Niente squadra in B, esplode la rabbia Orlando: “Ora basta finti imprenditori”

“A San Siro sugnu”. Quello striscione esposto in un Inter-Palermo, anticipato dalla tipica esclamazione siciliana che indica sorpresa, indicava tutto lo stupore dei tifosi palermitani per essere tornati nel calcio che conta. Oggi, con la fine del Palermo in Serie D (o forse ancora più giù) dopo i problemi finanziari e societari, la trinacria del pallone finisce nel peggiore dei modi. La squadra rosanero sta vivendo una situazione che il sindaco Leoluca Orlando ha definito “surreale”: l’attuale presidente del Cda Alessandro Albanese ha infatti scoperto troppo tardi che la nuova proprietà, la Arkus Network, non aveva fornito i documenti per l’iscrizione alla serie B; e mancano anche i soldi per gli stipendi dei giocatori. Walter Tuttolomondo il patron che ha ereditato la squadra da Maurizio Zamparini, sulle quali già aveva espresso le riserve il sindaco Orlando, è adesso sul banco degli imputati, nonostante le rassicurazioni e le accuse all broker bulgaro usato per la fidejussione.

I tifosi però gridano alla truffa e lo stesso Orlando parla di “imprenditori avventurieri”. Il primo cittadino proverà a giocarsi l’ultima carta per l’iscrizione in Serie D, ma neanche questa è sicura: “Per andare in D Palermo deve rispettare la procedura – ha spiegato Il presidente della Figc Gravina – Al momento ci sono avvisaglie abbastanza preoccupanti nel complesso. Sono operazioni che richiederanno molta attenzione non solo dagli organi della giustizia sportiva». Eppure appena 12 anni fa il calcio rappresentava per i siciliani la via per dimenticare i problemi. Messina, Palermo, Catania erano in serie A e proprio la squadra rosanero colse una clamorosa qualificazione in Europa League. Da quel momento solo fallimenti per le formazioni siciliane: quello del Palermo di queste ore è solo l’ultimo di una lunga serie di gestioni scellerate che hanno fatto sgonfiare il pallone nell’isola. Il primo club a crollare dopo la stagione d’oro fu il Messina, fallito nel 2008, poi rinato e ricaduto più volte: adesso la squadra peloritana naviga in serie D. Poi il Catania, che ha dovuto fare i conti con la questione della combine di alcune partite, costate le manette all’ex presidente Antonino Pulvirenti, (poi dimessosi) e la retrocessione in LegaPro, dove si trova ancora oggi. Ad eccezione del Trapani, promosso in B, e iscrittosi al campionato sul filo del rasoio grazie a un repentino cambio di proprietà dopo i playoff, il calcio siciliano è solo un ricordo sbiadito: pochi mesi fa è fallito il Siracusa, che appena tre anni fa ha disputato i playoff per la Serie B. Il suo futuro adesso è incerto. Stesso destino due anni fa per l’Akragas di Agrigento, poi messa in liquidazione in seguito ai problemi finanziari. Adesso, milita nel campionato di Promozione. Cambio di nome anche per il Ragusa, in serie D fino a 5 anni fa, oggi appena promosso in Eccellenza, dopo diversi cambi al timone. Nell’albo dei ricordi, c’erano anche Enna e Caltanissetta, capoluoghi le cui società calcistiche sono fallite nello stesso anno, il 2013.

Continua la caccia a Messina Denaro, altri 19 indagati

La Polizia di Stato di Trapani ha eseguito ieri una serie di perquisizioni a Castelvetrano, Mazara del Vallo, Partanna e Campobello di Mazara, finalizzate a colpire la rete di fiancheggiatori del latitante Matteo Messina Denaro e a raccogliere ulteriori elementi utili alla sua cattura. Diciannove persone sono indagate. Nel corso dell’operazione, coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e dall’aggiunto Paolo Guido, sono state eseguite decine di perquisizioni. Nel registro degli indagati sono state iscritte “vecchie conoscenze” degli inquirenti: professionisti e uomini d’onore già condannati e ritenuti vicini al boss latitante. È solo l’ultimo blitz a caccia di tracce del capomafia ricercato dal 1993. Negli ultimi anni, la Dda del capoluogo ha messo a segno una serie di operazioni che hanno azzerato la rete dei favoreggiatori più stretti di Messina Denaro come diversi familiari del padrino (due cognati sono attualmente detenuti al carcere duro) e imprenditori che, secondo gli investigatori, ne avrebbero finanziato la latitanza. Ad esempio Vito Nicastri, re dell’eolico, piccolo elettricista che ha messo su una fortuna investendo nelle rinnovabili e che, per i pentiti, faceva arrivare il denaro al boss.

