“I film ci faranno volare come le auto del futuro”

Quaranta gradi e una standing ovation da trionfo. Un duplice calore ha accolto Francis Ford Coppola ieri sera al Teatro Manzoni di Bologna, attesissimo ospite del Cinema Ritrovato che l’ha invitato a incontrare il pubblico in una Masterclass, ma anche a presentare di persona la versione “definitiva” di Apocalypse Now prevista stasera in piazza Maggiore: “Finalmente nella sua versione giusta, quella che ho sempre voluto dopo mille work in progress”.

Dalle origini italiane alle nuove tecnologie digitali, dagli esordi da assistente di Roger Corman (“che mi ha insegnato a lavorare con bassissimi budget”) alla chance di fare il Padrino a soli 30 anni (“ma nessuno credeva che sarebbe diventato un blockbuster!”), Coppola ha intrattenuto l’auditorium spaziando negli angoli remoti della propria esperienza e dell’universo-cinema facendo presente “che tante sono le professioni e altrettanti i momenti di lavorazione, e non si può parlare del cinema così genericamente”.

Ricevuto con tutti gli onori dal “collega e coetaneo” Marco Bellocchio in veste di presidente della Cineteca di Bologna (“per quanto lontanissimo in chilometri e stili, ammetto di essere stato influenzato anche io da Coppola”), il figlio di un flautista italiano di successo – emigrato negli States agli inizi del secolo scorso – ha confessato la sua crescente curiosità per il cinema che verrà, inevitabilmente e radicalmente modificato dalle tecnologie digitali. “Al momento sono interessato al live cinema che ancora non esiste, a discapito della tv in diretta che esiste da sempre. Immaginate, potremmo avere tutte le immagini in tempo reale grazie alle tecnologie sviluppate per le riprese sportive”. Per questo suo afflato verso il futuro e le nuove generazioni, il premio Oscar ha voluto espressamente che le domande venissero dagli studenti di cinema presenti in sala più che dai moderatori Gian Luca Farinelli e Paolo Mereghetti. “Trovate la vostra voce personale quando pensate che la tecnologia sembra prendere il sopravvento”, ha risposto a una studentessa di fotografia, e ancora: “Scrivete subito le vostre idee su un pezzo di carta per non dimenticare le emozioni che ve l’hanno portate, io faccio così”, ha suggerito a un’altra.

Ma poiché il futuro inizia dal passato e “le nostre radici e cultura arrivano dal vecchio cinema, quello che ci affolla la mente e i ricordi con mille capolavori”, il grande autore ha ribadito il paradosso di sua figlia “Sofia, che sta girando un film in pellicola, perché innamorata del vecchio cinema però – ha ribadito papà Francis – lei farà tutta la post produzione in digitale e il film sarà anche proiettato in digitale, quindi è comunque diverso da come si faceva ai miei tempi, è un ibrido!”. Un ibrido come lui stesso si percepisce, sia anagraficamente sia nella propria evoluzione artistica, cresciuta fra Hollywood e il cinema europeo, “che ho scoperto esattamente mentre iniziavo a interessarmi a questo medium nuovo e straordinario”.

Paragonando il cinema “analogico” alle vecchie macchine a motore “che amiamo tanto” e quello nuovo alle “auto del futuro che sapranno volare”, Coppola ha trovato una sintesi felice: “Noi voleremo col cinema del futuro ma continueremo a farlo scrivendolo, girandolo e montandolo: da lì non si scapperà, certo già lo stiamo facendo in una maniera più rapida e mirabolante”.

Innocenti evasioni dalla prigione del tempo

Anticipiamo stralci dell’intervento che William Boyd terrà domenica alla Milanesiana.

Vorrei cominciare con una gemma splendente di bellezza e profondità, una citazione di Vladimir Nabokov: “La culla dondola sopra un abisso, e il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è solo un breve spiraglio di luce tra due eternità fatte di tenebra”.

“Il buonsenso”. Credo che la consapevolezza di tale situazione sia la verità fondamentale sulla natura umana: il fatto che le nostre vite non siano altro che il modo in cui ci occupiamo di questo “spiraglio di luce” tra due eternità di tenebra plasma ogni cosa che ci rende umani ed è responsabile di tutto ciò che di buono – e di cattivo – c’è in noi.

Si potrebbe ribattere che, se si segue una fede religiosa, secondo cui la vita e l’aldilà sono stabilite e in qualche modo controllate da un essere soprannaturale – un dio o più dèi –, allora questa consapevolezza della nostra esistenza finita e limitata nel tempo non è più pertinente. D’altro canto, si potrebbe obiettare che la fede religiosa è stata creata espressamente per confondere e smentire questa convinzione primordiale: una fede che è stata creata, per dirla con le parole di Philip Larkin, per “fingere che non moriremo mai”. Ma qualunque sia la natura di una fede in un essere soprannaturale e qualunque siano i suoi fondamenti indimostrabili, sono convinto che a rendere la nostra specie unica tra la fauna di questo piccolo pianeta, orbitante intorno alla sua insignificante stella, sia il fatto che sappiamo di essere intrappolati nel tempo, impigliati brevemente tra queste due eternità fatte di tenebra – la tenebra prenatale e quella postuma. Questa consapevolezza che possediamo – che sia tutto qui, che il tempo a nostra disposizione sulla terra non è una prova generale per l’immortalità in qualche astratto cielo, nirvana o paradiso – è insita nel nostro essere a un livello fondamentale e irremovibile.

