“Metodi mafiosi in Ateneo”. Sospesi 7 prof, il rettore e l’ex

Un sistema “squallido con nefandezze di ogni tipo” dove alcuni tra i più noti professori dell’Università di Catania avrebbero agito con modalità “che, per certi versi, ricordano quello delle famiglie mafiose”. Nove professori sospesi: ci sono il rettore Francesco Basile, il suo predecessore, Giacomo Pignataro, il proretto Giancarlo Magnano San Lio e sei direttori di dipartimento. La Procura, per loro, aveva chiesto i domiciliari. Gli indagati sono in tutto 66, accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio, induzione indebita, falsità ideologica e materiale in atti pubblici, turbata libertà del procedimento e truffa aggravata. Secondo i pm, coordinati dal procuratore Carmelo Zuccaro, sarebbero stati pilotato 27 concorsi dell’ateneo di Catania; si indaga ancora su altri 97 casi. Tra gli indagati non colpiti da misure altri due rettori, Eugenio Gaudio della Sapienza di Roma e Marco Montorsi dell’Humanitas di Rozzano (Milano), l’ex procuratore capo di Catania Vincenzo D’Agata e Antonino Recca, anch’egli ex rettore di Catania.

I professori avrebbero confezionato abiti su misura per chi doveva accedere a determinate posizioni. I pm ritengono di aver individuato un codice di comportamentofatto di ricatti e scambio di favori. “Prima si decideva chi doveva vincere e poi veniva stilato il bando. I docenti che arrivavano dagli altri atenei d’Italia per fare parte delle commissioni venivano indirizzati sul nome dei vincitori”, spiega il sostituto procuratore Marco Bisogni.

Le origini dell’inchiesta e la lotta per il potere

Tutto comincia a giugno di tre anni fa, quando si consuma lo scontro tra l’allora rettore Pignataro e il direttore generale Lucio Maggio, uomo di fiducia dell’ex magnifico Recca e all’epoca sospeso dal servizio. In mezzo, tra appalti per la costruzione di nuovi edifici universitari ed esposti incrociati, c’è pure la querelle per lo statuto dell’Università, contestato per il troppo potere che attribuiva al vertice dell’ateneo. Magistrati e polizia scoprono il presunto sistema capace di condizionare, secondo l’accusa in maniera illecita, anche l’elezione dei componenti del cda: votati con “i pizzini… diciamo alla Stalin. Abbiamo fatto la riunione prima, come nel peggiore sistema democristiano, e quindi si è fatto il Consiglio”, dice un professore intercettato.

I protagonisti e le accuse dei pm

Tra i 66 indagati, 40 sono docenti all’Università di Catania e 20 di Bologna, Cagliari, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona.

I direttori di dipartimento sospesi dal servizio Uccio Barone (ex a Scienze politiche), Michela Cavallaro (Economia), Filippo Drago (Scienze biomediche), Giovanni Gallo (Matematica e Informatica), Carmelo Monaco (Scienze biologiche), Roberto Pennisi, (Giurisprudenza) e Giuseppe Sessa (presidente del coordinamento della facoltà di Medicina).

I concorsi truccati

Ad essere “particolarmente implicato” secondo Zuccaro è l’ex direttore del dipartimento di Scienze politiche Uccio Barone per un concorso che riguardava il figlio. In un’intercettazione con un interlocutore anonimo, il professore spiegava i dettagli di una selezione: “È bello tosto il concorso perché ci sono dieci domande con sette idonei fra cui lei… e vediamo chi sono questi stronzi che dobbiamo schiacciare”. In alcuni casi i bandi venivano indicati direttamente con i nomi dei vincitori. “Gli ho detto ‘Scusami Lucia, insomma questo è il concorso di Massimo non è che hai speranza’, spiegava mentre era intercettato Filippo Drago, direttore del dipartimento di Scienze biomediche. Rispondendo a precisa domanda del rettore Basile sullo stato “dei tuoi concorsi”.

