Nar.

Ma davvero la nuova perizia rimette in circolo il vecchio depistaggio? No. La storia è molto diversa. Tra il maggio e il luglio 2018, il presidente della Corte d’assise Michele Leoni nomina due consulenti tecnici, l’esperto geominerario ed esplosivista Danilo Coppe e il tenente colonnello del Ris carabinieri Adolfo Gregori. Incarico: spiegare quale esplosivo è stato usato per la strage e se è compatibile con le “indicazioni tecniche fornite da Sergio Calore”, terrorista nero, in un suo interrogatorio del dicembre 1987. Coppe e Gregori si mettono al lavoro e il 30 giugno 2019 consegnano il loro rapporto di 162 pagine. Allineano fatti, ricerche, analisi di laboratorio. Certificano che l’esplosivo della strage di Bologna è compatibile con quello utilizzato in quegli anni dai fascisti. Poi, a pagina 141, riferendosi a un interruttore che hanno trovato tra i reperti e che potrebbe forse essere quello del detonatore dell’ordigno, scrivono due righe: “Dispostivi simili risultano essere stati presenti nell’ordigno destinato a Tina Anselmi e anche a quello trasportato dalla Christa Margot Frohlich quando arrestata a Fiumicino”. Ecco dunque comparire il nome della Frohlich, terrorista di sinistra, forse legata al gruppo di Carlos, che quando fu arrestata nel 1982 aveva con sé una valigia che conteneva materiale esplosivo. Indagata per strage insieme a Kram, fu con lui archiviata per inconsistenza della cosiddetta “pista palestinese”. A queste due righe dei consulenti si attaccano Mambro e Fioravanti per rilanciare una pista che possa scagionarli. Ma tutto il resto delle 162 pagine non li scagiona affatto. Anzi: non li scagiona neppure la metà di quelle due righe, perché “l’ordigno destinato a Tina Anselmi”, allora presidente della commissione parlamentare d’indagine sulla P2, non ha certo niente a che fare con la “pista palestinese” e ha invece molto a che fare con gli stragisti fascisti finanziati e protetti dal Maestro Venerabile della loggia P2, Licio Gelli.

Che cosa dicono, davvero, i due consulenti? Che “l’ordigno esploso il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna era costituito essenzialmente da Tritolite e/o Compound B (Tnt + Rdx o T4) di sicura provenienza da scaricamento di ordigni bellici (seconda Guerra mondiale)”. Che è difficile comparare l’esplosione di Bologna con altri attentati, ma qualche analogia potrebbe essere trovata con “l’attentato al treno Italicus”, strage nera realizzata nel 1974. Che le dichiarazioni di Calore sono confermate: “Si può riferire che, nelle indicazioni del Calore, emerge un’evidente congruenza circa l’origine dell’esplosivo derivante dallo scaricamento di residuati bellici”.

Insomma: il suggestivo richiamo all’ordigno “rosso” della Frohlich è una riga, annegata nelle migliaia di righe che confermano la presenza dell’esplosivo “nero” per eccellenza, il T4, tritolo militare recuperato negli anni Settanta dai fascisti di Ordine nuovo.

Lo racconta la sentenza-ordinanza firmata nel 1998 dal giudice istruttore Guido Salvini. Spiega come il gruppo fascista fondato da Pino Rauti, che aveva tra i suoi dirigenti Massimiliano Fachini e Carlo Maria Maggi (condannato per la strage di Brescia), recuperava gli ordigni che i nazisti in fuga dall’Italia nel 1945 avevano affondato nei laghi del Nord. “Esponenti del vecchio gruppo veneto di Ordine Nuovo (fra i quali, in particolare, Massimiliano Fachini e Roberto Rinani)”, scrive Salvini, avevano raccolto “una notevole quantità di esplosivo recuperato da residuati bellici (si pensava, allora, come luogo di recupero, al lago di Garda e non ai laghetti di Mantova, indicati nella presente istruttoria da Carlo Digilio), inviati tramite emissari alla struttura romana erede di Ordine nuovo per il successivo utilizzo sia nei grandi attentati, pur senza vittime, del 1978/1979 (l’attentato al Campidoglio, alla sede del Csm e così via) sia alla strage alla stazione di Bologna”.