“Su Agnese e i figli gli occhi del Viminale e di un prete”

Pubblichiamo un estratto del libro “DepiStato” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (Chiarelettere), in libreria da oggi

Nei mesi immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio, il Viminale sembra più preoccupato a controllare la famiglia Borsellino che a cercare la verità. Lo racconta nell’aula del processo ai tre poliziotti accusati del depistaggio il funzionario di polizia Gioacchino Genchi citando, come “ideatore” del controllo, l’allora capo della Criminalpol, Luigi Rossi.

Nell’udienza dell’11 gennaio 2019 a Caltanissetta, Genchi racconta: “Rossi era molto attento a tenere rapporti con la famiglia Borsellino. C’era uno studio scientifico di come si dovesse creare attorno alla famiglia un cordone di protezione e controllo. Si studiavano le mosse e gli accorgimenti, si individuò un sacerdote, padre Bucaro (già fondatore del Centro Paolo Borsellino e oggi direttore dei Beni culturali della Diocesi di Palermo, nda), si finanziò con centinaia di milioni uno pseudo centro dove poi tutta la contabilità sparì dagli hard disk, e questo prete tallonava la signora Borsellino. Il prefetto Rossi, attraverso padre Bucaro, mantiene il controllo e una sorta di ibernazione della famiglia Borsellino affinché non potesse nuocere alla gestione (delle indagini, nda) che continuava a fare. Perché era chiaro che la famiglia Borsellino non poteva tollerare La Barbera”.

E qui Genchi tira fuori dalla sua memoria un aneddoto […]: “Una sera andammo in una pizzeria di Palermo […]: eravamo io, La Barbera, i pm Cardella e Boccassini. Entrò la signora Agnese con i familiari, tutti si alzarono, la signora era indignata e si rifiutò di dare la mano a La Barbera. C’era un’ostentata dimostrazione di carenza di fiducia che Agnese volle palesare a La Barbera. […] La ragione fu fatta risalire dai pm Boccassini e Cardella all’agenda rossa. Dicevano: ‘La signora Borsellino è convinta che l’agenda l’hai fatta sparire tu’. Questa cosa innervosiva moltissimo La Barbera”.

Pure il pm Nino Di Matteo, durante la requisitoria del processo Trattativa, ha fatto riferimento a una sorta di controllo istituzionale su Agnese Borsellino, anche se in senso benevolo: “Il magistrato Diego Cavaliero ha spiegato la preoccupazione che la signora Agnese aveva nei confronti dei figli, che l’aveva indotta per tanto tempo a… subire in qualche modo il pressing benevolo e in buona fede delle istituzioni e delle forze di polizia che dal giorno dopo via D’Amelio hanno sempre costituito una parte integrante della vita della signora Borsellino”.

Ma chi è padre Bucaro, l’uomo che secondo Genchi doveva tenere “ibernata” la famiglia del giudice ucciso? Fondatore del Centro Paolo Borsellino e per qualche anno inseparabile amico e consigliere di Agnese Borsellino, il sacerdote Giuseppe Bucaro nel 2005 finì sotto indagine della Procura di Palermo per riciclaggio con Massimo Ciancimino e il tributarista Gianni Lapis. L’inchiesta ruotava attorno a una donazione di 5 milioni di euro destinata al Centro Borsellino, struttura nata con l’obiettivo di tutelare i minori con famiglie problematiche offrendo loro servizi di accoglienza, mensa, ricreazione e assistenza. Secondo l’ipotesi accusatoria, il sacerdote aveva chiesto a Lapis la donazione, che sarebbe transitata su un conto corrente cifrato in Svizzera: insomma, per gli investigatori e per l’accusa, presidente del Centro Borsellino si sarebbe prestato a ripulire parte del “tesoro” di Vito Ciancimino. Gli inquirenti monitorarono centinaia di movimenti bancari e ascoltarono migliaia di ore di conversazioni intercettate tra Ciancimino, Lapis e Bucaro, scoprendo che il sacerdote non aveva mai avuto rapporti diretti con il figlio di don Vito e che era stato il professor Lapis a mediare l’accordo sulla maxi-donazione. Davanti ai magistrati, […] il sacerdote si difese sostenendo che in questo modo intendeva “coprire” i grossi introiti del suo Centro, perché temeva che, se si fosse saputo della consistenza del patrimonio, c’era il rischio che “venissero rapiti i bambini”. Una versione che, però, non convinse nessuno. Nel 2007 l’indagine fu archiviata ma la Procura, pur sollecitando l’archiviazione, parlò di “ambiguità” dell’intera vicenda.