Ritorsioni di sistema

Nel sistema Catania ci sarebbero state anche conseguenze per chi provava a mettere fuori uso gli ingranaggi. “Azioni ritorsive come i ritardi nelle progressioni di carriera”, sottolinea Zuccaro. Agli atti c’è un’intercettazione che secondo i pm tratta inequivocabimente questa modalità. Parla direttore del dipartimento di scienze Biologiche Carmelo Monaco. “Lui mi ha detto che non l’avrebbe fatto, il cretino. Vabbè lo distruggeremo, è un uomo finito. Non c’è problema, lo odiano tutti ormai. Ci divertiremo”.

Domani è la giornata decisiva per l’accordo sulle nomine europee

Domani potrebbe essere il giorno decisivo nella partita per le nomine europee. L’obiettivo è chiudere in giornata. Il presidente del Parlamento Antonio Tajani e i presidenti dei gruppi parlamentari si riuniscono con il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, in vista dell’Euco (il vertice che riunisce i capi di Stato e di Governo) convocato per le 18 a Bruxelles. I leader dell’Ue devono indicare un candidato alla presidenza della Commissione, e probabilmente anche il presidente del Consiglio Europeo. I lavori però rischiano di andare avanti fino a tarda notte e i leader europei potrebbero incontrarsi anche a colazione lunedì primo luglio lunedì. Prima del Consiglio europeo ci saranno i prevertici dei gruppi parlamentari. I nomi in lista per la presidenza della Commissione sono diversi: tra i favoriti c’è Michel Barnier, il capo negoziatore dell’Ue per la Brexit. Il principale ostacolo per il francese è la possibile opposizione della Germania, che potrebbe restituire alla Francia una “cortesia”: l’aver impallinato lo Spitzenkandidat del Ppe Manfred Weber.

Sala e i suoi fratelli: fuga dal Pd di Zingaretti

Comincia a farsi largo una domanda, tra chi osserva dall’esterno le curiose convulsioni della galassia democratica: ma nel Pd alla fine chi ci rimane?

L’ultimo a sentirsi stretto in quelle quattro mura è Beppe Sala: il sindaco di Milano ha dichiarato esplicitamente che ci vuole un nuovo partito, perché “il Pd non basta più”.

L’ha spiegato all’Espresso: “Il Partito democratico può crescere ancora, ma non più di tanto – sostiene Sala – Solo un nuovo soggetto può riportare al voto qualcuno che normalmente non va a votare, qualcuno che ha votato per i 5 Stelle, e perfino qualche elettore della Lega che fa fatica ad accettare l’estremismo e la cattiveria salviniana”.

È tutto un “allargare il campo”, dalle parti del Nazareno. Svuotando però la casa madre. Sala sostiene di non avere nessuna intenzione di fondare un partito moderato, il suo obiettivo non è coprire il Pd al centro: “I moderati sono la parte che mi interessa meno. Io mi considero, al limite, un moderato radicale. Dobbiamo evitare le etichette e parlare dei temi. Giustizia sociale e ambientale: in tutto il mondo la sinistra progressista discute di questo”. Allora perché non lo fa il Pd?

Le parole di Sala somigliano molto a quelle di Carlo Calenda. Anche nel suo caso fu galeotta un’intervista a Repubblica (questi annunci si fanno tutti sui giornali del Gruppo Gedi): “Sono iscritto al Pd e lavoro con Zingaretti, ma se serve sono pronto a fondare un partito che si allei con i dem”. Era il 29 maggio, all’indomani delle elezioni europee che per i dem sembravano essere una boccata d’ossigeno, una prova di sopravvivenza, quasi di vitalità.

L’uscita di Calenda di fatti non fu presa benissimo, lo stesso ex ministro fu rapidamente indotto a smussarla, spiegarla, quasi rinnegarla per mezzo dei soliti tweet: “Non ho mai detto che fonderò un partito. Ho anzi specificato che rimango nel Pd e solo se me lo chiedesse Zingaretti in vista di un’alleanza elettorale potrei dare una mano a costruire la gamba liberal democratica”.

