Altro che migranti: italiani in fuga

La vicenda dei 42 migranti della nave Sea Watch è stato il tema centrale per giorni nel dibattito pubblico, come in passato per casi analoghi. Ma nel corso del 2019 sono 2500 i migranti arrivati in Italia: la speculazione politica su queste vicende è dunque enorme come la copertura mediatica che serve solo a mantenere alto il coinvolgimento del pubblico su un problema, umanamente drammatico e vergognoso nella gestione, ma del tutto marginale. Sembra anzi che l’attenzione sull’immigrazione sia utile solo per coprire l’altra faccia della medaglia, l’emigrazione dall’Italia: e questo è sì un problema strutturale.

Secondo l’Istat, tra il 2013 e il 2017 oltre 244 mila connazionali con più di 25 anni sono migrati all’estero, di cui il 64%, 156 mila, laureati e diplomati. La tendenza negli anni è in aumento: i laureati italiani che si sono trasferiti all’estero nel 2017 sono stati +4% rispetto al 2016 e +41,8% rispetto al 2013. La migrazione tuttavia non è solo verso l’estero: negli ultimi 20 anni, dice l’Istat, la perdita netta di popolazione nel Sud dovuta ai movimenti interni è stata pari a 1 milione 174mila unità. Il Paese espelle i giovani, soprattutto i più formati.

Com’è possibile che, invece di accanirsi per mesi sulle sorti di 42 disperati, tale migrazione “biblica” non sia al centro dell’attenzione? La politica che ha prodotto questa situazione non ha alcuna idea o volontà per invertire la rotta. Eppure questo è un problema all’ordine del giorno per milioni di cittadini, per chiunque abbia figli che stanno finendo la scuola o l’università, poiché il fardello delle scelte scellerate del passato ricade innanzitutto sulle nuove generazioni.

Il problema non riguarda solo chi va via, ma purtroppo riguarda anche e soprattutto chi rimane. Il sistema produttivo italiano ha sempre meno bisogno di lavoro qualificato, ma predilige lavoratori con bassa istruzione tra loro intercambiabili e facilmente sostituibili: è lo specchio dell’arretramento tecnologico e produttivo del Paese che è stato anche il motore delle oscene riforme della scuola e dell’università nell’ultimo ventennio. Il concorsone per “navigator” ha da poco fornito uno spaccato inquietante sulla situazione del lavoro giovanile: 70 mila laureati a contendersi un percorso lavorativo incerto e precario. Questo concorso è, infatti, la cartina di tornasole che dimostra come chi ha investito tempo, fatica e risorse nella propria istruzione non ha avuto e non ha ancora le opportunità al livello della propria formazione.

Se questo è un problema drammatico per i singoli, diventa un’emorragia di competenze e opportunità per il Paese. La “generazione del trolley”, persone che vanno di concorso in concorso e di lavoro precario in lavoro precario con una valigetta dove portare la propria vita, dovrebbe destare un allarme sociale enorme ma, come per l’emigrazione, non è all’ordine del giorno della politica.

Il taglio alle politiche di formazione avvenuto dal 2008 ha prodotto un calo del 20% degli immatricolati, l’Italia oggi è all’ultimo posto dei Paesi Ocse per percentuale di laureati nella fascia d’età 25-34 anni, con un valore poco superiore al 20%; dal 2007 i posti di dottorato banditi si sono ridotti del 43,4%. E malgrado questa situazione disastrosa e preoccupante, pochissimi riescono a trovare un lavoro che sia adatto al grado d’istruzione acquisito e di qui fenomeni come l’emigrazione di massa e la competizione per lavori precari di basso livello.

Questo è il nodo che una forza politica di sinistra dovrebbe imporre come priorità, segnando una forte discontinuità con le politiche fin qui focalizzate sull’abbassamento del costo del lavoro e dei diritti, invece che sulla competizione basata sulla specializzazione tecnologica. Politiche che hanno alimentato il mito delle piccole e medie imprese o di effimere start-up, come motore dell’innovazione, invece che difendere il ruolo uno Stato imprenditore che sia creatore di duraturi nuovi settori tecnologici e mercati.

