Capodanno senza controlli Il 31 meno sanzioni del 30

Gli italiani sono stati più rispettosi delle regole anti-Covid la notte di Capodanno, che nel giorno precedente, cioè il 30 dicembre. A dirlo sono i dati del Viminale, secondo i quali il 31 notte sono state 179 le sanzioni elevate dalle forze dell’ordine per il mancato rispetto del Green pass, mentre il giorno precedente erano state elevate 242 infrazioni. Una decrescita dovuta anche al minor numero di controlli effettuati: il 31 sono state infatti controllate 83.988 persone, il giorno precedente 108.395. Stesso discorso per gli “esercizi commerciali”: a Capodanno sono stati 78 i titolari di attività sanzionati sui 9.982 controlli effettuati, il giorno precedente erano stati 147 ma su 12.655 controlli. In pratica, siamo stati più bravi ma solo perché a Capodanno si è controllato meno.

E ciò nonostante la circolare inviata dal Viminale il 30 dicembre “In materia di controlli sull’osservanza delle disposizioni finalizzate al contenimento dell’epidemia”, nella quale si sottolineava “l’esigenza di una mirata intensificazione dei dispositivi di controllo”, “anche nelle giornate prefestive e festive, specie nelle zone centrali e in quelle contraddistinte da una maggiore concentrazione di locali ed esercizi aperti al pubblico”. Al centro dell’attenzione, il divieto di feste in piazza e la chiusura di discoteche e locali da ballo. La circolare prevedeva poi controlli più accurati sul “green pass rafforzato”, obbligatorio dal 1° gennaio per l’accesso a musei, luoghi di cultura, mostre, piscine, palestre, centri benessere al chiuso, termali, parchi tematici e di divertimento, sale giochi e bingo. Compresi i controlli sul caffè al banco (solo col Super green pass). Ieri, è stato segnalato solo un caso di bevitore di caffè al banco sprovvisto di certificato, a Tor Bella Monaca (Roma), 400 euro di multa a lui e al proprietario.

I Nas hanno ispezionato 162 locali tra ristoranti, pub e luoghi di aggregazione, controllando 4.057 persone e contestando 19 violazioni all’obbligo del Super green pass, tra clienti e titolari, ritenuti responsabili di omessa verifica del certificato, per oltre 10 mila euro di sanzioni amministrative. Sei i locali che hanno chiuso i battenti: 2 nella provincia di Catania e 1 ciascuna nelle province di Taranto, Parma, Brescia e Cremona. A Sestriere (To) è stato nuovamente sanzionato il Tabata, storico locale: 10 giorni di chiusura per inosservanza delle norme Covid. La palma dei più onesti va ai trevisani: su 2.500 controlli a persone e locali, non è stata riscontrata alcuna irregolarità. Miracolo.

La non particolare “rigidità” dei controlli ha creato malumori. Soprattutto tra i gestori di discoteche, ferme fino al 31 gennaio (400 quelle chiuse solo in Lombardia, per un fatturato perso col Capodanno di 120 milioni). I gestori puntano il dito contro quanti si sono organizzati feste private in casa e dj set nei ristoranti. Per Roberto Cominardi, presidente di Silb Fipe Milano, l’Associazione italiana delle imprese di intrattenimento, “a un titolare conviene depositare la propria licenza di discoteca e aprire un ristorante”. Escamotage che molti hanno abbracciato, ma cambiare la “Scia” (Segnalazione certificata di inizio attività ndr) dall’intrattenimento a bar e ristorante è costoso. In attesa di ristori che non arrivano, Cominardi ha attaccato la chiusura, definendo il decreto “un regalo di Natale inaspettato” del governo: “Arrivare con questa decisione a sei giorni da una data così importante, dimostra una mancanza assoluta di conoscenza del comparto. Molti locali sono talmente disperati che stanno tirando dritto nonostante il ddl, c’è una tale preoccupazione per la tenuta economica delle aziende che spinge gli imprenditori a essere quasi dei bucanieri”.

Quarantene, la circolare corregge il dl. Ignorato il Cts sulle attività “essenziali”

Sembra una svista ed è improbabile che qualcuno la impugni, ma la contraddizione c’è, o almeno una certa confusione. L’ultimo decreto Covid-19, n. 229 del 30 dicembre 2021, prescrive che “la cessazione” del nuovo regime di “auto-sorveglianza” – introdotto al posto della quarantena per i triplovaccinati e i doppio vaccinati o guariti da meno di 4 mesi entrati in contatto stretto con un positivo – “consegue all’esito negativo di un test antigenico rapido o molecolare”. Così si capisce che, oltre all’obbligo di mascherina Ffp2 per 10 giorni, c’è il tampone cosiddetto in uscita, non si sa dopo quanti giorni. La successiva circolare del ministero della Salute definisce in 5 giorni il periodo di “auto-sorveglianza” e non accenna al tampone in uscita, ripete solo che “è prevista l’effettuazione di un test antigenico rapido o molecolare per la rilevazione dell’antigene Sars-Cov-2 alla prima comparsa dei sintomi e, se ancora sintomatici, al quinto giorno successivo alla data dell’ultimo contatto stretto con soggetti confermati positivi al Covid 19”.