È Digilio, l’esperto di armi ed esplosivi di Ordine nuovo, a raccontare a Salvini i “ripetuti e massicci invii di esplosivo, sia tritolo sia altro esplosivo di provenienza bellica, alla struttura romana a partire dal 1978”. Niente “pista palestinese”, dunque: la strage di Bologna resta nerissima.

Consip, il difensore di Del Sette: “Non ha mai violato il segreto”

“Il generale non ha mai rivelato alcuna indagine. È giusto che termini quello che è un dramma istituzionale e personale che Tullio Del Sette, comandante generale dell’arma, ha subito in una vicenda che non lo deve vedere ulteriormente coinvolto”. È quanto afferma l’avvocato Roberto De Vita, difensore dell’ex comandante generale dei carabinieri al termine dell’udienza preliminare sulla vicenda Consip in cui il generale è accusato di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento. Secondo l’accusa Del Sette avrebbe raccontato all’ex presidente di Consip dell’esistenza di una indagine in corso sull’imprenditore Alfredo Romeo e di essere cauto nelle comunicazioni. con l’invito a essere cauto nelle comunicazioni. “Ci siamo difesi entrando nel merito e dimostrando l’impossibilità del favoreggiamento: all’epoca del colloquio con Ferrara, non erano ancora state disposte intercettazioni nei confronti dell’ex presidente Consip e dell’allora ad Luigi Marroni”. Per il penalista “le dichiarazioni di Ferrara sono lineari e credibili: interrogato due volte a Napoli e una volta a Roma, ha escluso nel modo più assoluto che Del Sette gli abbia riferito dell’indagine a Napoli”.

Quando il Pd li portava sul palco come modello

“Si annuncia l’intenzione di promuovere in Val d’Enza un incontro pubblico della commissione, per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema”. Siamo nel 2015, il centro “La Cura” non esiste ancora, i bambini sono con le loro famiglie e nei palazzi di viale Aldo Moro, sede della Regione Emilia-Romagna, i consiglieri discutono. Di un territorio reggiano dove viene segnalato un numero più alto del normale di minori abusati. Tra gli ospiti, invitati dalla dem Roberta Mori della Commissione parità, il sindaco di Bibbiano (Reggio Andrea Carletti e Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali. Oggi sono entrambi ai domiciliari ma quattro anni fa raccontavano dell’eccellenza del modello reggiano: il numero alto degli abusi riscontrati non era casuale, ma segno del buon lavoro compiuto. Come a dire, le violenze sono ovunque noi siamo più bravi a farle emergere.

“È stata molto importante la volontà di proseguire l’ascolto delle giovani vittime anche dopo aver raccolto un numero apparentemente sufficiente di informazioni” dichiarava Anghinolfi. Proprio per continuare “viste le competenze acquisite nell’ultimo anno, vorremo creare sul territorio un Centro specialistico sul trattamento dei minori vittime di violenza insieme all’Ausl di Reggio Emilia”. Infatti, poco più di un anno dopo aprirà ‘La Cura’ alla presenza, tra gli altri, di Roberta Mori.

Quella stessa estate, 2016, Anghinolfi viene invitata a un incontro alla festa de l’Unità a Bologna: “Avere cura dell’infanzia”. Con lei sul palco, tra gli altri, l’allora deputata Sandra Zampa, autrice della legge sui minori non accompagnati che è una delle più avanzate del mondo. Nessuno può pensare, in quel momento, ai bambini plagiati fino al punto di “ricordare” abusi mai avvenuti. Per il Partito democratico la realtà di Foti è la migliore, lo dimostrano i dati delle violenze smascherate. Più abusi (falsi) venivano segnalati e più crescevano i soldi e la stima. Più abusi, più fondi. “Il sistema Emilia li ha fatti entrare e li ha resi potenti, trovo assurdo che adesso si vogliano costituire parte civile nel processo – evidenzia Galeazzo Bignami, deputato bolognese di Forza Italia – non voglio generalizzare o sentenziare ma non facciano gli scandalizzati quando li portavano ovunque come esempio virtuoso”. Un meccanismo paradossale, incentivato da una profonda divisione di pensiero.