Bologna, l’innesco riapre il caso?

La bomba che provocò la strage di Bologna potrebbe essere esplosa per sbaglio. È questo uno degli elementi principali della perizia chimico-esplosivistica depositata dagli esperti Danilo Coppe e Adolfo Gregori nel corso del processo a Gilberto Cavallini, l’ex Nar accusato a 39 anni di distanza di aver fornito supporto ai suoi antichi sodali. Il geomineralista e il tenente colonnello del Ris di Roma avrebbero rinvenuto anche il possibile interruttore dell’ordigno. Con una levetta simile a quelle usate nell’industria automobilistica, “la sua deformità lo fa ritenere molto vicino all’esplosione” e in una sala d’attesa di una stazione ferroviaria “non aveva ragione di esserci”.

L’oggetto è stato recuperato tra le macerie rimaste per anni esposti alle intemperie, ai Prati di Caprara, una vecchia caserma nella periferia. Un dispositivo simile – osservano i periti – a quello rinvenuto l’8 marzo 1980 nel giardino di casa di Tina Anselmi, ai tempi presidentessa della commissione sulla P2, in una cassa con del tritolo. Non esplose, così come quello che trasportava Margot Christa Frohlich quando venne arrestata a Fiumicino due anni dopo. Con sé aveva una valigia contenente un paio di chili di miccia detonante. Terrorista tedesca, indagata e poi archiviata insieme a Thomas Kram nella cosiddetta “pista palestinese”, una delle teorie alternative a quella neofascista sulla strage accertata dalle sentenze passate in giudicato.

I due facevano parte della rete internazionale terroristica “Separat”, guidata da Carlos “lo sciacallo”, responsabile di un’altra esplosione, quella causata da una valigia piena di esplosivo alla stazione Saint-Charles di Marsiglia che nell’83 uccise cinque persone. Nella perizia si conferma, poi, che la bomba era costituita “essenzialmente da Tnt e T4 di sicura provenienza da scaricamento di ordigni bellici e da una quantità apprezzabile di cariche di lancio (che giustifica la presenza di nitroglicerina e degli stabilizzanti rinvenuti)”. Inoltre, “non si può escludere completamente la presenza di una percentuale di gelatinato a base di nitroglicerina”. Un passaggio che potrebbe collegare l’esplosivo a quello utilizzato in quel periodo dal terrorismo di destra. Ma nelle conclusioni dell’elaborato si legge anche che su basi esclusivamente probabilistiche “si ritiene che, se c’era un dispositivo tra la sorgente di alimentazione e l’innesco, questo poteva essere un timer meccanico. Non si esclude però, in via ipotetica, che l’interruttore di trasporto fosse difettoso o danneggiato tanto da determinare un’esplosione prematura-accidentale dell’ordigno”. Un elemento definito “significativo e innovativo” dall’avvocato Gabriele Bordoni, difensore di Gilberto Cavallini. E Francesca Mambro, l’ex terrorista dei Nar condannata in via definitiva come esecutrice materiale della strage insieme al marito Giusva Fiorvanti, esulta: “Esulta Francesca Mambro: ”Confermato il ruolo di Carlos, noi non c’entriamo”.

“L’assassino di mio figlio resta ossessionato da lui”

In tribunale io l’ho guardato l’assassino di mio figlio. Volevo che incrociasse i miei occhi. Quando l’ha fatto, aveva un’aria di sfida, come se mi dicesse: ce l’ho fatta, l’ho ammazzato”. Roberta Previati non ha mai raccontato il suo calvario. Lei e suo marito Mario sono persone riservate, il dolore se lo sono vissuto con dignità e senza mai cedere alla tentazione dei salotti tv. Roberta decide di parlare a due anni dall’uccisione del figlio avvenuta il 2 luglio 2017 perché ha paura. Paura che in Appello la sentenza di primo grado che ha condannato Eder Guidarelli a trent’anni di carcere (il massimo della pena in caso di rito abbreviato) non venga confermata. “Il giudice non ha riconosciuto la premeditazione e la minorata difesa, il pubblico ministero ha fatto ricorso ma non sappiamo come finirà, so solo che ho paura, un domani, di leggere passaggi come ‘tempesta emotiva’”.