Insomma il contatto stretto asintomatico, se triplovaccinato o doppiovaccinato o guarito da meno di 4 mesi, non fa più il tampone. Mai. Se sintomatico invece si arriva a due in 5 giorni. Perfino il positivo, se triplovaccinato o doppiovaccinato o guarito da meno di 4 mesi, non fa test in uscita in assenza di sintomi. È tenuto però ai 7 giorni (e non più dieci) di isolamento. L’obiettivo del governo, condiviso dal Comitato tecnico scientifico, era infatti ridurre isolamenti e quarantene – con oltre 100 mila casi rilevati al giorno diventano milioni – ma anche diminuire il carico di tamponi che mette in crisi le Asl e perfino i privati.

Il risultato è il consueto indigesto groviglio di rimandi alla precedente decretazione, il governo dei Migliori non riesce a scrivere le norme meglio del Conte 2. Del resto mercoledì i ministri e i tecnici erano più concentrati sull’estensione del Super green pass, che divideva le forze politiche e dal 10 gennaio consentirà ai non vaccinati solo di andare al lavoro, a scuola e nei negozi, purché senza usare i mezzi pubblici. Però se domani qualcuno fosse infettato da un triplovaccinato mai tamponato, uscito senza test dall’autosorveglianza o dall’isolamento ma positivo e contagioso, il suo avvocato potrebbe sostenere che la circolare ha escluso il tampone in uscita previsto dal decreto legge, fonte superiore. In ambienti di governo riconoscono la poca chiarezza delle disposizioni ma non vedono contraddizioni: il decreto, nell’interpretazione di chi l’ha scritto, si riferisce solo ai sintomatici, lasciando alla circolare gli asintomatici. Il resto lo chiariranno con le nuove Faq. È invece chiaro che i non vaccinati, chi ha fatto una sola dose o anche due ma da meno di 14 giorni, in caso di contatto stretto faranno sempre 10 giorni di quarantena con test negativo anche antigenico all’uscita; cinque e non più sette giorni di quarantena per chi ha avuto due dosi da oltre 4 mesi, sempre con tampone negativo all’uscita.

Nel decreto non c’è traccia delle raccomandazioni del Comitato tecnico scientifico, che dopo lunga discussione aveva suggerito di distinguere tra le attività “essenziali”, cioè lavoro, salute e necessità primarie, da quelle “ludico ricreative” come andare al ristorante o in palestra o al cinema, ipotizzando l’esclusione di queste ultime per le persone in “auto-sorveglianza”. È rimasta lettera morta anche la raccomandazione di sottoporre a test ogni 48 ore i lavoratori in “auto-sorveglianza” a contatto con il pubblico; c’è solo quello, ogni 24, per gli operatori sanitari in “auto-sorveglianza”. Ovviamente i pareri del Cts non vincolano il governo, però buona parte della comunità scientifica è molto prudente sull’eliminazione della quarantene e quindi non è superfluo rilevare che l’esecutivo è andato al di là di quanto suggerito dai suoi esperti. La scelta è tutta politica. Una forte stretta sui non vaccinati, fino all’ipotesi di escluderli anche dal lavoro che sarà discussa il 5 gennaio dal governo; la rinuncia a qualsiasi chiusura, scuole comprese; l’allentamento della sorveglianza sulla circolazione del virus tra i “più vaccinati”, tanto più che la sorveglianza è già in grave affanno. Rischi “ragionati”, si spera

Ancora 140 mila nuovi contagi. Un over80 su 5 senza richiamo

Dopo giorni di record su record, il numero di nuovi contagi in un solo giorno (seppur di pochissimo) diminuisce pur mantenendosi su livelli altissimi: 141.262 casi in 24 ore, circa tremila in meno di venerdì (ma con meno tamponi) e un tasso di positività che sale al 13%. Numeri che portano gli attualmente positivi oltre il milione (1.021.697). Ancora 111 morti e 135 nuovi ingressi in terapia intensiva. I pazienti attualmente ricoverati in rianimazione sono 1.297 (+37 il saldo tra ingressi e uscite nelle ultime 24 ore). I ricoverati con sintomi nei reparti ordinari sono 11.265 (+115).

Una pressione crescente sul sistema sanitario che da domani, come da circolare del ministero della Salute, colorerà l’Italia prevalentemente di giallo: con l’ingresso nella prima fascia critica di Lombardia, Piemonte, Lazio e Sicilia salgono infatti a 11 le Regioni che hanno cambiato colore. In zona gialla c’erano già Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Marche, PA Bolzano, PA Trento e Veneto. Ma, come noto, salvo obbligo di mascherine all’aperto e limitazioni alle tavolate, cambia poco.

