Dai controlli agli affitti: tutte le novità fiscali del dl Crescita

Il decreto Crescita appena approvato dal Parlamento ha una corposa parte fiscale. Dal punto di vista dei conti pubblici (visto il successo dei “condonini” dell’ultima manovra), la novità più rilevante è la riapertura dei termini per la rottamazione ter per chi ha cartelle fiscali: si potrà aderire fino al 31 luglio pagando in un’unica soluzione entro il 30 novembre oppure in 17 rate (la prima scade sempre il 30 novembre). Il decreto ha riaperto anche il cosiddetto “saldo e stralcio”, il cui prolungamento potrà essere deliberato anche per gli enti locali che lo deliberano.

Altra novità di rilievo è anche lo slittamento dei termini per l’invio telematico della dichiarazione dei redditi – ci saranno due mesi di tempo in più (dal 30 settembre al 30 novembre) – come pure il divieto per l’Agenzia delle Entrate di richiedere documenti o certificazioni che siano già disponibili nell’anagrafe tributaria (ad esempio quelli inviati per la pre-compilata da banche, farmacie o assicurazioni); il divieto vale anche per gli Isa, i nuovi “indici di affidabilità” che hanno sostituito gli studi di settore (i versamenti Isa, peraltro, slittano al 30 settembre, mentre viene introdotta una moratoria di 6 mesi delle sanzioni sugli scontrini elettronici).

Importante anche una norma fiscale che intende incentivare la cosiddetta economia circolare: sconti del 25% del costo per chi acquista prodotti che derivano per i tre quarti dal riutilizzo di rifiuti; lo sconto vale anche per le imprese come credito d’imposta (la misura vale 20 milioni per il 2020). Sempre in questo capitolo è previsto anche il rimborso totale dei tributi comunali (per 4 anni) a chi rialza le saracinesche di negozi chiusi, da almeno sei mesi, in cittadine sotto i 20 mila abitanti (anche qui disponibili 20 milioni).

“Il fisco faccia come Google: i big data contro chi evade”

“L’evasione fiscale si combatte con la tracciabilità delle transazioni economiche e applicando ritenute alla fonte per tutti, per far questo l’Amministrazione finanziaria va ricostruita, rilegittimata e addestrata a utilizzare le nuove tecnologie; poi c’è da ripristinare un penale tributario accettabile, ma non è questa la questione centrale”. Ministro delle Finanze e del Tesoro nel ’96, viceministro con delega alle Finanze nel 2006, Vincenzo Visco si porta dietro quel nomignolo, “Dracula”, appioppatogli da Giulio Tremonti.

Avevate aumentato le tasse?

Al contrario le avevo ridotte e ne avevo abolite un bel po’, almeno 4,5 punti di Pil di recupero permanente di evasione tra il 2006 e il 2008, quando c’erano i famosi “tesoretti” di Padoa-Schioppa, frutto del recupero che facevamo. Per loro ero Dracula perché facevo pagare le tasse a chi non le pagava. Ma la cosa grave è un’altra…

Quale?

Lo stesso termine nei miei riguardi, anche se dissimulato, lo ha usato Renzi. Uno degli snaturamenti subiti dal Pd in quel periodo è stato proprio sulla questione fiscale, si sono messi a far condoni, hanno tolto la tracciabilità degli affitti, le soglie di punibilità penale e amministrativa sono state elevate, come il tetto per l’uso dei contante.

Salvini in continuità con Renzi?

Anche il governo attuale non ha intenzione di ridurre l’evasione fiscale, quando si dà il messaggio: ‘tagliare le tasse’ la gente capisce che il messaggio vero è non fargliele pagare, mentre si potrebbe recuperare in 2-3 anni almeno metà dell’evasione strutturale che c’è, non è difficile. Il problema non è tecnico ma politico, di consenso, in questo modo si riequilibrano le imposte per chi le paga, si fanno gli investimenti e si riduce il deficit. Non a caso Salvini per la Flat tax prende ad esempio i Paesi dell’Est dove si vanno a delocalizzare le imprese del nord-est: in quei Paesi il livello di sviluppo è molto più basso del nostro, hanno un sistema previdenziale e di welfare minimale. Noi dovremmo essere nel G7 e ci vogliono far diventare come la Bulgaria.