Questo cambiamento di rotta politica deve essere accompagnato da una discussione per cambiare le regole europee: se non si può parlare di causalità diretta, c’è stata una correlazione tra l’ingresso dell’Italia nell’euro e, per esempio, il crollo della produzione industriale del 25% che ha coinciso con lo smantellamento delle grandi industrie a partecipazione statale e con il cambiamento di obiettivo dall’aumento della produttività e della specializzazione tecnologica a quello dell’abbassamento della qualità e del costo del lavoro. Perché è proprio in questo snodo che la paura dell’immigrazione e il fenomeno della migrazione e del popolo dei trolley trovano la loro sintesi. Avere poca formazione e ancor meno diritti rende le persone più fragili e più facilmente manipolabili attraverso un’informazione e una politica che giocano sull’emozione.

Mail box

Vittorio Feltri, noi “terroni” non accettiamo etichette

In seguito alla pubblicazione di alcuni articoli del quotidiano Libero ritenuti offensivi della dignità dei meridionali, il Sud Italia è stato stimolato ad assumere un diverso atteggiamento rispetto alla sua tradizionale indolenza, che lo rende succube dello strapotere politico ed economico del Nord. Dal piano della riflessione al piano della presa di posizione il passaggio è stato breve.

Il Sud ha preso coscienza.

Vittorio Feltri può essere considerato, a sua insaputa, lo sprone del cambiamento di mentalità. Alcuni direttori di giornali locali iniziano a rispondere alle provocazione di Libero e sottolineano che il Meridione non accetta etichette che lo impoveriscano e lo releghino a un ruolo di subalternità rispetto al Nord. Ed è così che l’anelito alla trasformazione non rimarrà inespresso e troverà il suo canale incisivo nella comunicazione giornalistica, mai come ora intenzionata a dar voce ai bisogni di emancipazione del Sud Italia.

Bisogna rimboccarsi le maniche e combattere per l’affermazione della nostra terra contro le mafie e contro lo sfruttamento. Molti meridionali hanno governato e continuano a governare il nostro Paese; tuttavia nessuno ha mai fatto gli interessi dell’onesto popolo del Sud, il quale considera il lavoro come un valore.

E forse dobbiamo ringraziare il direttore Vittorio Feltri, perché, da oggi, non sarà più facile offenderci.

Biagio Maimone

 

M5S, non omologatevi alla vecchia guardia politica

Leggendo l’intervista al sottosegretario M5S Simone Valente, ho notato che ha risposto come avrebbe fatto qualsiasi politico della vecchia guardia. Cosa significa che le regioni versano allo Stato la differenza in caso di saldo negativo? Dove prendono i soldi le regioni, se non dai cittadini in forma di tasse? Storicamente nessuno è mai rientrato nei costi con queste modalità.

Il Movimento deve distinguersi o continuerà nella sua caduta.

Luciano B.

 

Contro gli evasori c’è bisogno di un nuovo Piano Marshall

Sto seguendo attentamente gli articoli e la campagna informativa del Fatto sull’evasione fiscale.

Mi permetto di segnalare che, oltre alle categorie già segnalate dei grandi evasori (medici, avvocati, notai, architetti) esiste un altro ampio bacino di evasione.

Faccio riferimento agli artigiani con o senza partita Iva, ai locatori di case a studenti nelle città universitarie, ai villeggianti nelle località turistiche e ai gestori di stabilimenti balneari, ristoratori e insegnanti che erogano lezioni private.

Insomma, un vero esercito.

Come ha scritto il direttore Marco Travaglio in uno dei suoi editoriali, forse ci vorrebbe un secondo Piano Marshall per affrontare questo annoso problema.

Ma temo che, date le proporzioni del fenomeno, nessuno abbia interesse a mettervi mano per cercare di risolverlo.

Cesare Gentili

 

Il Pd deve scegliere tra unità e identità

Il Pd deve scegliere tra unità e identità, perché entrambe non sono possibili. Se infatti Zingaretti dovesse propendere per l’unità non prenderebbe mai una posizione chiara. Se, invece, iniziasse a costruire una linea identitaria ben precisa, gli si spaccherebbe il partito in mano.

Il Segretario non ha scelta? Dipende. Un partito al 15-20% alle prossime politiche si fa anche con la vaghezza unitaria.

Un chiarimento con posizioni nette di giustizia sociale – sempre viste dal renzismo come freno allo sviluppo – lo si sconta con una spaccatura immediata del partito, ma l’estrazione della spina renziana è l’unico modo per far guarire la ferita, anche se il primo effetto è il sanguinamento.