Cambia molto, invece, avere o non avere la terza dose, almeno stando a quanto comunica l’Istituto superiore di Sanità: il tasso di decesso fra gli over 80 nel periodo 29 ottobre-28 novembre, scrive l’Iss, è nei non vaccinati circa nove volte più alto (179 casi ogni 100.000) rispetto ai vaccinati con ciclo completo entro i 150 giorni (19,5 casi ogni 100.000) e ben 56 volte più alto rispetto ai vaccinati con dose aggiuntiva o booster (3 casi ogni 100.000). Stesso discorso per il tasso di ricovero: negli ultraottantenni non vaccinati è otto volte più alto (568 per 100 mila) rispetto ai vaccinati completi da almeno 120 giorni e 41 volte più alto rispetto ai vaccinati con booster.

Eppure in Italia un ultraottantenne su 5 (quasi un milione di persone) non ha ancora fatto la terza dose nonostante avrebbe i requisiti per riceverla. Più del 20% della platea. E nelle altre fasce a rischio va anche peggio. Mancano all’appello 1 milione e 867 mila persone tra i 70 e i 79 anni (poco meno del 40% della platea), quasi tre milioni di 60-69enni (circa la metà della popolazione interessata), circa 4 milioni e mezzo di 50-59enni (il 60% circa) e quasi 5 milioni di 40-49enni, oltre il 70% della platea. Si tratta di poco meno di 15 milioni di persone potenzialmente a rischio attualmente prive di terza dose. Un ritardo nella campagna non indifferente.

Nelle fasce di età più giovani, poi, le percentuali calano ancora per quanto, come noto, il rischio di malattia grave diminuisce sensibilmente: tra i 30 e i 39 anni i trivaccinati sono il 19,42%, il 16,83 tra i 20 e i 29, il 3,70 tra i 12 e i 19 anni.

Nel complesso a fine 2021 sono 19.563.209 le terze dosi inoculate, che corrispondono al 63,1% della popolazione potenzialmente oggetto di dose addizionale o booster.

I bambini tra i 5 e i 12 anni vaccinati fino al 31 dicembre sono infine 312.659, l’8,54% della platea interessata.

Sardegna, la Procura chiede il processo per il presidente Solinas: “Abuso d’ufficio”

A un anno dalla chiusura delle indagini, la Procura di Cagliari ha chiesto il rinvio a giudizio per il presidente sardo-leghista, Christian Solinas, per la sua capa di gabinetto (nonché magistrato del Consiglio di Stato) Maria Grazia Vivarelli e per l’assessore regionale al Personale, la leghista, Valeria Satta. Un atto anticipato dal sito di informazione indip.it. La vicenda si riferisce alle nomine – uno dei primi atti voluti dal neo-eletto governatore nel 2019 – a capo della Protezione civile di Antonio Belloi e a direttore generale della presidenza della Regione di Silvia Curto. Due nomine che, secondo il pm Andrea Vacca, non si sarebbero potute fare causa mancanza di requisiti. Nessuno dei due, infatti, avrebbe avuto i cinque anni di esperienza dirigenziale richiesti dalla normativa. Curto aveva diretto uno studio legale; Belloi una società sportiva di dilettanti, come rivelato dal Fatto.

Per Solinas l’accusa è abuso d’ufficio. Più gravi quelle delle due collaboratrici. Secondo la ricostruzione dei magistrati, l’allora dg dell’assessorato al Personale, Carmine Spinelli, si rifiutò di siglare il parere di legittimità sulle nomine. Per convincerlo, Vivarelli avrebbe fatto pressioni assicurando che “le carte sono a posto” (da qui l’accusa di induzione indebita). Satta invece è accusata anche di tentata concussione, perché avrebbe fatto “giungere a Spinelli” attraverso altre persone “il messaggio secondo cui, se non avesse dato il parere di legittimità alle nomine”, “non avrebbe firmato il rinnovo del contratto” allo stesso Spinelli. Spinelli, per la cronaca, si dimise senza firmare. I legali degli interessati hanno rifiutato di commentare. Ora starà al gip decidere se celebrare il processo.

Di sicuro Solinas fece di tutto pur di nominare i due. Anche cambiare l’allora responsabile dell’Anticorruzione regionale, Ornella Cauli, che da subito aveva sollevato dubbi sui contratti. La Cauli il 28 gennaio 2021 fu sostituita nelle sue mansioni di controllo (dopo un periodo nel quale le fu impedito di operare, come segnalato all’Anac) dalla dirigente Federica Loi, la stessa che nel gennaio del 2020 aveva siglato i contratti di assunzione di Curto e Belloi. Loi che poi, in qualità di nuova responsabile dell’Anticorruzione, in un incredibile cortocircuito istituzionale finirà sotto il diretto comando proprio di Curto. Tuttavia anche Federica Loi deve aver avuto più di un dubbio sulla liceità delle nomine: quando assunse Belloi in Regione, al contratto aggiunse una clausola “singolare” che impegna Belloi “qualora sia accertata la mancanza dei requisiti di legge concernenti l’incarico”, a “rifondere a titolo risarcitorio alla Regione un importo pari alle somme indebitamente percepite”.