Da un lato coloro che credono nella ‘Carta di Noto’, il protocollo con le linee guida deontologiche per lo psicologo forense, quando si trova di fronte ad abusi su minori. Dall’altro il Centro Hansel & Gretel di Moncalieri (Torino)e i suoi sostenitori, come i responsabili del centro “La Cura” di Bibbiano finiti nell’inchiesta, che la ritengono “una roba scritta da quattro pedofili”, come ribadito da uno degli indagati. Già da alcuni anni il centro non è più socio del Cismai (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’ abuso dell’infanzia)

“Il Cismai non ha tra i suoi soci il centro Hansel & Gretel. Certo anche noi – dice la presidente Gloria Savi – come moltissime realtà, abbiamo avuto rapporti e occasioni di confronto, ma le nostre linee guida, revisionate nel 2015, raccomandano grande cura nell’evitare elementi di ‘suggestione positiva’ che sovrappongono idee, ipotesi e sentimenti dell’adulto alla narrazione del bambino, anticipando situazioni o particolari che possano condizionare il minore e alterare la qualità dell’ascolto. Non contemplano strumenti invasivi”, sottolinea Savi, riferendosi alla famigerata “macchinetta dei ricordi” utilizzata dagli indagati.

I “ruba bambini” dell’Emilia e la rete dei giudici “distratti”

“Facile ipotizzare per alcuni indagati i tentativi di sviare le indagini valendosi anche di contatti con organi giudiziari con specifica competenza sui ‘casi’ dei minori oggetto di focalizzazione investigativa”. C’è un passaggio nelle carte dell’inchiesta “Angeli e Demoni” che apre diversi interrogativi sul sistema di affido in uso nella provincia di Reggio Emilia. Pochi giorni prima di Natale scorso Claudio Foti, psicoterapeuta leader del Centro Hansel & Gretel, discute con Francesco Monopoli, assistente sociale, di un convegno. Entrambi oggi sono agli arresti. Il tema è l’eccellenza de “La Cura”, il centro a Bibbiano dove, secondo gli investigatori, i minori strappati alle famiglie subivano il lavaggio del cervello a 135 euro l’ora. “Io ho un giudice di Bologna che mi avrebbe aiutato su questo aspetto… mi ha detto ‘guarda che c’è tutto un giro su queste situazioni’”. A parlare è Monopoli ma la conversazione non è chiara.

I due tornano sul convegno, l’assistente sociale precisa che “il giudice amico” è Mirko Stifano, togato del Tribunale per i Minorenni di Bologna. Foti coglie la palla al balzo e decide di invitarlo. Il convegno alla fine non si fa, ma non è la prima volta che Foti prova ad ingraziarsi il giudice. Nel 2016 Stifano partecipa a Bibbiano a un incontro. Con lui sul palco anche Elena Buccoliero, giudice onorario al Tribunale dei Minori bolognese e presidentessa della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati. Il legame con il centro Hansel & Gretel sembra profondo, come scrivono gli inquirenti: “Manifesta una sicura amicizia e pieno sostegno per Federica Anghinolfi – dirigente dei servizi sociali arrestata – e il suo operato”. In particolare per quelle relazioni ritenute dalla pm Valentina Salvi false e tendenziose. Per Buccoliero erano ottime, come risulta dall’ordinanza: “Ci capitano camere di consiglio dove colleghi, non io perché siamo anche un po’ amici, che dicono ‘finalmente una bella relazione ben fatta, un’indagine sociale buona che ci dà tutti gli elementi per capire’ e sono le vostre e non capita spesso”. Tutto legittimo. Nel 2010 Buccoliero segue il corso “per conduttori” diretto da Claudio Foti, “sull’intelligenza emotiva”.