Massimo Marnetto

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’articolo di Gianni Rosini, “Resta il nodo della vendita di quelle leggere”, del 27 giugno, si suppone che la notizia di un incasso di 2,8 milioni di euro nel 2018 per esportazioni verso l’Arabia Saudita da parte della fabbrica d’armi Pietro Beretta sia stata fornita dall’Istat.

Su questo è nostro dovere fare la massima chiarezza. Le statistiche sugli scambi di merci con l’estero sono prodotte dall’Istat esclusivamente a livello aggregato, così come previsto dai regolamenti statistici comunitari e dai manuali internazionali. Pertanto non è possibile citare come fonte l’Istituto quando si indicano i nomi degli operatori economici che hanno attivato i flussi commerciali.

L’elevato dettaglio dei dati pubblicati a livello di prodotto (codici della nomenclatura combinata) e paese, richiesto dai regolamenti statistici comunitari, può consentire in alcuni casi di collegare il dato Istat a singole operazioni di interscambio ma si tratta appunto di una autonoma associazione di analisti e osservatori del settore.

Patrizia Cacioli, Direttore della Comunicazione Istat

 

I dati in nostro possesso riportati nell’articolo a cui fa riferimento Istat, e relativi ai pagamenti ricevuti dall’azienda Pietro Beretta dall’Arabia Saudita, non sono stati diffusi dall’Istituto di statistica, come erroneamente scritto, bensì dal ministero dell’Economia e delle Finanze all’interno della relazione “Esportazioni definitive per Nazioni – Riepilogo dettagliato”. I dati citati sono quindi corretti e verificati, ma erroneamente attribuiti a Istat.

Gianni Rosini

Perché un ministro non può attaccare una pregiudicata

Sto leggendo e rileggendo l’articolo di Silvia Truzzi intitolato “Matteo un ministro che minaccia i rom” e pubblicato sul Fatto del 26 giugno e non riesco a capirne il senso: donna rom non accusata ma arrestata in flagranza di reato per decine di furti a danno anche di disabili e anziani che non va in carcere perché incinta? La maggior colpa di chi è? Del ministro, che minaccia sui social network, e quindi l’accusa di essere razzista e fascista! Visto il vago accenno di comprensione rivolto alla vittima, ricordo che è una disabile di 86 anni. Si attacca il ministro dell’Interno per le sue esternazioni ovviamente fatte per propaganda anche sbagliata e si perde il senso del fatto. E cioè che una donna rom “per quanto poco raccomandabile” (usiamo i termini giusti: ladra) continua impunemente, volando fra le maglie delle leggi, a derubare. Ma chi è la vittima? La donna rom attaccata dal ministro o l’anziana disabile derubata? E la risposta dell’articolo è la stessa dei radical chic Pd alla Gad Lerner! Può non essere accettabile la violenza verbale di governo, ma penso che sia ancora meno accettabile derubare anziani o disabili.

Gentile signor Gianfranco, al di là del fatto che il diritto penale ci insegna che non si può dare del ladro al ladro (anche se condannato) perché la legge tutela l’onorabilità di una persona, qui non sono in concorrenza la condotta di una donna pregiudicata e quella di Matteo Salvini (se fossero paragonabili l’Italia sarebbe davvero in un bel guaio). Quanto alla signora disabile è una vittima e come tale ha tutta la nostra solidarietà. Nel nostro pezzo però cercavamo di spiegare che un ministro della Repubblica non può abbassarsi, per nessuna ragione e in nessuna circostanza, a un livello da bar dello sport perché rappresenta la comunità anche quando commenta fatti terribili. E questo riguarda il modo in cui si conduce un politico perennemente a caccia di voti. Poi c’è l’aspetto, grave, del modo violento con cui Salvini mette all’indice una persona (e non è la prima volta): s’immagina la capacità di mobilitazione dell’opinione pubblica che ha un ministro? Ed è giusto che indirizzi contro una persona, per quanto colpevole di reati anche odiosi, maledizioni e insulti? Un ministro non dovrebbe essere un modello? Quanto a invocare la sterilizzazione, qui pensiamo che il ministro abbia passato decisamente il segno. Gli esseri umani – tutti gli esseri umani – non sono animali randagi. E pazienza se questa affermazione sembra radical chic.