Se si tagliano le imposte si rimettono in circolo risorse.

È una cosa che non esiste, è dimostrato sia scientificamente che in concreto.

La galera agli evasori?

Giusto, ma non è risolutivo. Ci provò il ministro Formica negli anni 80 dopo un condono tombale, poi la magistratura si è trovò subissata di denunce e in galera non ci andò nessuno.

Però la nuova Flat tax ha riscosso molto successo tra professionisti e imprese…

In realtà è un regime forfettario per imprese e professionisti con redditi medio-alti che non ha giustificazione. Ha creato non solo disparità di trattamento ma anche una nuova possibilità di evasione dell’Iva perché i forfettari sono diventati consumatori finali. Il limite di 65 mila euro di fatturato include la quasi totalità dei professionisti italiani e nessuno è in grado di verificarlo, insomma se la cantano e se la suonano. E quando Di Maio controbatte dicendo che la Flat tax deve andare solo a vantaggio dei ceti medi è un ossimoro: l’imposta piatta a parità di gettito va a incidere proprio sui ceti medi, rispetto ai ricchi e ai poveri.

L’avanzamento tecnologico potrebbe rivoluzionare anche l’Erario?

Non c’è dubbio. Una misura risolutiva per combattere l’evasione sarebbe l’introduzione di ritenute alla fonte per tutti, anche per i redditi d’impresa, alla quale andrebbe aggiunto l’uso sistematico delle informazioni bancarie e finanziarie e altre misure minori, con l’applicazione della tecnologia dei big data l’evasione può sparire del tutto.

Molti obietteranno che Dracula vuole fare il “grande fratello” fiscale…

Sono cose di buon senso: non capisco perché si deve consentire a Facebook e Google cose che si vogliono negare agli Stati. Dobbiamo decidere quale società vogliamo, se si vuole uno Stato in cui a ciascuno viene dato il suo si deve fare in modo di ridurre le tasse a chi è tartassato e di farle pagare a chi non le paga, creando nel Paese un clima in cui la giustizia si possa toccare con mano.

Rimarrebbero fuori dai controlli proprio le grandi multinazionali del web.

La soluzione è far fare a queste società offshore bilanci consolidati a livello globale, su cui ripartire le imposte tra i Paesi dove operano.

Anche le ultime denunce dei redditi confermano che il carico fiscale si è spostato su dipendenti e pensionati.

Il prelievo per mantenere il welfare grava 3-4 volte di più su questa base imponibile che si sta riducendo. La soluzione è ripartire il finanziamento del welfare su tutti i redditi e non solo su quello da lavoro: si dimezza il costo del lavoro e a pagare meno saranno le imprese con più dipendenti.

L’Irpef così com’è non funziona più?

Bisognerebbe tornare a un’imposta con molte aliquote, o addirittura con una funzione matematica continua come in Germania, che sgravi di più i ceti medi e lasci le cose come stanno in basso, dove non paga nessuno, ma aumenti il prelievo sui redditi più elevati. L’alternativa è lasciare l’Irpef sui soli redditi da lavoro e congegnare una tassa ordinaria sul patrimonio immobiliare e finanziario, personale e progressiva, sui capitali, con aliquote molto basse, da zero a uno, uno e mezzo per cento. Oggi il 26% sui redditi da capitale li paga pure la vecchietta che ha i buoni postali. Con questo sistema non pagherebbe più niente.