Nel 2012 termina un altro corso di perfezionamento, sempre al Centro Hansel & Gretel. “C’è un’indagine in corso e mi attengo a quanto stabilirà la magistratura” dice oggi. Sulla “macchinetta dei ricordi” usata in terapia per trasmettere un impulso elettromagnetico ai bambini e “incentivare” i ricordi (falsi) risponde netta: “Ho seguito molti corsi e convegni ma non ne sapevo nulla, non è mai stata nominata non ero assolutamente a conoscenza della sua esistenza o utilizzo”. Buccoliero non ricorda chi sia Francesco Morcavallo, dal 2009 al 2013 giudice con lei a Bologna. “Sono passati tanti anni, non ricordo tutti”. Morcavallo invece la ricorda bene: “Era una dei giudici che più violentemente reagì quando denunciai proprio il tipo di situazioni scoperchiate oggi. Non è strano, è un vero e proprio conflitto di interessi. Mi ricordo che una volta mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come ‘tutore’ del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare. Uno studio ministeriale del 2010 calcolava che i minori portati via in tutta Italia fossero meno di 40 mila, solo in Emilia 3.599. Credo sia più alto, sopra i 50 mila casi per un indotto di un miliardo e mezzo annuo sottratto allo Stato”. Dopo gli anni bolognesi Morcavallo ha abbandonato la toga: “Le irregolarità erano completamente organiche nella gestione di allora del Tribunale minorile, vere e proprie patologie che oggi sono esplose. Finché ci saranno giudici che non decidono sulla base dei fatti ma sui giudizi altrui espressi in una relazione e non verificano con una vera istruttoria Reggio Emilia non rimarrà un caso isolato”.

Non rispondono al gip il fratello e il nipote del boss Grande Aracri

Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere Francesco, Salvatore e Paolo Grande Aracri, rispettivamente fratello e nipote del boss Nicolino già coinvolto in “Aemilia”, il più grande processo al nord contro la ’ndrangheta. I tre familiari del boss sono stati arrestati a Brescello, nella Bassa reggiana dove la cosca aveva messo radici, durante il blitz della polizia nell’operazione “Grimilde” nella notte fra lunedì e martedì scorso. Sono comparsi in un’aula del tribunale di Reggio Emilia, accompagnati dagli agenti penitenziari, davanti ai gip Giovanni Ghini e Luca Ramponi per gli interrogatori di garanzia delegati dal gip di Bologna. Hanno deciso di non parlare o rispondere a domande. Dopo di loro sono stati ascoltati alcuni degli altri arrestati. “Noi non c’entriamo niente con la ’ndrangheta, sono cose che in casa nostra non sono mai entrate; paghiamo il fatto di chiamarci Grande Aracri”. Sarebbe questa l’unica frase, secondo quanto appreso successivamente, che avrebbe detto Paolo Grande Aracri al giudice per le indagini preliminari.

“Non ho mai lasciato solo il confidente Oriente”

“Comprendo e rispetto il dolore di una figlia, ma Luana deve sapere che Luigi Ilardo io non l’ho mai lasciato solo. Chi ha armato la mano dei suoi assassini ha distrutto anche me”. Michele Riccio è l’ufficiale dei Carabinieri che gestì l’operazione “Oriente”, l’infiltrazione del mafioso Luigi Ilardo dentro Cosa Nostra con l’obiettivo di catturare Bernardo Provenzano. Una missione segretissima iniziata nel ’93, quando Riccio lavorava per la Dia con Gianni De Gennaro. Fu il superpoliziotto che gestì con Falcone la collaborazione di Buscetta a volerlo per quell’incarico.