Per gli agenti segreti Rocco Morabito è ancora in Uruguay

Tutti i servizi di intelligence dell’Uruguay continuano a essere impegnati nella caccia a Rocco Morabito, evaso domenica notte dal carcere centrale di Montevideo, mentre una delle linee investigative si muove sulla convinzione che il boss della ’ndrangheta si trovi ancora in territorio uruguaiano. Una fonte dell’intelligence ha detto al quotidiano el Pais che due giorni prima dell’evasione di Morabito e di altri tre detenuti, tecnici del ministero dell’Interno avevano portato via il “cervello” del sistema di telecamere fisse del penitenziario. Questo spiega perché non esistano registrazioni video della fuga notturna attraverso il tetto. È emerso anche che in maggio la direttrice della prigione, Mary González, aveva scritto alla direzione nazionale della polizia per chiedere il trasferimento di Morabito nelle istallazioni della Guardia repubblicana, ma che la richiesta era stata respinta perché in esse era recluso un altro pericoloso narcotrafficante messicano, Gerardo González Valencia, alias El Cuini, richiesto in estradizione negli Usa. Dopo la fuga del boss italiano, sia la direttrice González, sia il suo vice, Gerardo Bidarte, sono stati sospesi provvisoriamente dal servizio.

La camorra ha messo a “sistema” Il fattore D

Nella camorra non esiste Famiglia senza famiglia di sangue. Lo ha ricordato l’ultima relazione semestrale della Dia: “La presenza di parenti all’interno della catena di comando conferma la centralità della famiglia quale strumento di coesione. È in questo contesto che le donne assumono, sempre più spesso, ruoli di rilievo nella gerarchia dei clan, in assenza dei mariti, o coi figli detenuti”.

A Napoli, scompaiono i capi carismatici, e mogli e figlie ne prendono il posto. Oggi Maria Licciardi, ieri Pupetta Maresca. Ma è da tempo che le donne a Napoli partecipano alle attività illegali. La loro presenza, attiva, è radicata nella storia della camorra (e della città). A partire dall’Ottocento, e poi nel mondo del contrabbando di sigarette. Raccontava il boss dei Quartieri Spagnoli, Mario Savio: “Le contrabbandiere avevano un’abilità particolare perché riuscivano a stringere tra le cosce le valigie usate come banchetto per le sigarette e a camminare, tenendole nascoste sotto i gonnoni, con passo normalissimo, sfilando davanti ai finanzieri”.

Capacità organizzativa, gestione degli affari, le vediamo complici nel fiancheggiare e spalleggiare i loro uomini, o pronte ad assalire in difesa dei propri parenti. “Capesse”, trafficanti di droga, usuraie, assassine, oltreché mogli, madri, sorelle, amanti. Secondo i dati raccolti da Anna Maria Zaccaria, dell’Università Federico II, sulle donne detenute per camorra, 1 su 3 risulta essere moglie o compagna di un capoclan: è quindi il legame sentimentale/coniugale a connotare la loro appartenenza. Nel 45% dei casi, ricoprono un ruolo di “gregaria”, prima ancora che di pusher o di corriere (29%) o di leader (25%). A dimostrazione dello sfruttamento, o meglio della valorizzazione, della capacità femminile di fare rete. C’è un mondo che pare averlo capito, e messo a Sistema, molto più velocemente di quello che, parallelo, gli corre di fianco.

Donne al vertice dei clan: “a Scimmia” e le 3 Sorelle

Il ruolo apicale delle donne dei clan di camorra a Napoli è ben riassunto in una frase del pentito Mario Lo Russo. Sentito dai pm il 12 settembre 2016 per riferire sui capi dell’Alleanza di Secondigliano, a una domanda sul clan Licciardi, Lo Russo risponde: “Erano diretti da Maria Licciardi”. Il salto di qualità è compiuto: le signore della camorra non svolgono più una funzione di supplenza degli uomini del clan in situazioni d’emergenza – omicidio, latitanza prolungata o cattura del boss di riferimento – ma assumono in prima persona i pieni poteri. “Maria Licciardi era indiscutibilmente il capo del suo clan, riconosciuta da tutti in quanto tale, sia interni che esterni”, riassume il Gip di Napoli Roberto D’Auria che ha firmato l’ordinanza di 126 misure cautelari. Duemila pagine frutto di una inchiesta di ‘sistema’ – pm Ida Teresi, procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli – che la Direzione distrettuale antimafia della Procura di Napoli ha avviato nel 2012 annodando i fili dei rapporti tra alcuni dei clan più potenti della città, i Contini, i Mallardo e i Licciardi.