Commissione Ue, Draghi smentisce: “Non sono in lizza”

È stato chiamato in causa da più parti, ma pur “sentendosi onorato” Mario Draghi ha smentito, attraverso fonti a lui vicine, di poter essere il nuovo presidente della Commissione europea. Soluzione che avrebbe comportato un colpo di scena innegabile, ma che, al di là delle complicazioni che avrebbe provocato nella trattiva, non incontra la sua disponibilità. Domani si riunirà di nuovo il Consiglio europeo straordinario convocato per le 18 a Bruxelles. I lavori potrebbero andare avanti fino a tarda notte ed è già previsto che i leader possano vedersi anche a colazione lunedì primo luglio. I nomi in lista per la presidenza della Commissione sono diversi: c’è Michel Barnier, il capo negoziatore dell’Ue per la Brexit, francese. In tal caso la Germania potrebbe chiedere la presidenza della Bce per Jens Weidmann, banchiere centrale dalle posizioni spesso antitetiche a quelle di Mario Draghi. Mentre il Financial Times ha rilanciato ieri la candidatura dell’olandese Timmermans mentre un altro possibile candidato nella lista del Ppe sarebbe il finlandese Alexander Stubb.

L’attesa di Taranto: “Arcelor? Alla fine sono come i Riva”

“Come la stiamo vivendo? Come sempre: aspettiamo, non è che possiamo fare altro”. Sconforto e rassegnazione serpeggiano tra gli operai dell’ex Ilva di Taranto su cui pende come una spada di Damocle lo scontro tra governo e azienda sull’immunità penale per i vertici di Arcelor Mittal.

Per i lavoratori è un copione già visto. “Pure i Riva – racconta al Fatto Angelo, operaio 32enne che preferisce non rivelare il cognome – fecero la stessa cosa, forse ve lo siete dimenticati: dissero che se non ci fosse stato il dissequestro avrebbero chiuso la fabbrica”. Già anche nel 2012, poco dopo il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva, i Riva minacciarono lo spegnimento degli impianti.

Ma all’epoca lo scontro era con la magistratura: il governo di Mario Monti con l’allora ministro dell’Ambiente era pubblicamente schierato a favore della prosecuzione della produzione. E infatti gli impianti non furono mai spenti: l’azione della magistratura fu neutralizzata a colpi di decreti.

Oggi, però, le minacce dei nuovi padroni dell’acciaio sono destinate al governo. “Adesso tutti pensano – continua Angelo – che la fabbrica non chiuderà mai, forse pure io lo penso, ma la paura ce l’ho. La paura c’è sempre. Pure quando dal telefonino apro Facebook: l’ultimatum di Arcelor l’ho scoperto così. Come fai a non avere paura?”.

Anche Mario preferisce evitare di dire il suo cognome: “No, meglio di no, non si mai come la pensano i nuovi proprietari”. Ha 40 anni ed è in fabbrica da tanto tempo: “A volte penso che se chiudesse sarebbe meglio, ma uno a 40 anni che cosa trova a Taranto?”. Non crede all’ipotesi di bonifica e riconversione: “Ma quando mai. Chi li dovrebbe mettere i soldi. Lo Stato? Ma figuriamoci: con la Lega Nord figurati se davvero mandano tutti quei soldi per rimettere a posto tutto questo”.

C’è anche chi è già fuori dall’Ilva. Marco Tomasicchio, 43 anni, a gennaio ha accettato l’incentivo per uscire dalla fabbrica: “Quello che mi sembra più assurdo – racconta – sono i sindacati, sempre più accomodanti col padrone. Invece di difendere i lavoratori dall’amianto, lamentano come Confindustria di aver perso investitori”. Da qualche tempo sta costruendo il suo nuovo futuro: con un altro ex operaio Ilva, Cataldo Ranieri, ha deciso di aprire una friggitoria che si chiamerà “A casa nostra”. Ha scelto questo nome perché quando erano in fabbrica e protestavano, molti colleghi si lamentavano con loro dicendo “se l’Ilva chiude veniamo a mangiare a casa vostra?”. Marco, oggi, lo spera e intanto guarda le vicende con un certo distacco: “Non riesco a credere che un colosso mondiale del settore come Arcelor non immaginasse la crisi dell’acciaio. Sembra una barzelletta. Ora pretendono l’immunità e usano il ricatto occupazionale: non è una novità”.