Ora che anche Sala si iscrive al partito degli “oltristi” del Pd, pure Calenda ritrova fiato: “Condivido la visione di un Pd che non basta. E penso che Beppe sarebbe un pilastro fondamentale per una nuova aggregazione capace di battere i nazionalisti. Dunque iniziamo a lavorarci possibilmente insieme. Perché il tempo è poco e le divisioni già troppe”. Non fa una piega: le divisioni sono già troppe, quindi bisogna fare un nuovo partito.

E poi c’era lui: Matteo Renzi. Il primo e più convinto sostenitore della fuga dal Pd. L’ha meditata a lungo, dopo il disastro del 4 marzo 2018. Ha cercato il simbolo, commissionato un sondaggio (poco incoraggiante), agitato per settimane lo spettro di un nuovo partito “macroniano”. Alla fine ha desistito, ma continua a comparire e scomparire come un fantasma nel dibattito pubblico del centrosinistra: parla di “riorganizzazioni”, suggerisce che “le elezioni si vincono al centro”, lascia intendere che questa leadership silenziosa di Zingaretti, tanto diversa dalla sua, è destinata a durare poco. Se il Pd non cambia, prima o poi lui se ne andrà altrove.

E allora si ritorna alla domanda iniziale: visto che Sala vuole un altro partito, Calenda pure, Renzi gioca una partita tutta sua, e pure a sinistra alcuni dei più vicini a Zingaretti (Massimiliano Smeriglio, Giuliano Pisapia) non sono nemmeno iscritti, dentro al Pd chi ci rimane?

“A Bruxelles il M5S resta isolato anche perché alleato di Salvini”

Niente gruppo autonomo, niente sinistra, niente conservatori. A un mese dalle Europee, il M5S non ha ancora trovato il proprio gruppo parlamentare, complice il crollo alle urne degli alleati e le difficili trattative con le altre delegazioni. “Non era quel che auspicavamo – ammette Fabio Massimo Castaldo, uno dei big 5Stelle a Bruxelles – ma contiamo di non rimanere a lungo in questa situazione”. Il rischio è la perdita di ogni rilevanza politica.

Fabio Massimo Castaldo, il M5S è senza alleati in Europa.

Avremmo voluto creare un gruppo politico autonomo, post-ideologico, con un imprinting sui nostri temi. Siamo arrivati vicinissimi alla soglia richiesta, 25 deputati di 7 Paesi, ma al momento è necessario darci un orizzonte temporale maggiore.

Prima delle elezioni avete incontrato partiti croati, greci, polacchi e finlandesi, che però hanno raccolto un solo seggio. È stato un errore?

I sondaggi davano tre seggi ai polacchi, che invece non hanno superato la soglia di sbarramento per un soffio. Anche i croati sono andati sotto le aspettative, così come noi stessi ci aspettavamo almeno tre seggi in più.

I partiti di sinistra hanno rifiutato la vostra adesione?

No, non siamo stati noi a chiedere di entrare nel Gue. Sono stati alcuni esponenti della sinistra radicale ad avvicinarci.

La vostra alleanza con Salvini li ha fatti ricredere?

Abbiamo avuto diversi incontri con le delegazioni e in alcuni casi abbiamo dovuto ascoltare critiche per certe posizioni espresse dalla Lega. Non sempre è ben percepita la differenza, per noi fondamentale, tra alleanza e contratto di governo e questo un po’ lo paghiamo, nonostante anche in Grecia Tsipras sia andato al governo con un partito di destra dopo aver siglato un contratto.

Dunque l’alleanza con la Lega vi indebolisce in Europa?

Qualche ostacolo lo ha creato, soprattutto a causa di alcune posizioni di Salvini giudicate molto veementi rispetto alla visione espressa da diversi gruppi politici europei. Probabilmente hanno paura di essere accusati di avere nel gruppo chi governa con la Lega, ma questo è un problema loro, noi abbiamo mantenuto la nostra coerenza.