Nessuno degli altri animali condivide tale consapevolezza, tale presa di coscienza, tranne forse gli scimpanzé, i nostri cugini più vicini. […] La malvagità, quella cattiveria indescrivibile ed evidente nel comportamento umano, è un segno di quell’autoconsapevolezza al pari del bene disinteressato e martirizzante di cui siamo altresì capaci? Soltanto gli esseri umani e gli scimpanzé infliggono a se stessi e ad altre specie delle sofferenze in modo gratuito e intenzionale. Il riconoscimento di queste tendenze opposte in noi stessi ha fatto sì che noi – l’homo sapiens – sviluppassimo nei secoli i principi morali per cercare di controllare i nostri eccessi peggiori – sebbene basti accendere la televisione per vedere dove e come possono venir meno fin troppo facilmente.

“La prigione del tempo è sferica e senza uscite”, dice Nabokov. Cosa fare davanti a questi lavori forzati universali e inesorabili? La risposta risiede, credo, nella “speranza”. “La speranza sgorga eterna nel petto umano,” scrisse Alexander Pope. E credo che questa sia un’altra fondamentale verità su ciascuno di noi. Essendo prigionieri del tempo, scontiamo la nostra condanna sperando che tutto vada per il meglio. In un certo senso, nasciamo tutti ottimisti, e anche se magari esitiamo a definirci tali, speriamo che questa breve avventura che stiamo intraprendendo, per i pochi decenni che abbiamo da trascorrere sulla terra, sarà qualcosa di speciale, unico, che ne varrà la pena. Persino i pessimisti più incalliti devono sperare in qualche angolo delle loro anime che il loro pessimismo magari non si realizzi, che possa esserci uno spiraglio di luce alla fine del tunnel. Il pessimismo ininterrotto o la misantropia non sono una condizione umana naturale. […]

L’istinto umano naturale non è quello di cedere alla disperazione, per quanto forte sia la sofferenza, ma in qualche modo di sperare – sperare contro ogni speranza – che finirà e le cose miglioreranno. Questa fondamentale capacità di sperare spiega in che modo la gente possa sopravvivere a orrori inimmaginabili. Qualcosa di resiliente nello spirito umano ci porta sempre a rivolgerci verso la luce piuttosto che verso le tenebre.

Il cantautore Paul Simon ha scritto una bellissima canzone intitolata Hearts and Bones, e c’è un verso del brano che risuona sempre per me: “L’idea che la vita potrebbe essere migliore è scritta indelebilmente nei nostri cuori e nelle nostre ossa”. Credo che questa sia una meravigliosa definizione della speranza riferita alla condizione umana. Ma c’è qualcosa di più preciso che speriamo? Qualcosa che va al di là della vaga aspirazione che “la vita potrebbe essere migliore”? Il grande romanzo di James Joyce Ulisse termina con un monologo: Molly Bloom chiede qual è la parola che tutti conoscono. Si accende un dibattito, ma quasi tutti convengono sul fatto che la parola sia “amore”. Che è l’oggetto della speranza. La mia opinione – e ancora una volta è questo a renderci umani – è che noi tutti bramiamo questa sola cosa – la parola che tutti conoscono. Poiché il fatto che viviamo tra due eternità di tenebra è saldamente ancorato alla nostra coscienza, cerchiamo un elemento in grado di alleviare e compensare quella brutale realtà. E credo che la compensazione che tutti noi cerchiamo sia l’amore. Vogliamo dare amore e vogliamo esseri amati, nessuno escluso. Ecco cosa speriamo, ecco cosa rende sopportabile il nostro soggiorno nella prigione del tempo – in realtà, molto più che sopportabile: capace di redimere, di migliorare la vita e di sfuggire al tempo. […]

Ho cominciato con una citazione e vorrei chiudere con un’altra di Emily Dickenson, che in quattro versi dice più o meno tutto quello che ho cercato di esporre qui stasera: “La Speranza è quella cosa piumata che si viene a posare sull’anima/ Canta melodie senza parole e non smette mai”.

 

L’atomo dell’Iran è cattivo, quello made in Usa buono

La politica aggressiva degli americani nei confronti dell’Iran, che in questi giorni ha raggiunto il suo pericoloso acme con l’attacco cyber contro i sistemi missilistici iraniani, ha origini lontane che risalgono a trent’anni fa quando nel 1979 la rivolta popolare islamica cacciò lo Scià di Persia, che era totalmente appiattito sugli Stati Uniti, e porterà al potere l’ayatollah Khomeini.

A quell’epoca la situazione sociale in Persia era questa: c’era una sottile striscia di borghesia ricchissima i cui figli e figlie si potevano vedere nelle migliori scuole di Londra, tutto il resto era povertà. L’idea di Khomeini era di trovare una via islamica allo sviluppo, che non fosse né comunista né capitalista, come si evince da una straordinaria lettera che l’Ayatollah inviò a Gorbaciov nel 1989 in cui gli diceva: ora che state lasciando il comunismo non fatevi attrarre dai verdi prati del capitalismo. Il programma di Khomeini, sviluppo ma mantenendo le tradizioni islamiche, ha funzionato bene dal punto di vista sociale perché oggi in Iran c’è un’estesa borghesia che si riconosce nel premier Rouhani, mentre il rispetto delle tradizioni è lasciato alla guida suprema Ali Khamenei.