Anche lui rievoca lo spettro dei Riva. “Come andrà a finire? Arcelor otterrà l’immunità anche grazie alle pressioni di Salvini e dei sindacati e per dare il contentino ridurranno il numero di cassintegrati. Oppure non la otterranno e trascineranno lo Stato in tribunale e quello che succederà dopo non riesco neppure a immaginarlo”.

Nel quartiere Tamburi le cose vanno più o meno allo stesso modo. L’attesa è fatta di speranza e rassegnazione. Passeggiando su via Orsini, nelle strade rese roventi dal sole e rosse dalle polveri della fabbrica, si vede l’imponente camino E312 che sbuffa continuamente. Dinanzi alla chiesa di Gesù Divin Lavoratore, la parrocchia nata poco dopo l’arrivo della fabbrica, i tarantini provano a vivere come se nulla fosse. Qui, nel quartiere più vicino alla fabbrica, alle ultime Europee il Movimento 5 Stelle è ancora il primo partito nonostante il cambiamento di rotta sulla questione Ilva. “Di Maio ha fatto benissimo – racconta Giorgio, 29 anni – a togliere l’immunità. È una cosa che non esiste in nessun Paese del mondo. Tanto vedrai che alla fine Arcelor non vorrà perdere un affare così grande”.

I motorini sfrecciano mentre il sole cala dietro l’imponente struttura che coprirà i parchi minerali. “Ma secondo te – chiede Giorgio – Arcelor dove lo trova uno stabilimento in cui lo Stato sta finanziando una copertura come questa? Vedrai, vedrai: alla fine un accordo si trova sempre. Anche i Riva minacciavano, ma loro non erano abituati a cedere e vedi che brutta fine hanno fatto”.

La demolizione la fa il perito della strage di Bologna dell’80

È il personaggio di questa due giorni, Danilo Coppe, trevigiano, geominerario, massimo esperto in Italia in esplosivistica, perito di diverse procure, presidente dell’IRE, Istituto Ricerche Esplosivistiche e anche volto tv: su Explora Hd, nel 2015, condusse “Mister dinamite”, un programma in cui si mostravano esplosioni controllate (ha alle spalle 700 demolizioni con esplosivo). Il professore, a cui si deve l’abbattimento di quello che restava di Ponte Morandi a Genova, nella sua veste di consulente della Procura di Bologna, è lo stesso che ha firmato (assieme al tenente colonnello Adolfo Gregori, del Ris di Roma), la perizia sulla strage di Bologna, resa nota per l’appunto giovedì. Quella che contiene la novità (dopo quasi 40 anni dall’attentato del 2 agosto 1980) dell’interruttore dell’ordigno. “Spero di aver mitigato almeno un pò il dolore dei familiari delle vittime che da oggi non vedranno più una cosa che dava tanta angoscia”, ha detto. Prima aveva anche rivelato che con la Spea, la sua società, già nel 2003 gli avevano chiesto un progetto preventivo per abbattere Ponte Morandi. Ma poi non se ne fece niente.