Riccio, già braccio destro del generale Dalla Chiesa, conosceva bene le tecniche dell’infiltrazione per averle sperimentate nella guerra alle Brigate rosse. La Sicilia però è un terreno minato, non ci si può fidare di nessuno. E quando De Gennaro lascia la Dia, Riccio deve continuare l’operazione con i Ros di Antonio Subranni e Mario Mori, gente con cui non si è mai preso bene. Mori, in particolare, finirà per ostacolarlo e mettere a rischio la vita di Ilardo fin dal 31 ottobre ‘95, quando il boss infiltrato porta i Ros fino al covo di Bernardo Provenzano a Mezzojuso. Quel giorno l’ordine di Mori è perentorio: “Non intervenire. Osservare e basta”.

Colonnello Riccio, Luana Ilardo la accusa di avere abbandonato il padre al suo destino.

Non è così. Il giorno in cui Ilardo fu ucciso ci eravamo incontrati nella sua azienda agricola di Lentini. Nel pomeriggio mi accompagnò in aeroporto e mi salutò dicendomi che la sera sarebbe andato a cena con la moglie. Poco dopo mi raggiunse il capitano Damiano dei Ros. Era cadaverico, mi disse che il procuratore di Caltanissetta Tinebra aveva fatto trapelare la voce della collaborazione di Ilardo. Istintivamente accesi il registratore che tenevo in tasca e registrai tutto.

Perché non avvisò subito Ilardo del pericolo incombente?

Ero furibondo. Chiamai il generale Mori, gli urlai che avrei denunciato tutti alla magistratura. Provai a chiamare Ilardo ma non riuscii a rintracciarlo. Lui comunque mi avrebbe telefonato a tarda sera, come sempre. Presi l’aereo per Genova, arrivai a casa e trovai mia moglie in lacrime: sul Televideo c’era la notizia dell’omicidio.

Perché in tutti questi anni non ha cercato un contatto con la famiglia di Ilardo?

Per evitare strumentalizzazioni. E per proteggerli. Io sono stato distrutto. Le parole di Ilardo sono state profetiche: “Vedrà quante ce ne faranno passare”, mi disse. Il giorno dopo l’omicidio, il numero uno dei Ros Antonio Subranni [condannato con Mori a 12 anni nel processo di primo grado sulla Trattativa Stato-mafia, ndr] mi irrise: “Povero Riccio, ti hanno ammazzato il confidente”.

Quello di Ilardo è un delitto di Stato?

Ilardo è una vittima di mafia mandato al macello dallo Stato. La sua collaborazione avrebbe provocato un terremoto nei palazzi del potere, ancora più che dentro Cosa Nostra. Per questo da vivo hanno provato a neutralizzarlo: Tinebra ne voleva fare un altro Scarantino, ma Ilardo era di un’altra pasta. E da morto lo hanno mascariato: sporcato e dimenticato.

“A Locri la ’ndrangheta sposta le tombe: ruspe sulle cappelle abusive”

“Li vede quei due loculi? Al loro posto doveva esserci la tomba di una signora, morta molti anni fa. I suoi nipoti l’altro giorno volevano portarle un fiore e non l’hanno trovata. Sono venuti al Comune per chiedere che fine avesse fatto, ma qui nessuno sa niente”.

Il sindaco di Locri, Giovanni Calabrese, è disperato. Qui la ’ndrangheta tiene in ostaggio i vivi ma anche i morti. Tombe che scompaiono e tombe che spuntano in mezzo ai viali o in posti impossibili da raggiungere per i familiari. Bare e salme che all’improvviso non si sa che fine abbiano fatto e si dice possano essere finite nella spazzatura sperando che nessuno se ne accorgesse. Da oltre 40 anni il cimitero di Locri è una giungla. A metà giugno, però, il Comune ha inviato le ruspe per abbattere le tombe abusive. Quelle vuote sono state già demolite. Per le altre sono in corso verifiche. “La cosa paradossale – dice il sindaco passeggiando per il cimitero – è che nessuno sa di chi sono le tombe. In pochi si sono lamentati per la demolizione della cappella”.