Per comprendere la paura di Roberta bisogna ripercorrere questa vicenda assurda, che racconta un’ossessione feroce di un ragazzo nei confronti di un altro ragazzo. E un epilogo a Valencia, a 1.500 chilometri da casa di entrambi. Tutto inizia nel 2016 a Pontelagoscuro, Provincia di Ferrara. L’allora 31enne Marcello Cenci, bel ragazzo e un discreto successo con le donne, ha un flirt con Irene. Quest’ultima è fidanzata da anni con Eder Guidarelli, anche lui trentunenne, adottato in giovane età dal Brasile insieme a sua sorella. Eder e Marcello si conoscono fin da ragazzini, le loro famiglie d’estate si incontrano nelle Marche, in un piccolo paese dove entrambe possiedono una casa. Eder scopre il flirt tra Irene e Marcello, lei dopo un po’ lascia Eder e quest’ultimo sviluppa un’ossessione nei confronti di Marcello che sfocia in avvenimenti sinistri, sottovalutati dalle forze dell’ordine.

Roberta spiega l’inizio: “Il primo agosto 2016 Marcello è partito per Valencia, per fare il cameriere. Il 28 torna a casa e Eder lo picchia in piazza, a Ferrara. Poi Eder inizia ad appostarsi sotto casa, fa la pipì sul portone, gli manda sms minatori. A settembre si presenta a casa nostra, Marcello è tornato a Valencia e lui vuole sapere l’indirizzo della sua casa spagnola”.

Perché questa ossessione?

Era convinto che Marcello avesse foto della sua ex sul telefono e anche un video dei due in intimità, mai esistito. Li voleva vedere, era fissato.

Gli date l’indirizzo?

No, ma a novembre Eder va a Valencia e lo trova. Picchia di nuovo Marcello, lo fa svenire per i pugni e gli ruba il cellulare da cui mi manda degli sms fingendosi mio figlio, dicendo che andava tutto bene.

Marcello lo denuncia?

Sì, e a Natale torna a Ferrara. Il 26 dicembre, sotto casa, sento delle urla. Eder aveva aspettato Marcello e lo stava colpendo in testa con le chiavi della macchina. Mio marito è corso fuori in mutande, a Marcello hanno messo 55 punti.

Le forze dell’ordine che dicevano?

La volta prima che erano ragazzate. Alla terza aggressione hanno dato a Eder un divieto di avvicinamento di 200 metri, una cosa ridicola.

Avevate paura?

Io tanta. La sera andavo da sola davanti casa di Eder, sapevo che se la finestra del bagno era aperta lui era in casa.

E Marcello?

Era terrorizzato. I primi giorni dopo l’aggressione dormiva con me sul divano. Lasciava un coltello sul tavolo davanti alla porta.

Poi torna a Valencia.

E fa un errore. Apre di nuovo la sua pagina Facebook. Eder si crea un finto profilo femminile e flirta con lui. Dirà che voleva capire come facesse Marcello a sedurre le donne. Dopo alcuni mesi, dal finto profilo, annuncia che va a Valencia a trovarlo. Marcello non gli dà l’indirizzo ma gli aveva mandato foto di casa sua al porto, Eder individua il terrazzo, una sera parte da Ferrara, percorre 1.500 km in auto e lo aspetta sotto casa.

E lo uccide.

Sì, la notte tra l’1 e il 2 luglio, il giorno in cui c’era stato il patteggiamento per le denunce. Alle tre di notte mio figlio è davanti all’ascensore quando Eder lo aggredisce e lo strangola. Marcello rimane a terra, impiega 20 minuti per morire.

Eder, durante l’interrogatorio, racconta che dopo averlo strangolato gli ha anche rotto quei suoi “occhiali da Johnny Depp” e gli ha buttato soldi addosso per scherno.

Mio marito è uscito due volte dall’aula mentre ascoltava certe cose.

Quando avete saputo della sua morte?

È morto alle tre del mattino, sono venuti a dircelo a casa due carabinieri alle sei del pomeriggio.

Si poteva fare di più?

La legge non l’ha protetto, io non nego di aver pensato ad altri rimedi in certi momenti, ma siamo persone perbene…

Eder ha preso 30 anni, cosa temete?