“Ci chiesero di farlo esplodere nel 2003, ma costava troppo”

Danilo Coppe, l’esplosivista titolare della Siag di Parma che si è occupata dell’abbattimento controllato, aveva avuto incarico da Autostrade nel 2003 di demolire il Morandi. Lo ha detto lo stesso Coppe durante la conferenza stampa dopo le operazioni di ieri mattina, rivelando che poi il progetto non era stato eseguito perché l’operazione si era rivelata troppo costosa e complessa. “Volevano un preventivo, uno studio di fattibilità, perché costava troppo di manutenzione – ha poi spiegato il proprietario della Siag di Parma a SkyTg24 – Sono stato anche ascoltato in procura negli scorsi mesi, erano interessati a capire se la richiesta era giunta per un possibile crollo. Ma era una questione legata ai costi di manutenzione”. Dopo le dichiarazioni di Coppe, la società Spea, controllata di Autostrade, ha spiegato che il progetto era “solo uno studio di fattibilità” finalizzato a sostituire il viadotto crollato il 14 agosto 2018 “per servire la Gronda”, il raddoppio autostradale nel nodo di Genova. “Opzione scartata dal dibattito pubblico nel 2008”, rimarca Spea affermando che “non c’è alcun collegamento con la sicurezza del Morandi o problemi di costi”.

“Non pensavo ci avrebbe mai tradito”

Non c’è più. Il Ponte, come lo chiamavamo noi che lo abbiamo visto nascere, si è sgretolato in poco meno di sei secondi: alle 9:38 di questo caldo venerdì 28 giugno. Colonne d’acqua lo hanno abbracciato, contenuto e fatto cadere al suolo. Ora tutto un altro scenario. Ventimila metri cubi di cemento, sparsi in via Porro, via Fillak e Campasso. I quattro condomini, squarciati solo da un lato, sono ancora lì. In attesa di essere abbattuti. È uno scenario di guerra. Straziante per me. Faccio fatica a ricordare che per costruirlo ci sono voluti quattro anni. Piano piano, come un Lego di cemento. Per i tecnici, “a conci”. Quasi un lavoro artigianale. E oggi il lavoro di migliaia di operai giù, in pochi secondi.

Emozioni contrastanti si accavallano, mentre lo osservo. Il Ponte più importante in Italia, e non solo. Ideato dall’ing. Riccardo Morandi, ci ha fatto compagnia dal 1967. Noi ferrovieri che abitavamo le case lì sotto, orgogliosi di un’opera così ardita. Mio padre non era molto contento. Diceva: “Sarà famoso il Morandi, ma per me è pur sempre un ponte sulla testa!”. E noi ragazze a cercare di farglielo accettare, dicevamo come erano belle quelle grandi A. Erano la Lanterna della Valpolcevera !

Ci guardava in silenzio, come a presagire che quelle grandi A ci avrebbero tradito.

Il Morandi lo abbiamo attraversato tutti, quella mattina con il temporale in parecchi a dire, ma io ci sono passato mezz’ora fa, io dieci minuti fa. Io l’ho visto crollare dallo specchietto retrovisore. Fortunati noi, e sfortunati quei poveretti che sono volati giù, sul Polcevera.

Per me che ero in casa, vedere la collina di Coronata senza il Ponte, e tutte quelle macchine con ancora le luci di posizione accese… che strazio. Ho provato tanta rabbia e impotenza… vedere e non potere fare nulla. Se non scappare! Via di corsa, guardando quel moncone minaccioso sulle nostre case. Sempre lì. E quando entravamo accompagnati dai vigili del fuoco, a dire tra me e me, “non fare scherzi. Stai su e facci prendere le nostre cose. Hai tenuto con due temporali…”. E lui ha mantenuto il patto. Ponte Amico? Ma come faccio a dirlo con quei morti sulla coscienza…

Oggi la nostra vita, segnata per anni dalla sua presenza, ci obbliga a cambiare. Ieri notte ho dormito poco. Mi è venuto in mente quando in molti ci chiedevano perché fossimo per tutti quegli anni rimasti lì, quando lo hanno costruito sulle nostre case. Già… ci siamo fidati. Un ponte sta sospeso, ma unisce. Non pensi che possa crollare.

Ieri mattina 3.400 persone si sono dovute spostare per ragioni di sicurezza. Un esodo biblico.