Un patto di sangue e di affari. L’Alleanza di Secondigliano. A rappresentare i Licciardi a quel tavolo dove si decideva la spartizione dei territori e le missioni di terrore c’era Maria ‘a Piccerella’, la sorella di Gennaro Licciardi ‘a scigna’ (la scimmia), morto in carcere a Voghera nel 1994 dopo aver fondato il clan che ha tuttora la sua roccaforte nella Masseria Cardone, all’interno del quartiere di Miano, periferia nord di Napoli. Anche Maria ha conosciuto la prigione, a Benevento, nei primi anni 2000. E se una volta erano le donne a portare all’esterno le imbasciate e gli ordini degli uomini detenuti, nel suo caso è esattamente il contrario. Dalle conversazioni registrate in carcere, si scopre che è il marito “ad assumere le redini del clan sotto la costante direzione della moglie”.

Maria Licciardi fu catturata dopo due anni di latitanza, e anche stavolta si è data alla fuga, gli investigatori non sono riusciti a rintracciarla all’alba del maxi blitz. Sono invece finite in carcere le tre sorelle Anna, Maria e Rita Aieta, mogli di Francesco Mallardo, Edoardo Contini e Patrizio Bosti, e Rosa Di Nunno, moglie di Salvatore Botta. A tutte è stato riconosciuto il ruolo di ‘capo’ all’interno dell’Alleanza. “Le donne avevano un ruolo rilevante sia per i collegamenti con il sistema penitenziario, sia per la capacità di assumere decisioni e di pretenderne il rispetto” ha spiegato il procuratore capo Giovanni Melillo.

Il potere di Maria ‘la Scimmia’

L’autorevolezza di Maria Licciardi si evidenzia nella vicenda del debito di gioco di 15mila euro contratto dal figlio minorenne di un tale P. R. “Li prendiamo tranquillamente… quello tiene i soldi”, dicono tra loro i ‘creditori’. Non è così. L’uomo stenta a onorare le pendenze. E chiede a Maria ‘a scigna’ (l’altro suo soprannome) un intervento per ottenere una dilazione. La storia emerge da una intercettazione ambientale.

T. – E quell’altro, il figlio di P. R. – (inc) poi si rivolge a Maria “la scimmia”… non li tiene… a tanto alla volta… ma quello è sbagliato… invece di prenderlo e dirgli: scornacchiato, hai giocato? Non devi pagare a questi? Invece si rivolge a quella… e ora vediamo dai 1.300 a 1.000 al mese… ma che stai dicendo? (…) sta pieno di debiti… a piangere da Maria: ma quella dice; tu giochi? Quando hai vinto ti hanno dato i soldi? E quando perdi paghi.

S. – Sono cose di gioco…

Alla fine, anche grazie a Maria Licciardi, si troverà un accordo per una dilazione a 2.000 euro mensili.

“Il rispetto per la donna era massimo – scrive il giudice – tanto che, sebbene il suo operato non fosse condiviso, comunque le richieste da lei avanzate trovavano fattiva realizzazione”, per via dell’intesa di ferro tra i Licciardi e i Contini. Come nel caso del pagamento di un credito. Maria Licciardi si rivolge a Peppe, uno dei Contini. L’ordine è chiaro. La vittima va minacciata, e se necessario bastonata a sangue. “Sto aspettando a questo cornuto – esclama l’esattore – ma penso che abbusca dopo… Ha detto Peppe…. Se non ti dà i soldi picchialo”. Anche stavolta il debitore proporrà una rateizzazione. Dovrà discuterla con Maria Licciardi in persona.