I giudici di larghe intese e B. che si ritira, poi cambia idea

2012, 11 gennaio. Primo scandalo sul nuovo governo Monti: si dimette il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Malinconico per una storia – svelata dal Fatto – di vacanze all’Argentario da 20.000 euro pagate dal costruttore Piscicelli per conto della “cricca”. Qualcosa cambia, nello stile di governo. In Parlamento, invece, tutto come prima.

12 gennaio. La Camera salva dall’arresto per la seconda volta in un anno Nicola Cosentino, per cui i giudici di Napoli hanno di nuovo disposto la custodia cautelare, stavolta per riciclaggio con l’aggravante camorristica: determinanti i voti pro Cosentino dei radicali eletti nel Pd e della Lega Nord. La Corte costituzionale boccia i referendum promossi da Antonio Di Pietro, Arturo Parisi e Mario Segni per abolire il Porcellum e ripristinare il Mattarellum: le firme di 1.210.466 cittadini che speravano di tornare a scegliere i propri parlamentari finiscono nel cestino.

25 febbraio. Processo Mills a carico di Berlusconi per corruzione giudiziaria del testimone: grazie alle manovre dilatorie della difesa e dei giudici, il Tribunale di Milano salva la tregua politica delle larghe intese e dichiara la prescrizione del reato (scattata il 15 febbraio, cioè da appena dieci giorni). Le motivazioni della sentenza saranno firmate dalla sola presidente Giovanna Vitale, segno evidente del dissenso delle due giudici a latere.

2 marzo. Al vertice europeo del Ppe, Berlusconi confida ai suoi che al segretario del Pdl e suo delfino designato Angelino Alfano “manca un quid e soprattutto la storia”.

9 marzo. Anche la Cassazione salva il clima di larghe intese evitando che una sentenza possa turbare la “tregua” e annulla con rinvio a un nuovo appello la condanna di Marcello Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. I giudici ritengono provati i suoi rapporti con Cosa Nostra dai primi anni 70 al 1977 e dal 1982 al ’92, ma non nel quinquennio intermedio. Dell’Utri, fuggito a Santo Domingo alla vigilia del verdetto per paura di finire in carcere, può rientrare serenamente in Italia. Anzi, in Senato.

13 giugno. La Procura di Palermo, a fine inchiesta, deposita gli atti sulla trattativa Stato-mafia e si accinge a chiedere il rinvio a giudizio per 12 indagati. Sei per Cosa Nostra: Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca, Cinà e Massimo Ciancimino. E sei per lo Stato: gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, il senatore di FI Marcello Dell’Utri e gli ex ministri Dc Calogero Mannino e Nicola Mancino. Sono tutti accusati di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, tranne Mancino che risponde “soltanto” di falsa testimonianza. Il presidente Napolitano scatena la guerra ai pm, trascinandoli addirittura dinanzi alla Consulta, perché hanno intercettato sui telefoni di Mancino diverse chiamate con l’ex ministro, con il consigliere del Colle Loris d’Ambrosio (trascritte e depositate agli atti) e alcune anche con il capo dello Stato in persona.

23 giugno. La Procura di Milano indaga il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, per corruzione: si parla di tangenti dal gruppo Maugeri (e, in seguito, dal San Raffaele).

27 settembre. Napolitano chiede “provvedimenti di clemenza”: amnistia o indulto.

24 ottobre. Berlusconi annuncia che non si ricandiderà alla presidenza del Consiglio e fissa per il 16 dicembre le elezioni primarie del centrodestra per designare il suo successore. Che, secondo il suo entourage, dovrebbe essere Alfano.

26 ottobre. Nel processo sui diritti Mediaset, il Tribunale di Milano condanna Silvio Berlusconi per frode fiscale a 4 anni di reclusione (3 coperti da indulto) e a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici. L’intermediario-prestanome Frank Agrana è condannato a 3 anni, Fedele Confalonieri assolto. Il Cavaliere tuona: “Condanna politica, incredibile e intollerabile, da Paese barbaro e incivile”.

28 ottobre. Pessime notizie per il Cavaliere anche dalle Regionali in Sicilia: i suoi acerrimi nemici 5Stelle diventano il primo partito (14,9%), mentre il Pdl perde 20 punti racimolando soltanto il 12,9. Per effetti della legge elettorale regionale, che premia le coalizioni e le liste civetta, diventa presidente il candidato del centrosinistra Rosario Crocetta.