Questo è il primo tempo della interminabile partita fra Iran e Stati Uniti che non potevano tollerare la cacciata di un loro fantoccio, lo Scià, e l’avvento di un socialismo in salsa islamica. Il secondo tempo inizia con la guerra mossa all’Iran da Saddam Hussein che riteneva lo Stato persiano indebolito dalla caduta dello Scià. Per cinque anni le democrazie occidentali, Stati Uniti in testa, stettero a guardare limitandosi a fornire di armi entrambi i contendenti (il business “non olet”) perché potessero ammazzarsi meglio. Nel 1985 i pasdaran iraniani, male armati ma molto più motivati degli iracheni, erano sorprendentemente davanti a Bassora e stavano per conquistarla. La presa di Bassora avrebbe avuto tre conseguenze. 1) L’unione dell’ovest iracheno con l’Iran, cosa del tutto ragionevole perché si tratta della stessa gente dal punto di vista antropologico, culturale e religioso. 2) La caduta immediata di Saddam Hussein. 3) La creazione di uno Stato curdo nella parte irachena che era stata fino ad allora sotto il tallone di ferro del raìs di Baghdad. Insomma si sarebbe sistemata, in modo politicamente e geograficamente ragionevole, quell’area incandescente. Ma la cosa non poteva garbare agli americani. Per molti motivi, il principale dei quali era forse che un Kurdistan iracheno autonomo sarebbe stato una pericolosa spina nel fianco della Turchia, che si trovava con 12 milioni di curdi, ferocemente repressi, nei propri confini, Turchia che era a quei tempi un’importante e fedele alleato degli Stati Uniti. A quel punto intervennero gli americani. Per ‘motivi umanitari’ naturalmente: “Non possiamo permettere alle orde iraniane di entrare a Bassora, sarebbe un massacro” (gli eserciti regolari sono i nostri, quelli degli altri sono solo “orde”). Risultato dell’‘intervento umanitario’: la guerra Iraq-Iran che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti, terminerà solo tre anni dopo con un bilancio di un milione e mezzo di morti, mentre Saddam, galvanizzato dalle armi, anche chimiche, che gli erano state fornite da americani, francesi e sovietici, aggredirà il Kuwait. E sarà la prima guerra del Golfo dove sotto i bombardamenti degli Usa moriranno 157.971 civili, fra cui 32.195 bambini.

Il terzo tempo riguarda l’aggressione americana all’Iraq di Saddam Hussein del 2003. Risultato: la consegna agli iraniani, senza che questi avessero avuto bisogno di sparare un solo colpo, di quella parte dell’Iraq che gli era stato impedito di conquistare ai tempi della guerra Iraq-Iran.

Il quarto tempo, anche se non in senso cronologico, riguarda la questione nucleare iraniana oggi all’ordine del giorno. Gli iraniani avevano sottoscritto da tempo il Trattato di non proliferazione nucleare e avevano permesso agli esperti dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) di ispezionare le loro centrali nucleari per controllare che l’arricchimento dell’uranio non superasse il 20% (cioè a usi civili e medici, per arrivare all’Atomica l’arricchimento deve essere del 90%). Nel frattempo, e non si capisce bene il perché dati questi presupposti, gli americani avevano cominciato a imporre sanzioni all’Iran per strangolare economicamente quel Paese. Nel 2015 fra i componenti del cosiddetto “5+1”, vale a dire tutti i Paesi che fanno parte del Consiglio di sicurezza più la Germania, si stipulò con l’Iran un nuovo accordo: gli iraniani riducevano l’arricchimento dell’uranio nelle loro centrali dal 20% al 3,67%, concentravano le loro attività nucleari in un solo sito in modo che fosse facilmente controllabile e accettavano, come avevano sempre fatto, le ispezioni dell’Aiea. In cambio ottenevano la cessazione delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti e al loro seguito dall’Unione Europea. La questione sembrava quindi risolta. Ma con l’arrivo di Trump gli Stati Uniti si sono sfilati dall’accordo nonostante gli iraniani lo avessero rispettato al millimetro come è stato confermato dall’Aiea e dall’Unione europea. Ora, un accordo internazionale viene firmato da un governo ma impegna lo Stato che lo sottoscrive. Non è pensabile che venga stracciato a ogni cambio di governo in questo o in quel Paese. Ma così è stato. Non solo gli Stati Uniti hanno incrementato le sanzioni economiche contro l’Iran ma hanno cercato di imporre anche agli altri Paesi, anche a quelli che non sono certamente loro alleati come la Cina, di fare lo stesso. Per ottenere questo obiettivo impediscono alle grandi banche internazionali che gli altri Paesi possano fare transazioni economiche con l’Iran. Per la verità non si capisce perché una banca internazionale non americana debba sottostare a un diktat americano. Ma così è stato e l’Unione europea, sempre molto prona agli Stati Uniti, pronta anche a strisciare ai piedi di the Donald alla moda del ‘duro’ Salvini, per aggirare il diktat ha creato un canale speciale per poter avere rapporti economici con l’Iran dal quale, visto l’accordo del 2015, non ha nulla da temere. Ma gli americani continuano imperterriti. A sanzioni hanno aggiunto altre sanzioni, altre provocazioni, fino ad arrivare all’attacco cibernetico. Trump ha tuonato: “Non permetteremo mai all’Iran di farsi l’Atomica”. Fa un po’ sorridere che un Paese che è seduto su un arsenale di circa 7.000 Atomiche voglia impedire ad un altro, che d’altronde non ne ha nessuna intenzione, a meno che non si continui a fracassarne l’economia, di farsene una. Ma, si sa, gli Stati Uniti sono una Superpotenza e hanno la forza di fare una politica da Superpotenza. Ma quello che veramente non si capisce è perché Israele, che Superpotenza non è, possa possedere tranquillamente da anni missili con testate nucleari puntati direttamente su Teheran senza che nessuno si sogni di comminargli non dico una sanzione economica, ma gli dia almeno una tirata d’orecchie.

“Noi puntiamo al dialogo con tutti, anche con gli Usa”

Il ministro degli Esteri del Venezuela, Jorge Alberto Arreaza Montserrat, è stato in Italia nei giorni scorsi, dove ha incontrato il nuovo direttore generale della Fao, il cinese Qu Dongyu, il consigliere diplomatico del presidente del Consiglio, oltre a una visita in Vaticano. Un tour diplomatico ad ampio raggio. Lo abbiamo incontrato nell’Ambasciata del Venezuela.

Dopo lo scontro con Guaidó, qual è la situazione nel Paese?

Di normalità. I venezuelani stanno andando al lavoro, a scuola e all’università e stanno cercando di riattivare la produzione nazionale. Il Venezuela è un Paese con le sue virtù e i suoi problemi, che cerca di recuperare davanti alle costanti aggressioni.