Spesso in Europa avete votato come la sinistra. C’è una differenza tra la vostra connotazione a Roma e a Bruxelles?

Non credo. In Europa certe battaglie – l’ambiente, l’acqua pubblica, il trasporto sostenibile – sono più appannaggio dei Verdi e della sinistra. Per noi queste battaglie – come anche la revisione del Trattato di Dublino, con la ridistribuzione obbligatoria e preventiva dei richiedenti asilo – restano posizioni pragmatiche e post-ideologiche.

Si è parlato anche di una trattativa con i conservatori, gli stessi di cui fa parte FdI.

Escludo qualsiasi trattativa ufficiale. Può darsi che qualche funzionario di quel gruppo sia venuto a cercarci, ma non è una situazione per noi esplorabile: non possiamo andare in gruppi dove sono già presenti delegazioni italiane.

La scorsa volta eravate con Farage.

Abbiamo cercato di lavorare su temi comuni, come l’attenzione verso la democrazia diretta. Ma, al netto di questo, le nostre priorità e visioni politiche sono lontane dal partito della Brexit.

Nel 2014 fu la rete a stabilire il nuovo gruppo europeo. Come mai questa volta gli iscritti non hanno votato?

Non escludo che accada. Anzi, è la via da seguire. Ma prima è necessario portare opzioni concrete agli iscritti, altrimenti si rischia di votare scenari ipotetici e di operare un esercizio sterile.

Uscirete dall’isolamento?

Di certo iscriverci a un gruppo di cui non condividiamo le posizioni non avrebbe senso, finiremmo per essere un’opposizione interna. Molto meglio restare vigili e valutare eventuali opportunità, continuando a lavorare in primis per un nuovo gruppo, se la situazione dovesse cambiare.

Conte garantisce: “Nessun rinvio, si farà un accordo sul debito”

Dopo l’incontro con Angela Merkel e Jean Claude Juncker, il premier italiano Giuseppe Conte è più ottimista: secondo il presidente del Consiglio non ci sarà nessun rinvio a ottobre della procedura di infrazione, l’accordo sarebbe vicino. Queste le sue parole, a margine del G-20 di Osaka: “Fino a ieri si dava per scontata la procedura. Ora, se dovesse essere evitata, è un risultato che il governo porta a casa. Dire che viene rinviato tutto a ottobre cosa significa? Significa giocare con le parole. Cerchiamo di non essere sempre anti-italiani”. Sui contenuti del possibile accordo (come l’eventuale rinuncia alla flat tax tanto voluta da Matteo Salvini) Conte non concede nulla: “Non posso anticipare niente, stiamo lavorando su questi fronti”. Quanto alle possibili scadenze: “Martedì c’è un collegio della Commissione, ragionevolmente sarebbe una scadenza già questa”. In mattinata, sul tema, si era espresso il premier olandese Mark Rutte. Con parole tutt’altro che concilianti: “L’Italia non sta facendo nulla per stabilizzare le sue finanze”. Difficile che “possa sfuggire alle sanzioni sul debito”. Ma in serata Conte era convinto del contrario.

“Se l’autonomia fa bene a tutti, perché nascondono i testi?”

Gianfranco Viesti, classe 1958, barese, di professione economista, ha un merito indiscusso: è stato il primo ad aprire il dibattito di merito attorno alla cosiddetta “autonomia regionale”, da lui ribattezzata in un libro di successo “secessione dei ricchi”. Matteo Salvini e la Lega, com’è noto, spingono per un’approvazione rapida delle intese con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna: com’è altrettanto noto, però, in pochi conoscono il dettaglio di quanto contrattato dalla ministra leghista degli Affari regionali Erika Stefani coi governatori, mentre un documento del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi, datato 19 giugno, smonta punti assai rilevanti dei testi. Proprio col professor Viesti, allora, abbiamo fatto il punto della situazione.