6 dicembre. Berlusconi fa annunciare da Alfano che si ricandida a premier per il centrodestra e che le primarie sono annullate.

7 dicembre. Berlusconi manda avanti Alfano a dichiarare “conclusa l’esperienza del governo Monti”. L’indomani Monti si dimette e Napolitano, anziché rinviarlo al Parlamento per istituzionalizzare la crisi, accetta le sue dimissioni e scioglie le Camere un mese prima della scadenza. Poi anticipa anche le elezioni comunali e regionali di primavera, per tenerle insieme a quelle parlamentari nell’Election Day del 24-25 febbraio 2013. Così avrà ben due mesi per gestire il dopo-voto prima di dover lasciare la poltrona al successore, visto che il suo mandato “scade” a metà aprile.

31 dicembre. Il Parlamento approva definitivamente il decreto anticorruzione della ministra della Giustizia Paola Severino, votato da tutti i partiti: 480 sì e 19 no alla Camera, 256 sì e 7 no al Senato. Contro la corruzione fa poco o nulla di nuovo (anzi, la norma che spacchetta la concussione, scorporandone la fattispecie per “induzione” e trasformandola nel reato minore di “induzione indebita”, finirà per favorire Berlusconi nel processo Ruby). Ma contiene una norma dirompente che dichiara decaduti dal mandato e ineleggibili per 6 anni i condannati definitivi a pene superiori ai 2 anni. È una versione light della proposta “Parlamento Pulito” lanciata al VDay del 2007 da Beppe Grillo e fatta propria dal Movimento 5 Stelle. Berlusconi, dando il via libera di FI alla legge nella speranza di arginare l’avanzata “grillina”, non sa che sarà il primo a farne le spese.

2013, 4 gennaio. Il premier dimissionario e senatore a vita Mario Monti, che aveva sempre negato di volerlo fare, presenta la sua lista di centro, “Scelta civica”, in alleanza con i finiani di Fli e l’Udc di Casini. Napolitano, che aveva pubblicamente escluso una discesa in campo del suo premier tecnico, ora lo sponsorizza. Tuoni e fulmini invece, da tutti i palazzi e i giornali, contro gli arrembanti 5Stelle. Ma anche contro il nuovo movimento di sinistra Rivoluzione Civile, fondato dall’ex pm Antonio Ingroia (che assorbe Idv, Verdi, Comunisti italiani, Rifondazione e Arancioni di De Magistris), che su pressione del Colle si vede negare l’apparentamento dal Pd di Pierluigi Bersani, alleato della sola Sel di Nichi Vendola. Complici i nuovi scandali che mandano in coma il Monte dei Paschi di Siena, è l’ennesimo suicidio del centrosinistra. Che, prima di sposare il governo Monti, era strafavorito in tutti i sondaggi.

(25 – continua)

Un fiume di retorica nasconde la “Repubblica delle Banane”

Lo confesso: sono reo di lesa maestà. Abituato a leggere – da storico dell’arte – ogni dettaglio degli autoritratti del potere, mi ha colpito l’insistenza con cui le grandi palme (superilluminate) dei giardini del Quirinale finivano nelle immagini dell’ultimo discorso del capo dello Stato. E ho scherzosamente scritto su Twitter: “La prevalenza della palma nell’iconografia presidenziale. Il ritorno del rimosso: la repubblica delle banane che siamo…”.

Il senso mi pareva chiaro: quel paesaggio caraibico faceva venire in mente una repubblica delle banane, quelle che – come dice Wikipedia – sono governate “da un’oligarchia ricca e corrotta” (cosa ci ricorda?).

Apriti cielo, il capo della comunicazione del Quirinale si è scomodato a blastarmi: “Il professore, anzi il magnifico rettore, si intende sicuramente di arte ma poco di botanica. Il frutto della palma è il dattero, l’albero che produce le banane è il banano…”, aprendo così la strada alla gogna dei giornaloni, genuflessi coi turiboli.

Naturalmente il punto non era la botanica, ma la politica. Avrei potuto anche scrivere che quel paesaggio esotico così insolitamente in evidenza faceva venire in mente un celebre aforisma – altre volte riferito a Napoli, e, insomma, all’Italia – per cui “Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo”. Per suggerire che al fiume di retorica dolciastra e autocelebrativa del discorso presidenziale corrisponde una realtà ben diversa: succede nelle finte democrazie, dove la propaganda prende il posto della verità.

Come accade nel passaggio dedicato alle istituzioni della Repubblica, in cui Mattarella ha ringraziato “innanzitutto il Parlamento, che esprime la sovranità popolare. Nello stesso modo rivolgo un pensiero riconoscente ai presidenti del Consiglio e ai governi che si sono succeduti in questi anni. La governabilità che le istituzioni hanno contribuito a realizzare ha permesso al Paese, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente difficili e impegnativi, di evitare pericolosi salti nel buio”.