Non è stata riconosciuta la premeditazione ed è assurdo, dopo lo stalking, tre aggressioni e un viaggio fino a Valencia per ammazzarlo.

Non è stata riconosciuta neppure la minorata difesa.

Eppure mio figlio aveva bevuto. L’ho sperato che avesse bevuto prima di conoscere i risultati dei test, meglio saperlo meno cosciente quando è morto.

Avete paura del giorno in cui Eder uscirà?

Io ho molta paura di una riduzione di pena. Già così uscirà che avrà 60 anni e io temo che verrà a cercare qualcuno della mia famiglia. È un violento, non sa elaborare il dolore, in cella è stato intercettato mentre diceva che avrebbe voluto vedere Marcello su una sedia a rotelle, sognava che soffrisse tutta la vita più ancora della sua morte. E per sette mesi ha negato l’omicidio.

Un ricordo di Marcello?

Sono andata a qualche seduta dallo psicologo, mi ha detto di scrivere un libro, ma cosa dovrei scrivere? Marcello era un ragazzo normale con i suoi difetti, era un donnaiolo, aveva un caratteraccio. Però era anche altro e questa brutta storia paradossalmente ci aveva avvicinati tanto. Noi siamo stati genitori severi, improvvisamente lui ci aveva scoperti protettivi e noi lo vedevano indifeso. È morto quando per me era tornato a essere un bambino.

Come il caso “Veleno”: vent’anni fa “i pedofili della Bassa”

“Due vicende che hanno tantissime analogie, finalmente i nodi stanno venendo al pettine”. Lorena Morselli, una delle madri che negli anni 90 si vide togliere quattro figli per un’inchiesta su presunti casi di violenza sessuale su minori e satanismo, la cosiddetta vicenda dei “pedofili della Bassa”, commenta così l’operazione “Angeli e Demoni”, sugli affidi illeciti a Reggio Emilia. Quella modenese è una vicenda mai del tutto chiarita, che portò, anche qui, all’allontanamento dei bambini dalle famiglie. Realtà che il giornalista Pablo Trincia, autore dell’inchiesta in podcast Veleno proprio sul caso della Bassa Modenese ha collegato in mattinata appena si è diffusa la notizia degli arresti a Reggio Emilia: “La Procura di Reggio Emilia – ha scritto su Facebook – avrebbe appena sventato un secondo ‘caso Veleno’. Hanno arrestato Claudio Foti, responsabile del Centro Hansel e Gretel di Torino, lo stesso da cui provenivano le psicologhe che avete visto interrogare i bambini di Veleno. Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast”, ricorda sempre Trincia.

Il ritorno dello psicologo Claudio Foti, l’uomo della “macchinetta dei ricordi”

Al centro di tutto c’è Claudio Foti, psicoterapeuta e direttore del Centro studi Hansel & Gretel. È lui il promulgatore della terapia con la “macchinetta dei ricordi”, vero e proprio dominus ammirato e incontrastato. Capace di convincere colleghi, assistenti sociali, pubblici amministratori a preferire lui e il suo centro alla sanità pubblica.

Garantisce la responsabile dei servizi sociali Federica Anghinolfi, d’altronde Foti è il suo psicoterapeuta. Anche se questo dato viene omesso quando incominciano i primi affidi di minori. La donna omette anche di avere avuto una relazione sentimentale con una delle affidatarie. Un intreccio vorticoso. Per gli investigatori Foti è “il soggetto con ruolo di guida, ha un alto tasso potenziale di criminalità. Una personalità violenta e impositiva con comportamenti maltrattanti nei confronti della moglie”, Nadia Bolognini, psicoterapeuta, anche lei arrestata. Durante un corso di formazione Foti utilizzò come “cavia” Isabella, una delle minorenni che avrebbe dovuto curare, per illustrare ai colleghi come estrapolare i ricordi. Il Centro studi Hansel & Gretel è tristemente noto anche qualche chilometro più in là di Bibbiano, nella Bassa modenese.