Ancora uno sguardo. Gli hanno colorato gli stralli. Servirà per dare informazioni alla Procura. Mi impressionano tutte quelle sacche rosse, come fossero delle flebo a un anziano malato, perché gli sia meno doloroso il suo addio.

 

 

“Fine concessione”: Di Maio insiste, ecco le ipotesi in campo

Il Ponte Morandi, o meglio quel che ne restava dopo il disastro del 14 agosto 2018 con i suoi 43 morti, non c’è più. Ma la vera battaglia, quella per revocare la concessione ad Autostrade, inizia adesso. Luigi Di Maio lo chiarisce ai piedi dei tronconi buttati giù: “Dobbiamo fare giustizia – spiega il vicepremier – Quelle persone sono morte perché qualcuno non ha fatto manutenzione. E quel qualcuno è Autostrade per l’Italia della famiglia Benetton. Come Stato abbiamo il dovere di togliere le autostrade a chi non ha fatto le manutenzioni. Ed è quello che porteremo avanti: il 14 agosto, per l’anniversario del crollo del ponte ci si deve andare con la revoca almeno avviata”. Pochi passi più in là, Matteo Salvini mostra compattezza: “Su Autostrade io non cambio idea, chi ha sbagliato è giusto che paghi”. Uno scambio che lascia indifferente il titolo di Atlantia, la holding della famiglia veneta, che addirittura chiude positiva in Borsa (+1%), nonostante gli attacchi dell’altroieri del pentastellato (“È decotta”).

La partita, come detto, inizia adesso e intreccia l’aspetto giuridico e la coesione politica necessaria per procedere, tutta da verificare. Il primo passo dipenderà dal lavoro della commissione di esperti giuridici del ministero delle Infrastrutture, che a breve, forse già oggi, consegnerà al ministro Danilo Toninelli la relazione che deve stabilire se ci sono i presupposti per revocare la concessione ad Autostrade. Ieri si è riunita di nuovo. Nessuno si sbilancia, ma, pare, sarà un testo prudente: riconoscerà la responsabilità di Autostrade nella custodia del Morandi, rendendo possibile intervenire sulla concessione, senza escludere la revoca. Da Osaka per il G20, il premier Giuseppe Conte conferma che “questo governo ha assunto una posizione dopo il crollo del Ponte. È un fatto oggettivo di grave inadempimento. Sulla base del parere degli esperti, ci assumeremo le nostre responsabilità”. Il termine responsabilità non è casuale. Serve a disinnescare o quantomeno arginare il sicuro contenzioso giuridico che nascerà. Autostrade ha dalla sua la forza della concessione del 2007 (governo Prodi) che all’articolo 9 prevede che, in caso di revoca il concedente – cioè lo Stato – paghi “un importo corrispondente al valore attuale netto dei ricavi” fino alla scadenza del contratto, nel 2048. Secondo le prime stime, si parla di quasi 20 miliardi (stime meno generose si fermano a 10). Un articolo che regala soldi ad Autostrade anche in caso di grave inadempimento, che i Benetton faranno valere in sede amministrativa (il Tar). Non è detto che lo Stato debba per forza pagare: esistono fonti normative e sovraordinate alla concessione che valgono più di un accordo contrattuale. Il codice civile per dire (art. 1229) stabilisce la “nullità” di “qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione del debitore per dolo o colpa grave”. Il codice dei contratti pubblici (articolo 1453) permette di rescindere i contratti in caso di inadempimento del contraente. Un percorso non semplice e che ha il guaio di non evitare il contenzioso.