Il Parlamento della Repubblica non è forse mai stato umiliato come da questo governo (35 voti di fiducia in 11 mesi): che è nato per volere di Mattarella, attraverso eventi non del tutto limpidi sotto il profilo della sostanza democratica. Lo ha ben compreso quella metà abbondante degli italiani che ha smesso di andare a votare, prendendo atto della totale inutilità di quello che appare ormai come un rito di una religione che non c’è più. Ma su questo nemmeno una parola. E la scelta del termine “governabilità” è essa stessa una spia assai eloquente. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky: “Tra le tante insidie linguistiche che fanno presa nel nostro tempo c’è la ‘governabilità’, una parola venuta dal tempo dei discorsi sulla ‘grande riforma’ costituzionale che hanno preso campo alla fine degli anni Settanta e, da allora, ci accompagnano tutti i giorni. Cerchiamo di rimettere le cose a posto, a incominciare dal vocabolario. (…) Sono i governandi, coloro che possono essere più o meno ‘governabili’ o ‘ingovernabili’, a seconda che siano più o meno docili o indocili nei confronti di chi li governa”. Insomma, la visione di un popolo docile: senza conflitto sociale, senza politica. Cioè senza vera democrazia.

Per non parlare del passaggio in cui Mattarella riconosce che “le dinamiche spontanee dei mercati talvolta producono squilibri o addirittura ingiustizie che vanno corrette anche al fine di un maggiore e migliore sviluppo economico”. Sorvoliamo sull’uso grottesco del “talvolta”, in un Paese letteralmente sfigurato dalle diseguaglianze: ma davvero la bussola non è la giustizia sociale e il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 Cost.), ma lo sviluppo economico? Quale Costituzione ha difeso Mattarella in questi sette anni?

Ma tranquilli: le palme fanno i datteri, non le banane.

Appello “pacificatore” di tre minuti: tutti i segreti del video di B.

Il cluster della vigilia di Capodanno a villa San Martino – 5 dipendenti positivi, oltre ad Antonio Tajani –­ha rallentato un po’ i lavori. Tutti a casa fino a domani, quando si entrerà nel vivo dell’operazione Quirinale. Un sogno che Silvio Berlusconi cavalca da settimane e che lo porterà a Roma già nei prossimi giorni per intensificare lo scouting parlamentare. Deve trovare ancora una cinquantina di voti che gli servono per essere eletto. E poi scendere in campo. L’idea che sta prendendo piede negli ultimi giorni ad Arcore, come raccontato dal Fatto a inizio dicembre, è quella di farlo con un videomessaggio simile a quello della discesa in campo del 27 gennaio 1994. Esattamente ventotto anni dopo. Oppure, in alternativa, con un nuovo “predellino” come quello di piazza San Babila (era il 18 novembre 2007) con cui l’allora Cavaliere annunciò la nascita del Popolo delle Libertà fingendo che tutto fosse casuale. Stavolta, però, il “predellino” del Colle dovrebbe essere a Roma, vicino al Palazzo.

Sta di fatto che per far eleggere Berlusconi al Colle è stata creata una war room ad Arcore. Chi ne fa parte contatta parlamentari, aggiorna il pallottoliere e studia le mosse della comunicazione. Si articola su due livelli: il primo è quello di coloro che tengono l’agenda e si occupano di andare alla caccia dei parlamentari e ne fanno parte Tajani, Licia Ronzulli, il capogruppo di Forza Italia alla Camera Paolo Barelli, Sestino Giacomoni e Andrea Orsini; il secondo invece sta più in alto ed è formato dalle tre eminenze grigie di Berlusconi: Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Marcello Dell’Utri. Hanno il compito di agganciare i leader di partito e di capire le mosse degli avversari di Berlusconi al Colle, a partire dal premier Mario Draghi. Niente è lasciato al caso. Ogni mossa del leader di FI è studiata nel minimo dettaglio, dagli auguri di Natale e Capodanno fino alle interviste rilasciate ai giornali, lette e rilette dai suoi spin doctor anche per una settimana. Obiettivo: lisciare il pelo al M5S (“il reddito di cittadinanza aiuta i poveri”), ai peones del Misto (“Draghi deve rimanere a Chigi, se eletto c’è il voto”) o ai centristi cattolici (vedi la mozione al Parlamento Ue contro le persecuzioni in Myanmar). Ogni frase è rivolta a un singolo parlamentare.

La priorità è trovare i voti in Parlamento. Poi, se nel vertice del 10 gennaio i suoi alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni decidessero di puntare su di lui, a ridosso della prima “chiama”, ci sarà l’annuncio. Che potrebbe arrivare con un videomessaggio stile ’94: un discorso breve, da 3-4 minuti, in cui il leader di Forza Italia si rivolgerebbe agli italiani invocando speranza per un 2022 migliore fatto di “vaccini per tutti”, la ripartenza del Paese e la pacificazione nazionale dopo “trent’anni di guerra politica”. “Un nuovo sogno italiano” dovrebbe essere lo slogan. In questo caso sarebbe registrato ad Arcore o a villa Grande. L’altra opzione che sta prendendo piede ad Arcore è quella di una breve dichiarazione a tv e stampa da fare nei pressi dei palazzi della politica romana per ufficializzare la sua candidatura.