“Due vicende che hanno tantissime analogie, finalmente i nodi stanno venendo al pettine”. Lorena Morselli è una delle madri che negli anni Novanta si vide togliere quattro figli per un’inchiesta su presunti casi di violenza sessuale e satanismo. È stata assolta in Cassazione dalle accuse di pedofilia insieme al marito Delfino Covezzi, che nel frattempo è morto d’infarto. Sedici minorenni vennero affidati ad altre famiglie. “Non bisogna mai perdere la fiducia e la forza di volontà. Tra le due vicende ci sono tantissime analogie, penso a esempio, la prima cosa che mi viene in mente, ai regali che noi genitori inviavamo ai nostri figli che ci erano stati tolti e che non furono mai consegnati. Mi riferisco anche ad alcune realtà della Bassa degli anni 90 e ritornano oggi a Reggio Emilia”. Come raccontato nell’inchiesta di Pablo Trincia, Veleno: “Hanno arrestato Claudio Foti, responsabile del Centro Hansel & Gretel, lo stesso da cui provenivano le psicologhe che interrogarono i bambini di Veleno. Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast”. Al tema Foti dedica spesso dei pensieri. Per lo psicoterapeuta chi mette in dubbio la correttezza del suo pensiero è “un negazionista, un collaborazionista dei pedofili”. L’inchiesta è “solo fanghiglia, bisogna fare pressione e raccogliere firme, ecco cosa dobbiamo fare”. Un metodo consueto, che ripete anche quando ha bisogno di ingraziarsi un giudice del tribunale per i minorenni di Bologna. “Dammi un titolo per il quale lo posso far intervenire al convegno, tipo ‘quando l’imputato viene assolto e il bambino continua a dire che è successo’, se abbiamo dei giudici che si occupano di questo abbiamo una prospettiva”.

La banda dei “ruba bambini” elettrochoc per avere l’affido

“Ti ricordi che eri sola e nessuno ti aiutava? Ti ricordi cosa hai detto? I ricordi dobbiamo metterli a posto, sennò facciamo confusione!”. I piedi e le mani della bambina, di pochi anni, vengono attaccati alla “macchinetta dei ricordi”. Gli elettrodi sparano l’impulso. La bimba finalmente “ricorda”. Racconta di turpi abusi, oscene violenze sessuali e psicologiche, di un padre mostruoso e di una madre connivente. Tutto falso, inventato, anzi inculcato nelle presunte vittime per guadagnarci sopra.

Un sindaco, un’assistente sociale e un avvocato, diversi psicologi e psicoterapeuti: una onlus del male che faceva girare centinaia di migliaia di euro, equamente spartiti a seconda del ruolo. Ventisette indagati tra Reggio Emilia e Torino, di cui sei agli arresti domiciliari. I capi d’imputazione – tra gli altri, frode processuale, depistaggio, maltrattamenti, tentata estorsione – non bastano a restituire il meticoloso orrore a cui per anni sono stati sottoposti una decina di bambine e bambini. Il copione era sempre lo stesso. Bastava un accesso al pronto soccorso o la chiacchiera di un bimbo a un’insegnante, qualsiasi segnalazione presentasse un elemento, anche labile, di un abuso sessuale metteva in moto un meccanismo rodato.

Allontanamento del minore dalla sua famiglia, relazione falsa che assume per certo la violenza e invio del minore presso la struttura pubblica “La Cura” gestita da un’onlus sovvenzionata dall’ente locale “La Casina dei bimbi”. Qui a Bubbiano, nel Reggiano, i piccoli venivano sottoposti a un lavaggio del cervello da parte di professionisti, privati, tutti riconducibili all’associazione Hansel & Gretel di Moncalieri (Torino). L’unico fine era questo: portare i bambini a “La Cura” e poter addebitare allo Stato il costo esorbitante delle sedute. Se a Torino la terapia costava 60 euro l’ora a Bubbiano tra i 100 e i 135 euro. Più sedute, più soldi per tutti.

Convincono poco i proclami per la difesa e la tutela dei bambini pubblicati sui siti delle diverse società o nei profili social degli imputati a fronte delle storie di Giulia e Roberto, vittime per davvero ma delle nuove famiglie affidatarie. Giulia è epilettica ma a nessuno importa, hanno deciso che il padre l’abbia abusata. Ne sono particolarmente convinte le due mamme che l’hanno in affidamento, al punto da minacciare con urla e bestemmie la bambina purché parli. Le sessioni continue a cui sottopongono Giulia sono fatturate a loro nome, ma non le pagano veramente: ogni mese ricevono un rimborso sotto una finta causale di pagamento che copre le sedute e garantisce un extra. Per Giulia vessazioni psicologiche continue, come il divieto di portare i capelli sciolti “per non manifestare la vanità” e l’averla sbattuta fuori dalla macchina in un giorno di pioggia.