Come giudica le ultime mosse dell’Amministrazione Trump?

Gli Usa insistono nel dire che tutte le opzioni sono sul tavolo. La nostra opzione principale è il dialogo: con l’opposizione, con gli Stati Uniti e con chiunque voglia dialogare con noi, sempre pronti a proteggere il nostro popolo. Auspichiamo che il governo di Washington rifletta e scelga il dialogo. Per l’America Latina c’è sempre il rischio di un’aggressione diretta da parte degli Usa.

Ma quali passi siete pronti a fare all’interno per sbloccare la situazione di scontro?

Quelli già compiuti: aprendo i canali del dialogo ed evitando gli attacchi e le cospirazioni attraverso la nostra Costituzione e sovranità dello Stato. Stiamo partecipando al dialogo di Oslo, aspettando che l’opposizione trovi un accordo e smetta di ricevere istruzioni da Washington, per impegnarsi nel dialogo.

Che giudizio dà della posizione del governo italiano su quanto accaduto nel suo Paese?

La posizione del governo italiano di non giocare in anticipo, di mantenere la prudenza diplomatica e di essere un valido attore per l’intesa e per facilitare le relazioni tra le parti o il contatto con gli Usa, è molto preziosa. Penso che in Europa abbia dato una lezione di diplomazia, molto utile per l’America Latina e in particolare per il Venezuela.

Senta ministro, secondo la Confindustria del Venezuela la situazione è disastrosa, il Fondo monetario internazionale parla di “totale collasso dell’economia” e di iperinflazione al 10.000.000%. Come risponde a queste accuse?

La gestione di un Paese con un blocco promosso dagli Usa non è semplice, perché non è solo finanziario, ma anche marittimo, impedendo alle navi con cibo, medicinali e materie prime di raggiungere il Paese. Nonostante questo, ci troviamo in un processo di recupero dell’economia. Le cifre del Fmi non coincidono mai con la realtà: la nostra Banca centrale ha pubblicato i dati e l’inflazione è stata del 130.000%, quindi di due cifre più bassa. Questo significa che si è superata la fase dell’iperinflazione. L’istruzione è gratuita, la benzina ha un costo molto basso, i servizi (luce, acqua, gas) vengono sovvenzionati e sono state costruite 2,5 milioni di abitazioni destinate al popolo. Esistono politiche di sussidio diretto come i Comitati Locali di Approvvigionamento e Produzione (Clap) che due volte al mese distribuiscono alimenti a più di sei milioni di famiglie a meno di un dollaro. Tutto questo deve essere calcolato nel salario medio. Non è facile analizzare l’economia di un Paese in transizione verso il socialismo secondo i parametri del capitalismo.

Ma non pensa che il suo Paese abbia da rimproverarsi qualcosa? Ci sono errori fatti che non rifareste?

Un governo può prendere decisioni giuste o sbagliate, dal momento che siamo esseri umani. Ci sentiamo orgogliosi di molte politiche, mentre altre non hanno avuto successo. È molto difficile gestire l’economia nazionale quando esiste un’aggressione come quella che subiamo. Siamo sempre disposti a rettificare, se occorre.

Non è stato un errore la dipendenza esclusiva dal petrolio?

La dipendenza dal petrolio è stata una maledizione imposta dal sistema capitalista in Venezuela nel XX secolo, che ha impedito l’industrializzazione e la diversificazione economica, abbandonando le campagne. Da quando Chávez è arrivato al governo, ha cercato di cambiare questo modello. Non è facile e c’è resistenza, sia interna che internazionale. Il presidente Maduro, nel 2016, ha annunciato la fine del sistema basato sul reddito del petrolio promuovendo un’agenda economica diversificata e basata su 15 motori, tra cui l’agroalimentare, il farmaceutico, quello turistico, il minerario. Il petrolio fa parte del motore idrocarburi, è una leva importante per poter investire nel resto dei settori economici del Paese.

Non crede che ci siano fenomeni di burocratizzazione interna al Psuv al potere?

In Venezuela non è un partito a governare, c’è un governo e un partito della rivoluzione bolivariana. Il governo spetta al presidente della Repubblica. Nello Stato c’è del burocratismo, indipendentemente dal partito. Il burocratismo e la corruzione sono i grandi nemici dell’efficienza e dell’attuazione delle politiche. Lo combattiamo in modo permanente, per superarli, sconfiggerli, abbatterli.

Esistono alleati internazionali in grado di bilanciare il potere degli Usa? E se sì, non temete una subordinazione a Paesi come Cina o Russia?

Il nostro rapporto con la Cina e la Russia è di cooperazione, non di subordinazione. Al contrario, gli Usa hanno sottomesso molti governi indipendenti dell’America Latina che cercavano di sviluppare un modello diverso da quello imposto. In Venezuela governano i venezuelani.

Qual è lo stato del processo bolivariano? La fase politica latinoamericana è cambiata con le elezioni in Argentina e Brasile.

Le prossime elezioni in America Latina cambieranno la situazione politica e geopolitica. I governi progressisti torneranno al potere. Il progetto bolivariano riprenderà il vigore e l’energia che aveva quando sono stati creati la Celac e l’Unasur e i popoli riprenderanno il proprio ruolo, riappropiandosi di spazi persi e conquistandone nuovi.

Crede ancora al Socialismo del XXI secolo? Come si costruisce oggi?

L’alleato principale della costruzione del Socialismo è il popolo e la classe operaia organizzata. Solo un popolo organizzato e consapevole può cambiare la struttura politica e le relazioni di produzione e di proprietà. Il Socialismo è un processo in costruzione, che sta dando i primi passi ma ha un obiettivo chiaro. Crediamo in un mondo migliore, dove a governare non sia il capitale ma il popolo organizzato, libero e indipendente dai sistemi finanziari.