Un segnale è arrivato venerdì con gli auguri di fine anno. Se Matteo Salvini ha ringraziato Mattarella rilanciando i referendum sulla giustizia e lavora per un vertice con i leader del centrodestra entro una settimana, Berlusconi non ha mai nominato il capo dello Stato. Dopo aver sentito l’amico Vladimir Putin al telefono, l’ex premier si è rivolto al Paese ergendosi a presidente in pectore: “Che il 2022 sia l’anno della rinascita, della ripresa, del ritorno alla serenità”, ha scritto Berlusconi sui social. Resta un piccolo problema: i voti che gli mancano. E Giovanni Toti, che dovrebbe portargli in dote i 31 di “Coraggio Italia”, già lo avverte: “Se non fa bene i conti, Berlusconi rischia di fare la fine di Prodi”. Il suo peggiore incubo.

Sergio parla al “successore” Ma i fan del bis non mollano

Il venerdì delle Palme, in una sobrietà che richiama quasi l’intimità natalizia del presepio. Il capo dello Stato è in piedi, nel suo ultimo discorso di San Silvestro. Nessuna scrivania, nessuna poltrona. Le bandiere e poi, appunto, le palme presepiali “inquadrate” dalla finestra alle spalle del presidente.

Sergio Mattarella parla per un quarto d’ora e lo snodo politico centrale del suo messaggio è questo, in vista della tormentata successione al Quirinale, prevista nell’ultima settimana di gennaio: “Credo che ciascun presidente della Repubblica, all’atto della sua elezione, avverta due esigenze di fondo: spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell’interesse generale, del bene comune come bene di tutti e di ciascuno. E poi salvaguardare ruolo, poteri e prerogative dell’istituzione che riceve dal suo predecessore e che – esercitandoli pienamente fino all’ultimo giorno del suo mandato – deve trasmettere integri al suo successore”. In pratica, il capo dello Stato riassume il suo settennato di garante della Costituzione, passato anche per i cinque governi che si sono succeduti durante il mandato (Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi), e ne trasmette il senso pieno al suo successore. Non dimentichiamo che a Mattarella è toccato ricostruire il ruolo di presidente dopo i nove anni della monarchia interventista di Giorgio Napolitano, un presidenzialismo di fatto.

Facile quindi scorgere nell’identikit tracciato dal capo dello Stato il profilo del premier Mario Draghi, che resta l’unico nome al momento in grado di ottenere un’elezione “condivisa”. Ma dal Colle invitano più di una volta a non leggere in filigrana il testo. È tutto molto più “semplice” e lineare. Non solo. In vari punti, qualora ce ne fosse ancora bisogno, Mattarella fa capire per l’ennesima volta di non essere disponibile a un bis del mandato. A parte la trasmissione dell’integrità istituzionale al successore, esplicita ammissione che andrà via, c’è anche un altro passaggio in cui specifica la condizione a tempo di chi è impegnato nella vita pubblica del Paese, laddove Mattarella si sofferma sul “patriottismo volto reale di una Repubblica unita e solidale”: “Questo legame (tra istituzioni e società, ndr) va continuamente rinsaldato dall’azione responsabile, dalla lealtà di chi si trova a svolgere pro-tempore un incarico pubblico, a tutti i livelli”. Eppure, nonostante l’evidenza, in taluni ambienti di Pd, 5S e destra che tifano per il Mattarella bis (e Draghi prigioniero a Palazzo Chigi) questo discorso viene tradotto con speranza e non con rassegnazione, in sofisticate esegesi del testo. Per la serie: oltre a Draghi, quel profilo tratteggiato ce l’ha solo l’attuale capo dello Stato. Difficilissimo però considerare questo testo prodromico di un bis. Anche perché d’ora in poi il presidente, salvo un paio di appuntamenti già in agenda, si “inabisserà”. Non a caso, nella Lega salviniana la lettura è opposta: “Prendiamo atto dell’indisponibilità, ripetuta più volte, di Mattarella al bis”.

Ovviamente, il capo dello Stato ha dedicato ampio spazio alla pandemia. Forti le parole sui vaccini: “Cosa avremmo dato, in quei giorni (“le bare trasportate dai mezzi militari”), per avere il vaccino? Sprecare questa opportunità è anche un’offesa a chi non l’ha avuta e a chi non riesce oggi ad averla”.

Una sola citazione, infine, nell’ultimo San Silvestro del settennato e riservata alla “commovente lettera” di Pietro Carmina, il professore morto nel crollo di Ravanusa. Siamo nella consueta parte rivolta ai giovani e Mattarella fa sue le parole del docente di filosofia e storia: “Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita”.