È il risultato di una lottizzazione selvaggia delle aree cimiteriali: una sorta di mercato delle vacche dove si consuma la compravendita illegale dei posti e degli spazi che, in realtà, sono pubblici e dovrebbero essere dati in concessione dal Comune ai cittadini che ne fanno richiesta. Arriviamo al centro del cimitero, c’è una sorta di piazzale e il sindaco si avvicina a una porta che conduce a un’area sotterranea. L’ingresso è sfondato ma “questo doveva essere l’obitorio comunale: non è mai entrato in funzione. Anzi non so neanche cosa ci sia lì sotto”. Tutte attorno ci sono piccole cappelle abusive, di colore marrone e beige. Assomigliano alle cabine di un lido balneare. Per non parlare di quelle costruite a forma di casa con tanto di tegole, aiuole per le piante e ossari che sembrano soffitte. Alcune tombe sono tutte murate con un buco al centro, simile al bocchettone delle prese d’aria obbligatorio per le cucine che funzionano a metano. “La vede quella tomba? Mi dica come è possibile raggiungerla se attorno ne sono state realizzate altre che non consentono il passaggio?”. Se non fosse un cimitero, la scena sarebbe anche comica. Il punto, però, è che lì dentro c’è chi da anni gestisce tutto: dal servizio di ambulanze e pompe funebri, alla vendita di fiori e lumini, passando per le ditte di manovali che realizzano le cappelle e per i “mediatori” del Comune che rilasciano autorizzazioni a costruire ma non indicano dove e quindi pure sul marciapiede o in mezzo ai viali del cimitero alcuni dei quali ormai diventati vicoli ciechi non più percorribili.

Un business a tutto tondo per personaggi che “offrono” il pacchetto completo e senza i quali a Locri non ci si può permettere nemmeno di morire. Il sindaco Giovanni Calabrese ha denunciato la situazione più volte ai carabinieri. Ci sono state indagini ma la situazione non è mai cambiata. Da due settimane le ruspe del Comune hanno iniziato l’opera di bonifica demolendo le tombe abusive. “A questo punto – racconta Calabrese – si è arrivati perché per anni il cimitero è stata prerogativa di determinate famiglie. Qui ci sono interessi noti a tutti e probabilmente non facili da riscontrare. Questa è una cosa inaccettabile. I cittadini di Locri sanno la verità e i nomi – aggiunge il sindaco – La realtà di questo cimitero è che di fatto è una giungla. È evidente che questo stato di cose è stato agevolato dall’interno degli uffici comunali”.

Prima di Giovanni Calabrese, anche l’ex sindaco Francesco Macrì aveva denunciato, invano, ai carabinieri. “Il cimitero è la cosa di Locri peggiore – aveva fatto mettere a verbale nell’ottobre 2013 –. Se uno vuole mettere una luce deve andare da quello a pagare, se vuole un loculo deve andare da quello… cioè, il Comune non esiste. Il cimitero non è del Comune… ma è dei Dalì e company”.

Ora Calabrese ha piazzato anche le telecamere: “Qui stiamo parlando di ’ndrangheta, è evidente. Ma il cittadino è vittima. Anche quello a cui abbiamo demolito le tombe”.

Le raccomandazioni richieste da Longo a Casellati e Legnini

Richieste di raccomandazioni all’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e all’ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini per essere nominato capo della Procura di Ragusa: le avrebbe rivolte, nel 2016, l’ex pm di Siracusa Giuseppe Longo – coinvolto nell’inchiesta sul mercato delle toghe e con un patteggiamento per corruzione – secondo quanto riferito da lui stesso in due interrogatori. Lo scrive l’Espresso nel numero in edicola da domani. “Longo – scrive il settimanale – ha raccontato ai magistrati di Messina (e poi a quelli di Perugia) che lui, nella primavera del 2016, sarebbe riuscito a incontrare sia la Casellati, allora potente membro del Csm in quota Forza Italia, sia l’allora numero due di Palazzo Marescialli, esponente del Pd (Legnini, ndr). E che a entrambi ha chiesto una raccomandazione per essere promosso a capo della procura di Ragusa”. “Ho parlato con la Casellati della mia candidatura a Ragusa. Lei ha preso copia della mia domanda con i pareri di professionalità”, ha confermando Longo a l’Espresso, citando quanto detto ai magistrati aggiungendo che “l’incontro è avvenuto nel bar fuori al Csm” e che “promesse esplicite non ne sono state fatte”.