La Merkel traballante fa tremare l’Europa

Questa volta, l’aereo di riserva c’è: così, Angela Merkel non rischia di ritrovarsi in panne sulla via d’un vertice, come le accadde lo scorso anno, quando arrivò a lavori iniziati al G20 di Buenos Aires perché un’avaria a bordo aveva indotto i suoi piloti a tornare indietro. Questa volta, però, il problema potrebbe essere più grave: potrebbe, infatti, servire una cancelliera di riserva; e l’Europa e la Germania potrebbero scoprirsi in panne, perché la leadership di Angela sarà riluttante e prudente, ma è una costante da 14 anni, punto di riferimento moderato e affidabile. Ieri mattina, la Merkel è stata di nuovo colta dal tremore che l’aveva scossa la settimana scorsa, durante gli onori militari per il presidente ucraino Wolodymyr Zelensky. Stavolta, la cancelliera stava assistendo alla cerimonia d’insediamento della nuova ministra della Giustizia tedesca Christine Lambrecht, nella sede del presidente della Repubblica, il castello di Bellevue. La Merkel ha iniziato a tremare: qualcuno le ha offerto un bicchiere d’acqua, lei ha rifiutato. Poi, però, ha rispettato la sua agenda: poco dopo, al Bundestag, tutto appariva normale. Ma le voci e i dubbi sulle sue condizioni fisiche sono subito ripartiti. Il portavoce Steffen Seibert è stato rassicurante: “La cancelliera sta bene”; quel tremore può essere spiegato da un mix di stress, disidratazione, caldo. Seibert confermava pure la partenza per Osaka, anzi una partenza doppia, perché, a disposizione della Merkel, all’aeroporto di Tegel, c’era un secondo velivolo della Luftwaffe, un Airbus A340, potenziale rimpiazzo del velivolo titolare in caso ve ne fosse bisogno.

In Giappone, Angela avrà numerosi incontri bilaterali, anche con il presidente Usa Donald Trump – il loro rapporto non è ottimo – e il russo Vladimir Putin. A G20 ultimato, come gli altri leader europei, dovrà raggiungere domenica Bruxelles per il vertice dell’Ue sulle nomine ai vertici delle istituzioni comunitarie. E, qui, i discorsi s’intrecciano: le condizioni di salute della Merkel potrebbero condizionare le decisioni sulle nomine. Non è un mistero che il presidente francese Emmanuel Macron sta facendo pressing sulla cancelliera perché accetti di assumere la guida del Consiglio europeo, eventualmente “gemellata” con quella della Commissione europea; e, finora, la Merkel s’è sempre schernita. Politicamente indebolita dagli ultimi risultati elettorali – le politiche del 2017, numerose votazioni regionali, le europee di maggio –, la Merkel è al suo ultimo mandato da cancelliera e ha già ceduto la guida del partito ad Annegret Kramp-Karrenbauer, che non ha (ancora?) la sua autorità e neppure il suo carisma. Se lo stato di salute dovesse indurre (o costringere?) Angela a lasciare la guida della Germania, si può ipotizzare che la Kramp-Karrenbauer la rimpiazzi alla guida del governo.

In tal caso, l’Unione e la stessa Germania dovrebbero, molto probabilmente, vivere una fase di transizione: l’europeismo dell’attuale presidente della Cdu è finora apparso più tiepido di quello della Merkel; e non è escluso che, per legittimare il proprio potere, la nuova leader voglia elezioni politiche anticipate. Se se la sentirà, la Merkel potrebbe optare per l’Unione: il suo nome e il suo prestigio metterebbero tutti d’accordo i leader Ue. Ma c’è anche la possibilità che la cancelliera debba lasciare tutto, Germania ed Europa. E, a questo punto, il vuoto sarebbe grosso e improvviso. Ma a Berlino, e pure a Bruxelles, c’è chi fa spallucce: non bastano due tremori a metterla fuori combattimento. Una speranza, più che una prognosi.

Tunisi sull’orlo dell’abisso: kamikaze e presidente morente

Un duplice attentato kamikaze contro le forze di sicurezza a Tunisi e il ricovero in ospedale in seguito a un grave malore del novantenne presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, hanno “inaugurato” sotto i peggiori auspici la stagione estiva del Paese nordafricano che entro la fine dell’anno dovrà tornare alle urne per eleggere il nuovo capo dello Stato e il nuovo Parlamento. A nove mesi dall’ultimo attacco contro la polizia della capitale tunisina sferrato da una trentenne kamikaze laureata ma disoccupata da anni, sembra che a farsi esplodere sia stata ancora una donna, mentre non si hanno notizie dell’autore della seconda esplosione.