La dura legge delle sorelle Aieta

Per una estorsione da un miliardo quando la moneta era la lira, Anna è stata recentemente condannata in primo grado a 13 anni. Maria, con lo sconto di pena del rito abbreviato, se l’è cavata con 8 anni. Mentre di Rita Aieta parla così un pentito, Alfredo De Feo: “Dico subito che è persona che comanda nel clan Contini ed ha anche voce in capitolo sulle mesate (gli stipendi agli affiliati del clan, ndr). Ricordo per esempio che tolse la mesata per alcuni mesi ad uno, perché la moglie non l’aveva salutata rispettosamente”. Sono sgarri che vanno puniti in qualche modo. Dovette intervenire il nipote dell’uomo su Ettore Bosti, il figlio di Rita, per far ripristinare lo stipendio allo zio.

Figli di coppia omosex: il sindaco li registra col doppio cognome

Due gemelli, nati il 23 giugno dopo l’inseminazione artificiale all’estero di una madre biologica omosessuale, saranno registrate domattina all’anagrafe del Comune di Pontecagnano (Salerno). La notizia è stata diffusa dalla madre biologica, Deborah Milella. La donna si è sottoposta a inseminazione artificiale in Spagna, a Malaga e vive in regime di unione civile con una compagna, Melinda Cataldo, dal 20 ottobre 2016. Il sindaco di Pontecagnano, Giuseppe Lanzara, di centrosinistra, ha detto di voler registrare i gemelli con il doppio cognome della madre biologica e della convivente, che non sarebbe consentito secondo la legge italiana. “La normativa non è chiara. I gemelli assumeranno il doppio cognome – ha detto il sindaco – poi toccherà al Tribunale dei minori valutare. Per me conta la famiglia di fatto dei neonati”. La gravidanza di Deborah Melella si presentava con un quadro clinico sfavorevole. Uno dei gemelli è andato in sofferenza ed il primario dell’Ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno ha deciso di eseguire un taglio cesareo d’urgenza. Sono nate così premature, a 33 settimane, Melany, una bambina di 1 kg e 450 grammi e Santiago, di 1 kg e 775 grammi.

Spike Lee, Coppola, Del Toro e gli altri: Hollywood si stringe intorno ai ragazzi dell’America

Anche Hollywood si mobilita in difesa dei ragazzi del Cinema America. “Esprimiamo tutta la nostra solidarietà ai ragazzi e le ragazze aggrediti a Roma, nonché all’esperienza del Cinema America e a tutti quei giovani che creano un dialogo tra il mondo dell’arte e le persone. È inammissibile che ci sia ancora chi pensa di imporre il proprio pensiero con l’uso della violenza. Non si può accettare una ferita del genere, inferta non solo al mondo del cinema e dell’arte ma al mondo tutto”. Questo il messaggio di solidarietà firmato da grandi registi internazionali e star di Hollywood a sostegno dei ragazzi del Cinema America di Roma, che da anni portano avanti un progetto culturale nel rione di Trastevere, con proiezioni di film e cineforum per mantenere viva l’eredità della celebre sala chiusa ormai da anni. Alcuni di loro nei giorni scorsi sono stati aggrediti da gruppi di ragazzi che li hanno accusati di essere “antifascisti”: prima, il 15 giugno, quattro di loro mentre uscivano alla fine di una proiezione; poi, nei giorni seguenti, è toccato all’ex ragazza di Valerio Carocci, presidente dell’associazione Piccolo America.

L’intero mondo della cultura si era schierato a loro difesa. Ora questo appello, in italiano e in inglese, sottoscritto da registi e attori internazionali. Tra loro Spike Lee, Alejandro Iñárritu, Francis Ford Coppola, Wim Wenders, Keanu Reeves e Richard Gere, Alfonso Cuarón, Willem Dafoe, Guillermo del Toro, Stephen Frears, Costa-Gavras, Amos Gitai, Jeremy Irons (che la sera successiva alle aggressioni era in piazza a Roma con i ragazzi), John Malkovich, Debra Winger.

Dal primo giugno i ragazzi sono impegnati nell’organizzazione della manifestazione a ingresso gratuito “Il Cinema in Piazza”.

L’appello internazionale, spiegano i ragazzi del Cinema America, è nato “dalla generosità e dall’affetto nei nostri confronti da parte di Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia, Antonio Monda, direttore artistico della Festa del Cinema di Roma e Nathalie Baldascini, storica collaboratrice di Bernardo Bertolucci.