Giuseppe Conte dice che mercoledì “si chiude”, solo che nessuno sa di cosa parla: persino molti ministri non hanno visto l’ultima versione delle bozze di intesa, quella del 16 maggio.

La segretezza dell’iter è il vero tema. Si parla di autonomia regionale, che per me è un’ottima cosa, ma qui la chiave è la parola “differenziata”, che poi in questo caso significa la devoluzione di poteri sterminati (con relative conseguenze finanziarie) a tre regioni.

Perché questa segretezza?

È un’oscurità in parte voluta: i promotori non hanno interesse a che ci sia una discussione approfondita. Basti dire che stiamo smembrando la scuola nazionale per capire qual è il problema. C’è un fumo che nasconde la realtà, mentre una cosa del genere dovrebbe avvenire col massimo di trasparenza e di dibattito. Per questo continuo a chiedere alle tre Regioni coinvolte e alla ministra che rendano noti tutti i documenti. Nessuno mi si fila.

Pure il dibattito politico sull’autonomia è zero.

Non c’è opposizione politica a questo progetto: Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia, cioè l’opposizione parlamentare, sono silenti. Adesso, poi, con le scuole chiuse e il profilo basso dei partiti è più facile accelerare.

I 5 Stelle sembrano un po’ recalcitranti.

Resta da capire cosa faranno: non so se avessero capito cosa firmavano inserendo il regionalismo differenziato nel contratto di governo, ma ora hanno sotto gli occhi le conseguenze di quel progetto.

Ora, però, c’è il documento di Palazzo Chigi portato dal premier all’ultima riunione di governo.

È importantissimo perché sottolinea diverse criticità rilevantissime. È una danza in tre passi, uno schema in tre colpi se parlassimo di boxe. Intanto si parte dall’enormità delle competenze richieste da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna con una doppia domanda: 1) ma così non si finisce per creare nuove regioni a Statuto speciale al di fuori della Costituzione? 2) ma se diamo a tutte le Regioni quella quantità di competenze non stiamo cambiando di fatto l’articolo 117 della Carta? E questo, diciamo, è il gancio destro della parte giuridica. Poi c’è il gancio sinistro.

Di che parliamo?

Della parte economica. Se uno guarda le parti delle intese tra governatori e la ministra Stefani già pubblicate è chiaro che, essendo un gioco a saldo zero, se vanno più soldi a me, ne andranno meno a te.

È la “secessione dei ricchi”.

Questo è lo scopo del gioco: il Veneto lo ha detto in modo esplicito, la Lombardia meno.

Manca il terzo cazzotto.

È sul ruolo del Parlamento. Il documento definisce “ineluttabile” il coinvolgimento delle Camere e mi sembra ovvio date le conseguenze sulla democrazia italiana.

Però anche il Titolo V della Costituzione, quello modificato dal centrosinistra, è vago sul modo in cui le Camere entrano nel processo.

È vero, non c’è una legge di attuazione. La tesi dei promotori è assimilare le intese con le Regioni a quelle che lo Stato firma con le religioni: forse può avere un suo senso giuridico, ma nella sostanza stiamo cambiando talmente a fondo il modo in cui funziona la democrazia in Italia che dobbiamo stare attenti e discuterne a fondo.

Come si procede?

La sfida che cerco di lanciare è questa: ma se l’autonomia fa bene a tutti come dicono i promotori, perché ne nascondono i contenuti? La Lombardia chiede 131 competenze tra legislative e amministrative: sono tutte richieste ragionevoli? La risposta è: ce le dovete dare perché siamo più bravi. Ma pure questo va dimostrato: io non credo che per un ragazzo lombardo sia meglio avere il preside dipendente dall’assessore e i professori dalla Regione, è peggio.

Dicono Veneto e Lombardia: c’è stato un referendum.

Io rispetto i molti veneti e i pochi lombardi che hanno votato, ma il referendum serve a chiedere, la potestà di concedere spetta al Parlamento.

Cosa dovrebbero fare le Camere.