Fortunatamente, come nell’ottobre scorso, c’è una sola vittima, un poliziotto, anche se ci sono alcuni feriti gravi tra i passanti. Poco dopo gli attentati, la Presidenza della Repubblica ha annunciato che il capo dello Stato, il 92enne Beji Caid Essebsi, ha avuto un “malore grave” ed è stato ricoverato nell’ospedale militare di Tunisi. Dopo circa un’ora di rumors sulla sua morte, il principale consigliere di Essebsi, Firas Guefrech, ha smentito: “La situazione del presidente è stabile”. Lo stesso Guefrech ha riferito che Essebsi però è in condizioni “critiche”. Essebsi, fondatore del partito laico attualmente al governo, Nida Tunes, è il primo presidente democraticamente eletto della Tunisia, scelto dai cittadini nel 2014, tre anni dopo la rivoluzione che pose fine a 23 anni di dittatura di Zine El Abidine Ben Ali. La rivoluzione scoppiata per la povertà e la mancanza di occupazione specialmente tra i giovani non ha portato ai miglioramenti sperati. Anche per questo la Tunisia è il Paese da dove sono partiti più foreign fighters per andare a combattere nelle fila dell’Isis. Molti sono rientrati dopo la caduta di Raqqa due anni fa. Questo è “un attacco alla nostra democrazia, un attacco all’economia” della Tunisia, ha commentato dopo i nuovi attentati Imen Ben Mohamed, deputata tunisina del partito islamico moderato Ennahda. Nonostante questi attentati sembrino una replica del penultimo, c’è un elemento in più che desta preoccupazione circa la sicurezza nel paese: nella notte, intorno alle 3.30, un gruppo di terroristi ha attaccato un ripetitore radio sul Monte Orbata, nel governatorato di Gafsa, ed è stato respinto dall’esercito. I terroristi sono fuggiti ed è scattata una caccia all’uomo, ma non è chiaro se l’episodio possa essere collegato agli attentati di Tunisi, che al momento non sono stati rivendicati. Dopo i sanguinosi attentati al museo del Bardo a Tunisi e nella località marina di Sousse nel 2015, il turismo – voce principale dell’economia – aveva subito una battuta d’arresto tale da mettere in ginocchio non solo il settore, che si era ripreso leggermente solo l’anno scorso.

Anche la situazione politica interna continua a essere caratterizzata da un alto livello di instabilità e frammentazione. La coalizione di governo formatasi all’indomani delle elezioni parlamentari del 2014, con Nida Tounes ed Ennahda (partito religioso vicino alla Fratellanza Musulmana) impegnati in un esecutivo di unità nazionale, sembra essere definitivamente messa in discussione. Già nel 2016 Nida Tounes aveva subìto una scissione. Le divergenze interne ruotavano soprattutto intorno alla figura del figlio del presidente, Hafedh Caid Essebsi, assurto a leader del partito nonostante il disaccordo di molti. La nomina a primo ministro di Yussef Chahed nell’agosto del 2016, con il sostegno dei parlamentari rimasti in Nida Tunes ed Ennahda, non ha contribuito a riportare un clima di stabilità. Al contrario, i frequenti rimpasti di governo – l’ultimo dei quali avvenuto lo scorso novembre 2018 – e le posizioni intransigenti nella lotta alla corruzione, che hanno portato anche alcuni membri dello stesso Nida Tunes a essere indagati, hanno portato a un graduale allontanamento di Chahed dalla casa madre. Le elezioni locali del maggio 2018 hanno premiato il partito islamico moderato a cui appartiene la prima donna sindaco di Tunisi, Souad Abderrahim.

“Trump è spacciato: lo sanno tutti e nessuno vuole lavorare per lui”

“Trump non sarà mai rieletto, il prossimo anno”. Michael Wolff, 65 anni, si sbilancia. Ma pochi conoscono come lui la Casa Bianca e il suo inquilino. Sempre elegantissimo nonostante il caldo, Wolff è a Roma per presentare il suo secondo libro sulla presidenza Trump, Assedio, un anno dopo il best-seller Fuoco e Furia. È tanto letto quanto odiato, perché nelle sue cronache abbonda di notizie, dettagli ma anche maldicenze, rancori, vendette. E racconta un’amministrazione allo sbando. Lo abbiamo incontrato negli uffici del suo editore italiano, Mondadori.

Michael Wolff, ieri c’è stato il primo dibattito tra i 20 democratici che aspirano a sfidare Trump l’anno prossimo. Chi può batterlo?

Tutti. Una campagna per la rielezione è faticosa, ci vuole molta determinazione da parte del presidente in carica per rimettersi in gioco. I numeri della popolarità di Trump sono disastrosi e lui non sembra avere voglia ed energia per risollevarli.

Nel 2016 nessuno voleva lavorare con Trump, perché nessuno pensava che potesse vincere. Ora è diverso?

No. Nessuno vuole lavorare alla Casa Bianca perché Trump distrugge qualunque carriera. Perfino il suo ex capo dello staff, Reince Priebus, è rimasto disoccupato dopo la rottura. Inoltre pochi pensano che Trump sarà rieletto. Non riescono neppure più a trovare un portavoce per la Casa Bianca, hanno dovuto usare quello di Melania, la first lady.

A Melania lei dedica un capitolo. Che rapporti hanno davvero i due?

Non ho mai trovato nessuno in grado di fornirmi qualche elemento concreto sul fatto che quello tra Melania e Donald sia un vero matrimonio.

Nel libro lei si occupa molto di Jared Kushner, il genero di Trump, che pareva una figura minore.

Dei collaboratori stretti del presidente entrati alla Casa Bianca con lui nel gennaio 2017 non è rimasto nessuno. Tranne Jared. Lui e Trump si capiscono, sono entrambi uomini d’affari che pensano al futuro, proprio e delle loro aziende. Jared ha un potere immenso nella regione del mondo, il Medio Oriente, decisiva per il suo business ma anche dove circolano più capitali connessi al terrorismo. Ha avuto anche un ruolo cruciale nel favorire l’ascesa al potere di Mohammed bin Salman in Arabia Saudita. E questo spiega anche perché gli Usa sono stati così cauti sul caso del giornalista saudita Jamal Kashoggi, editorialista del Washington Post ucciso in una ambasciata saudita in Turchia.

Cresce la tensione con l’Iran. Trump potrebbe essere tentato da un’operazione militare che faciliti la sua rielezione?

Oggi scatenare una guerra richiede lunghi meeting, analisi basate sui dati, estenuanti presentazioni in Power point in sale buie. Già me lo vedo Trump uscire dalla stanza sbuffando alla prima slide… Non ha abbastanza pazienza per andare in guerra.

Il suo libro si apre con il racconto dell’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller. Ha dimostrato che ci sono stati mille punti di contatto tra la campagna di Trump e gli uomini di Vladimir Putin che cercavano di condizionare le elezioni 2016. Ma non c’è stato un vero coordinamento. Minaccia disinnescata?