Di certo non è un caso che una delle due donne abbia avuto in passato una relazione sentimentale con la responsabile dei servizi sociali, oggi ai domiciliari. Roberto è ancora più sfortunato: costretto ad accusare falsamente il padre e la madre di aver masturbato lui e tutti i suoi fratelli viene stuprato a soli sette anni da un altro ragazzo, diciassettenne, come lui affidato alla stessa famiglia. L’abuso in questo caso c’è, ma è colpa di Roberto secondo l’assistente sociale (arrestato): “Chissà che segnali avrà mandato a questo ragazzo perché fosse predabile”. Se i segnali non c’erano si inventavano, come nel caso di Lucia a cui, oltreché i ricordi, hanno imposto un disegno: quello che aveva fatto lei era felice e pieno di luce, quello allegato alla relazione aveva due lunghe mani sui genitali aggiunte ad hoc.

Nessuno scrupolo, nessun dubbio nemmeno di fronte alle lacrime dei loro pazienti. “Caro papà mi manchi tanto, mi potresti scrivere un biglietto? Di te non ho ricevuto niente e mi sono chiesta il perché, ti voglio un bene gigante”. Sono passati due anni da quando Maria (nome di fantasia) è stata strappata ai genitori. Da poche settimane ha “scoperto” di essere stata abusata proprio da quel padre a cui scriveva lettere mai consegnate.

I carabinieri di Reggio Emilia hanno rinvenuto decine di lettere come la sua. Pacchi e regali abbandonati e nascosti in un magazzino per convincere i bambini che erano davvero figli di mostri. In tutto sono 27 gli indagati nell’inchiesta coordinata dalla pm Valentina Salvi. Secondo gli investigatori, il sindaco dem di Bibbiano, Andrea Carletti, finito ai domiciliari con l’accusa di abuso d’ufficio, era fondamentale per dare “copertura” alle attività illecite, grazie ai suoi contatti. Il primo cittadino, appena rieletto, seppur venuto a conoscenza delle indagini non si era fermato e aveva cercato di stipulare un apposito bando per realizzare una nuova comunità di accoglienza nella Val d’Enza.

Il socio di De Vito, Camillo Mezzocapo, agli arresti domiciliari

Esce dal carcere e va ai domiciliari Camillo Mezzacapo. Il gip Maria Paola Tomaselli ha accolto l’istanza presentata dagli avvocati dell’ex socio e presunto sodale di Marcello De Vito (in foto), arrestato per corruzione lo scorso 20 marzo insieme con l’ex presidente dell’Assemblea capitolina, nell’ambito di un filone d’indagine sullo stadio della Roma. Mezzacapo si è sempre difeso affermando che fu De Vito a presentargli Luca Parnasi, il costruttore e principale indagato dell’inchiesta “Rinascimento”. Del suo ex socio, ai magistrati ha detto che “Marcello aveva poco potere, cercava visibilità e tagliava nastri”. Per Mezzacapo sorte diversa rispetto al candidato sindaco del M5S nel 2013: il Riesame, infatti, aveva analizzato l’istanza dei legali di De Vito il 6 aprile scorso, rigettandola. Dal carcere di Rebibbia, recentemente l’ex pentastellato aveva inviato una lettera alla sindaca Virginia Raggi, professando la sua assoluta innocenza e avvertendo di non volersi dimettere da presidente dell’aula Giulio Cesare (al momento è stato sospeso in virtù della legge Severino).

I filobus della maxitangente a Tor Pagnotta 10 anni dopo

“In periferia arrivano i filobus! Ecco gli ultimi aggiornamenti sul corridoio della mobilità Eur Laurentina-Tor Pagnotta: il cosiddetto pre-esercizio, le prove tecniche di Atac, si è concluso e i filobus sono pronti a circolare. Ormai ci siamo, per l’avvio del servizio mancano solo pochi passaggi e il via libera degli enti ministeriali e regionali. Poi potremo aprire questa importante infrastruttura nel quadrante sud della nostra città. Un’opera attesa da tempo che noi abbiamo ripreso in mano e portato a termine, una corsia dedicata al trasporto pubblico locale con mezzi elettrici e sostenibili, che garantiranno un risparmio di tempo per arrivare alla metro Laurentina, collegamenti per tutti dalla periferia al centro”.