“Ho vinto, ma il posto non l’ho mai avuto”

Vittima simbolo di un sistema, ma anche esempio di chi decide di non abbassare la testa. Gianbattista Scirè poche ore dopo l’inchiesta Università blindata dentro di sé ha un vortice di emozioni. Perché lui con alcuni di quei baroni ai vertici del potere accademico ha combattuto, spesso in silenzio, per tanti anni. Emarginato nel tentativo di mettere sotto i riflettori un concorso ritenuto truccato. I fatti risalgono al 2011, quando Scirè ambiva al ruolo di ricercatore in Storia contemporanea alla sede di Ragusa dell’allora facoltà di Lingue dell’Università di Catania.

Otto anni dopo i professori della commissione che lo escluse sono stati condannata in primo grado per abuso d’ufficio con tutti i componenti interdetti dai pubblici uffici. Colpevoli, usando le parole della sentenza, “di avere agito con la consapevolezza di violare la legge”.

“Dopo questa inchiesta mi sento rincuorato perché finalmente ci sono dei responsabili. Ma dall’altro lato c’è un’istituzione a cui viene affiancata una presunta associazione a delinquere”. Scirè in tutto il suo ragionamento ha una certezza granitica: “Non mi sono meravigliato perché da tempo ho denunciato queste nefandezze e conosco bene quei nomi”. Ben otto anni passati tra ricorsi amministrativi e aule del palazzo di giustizia di Catania. Perché nella sua complicata vicenda si sfiora anche il paradosso. I giudici del Tar e del Consiglio di giustizia amministrativa siciliano, nel 2014 e nel 2015, sposano la tesi di Scirè e indicano, nero su bianco, che la vincitrice del concorso, l’architetta Melania Nucifora, non aveva i titoli. Motivo per cui il ricercatore, arrivato secondo in graduatoria, doveva essere chiamato nel posto che gli spettava di diritto. La sentenza però non è stata mai applicata. “Mi sono ritrovato da solo contro tutti – racconta al Fatto Quotidiano – E ancora oggi non ho ottenuto quello che mi ha certificato la legge”.

Da quel 2011 la vita di Scirè ha preso una piega diversa in tutti i sensi. Con il suo caso arrivato anche sul tavolo del ministero dell’Istruzione. “Il viceministro ha scritto all’Università per chiedere lumi sulla mancata applicazione della sentenza e la mancata costituzione in giudizio come parte offesa. Da Catania però non ha mai risposto nessuno”, tanto che il 3 luglio a Roma sarebbe dovuto volare il rettore, indagato e sospeso da ieri, Francesco Basile: “Era stato convocato imponendogli di trovare una soluzione. Anche perché nel dipartimento c’è ancora la persona che ha usufruito del favore. L’incontro però, dopo quanto emerso con l’indagine, non si potrà svolgere”.

Oggi Scirè porta avanti i lavori dell’associazione Trasparenza e merito che si occupa proprio dei concorsi universitari: “Dopo il mio caso la rotta è stata invertita. Bisogna denunciare senza avere paura. Riceviamo segnalazioni da tutta Italia in cui ci indicano i concorsi truccati e i vincitori dei bandi. Il nostro compito è affiancare queste persone in tutto il percorso”.

L’associazione del ricercatore ha già annunciato di volersi costituire parte civile nell’eventuale processo ai vertici dell’Università di Catania. “Il mio è un caso simbolo ma adesso c’è molta più consapevolezza e in tanti decidono, come ho fatto io, di non stare in silenzio. Un’idea per il futuro? In Parlamento andrebbe creata una commissione d’inchiesta sui concorsi universitari e, magari, si potrebbe partire proprio da Catania”.