Mueller è stato molto attento a non andare allo scontro frontale perché ha capito che Trump era come un terrorista con una cintura esplosiva, pronto a un suicidio istituzionale. Quando l’inchiesta è partita, il Congresso era a maggioranza repubblicana e non si poteva avere una indagine parlamentare, ma soltanto un procuratore speciale. Ora i Democratici controllano la Camera dei rappresentanti, possono costruire una narrativa più chiara delle ingerenze esterne e delle azioni degli uomini di Trump. E Mueller dovrà testimoniare davanti al Congresso.

Anche in questo libro, come in Fuoco e Furia, una delle fonti principali è Steve Bannon. Quanto conta ancora alla Casa Bianca?

Quello di Bannon e Trump è un matrimonio complicato. Anche ora che Bannon è fuori continua a essere molto ascoltato, potrebbe anche tornare a occuparsi della campagna presidenziale 2020. Ma Steve oggi divide il suo tempo tra i consigli al presidente, attività contro la Cina e i suoi tentativi di organizzare movimenti di protesta in Europa. Non si è mai divertito tanto in vita sua.

Bannon è spesso a Roma. Perché è così interessato all’Italia?

È convinto che un’onda populista travolgerà tutto. Una delle cose di cui si dice più orgoglioso è aver favorito l’alleanza tra due forze populiste lontane tra loro come Lega e Cinque Stelle. Ma in tutta Europa i politici che hanno avuto a che fare con lui, come Boris Johnson, ora cercano di liberarsi della sua figura ingombrante.

Trump è stato eletto con la promessa di costruire un muro per fermare i migranti dal Messico. Secondo lei il presidente è sensibile alla foto del papà honduregno, Oscar Alberto Martínez, annegato con la figlia di due anni, Angie Valeria, nel Rio Grande?

Di solito funziona così. Ivanka, la figlia, cerca di sensibilizzarlo. Lui si ammorbidisce. Poi i suoi collaboratori gli fanno notare che si è ammorbidito e allora si infuria e, per dimostrare che è un duro, si sposta su posizioni ancora più rigide. E usa un argomento comune a Salvini: col muro ne morirebbero di meno. Ma la verità è che a lui, di questi morti, non importa nulla.

Rita Pavone e il ballo del mattone a Woodstock

Si è giovani una volta sola, ma per tutta la vita si spera di ritornarlo. La saggia riflessione di Henri de Régnier ronzava nel prato di periferia dello speciale Woodstock 50-Rita racconta allestito a mezzo secolo dalla madre di tutti i concerti rock (martedì, Rai2). Vecchie glorie e neo fiancheggiatori festeggiati dal vivo, modello “anima mia”, alternati a frammenti di repertorio grondanti mito, da Santana a Janis Joplin. La mano situazionista di Carlo Freccero affiorava nella scelta della storyteller Rita Pavone, entusiasta di abiurare Il ballo del mattone, e ancor più nella collisione tra il ricordo di cosa fu la musica giovanile negli anni 60 (ribellione pacifica, la sola temuta dal capitale), e cosa è divenuta nell’era della videocrazia. La sola idea di sottoporre al televoto Ravi Shankar o di avere nella giuria di un talent Jimi Hendrix faceva capire perché molte rockstar abbiano preferito morire per tempo (oggi al massimo Morgan rischia lo sfratto). Quella di Rita era una Woodstock 100 per 100 legalizzata, prato di periferia, erba di casa mia, la Cassazione non avrebbe avuto nulla da eccepire, giusto qualche figurante hippy sparso qua e là, il massimo della trasgressione live era Donovan. L’intuizione di mescolare passato e presente è suggestiva, ma certe cose è consigliabile lasciare fare ad Arbore: non sempre i sogni reggono la nostalgia.

(Tv d’estate? Anche no. Questa rubrica di consigli catodici se ne va in vacanza. Ogni tanto bisogna dare il buon esempio).

Gli dèi mercati e il tallone d’Achille dell’uomo moderno

Pubblichiamo stralci dell’intervento di Veronica Gentili oggi alla Milanesiana.

“Imercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto”: era circa un anno fa, quando con questa frase, piombata su uno scenario politico già in fibrillazione, il Commissario europeo al Bilancio, Günther Oettinger, mise improvvisamente in subbuglio l’opinione pubblica. In effetti di fronte a un’affermazione così tranciante, palese ingerenza nelle questioni nazionali, anche a coloro che tifano per i notabili di Bruxelles, considerati la cassaforte del nostro buonsenso, ivi depositato nei tempi in cui ne fummo detentori, non può che correre un brivido lungo la schiena. Ma la vera domanda è: l’esponente tedesco è un pazzo che ha deciso di terrorizzare gli elettori italiani per preservare le istituzioni europee o semplicemente un’anima candida ignara di suscitare tanto scalpore rivelando la nudità del re a frotte di persone che ne sono a conoscenza ma fingono d’ignorarla? Coloro che propagano il verbo finanziario e ne preconizzano i potenziali flagelli qualora i dieci comandamenti monetari siano disattesi, sono narratori faziosi di realtà arbitrarie o meri cronisti di evidenze acclarate? La minaccia di una punizione che dall’alto si abbatte sull’uomo che si spinge a sfidare le sacre regole, riporta immantinente il pensiero agli dei dell’Antica Grecia, i capricci e gli umori dei quali tanto a lungo hanno tenuto in ostaggio l’agire umano. In altre parole, superare il limite stabilito, peccare di ubris credendosi onnipotenti, oggi come allora, rischia di provocare la vendetta divina. La nemesi nella contemporaneità veste panni di spread e si abbatte con violenza sui titoli di Stato. Conti dissestati, debiti che s’impennano, declassamenti nazionali sono i castighi autoprocuratici e di conseguenza inflittici dai numi del Terzo millennio, ai quali però, bisogna ricordare, ci siamo convertiti di nostra volontà, anche se con consapevolezza parziale, affinchè arginassero la nostra lascivia e ci spronassero alla rettitudine e alla moralità.