Parola di Virginia Raggi, così la sindaca di Roma l’altro giorno ha esultato su Facebook per la fine di un’attesa lunga undici anni. Tanto è passato, infatti, dall’avvio del progetto dei filobus al servizio di Tor Pagnotta, diecimila abitanti tra Grande raccordo, Mostacciano e Cecchignola, nomi di grandi borgate poco noti fuori dalla capitale. Con i filobus, che viaggeranno su un percorso dedicato, il cosiddetto “corridoio” Eur Laurentina-Tor Pagnotta, si completa una storia cominciata ancor prima, molti anni fa, rendendo possibile il raggiungimento di una fermata della metro a quell’estrema periferia. Era il 2003, giunta Veltroni, quando il Campidoglio rilasciò il permesso di costruire al gruppo Caltagirone. Con buona pace del patrimonio archeologico presente in quella zona di Roma, successivamente inghiottito dal cemento. Il nuovo sobborgo prevedeva anche nuove infrastrutture per i collegamenti col resto della città. Siamo a 15 chilometri dal centro di Roma. Prima si parlò di metropolitana leggera, poi si virò sul progetto filobus. E a fine 2011 avrebbe dovuto esser già tutto completato, ma invece tutto procedeva a rilento e la battuta d’arresto arrivò nel 2013 mentre Gianni Alemanno era ancora sindaco: una maxi mazzetta, proprio sull’acquisto dei 45 filobus costati 20 milioni di euro con un appalto del 2009 e allora parcheggiati a Bologna e a Pilsen, in Repubblica Ceca. Seicento mila euro di tangente intascati da Riccardo Mancini (500 mila), uno dei più potenti della corte “nera” di Alemanno, e dal commercialista Marco Iannilli (100 mila).

Con questa mazzetta “estorta” BredaMenariniBus vinse l’appalto. Mancini e soci minacciarono Lorenzo Cola di Finmeccanica (che controllava Breda Menarini spa) per ottenere il risultato. Sembra passato un secolo da questi fatti, ma la condanna a Mancini è di appena un mese fa. Alemanno – condannato in primo grado a sei anni per corruzione nell’ambito del processo stralcio di Mafia Capitale – rispetto all’affare filobus, accusato di finanziamento illecito ai partiti, è stato archiviato: non c’è prova, infatti, di un’ulteriore tangente di 200 mila euro destinata alla “segreteria di Alemanno”, riportata dall’imprenditore Edoardo d’Incà Levis in un interrogatorio.

Nel frattempo i filobus vengono spostati nell’apposito deposito-officina dell’Atac realizzato a Tor Pagnotta. I lavori, lenti, al “corridoio” proseguono tra mille ostacoli, come un errore su uno degli ordini dei pali: arrivò una commessa con strutture più piccole di quelle che servivano. Inservibile con i mezzi già comprati e parcheggiati. Nel 2017 è già sindaca Virginia Raggi ed è la giunta grillina a decidere di cominciare a far camminare i filobus fermi. Però non lungo il “corridoio” di Roma Sud, ancora da completare, ma sulla Nomentana, da Porta Pia verso la parte nord est della città dove c’è un altra linea elettrificata. Ne vengono inviati quindici dei 45. A quasi 20 chilometri dal deposito, 40 minuti di strada se va bene. Con qualche problema, perché quei mezzi hanno anche un motore alimentato a gasolio, ma utilizzabile solo per spostamenti brevi o in caso di emergenze, come un calo di tensione.

Averli costretti a tanta strada senza elettricità li ha messi a dura prova, tanto che soltanto il primo giorno del servizio sulla Nomentana su 15 se ne fermarono quattro. Ma nulla rispetto a quanto accaduto in questi anni al resto del parco mezzi: non c’è linea dell’Atac senza problemi, l’immagine dell’autobus in fiamme in via del Tritone di un anno fa fece il giro del mondo perché avvenne tra i palazzi del centro, non è un episodio raro. Per non parlare dei 70 giganti della strada noleggiati in Israele e rispediti all’estero dopo diverso tempo in deposito perché non adatti all’omologazione in Italia. “Chi ha sbagliato pagherà”, ha tuonato la sindaca.

Ad ogni modo, finalmente, la gran parte dei 45 filobus di Tor Pagnotta, due sono incidentati e difficilmente recuperabili a breve, potranno percorrere il “corridoio” per cui sono stati acquistati e i tecnici assicurano che “la tecnologia Skoda di quei mezzi, pur avendo già dieci anni di età, non è affatto obsoleta”.