Intanto avere il potere di emendare il testo e poi di intestarsi il controllo del processo: troverei discutibile che il Parlamento accettasse bozze di intesa scarne che rinviano le scelte di dettaglio a una commissione paritetica Stato-Regioni che poi rimodella la forma dello Stato attraverso Dpcm immodificabili. Serve una clausola di pieno controllo da parte dello Stato.

Le pre-intese firmate da Gentiloni duravano 10 anni. Ora non hanno scadenza.

È una cosa importante, ma non decisiva: se sposti quella quantità di risorse, personale e potere, poi non li riporti più indietro, non è un processo che puoi più fermare.

Parliamo dei soldi. Lei, da economista, è partito da lì.

Le pre-intese firmate dal centrosinistra nel 2018 sciaguratamente consentivano alle regioni di trattenere maggiore gettito: il Veneto chiedeva il 90%. Ora le tre Regioni hanno astutamente disseminato nelle bozze norme che gli portano vantaggi finanziari. È un enorme problema: con l’invarianza finanziaria significa che le altre Regioni, specie al Sud, prenderanno meno.

Ora che succede?

Non ne ho idea. Però dico che scuola e gettito tributario sono le due grandi questioni: neutralizzare queste due, sarebbe già qualcosa…

Cambridge Analytica. Dal garante 1 milione di multa a Facebook

Il Garante per la privacy ha applicato a Facebook una sanzione di 1 milione di euro per gli illeciti compiuti nell’ambito del caso Cambridge Analytica, la società che attraverso un’app per test psicologici aveva avuto accesso ai dati di 87 milioni di utenti e li aveva usati per tentare di influenzare le presidenziali americane del 2016. La sanzione, in base al vecchio Codice Privacy, fa seguito al provvedimento del Garante del gennaio di quest’anno con cui l’Autorità aveva vietato a Facebook di continuare a trattare i dati degli utenti italiani.

La multa “è praticamente ridicola, di sicuro non in grado di scongiurare rischi futuri”, per Daniele Pesco (M5S), presidente della commissione Bilancio del Senato. “In pratica il Garante per la privacy ha inflitto a Facebook una multa pari ad appena lo 0,0052% dell’ultimo utile messo a segno”. “Ha ragione il senatore Pesco – replica il Garante Antonello Soro – dovrebbe sapere che su violazioni verificatesi precedentemente al 25 maggio 2018 si applicano le leggi preesistenti e non il nuovo regolamento europeo Gdpr”.

Becchetti vince, l’Albania ha un problema

Da genio della tv strass e paillettes in stile berlusconiano a perseguitato politico. La parabola di Francesco Becchetti in Albania ha qualcosa di surreale. Inizia esportando a Tirana il nostro modello di tv commerciale con la prima “delocalizzazione” di un’emittente italiana, Agon Channel. Non senza grandi festeggiamenti milanesi con star del calibro di Nicole Kidman. Prosegue poi con una inusuale metamorfosi che lo vede diventare il paladino dell’informazione antigovernativa di Tirana al punto da beccarsi non solo l’estradizione, ma anche il sequestro di tutti i beni. E arriva, infine, a una lucrosa sentenza di un arbitro internazionale che mette sotto scacco il governo albanese.

Tutto inizia negli anni 90 quando Becchetti avvia la sua avventura in Albania con l’azienda elettrica di famiglia. È il 2013 quando fonda Agon. Ma l’imprenditore romano non finisce neanche di brindare che arrivano i primi guai. È riuscito ad attirare a Tirana un nutrito gruppo di star della tv italiana: da Pupo a Simona Ventura, da Sabrina Ferilli e Maddalena Corvaglia ad Antonio Caprarica. Ma i dipendenti “ingrati” lamentano condizioni di lavoro di gran lunga distanti da quelle italiane. A sole due settimane dall’inizio dei programmi il progetto perde pezzi: il direttore Capranica si dimette per giusta causa. Fra polemiche dei lavoratori e ascolti inferiori alle attese, l’emittente non solo non decolla, ma finisce anche col pestare i piedi al governo di Edi Rama e all’intero partito socialista albanese. Almeno questa è la versione di Becchetti che individua nella campagna elettorale del 2013 il punto di non ritorno nei rapporti con il governo.