Nuda proprietà

Siccome dopo le Feste siamo tutti più buoni e soprattutto ieri non uscivano i giornali, abbiamo letto i pensierini per il nuovo anno del direttore dell’Huffington Post, Mattia Feltri, affascinati dal titolo “Solo Berlusconi e Letta possono salvare Draghi (e l’Italia)”. L’idea del tutto inedita che B. possa salvare non solo Draghi, ma financo l’Italia intera, ci ha spronati ad avventurarci nella prosa feltriana. E tutto ci è apparso chiaro già dall’incipit: “Due persone possono salvare il Paese dal disastro di sottrarre il Quirinale a Mario Draghi, con la conseguenza di sottrargli anche il governo…”. Orrore: qualcuno, forse uno spirito maligno, più probabilmente un complotto demoplutogiudaicomassonico, vuole “sottrarre il Quirinale” a Mario nostro e, quel che è più grave, “sottrargli anche il governo”. Ma si può? Che notizia. Noi, gente semplice, ci eravamo abituati all’idea – propalata per tutto l’anno dal gruppo Gedi, editore del sito clandestino – che Draghi dovesse restare a Palazzo Chigi fino al 2023, lasciando sul Colle un Mattarella o un Amato a ore come scaldasedia e scaldaletto. Ma poi anche dopo (previa abolizione delle elezioni), almeno fino al 2028 o meglio ancora a vita. Poi si è scoperto dalla sua viva voce, alla vigilia di Natale, che s’è già stufato di governare, dunque ritiene compiuta la missione. E ambisce a passare a miglior vita, ma sempre su questa terra: traslocando da Palazzo Chigi al Quirinale.

A quel punto i Cavalieri Gedi si sono un po’ disuniti: alcuni lo vorrebbero ancora lì, imbullonato a Palazzo Chigi contro la sua volontà; altri ritengono “un disastro” non accontentarlo aviotrasportandolo al Quirinale che – apprendiamo or ora – è già di sua proprietà. Ma c’è chi vorrebbe “sottrarglielo” col tipico esproprio proletario. Siccome però, non contenti, gli anonimi scippatori vorrebbero pure “sottrargli il governo”, ne deriva che Draghi, zitto zitto, s’è comprato pure Palazzo Chigi. Tutto fra Natale e Capodanno. E noi vorremmo tanto conoscere l’agenzia immobiliare, i compromessi e i rogiti, l’entità degli anticipi, le forme di finanziamento, i dettagli dei mutui (Banca d’Italia? Montepaschi? Antonveneta? Goldman Sachs?), ma soprattutto sapere quale sia la prima casa e quale la seconda. Secondo voci non confermate, la seconda è il Quirinale, che presenta le incertezze tipiche del villino al mare o dello chalet in montagna, dove si va quando capita, in base agli impegni e al tempo che fa. Altri sostengono che Draghi, per Palazzo Chigi, abbia fatto valere l’usucapione (sia pure di undici mesi scarsi) e che del Quirinale abbia acquistato solo i muri, per non insospettire l’anziano inquilino: la nuda proprietà, insomma, rinviando l’usufrutto a tempi migliori. Anzi, Migliori.

Per l’industria delle 4 ruote il bilancio di fine anno è impietoso

Il bilancio di fine anno dell’auto italiana non è lusinghiero. Tra incertezze economiche, emergenza sanitaria e crisi dei semiconduttori, il rosso nelle immatricolazioni si annuncia profondo: tra pochi giorni sapremo se verrà confermata la previsione degli addetti ai lavori di non arrivare nemmeno a un milione e mezzo di nuove targhe per il 2021.

Comunque sia, rimarremo lontani dalla soglia dei due milioni, quella che nondimeno garantirebbe ciò di cui c’è più bisogno: lo svecchiamento del parco auto circolante italiano (che viaggia verso i 12 anni di anzianità media), unica vera urgenza nell’ottica di avere un’aria più respirabile.

In più, ci si mette anche la politica ad alimentare le incertezze degli automobilisti. Nella prossima legge di bilancio non c’è uno straccio di provvedimento (né temporaneo né tantomeno strutturale) a sostegno della cosiddetta “transizione” verso l’elettrico. Dove le virgolette stanno a indicare che si tratta più di un’imposizione dall’alto, leggi Bruxelles. Disposizioni davanti a cui l’Italia china la testa lavandosene pilatescamente le mani, sventolando ipotesi (tutte da confermare) di stop ai motori endotermici senza sostanzialmente dire con quali modalità questo accadrà.

In altri termini, come sarà possibile passare dalla mobilità tradizionale a quella a elettroni, senza step intermedi e senza avere un piano ben definito? È questo il dilemma che ci lascia quest’anno infausto; e che probabilmente ci accompagnerà per quelli a venire.