Autostrade, peraltro, ha dalla sua uno scudo notevole. A maggio 2008, appena insediatosi, il governo Berlusconi infilò in un decreto del governo Prodi una norma che autorizzava per legge la concessione firmata da Autostrade (e, insieme a lei, anche tutte le altre). La mossa per convincere Atlantia a partecipare al salvataggio di Alitalia con i “capitani coraggiosi” di Roberto Colanninno. Il comma passò col voto del centrodestra, Lega compresa. Quella mossa ha blindato la concessione firmata nel 2007 con l’Anas – insieme al famigerato art. 9 – evitando che venisse approvata con un semplice decreto interministeriale (Infrastrutture-Tesoro) e quindi obbligata a ricevere il parere favorevole del Nucleo di valutazione dei servizi di pubblica utilità (Nars), del Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) e di 8 commissioni parlamentari.

Se fosse successo, difficilmente l’articolo 9 e il suo indennizzo miliardario sarebbero potuti sopravvivere. A novembre 2007, per dire, sia il Cipe sia il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio lo avevano bocciato senza appello, chiedendo che fosse rimosso. La scelta di Berlusconi disinnescò il rischio, allentando ancora di più i paletti della concessione.

Quel regalo ha dato una veste giuridica pubblica alla concessione, senza la quale resta un contratto di diritto privato, che peraltro non è stato autorizzato con decreto ministeriale. Per questo tra le ipotesi allo studio del Mit c’è quella di eliminare la norma del decreto del 2008. Una mossa retroattiva che quasi certamente porterà il contenzioso dal Tar alla Consulta, scenario che i tecnici del ministero preferiscono alla disputa amministrativa: renderebbe meno salato il conto della revoca (sempre che la Lega sia d’accordo).

Il Ponte Morandi non c’è più. Ore 9.37: esplose le pile 10 e 11

Va giù in sei secondi. Il tempo di un respiro profondo. Quello che trattiene una città intera. Non c’è boato, all’inizio, per chi guarda da lontano. Ma due grandi cattedrali d’acqua, che si alzano da quella che era l’autostrada. Poi un crac, come quel maledetto 14 agosto. E il cemento che si spezza, spaccato dall’esplosione di 500 chili di dinamite. Una nube che si alza. E dall’orizzonte il Ponte Morandi è già sparito.

Sono le 9:37 del mattino e un applauso timido parte dalle sponde del Polcevera, dai giornalisti, dai politici, dagli incursori dell’esercito e dai tecnici delle aziende – Omini, Fagioli, Ipe progetti, Ireos, Siag – che hanno gestito la macchina di questa demolizione così travagliata, in mezzo alla città.

Il sindaco-commissario Marco Bucci sfodera il cipiglio del manager, al suo fianco ci sono il governatore Giovanni Toti, in maglietta della Protezione civile, e i due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Il grillino è in giacca e cravatta e sembra non sudare, parla solo dopo, in una diretta Facebook (seguirà in giornata la polemica del Movimento contro Rainews24, per l’inquadratura “mancata”). Il leghista in camicia attende che il collega se ne vada, prima di parlare ai cronisti di Sea Watch 3 e Atlantia. Il gelo tra le due anime di governo è palpabile nonostante i 35 gradi, “ma oggi siamo qui per Genova”, ripetono.

“Tutto è andato secondo programma”, sono le prime parole di Bucci, apparentemente freddo. Tocca aspettare qualche minuto per vederlo sorridere sollevato e sudato. “Ce l’abbiamo fatta”, confida andando verso la sede del centro di controllo, “peccato perché si è danneggiata una fogna, ma è andato tutto bene”.

Non è finita, però. E lo sanno tutti: ora ci sono 20mila metri cubi di cemento e acciaio sdraiati sull’area di cantiere e in mezzo alle case da demolire che furono degli sfollati. C’è un’inchiesta che ha bisogno di analisi su alcuni di quei pezzi per andare avanti. E c’è un ponte da tirare su, proprio lì. “Non lo chiameremo più Ponte Morandi, d’ora in poi sarà il ‘Ponte per Genova’”, dice Bucci.