Ma per Tirana, la tv, che impiega 500 persone, non ha nulla a che vedere con le vicende giudiziarie di Becchetti. Nel mirino della magistratura sono infatti finite le attività dell’imprenditore nel settore dell’energia, in particolare un progetto per la costruzione di una delle più grandi centrali idroelettriche del paese, mai realizzata. Attorno a queste attività, secondo gli inquirenti, nel periodo 2007-2013, Becchetti avrebbe creato “un gigantesco schema di riciclaggio” ottenendo un profitto illecito per “alcuni milioni di euro” ed evadendo il fisco per oltre 5 milioni di euro. Denaro che i magistrati sospettano sia stato investito in altre società albanesi o finiti nei suoi conti bancari. Reati contestati: evasione fiscale, falso in documentazione, appropriazione indebita e riciclaggio. Di qui, nel giugno 2015, la decisione del Tribunale di Tirana di emettere un mandato di cattura internazionale a carico di Becchetti e dei suoi più stretti collaboratori. Addio paillettes: le autorità albanesi procedono anche al sequestro di tutte le attività dell’imprenditore che si rifugia a Londra per rivolgersi infine al Tribunale arbitrale internazionale per la risoluzione delle controversie in materie di investimenti (Icsid). E l’arbitrato, nella sentenza dell’8 maggio scorso, dice: “Considerate unitamente, tutte le questioni discusse […] conducono alla conclusione che la sentenza di sequestro è il culmine di una campagna politica contro i ricorrenti”.

Il fondatore della prima tv italiana “delocalizzata” in Albania ha vinto. Il Tribunale intima al governo albanese la restituzione delle attività sequestrate in violazione dei trattati bilaterali fra Italia e Albania, oltre al pagamento di una multa da 140 milioni (contro i 650 richiesti) a titolo di risarcimento verso Becchetti e Mauro De Renzis, amministratore di Agon.

Viste le cifre in ballo è un brutto colpo per il governo albanese e per l’intero paese (pil pro-capite 5.500 dollari circa). Anche perchè Tirana non potrà fare appello e dovrà sostanzialmente allinearsi alla decisione di arbitrato che peraltro è titolo esecutivo. Permetterebbe cioè a Becchetti di pignorare direttamente asset pubblici albanesi. Magari anche all’estero. Tutt’altro capitolo è invece quello che Becchetti deciderà di fare delle attività albanesi quando torneranno in suo possesso.

Diritti per i rider, la norma (anti Jobs Act) in Parlamento

Se il Movimento Cinque Stelle non avesse annullato un evento previsto per stamattina a Bologna, ad accogliere Luigi Di Maio sarebbero state le contestazioni dei fattorini che consegnano cibo a domicilio. L’associazione Rider union, sapendo del suo arrivo, aveva organizzato un presidio per accusarlo di averli prima illusi e poi abbandonati. Lui ha revocato la visita per gli impegni istituzionali a Roma. Ma la categoria che, a giugno 2018, prima fra tutte era stata convocata dal nuovo governo oggi si è trasformata in un problema per il ministro del Lavoro

“Dopo tante roboanti dichiarazioni – ha scritto in una nota il sindacato autonomo – la nostra condizione rimane schiacciata nella morsa infernale della precarietà e del cottimo. Avremmo chiesto conto a Di Maio di tutto questo, ma lui ha paura di essere inchiodato alle sue responsabilità”. A fine aprile, il vice-premier ha promesso che le tutele per i ciclisti del food delivery arriveranno con il disegno di legge sul salario minimo. Bisognerà aspettare che il testo completi il lungo percorso in Parlamento, sperando che il fronte dei contrari – sindacati e Confinfustria – non riesca a farlo naufragare. I rider non si fidano dell’annuncio di Di Maio, che già in passato aveva assicurato l’ingresso del pacchetto in altri provvedimenti, per poi fare marcia indietro. Intanto le condizioni di lavoro di chi porta pizze nelle nostre case sono ancora dettate dalle piattaforme come Glovo, Deliveroo, JustEat e UberEats. Multinazionali che pretendono massima flessibilità dagli addetti in sella, quindi niente contratti di lavoro subordinato, niente retribuzioni orarie né contributi previdenziali; solo pagamento a consegna e al massimo polizze private per gli infortuni.