Questo nuovo politeismo porta con sé un’anomalia non di poco conto: se un tempo era l’uomo a dover avere fede negli dei, oggi sono gli dei mercati a dover avere fiducia negli uomini. […] Ma se i mercati diffidano degli uomini, gli uomini diffidano a loro volta dei governanti-sacerdoti che li costringono a celebrare i mercati, in una spirale di diffidenze reciproche che trova il proprio punto di caduta nello scenario potenziale di un governo tecnico, invocato dai primi e disdegnato dai secondi. In questo valzer dei sospetti si affaccia sulla scena il politico contemporaneo, novello Achille, che si contrappone ai ruffiani del rigore e della moderazione, galvanizzando una folla stanca di sacrificare capri agli altari di creature senza volto, e pronta ad arruolarsi tra le fila di chi intende sfidare l’Olimpo finanziario. Così una moltitudine di talloni si mette in marcia dietro al tallone d’Achille il nuovo, alla volta di una Commissione da lei stessa delegata per vigilare sulla fallibilità dei nostri conti scalcagnati. Le Colonne d’Ercole si sono spostate alle porte di Bruxelles e ancora una volta l’avidità di conoscenza spinge l’uomo ad attraversare il confine invalicabile. Del resto la fiducia è finita, e a un popolo rimasto privo della fiducia degli dei mercati e a sua volta privo di fiducia nelle istituzioni che avrebbero dovuto vigilare sul suo destino, non resta che la speranza. La speranza, ovvero l’attesa fiduciosa, che oltre quelle colonne esista una verità diversa da quella finora raccontata, e che pagando il prezzo di una temporanea ira divina, si possa superare il purgatorio per arrivare un giorno fino all’ingresso del Paradiso. Se così fosse, il futuro varrebbe bene un tallone.

Le priorità nella lotta all’evasione

La questione fiscale è centrale: da una politica delle entrate possono venire le risorse necessarie per sostenere la ripresa dell’occupazione e dell’economia oppure per minare lo Stato sociale. Come ha ricordato il Fatto, la detrazione fiscale per le ristrutturazioni ha favorito il settore delle costruzioni, mobilitando consistenti risorse private, usate in anticipo rispetto alle detrazioni spalmate su 10 anni. Il nero è diventato più difficile perché meno conveniente per la restituzione fiscale del 50 per cento, anche se in 10 anni. Altri tentativi di intervenire con detrazioni fiscali non hanno avuto lo stesso risultato perché la forza dell’incentivo fiscale è insufficiente. Se l’obiettivo è ridurre l’evasione dell’Iva, servono dichiarazione dei redditi più veritiere.

L’adozione delle procedure informatiche, in particolare della fatturazione elettronica, consente di incrociare dati e di accertare verità nascoste, ma non basta. La mole dei dati raccolti va gestita dall’Agenzia delle entrate e dalla Guardia di finanza. I condoni, comunque mascherati, dirottano l’attenzione del personale che dovrebbe impegnarsi a perseguire evasione ed elusione. Inoltre occorre costruire un nuovo sistema di repressione adeguato per portare in carcere i grandi evasori, abbassando le soglie attuali del reato e aumentando le pene.

La dichiarazione di guerra all’evasione deve essere netta, altrimenti le risorse necessarie per uscire da questa strettoia non saranno disponibili. Purtroppo siamo ancora lontani. Bisogna rilanciare la lotta all’evasione, usando l’esperienza del settore ristrutturazioni edilizie, estendendola ad altri settori, usando il contrasto di interessi in modo più esteso. Non si può applicare a tutto, ma per alcuni servizi importanti si può estendere il meccanismo ma sapendo che la detrazione deve essere forte, conveniente, di molto superiore all’Iva.

Anzichè buttare risorse in abbassamenti di tasse, meglio concentrarsi sul contrasto di interessi tra consumatore e servizi. Con il vantaggio di maggiori entrate e nello stesso tempo della possibilità di adottare politiche di incentivo o di disincentivo nei vari settori, con scopi anticiclici. Si potrebbe avviare un graduale allargamento dei settori soggetti a detrazioni come alcune attività: idraulici, elettricisti, ecc. questo comporterebbe l’emersione di beni. L’accorpamento del ministero delle Finanze nel Mef è stato un errore che ha tolto attenzione dalla politica delle entrate, sia come visione di insieme sia come interventi di sperimentazione. Questa scelta dovrebbe essere ripensata, la politica delle entrate è cruciale. Sarebbe quindi molto utile ripristinare il ministero delle Finanze.

Poi c’è un punto politico. Negli ultimi anni sta prevalendo una politica fiscale sempre più corporativa, settoriale: a ognuno il suo fisco. Il prelievo fiscale, invece, deve avvenire con modalità diverse perché diverse sono le condizioni di lavoro e di vita nella società, mentre le richieste di partecipazione alle entrate deve avvenire su un piano di parità e con una progressione, come da Costituzione, in cui chi più ha più deve pagare.

La flat tax di cui parla oggi la Lega è il contrario di quello che occorre fare. Robin Hood alla rovescia. L’idea poi che si possa svuotare la flat tax, trasformandola in un aiuto fiscale alle famiglie come propone il Movimento 5 Stelle, è una pia illusione: si tratta di una regressione sociale ed economica.

Per affrontare una nuova politica fiscale occorre un tavolo scientifico, con esperti, per mettere a punto una proposta per definire gli obiettivi da suggerire al governo e al Parlamento, e una sede permanente di confronto con le parti sociali perché c’è bisogno di creare un clima di convergenza. Il governo sembra invece andare in direzione opposta.