Arrestata una giovane madre Il compagno violentava la figlia di 10 anni e lei assisteva

Una giovane madre è stata arrestata dalla Squadra mobile di Varese per maltrattamenti e violenze sui figli di 10, 7 e 4 anni. Le accuse sono tremende. Avrebbe anche costretto la primogenita ad avere rapporti sessuali con il padre, che è stato allontanato dalla famiglia. Come se non bastasse la donna, 30enne, assisteva agli abusi. In particolare a essere presa di mira era la mezzana, affetta da disabilità, denigrata, umiliata, picchiata e insultata tutto il giorno dal genitore. L’indagine, condotta dalla polizia, è stata coordinata dalla procuratrice della Repubblica Daniela Borgonovo. “La cosa più grave – spiega la pm – è che tutti sapevano, insegnanti e assistenti sociali”. I lividi sui corpicini erano presenti da almeno un anno. “Tutti vedevano. E nessuno ha denunciato. Anzi, si è chiesto alla madre se sapeva la ragione di quei lividi, così inquinando le prove e rendendo estremamente difficoltosa l’indagine penale – afferma Borgonovo –. Mi chiedo se oltre al reato di omessa denuncia, non si debba ravvisare un concorso per omissione in chi aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento, risparmiando ai bambini un anno di sofferenze”.

È una casa degli orrori quella descritta dagli investigatori. Le violenze sono avvenute all’interno delle mura domestiche, nella totale omertà e indifferenza dei conoscenti della coppia. Il panorama che emerge dalle intercettazioni è desolante. In un episodio il bimbo di 4 anni, per imitare la madre, avrebbe preso a calci la sorellina disabile, caduta a terra dopo le percosse dell’adulta. Quest’ultima, soddisfatta, avrebbe plaudito il figlio, sputando e insultando contro la vittima innocente. Il caso ha scosso la procura di Varese, sensibile al tema tanto da avere a disposizione tre giudici specializzati. “Eppure non si denuncia, così non va bene”, commenta ancora la pm. I minori sono stati affidati a una comunità protetta e il padre è stato sottoposto al divieto di avvicinamento.

Il d-day del Ponte Morandi: Salvini, Di Maio e Trenta non si perdono lo spettacolo

Un piano di sicurezza imponente, con oltre 3.500 sfollati, più di 400 uomini delle forze dell’ordine schierati, il blocco della viabilità che tronca in due non solo la Liguria ma anche parte del Nord Ovest. La città è pronta per il d-day: non solo Genova ma anche buona parte dell’Italia avrà gli occhi puntati sulle due pile dell’ex viadotto Morandi che domani, sotto la spinta esplosiva di una tonnellata di dinamite e di qualche chilo di plastico, si sbricioleranno al suolo a pochi passi dal Polcevera. Quando quelle polveri, che verranno monitorate dalle centraline del Comune e da quelle messe sui balconi dai residenti della zona limitrofa all’esplosione, si poseranno al suolo impastate dalle centinaia di litri d’acqua “sparate” dai cannoncini si avrà l’esatta dimensione della portata dell’evento previsto per oggi.

È impaziente, il sindaco e commissario Marco Bucci, che in consiglio comunale ha detto: “Tutto è pronto. Il rischio zero non esiste ma tecnicamente possiamo parlare di un rischio irrisorio”. A assistere all’implosione controllata i due vicepremier Salvini e Di Maio e il ministro della Difesa Trenta che con i media di mezzo mondo verranno collocati a distanza di sicurezza, ben oltre la fascia di 300 metri dalle operazioni, che prenderanno il via molto presto: prima il completamento delle evacuazioni dalle case che si trovano nella red zone (dalle 7), poi l’ultima supervisione delle cariche all’interno dei fori sulle pile e del reticolato di inneschi, il blocco della viabilità, stop al traffico merci da e per il porto di Genova e infine no fly zone. Alle 9 si darà l’impulso elettrico al detonatore che farà saltare, a pochi microsecondi l’uno dall’altro, gli inneschi delle cariche. Il ‘big boom’ dovrebbe durare poco meno di 6 secondi poi prima l’una e poi l’altra pila andranno giù.

“Domani (oggi, ndr) sarà una giornata importante. Non solo per la nostra città e la Liguria, ma per l’Italia intera – ha detto il governatore Giovanni Toti che ha ricordato ancora una volta le 43 vittime del Morandi -. Ma questo giorno, fatto anche di sacrifici e rinunce personali, sarà il giorno della svolta”.