È almeno dal 2016 che i collettivi dei rider manifestano contro questa situazione. Un anno fa, appena insediato, Di Maio li ha invitati al ministero promettendo una legge con il diritto alla subordinazione e il divieto di cottimo. Sarebbe entrata nel decreto Dignità, poi il ministro ha cambiato strategia: ha convocato le aziende del food delivery e avviato trattative per provare a firmare “il primo contratto nazionale della gig economy”. In sei mesi, il tavolo non ha prodotto niente perché le aziende hanno rifiutato di presentare una proposta che individuasse paghe minime a livello nazionale. A gennaio l’allora consigliere di Di Maio Pasquale Tridico, poi diventato presidente dell’Inps, ha detto che avrebbero rispolverato l’emendamento inserendolo nel decreto sul reddito di cittadinanza. Poi è di nuovo saltato tutto, per ragioni tecniche e per un po’ non se ne è più parlato. Il 25 aprile il comitato Deliverance Milano ha inscenato un’inedita protesta: ha pubblicato i nomi dei vip che non lasciano mance e Di Maio ha risposto promettendo l’inserimento delle norme nel disegno sul salario minimo. Questo nuovo impegno non ha tranquillizzato i sindacati autonomi, che ieri hanno organizzato manifestazioni in varie città. Intanto la Regione Emilia Romagna ha presentato una proposta di legge al Parlamento, su iniziativa di Sinistra italiana e poi approvata all’unanimità dal Consiglio. Oltre alle paghe orarie, al divieto di cottimo e al diritto alla disconnessione, impone alle aziende di assumere i rider con contratti di lavoro subordinato. Per farlo chiede di abrogare la norma sulle collaborazioni organizzate dal committente; è la norma alla base della sentenza con la quale il Tribunale di Torino ha stabilito che i fattorini di Foodora non sono subordinati ma hanno diritto a tutte le tutele connesse al lavoro dipendente. Una disposizione che fa parte del Jobs Act e ora a chiederne la cancellazione è anche il Partito democratico dell’Emilia Romagna.

Deutsche Bank valuta di lasciare a casa fino a 20 mila dipendenti

Fino a un dipendente su cinque di Deutsche Bank potrebbe essere mandato a casa nei prossimi anni. Il colosso tedesco, secondo il Wall Street Journal, starebbe valutando tra i 15 e i 20 mila tagli a livello globale, nel tentativo di rilanciare la propria redditività e tornare ad attrarre quegli investitori che, delusi dalle performance della banca, hanno spedito le azioni ai minimi storici in Borsa. I tagli, oggetto delle riflessioni del top management, accelererebbero il ridimensionamento dell’istituto, reduce dal fallito matrimonio con Commerzbank e alle prese con un faticoso piano di ristrutturazione e una revisione delle sue ambizioni di leader globale (oggi il titolo viaggia ai minimi storici). Gli esuberi richiederebbero più di un anno per essere applicati con costi diffusi, seppur non in misura lineare, in tutte le regioni e le aree di attività. A rischiare di più sarebbe la divisione di investment banking, che impiega 38 mila persone e per la quale, già il mese scorso, il ceo Christian Sewing aveva previsto “tagli pesanti”. Ma un conto salato potrebbero pagarlo anche le attività di equity. Se le cifre saranno confermate Deutsche Bank perderà tra il 16 e il 22% dei suoi 91 mila dipendenti.