Genova ha retto all’ennesima giornata campale dal 14 agosto dello scorso anno a oggi: 3.400 persone evacuate entro le 7 di mattina dai palazzi nei 300 metri di raggio dai due piloni del Morandi – quei piloni 10 e 11 che da ieri non ci sono più – spostati in navetta bus in nove centri di accoglienza (tra palazzetti dello sport, centri civici, chiese). Molti se ne erano già andati ore prima, a casa di amici. Solo un caso di “resistenza”: un pensionato che non voleva saperne di lasciare il divano, ed è stato convinto dai carabinieri. Il ritardo nell’esplosione, prevista alle 9 del mattino, è stato causato invece da una questione di riunione di condominio: un vicino ha riferito di avere visto una persona in una delle case da evacuare e la polizia ha dovuto forzare la porta per verificare che l’appartamento fosse vuoto.

Tutti hanno dovuto attendere sino alle 21 per sapere se potevano rientrare nelle case, con l’incubo dell’amianto. Il vero nemico invisibile di tutta l’operazione: la concentrazione di piccole quantità crisotilo (amianto “naturale”) nel calcestruzzo del ponte, scoperto durante i lavori, ha imposto le misure straordinarie di mitigazione del rischio: da qui l’esigenza di sollevare con l’esplosivo enormi colonne d’acqua sopra le pile, prima di farlo crollare, per bagnare le polveri. Ma, per avere il responso sull’amianto nell’area, i filtri raccolti dalle centraline sono stati inviati all’Università di Genova e analizzati al microscopio elettronico. Un’operazione che ha richiesto nove ore. In serata, arrivano i risultati delle centraline: i dati sulle polveri di amianto “ci dicono che tutto è tornato come prima dell’esplosione – spiega il sindaco Bucci – luce verde per chi deve tornare a casa”.

Nel frattempo, la chiusura del casello di Genova ovest, quello più vicino al terminal dei traghetti genovese, in un giorno di grandi imbarchi di passeggeri, ha avuto le inevitabili ripercussioni su una rete stradale già provata dall’assenza, ormai da 10 mesi, del principale ponte autostradale.

Ma le lamentele e le proteste sono state al minimo sindacale, dopo settimane di tensione, assemblee infuocate, polemiche sui monitoraggi. Per i genovesi, contava soprattutto togliere quel moncone dalla vista. “Non ne potevamo più di vederlo”, dice uno dei parenti delle vittime, presente all’esplosione, “ogni volta ci ricordava quello che è successo, quello che poteva succedere a tutti noi”.

Nugnes espulsa, Fico la difende: “Sarà sempre una di noi”

Sul bancodegli imputati sono finiti i “131 voti in dissenso” e soprattutto il no alla fiducia lasciato ieri agli atti del Senato sul decreto Crescita. Ma il divorzio tra Paola Nugnes e il M5S era nell’aria da mesi. Tre giorni fa lei lo ha annunciato al manifesto, ieri è arrivato il proclama del blog. “Nessuno sconto a chi non condivide le posizioni del Movimento”, ha detto ieri Luigi Di Maio dopo aver incontrato il direttivo pentastellato alla Camera. Eppure, nonostante fosse praticamente annunciata, l’espulsione della Nugnes divide ancora i 5 Stelle, considerando il fatto che la senatrice napoletana è una delle attiviste storiche del Movimento. Ieri, in suo sostegno è intervenuto il presidente della Camera Roberto Fico, da sempre considerato vicino alla senatrice che, come lui, ha espresso più volte il suo dissenso, in particolare sui temi dell’immigrazione e della sicurezza: “Paola Nugnes – ha detto Fico – sarà sempre Movimento perché il Movimento è un sentire e niente può cancellare 12 anni di lavoro. Se il Movimento è qui oggi lo si deve anche al tassello messo da Paola e non si può far finta di non vederlo”. Il gruppo M5S al Senato chiede che la collega si dimetta da parlamentare, lei ha già risposto: “Continuerò il mio lavoro”.