L’ex braccio destro di Zingaretti “garante degli accordi di Buzzi”

Maurizio Venafro era “il garante dell’accordo intercorso” fra Salvatore Buzzi e l’ex coordinatore regionale del Pdl, Luca Gramazio, affinché il dirigente Angelo Scozzava divenisse membro della commissione che avrebbe poi assegnato l’appalto da 91 milioni di euro per il Cup della Regione Lazio, favorendo le coop legate a Buzzi.

Così i giudici della terza Corte dell’appello motivano la decisione di condannare Venafro – ex capo di gabinetto di Nicola Zingaretti – a un anno di reclusione per turbativa d’asta, ribaltando l’assoluzione per “non aver commesso il fatto” di primo grado. Al centro del processo – nato da un filone dell’indagine “Mafia Capitale” – c’è quindi l’assegnazione, nel 2014, dell’appalto del servizio Recup, il centro unico prenotazioni delle prestazioni sanitarie della Regione, sul quale avevano messo gli occhi Buzzi e Massimo Carminati (condannati rispettivamente a 18 anni e quattro mesi, e 14 anni e mezzo di carcere per associazione mafiosa).

Nelle motivazioni di Appello i giudici spiegano come Venafro abbia caldeggiato “nell’emergenza” la nomina in commissione di Scozzafava, il quale “si è rivelato l’interlocutore del gruppo di Buzzi”. E proprio questa nomina, secondo la Corte “è stata la garanzia ottenuta da Gramazio attraverso la sostituzione dell’originario commissario ad opera della Longo che ha recepito le direttive di Venafro”. Nè è prova anche un’intercettazione in cui Buzzi dice: “Lui (Gramazio) è andato da Venafro perché ’sta partita la gestisce Venafro per conto di Zingaretti…”.

Da questa e altre conversazioni, secondo i giudici, emerge “una ferrea ripartizione politica delle quote della gara, prima ancora della presentazione delle offerte e inoltre che il gruppo di Buzzi, tramite Gramazio, che ha rivendicato verso la maggioranza della Regione Lazio (ossia il Pd) uno dei lotti, ha ottenuto concrete speranze di vincerne uno attraverso la nomina di Scozzafava, tramite Venafro”.

Toti litiga di nuovo con B. e prepara lo strappo finale

Di nuovo guerra tra Silvio Berlusconi e Giovanni Toti. Con il primo che mercoledì sera ha tirato il freno sul rinnovamento che avevano iniziato a mettere in campo i due coordinatori Toti e Mara Carfagna. I quali sabato avevano congelato tutti i capi regionali. Immediata la reazione dell’ex Cav. “I coordinatori locali sono nel pieno dei loro poteri e continueranno a lavorare fino al congresso”, ha messo in chiaro Berlusconi. Che poi ha stoppato anche le primarie: “Regole e modalità congressuali devono essere ancora decise”. Cosa che ha fatto andare su tutte le furie il governatore ligure, peraltro molto attaccato in questi giorni dentro il partito. “Era iniziato il cambiamento, poi è andato in scena il Congresso di Vienna…”, ha detto ieri fotografando la restaurazione berlusconiana in corso. “Io vado avanti sul percorso iniziato, ma così la rottura è più vicina”, ha aggiunto. Rispondendo picche, tra l’altro, alla richiesta di B. di annullare l’evento già previsto del 6 luglio prossimo. Quella è la data entro cui Toti, che ieri si è visto con Carfagna, deciderà se restare in FI o uscire per dare vita a un nuovo soggetto. Il nome c’è già: Italia in crescita.

Fazio, ecco il mini-taglio al super-stipendio: cala del 10%, la Rai risparmia 224mila euro

Il contratto di Fabio Fazio è un po’ meno monstre. Il popolare conduttore avrebbe accettato il taglio al suo compenso, ma con una percentuale inferiore rispetto alla richiesta iniziale della Rai. La trattativa nelle ultime settimane era in stallo e l’amministratore delegato Fabrizio Salini sta ricevendo i rifiuti alle sforbiciate da parte di alcuni volti noti. Finora a dirgli no sono stati Carlo Conti (rinnovato alla stessa cifra dell’anno scorso, circa 1 milione e mezzo) e Bruno Vespa. “Visto che si parte e si finisce sempre con me, prima si vada dagli altri e poi ne riparliamo”, ha detto il giornalista, che dalla Rai percepisce 1 milione e 280 mila euro, con il contratto in scadenza a settembre.

Fazio, il cui programma Che tempo che fa è stato spostato da Raiuno a Raidue, dopo diverse polemiche sui mega stipendi e attacchi dal mondo politico (soprattutto da Matteo Salvini), si era detto disponibile a rivedere la cifra del suo mega contratto, stipulato a suo tempo da Mario Orfeo: 2 milioni e 240 euro a stagione per un quadriennio. Cui vanno aggiunti altri 18 milioni l’anno tra la cifra pagata alla società Officina srl per diritti e costi industriali, e i costi a carico della Rai per la realizzazione del programma. Su Raiuno erano previste anche una trentina di seconde serate al lunedì: Che fuori tempo che fa, ora cancellate.

Il suo contratto, ricordiamo, è blindato: Viale Mazzini non può modificarlo in modo unilaterale, ma solo con l’accordo del conduttore. In caso contrario, la tv pubblica sarebbe costretta a sborsare una penale di oltre 7 milioni di euro.

La trattativa con Fazio ora sembra essersi sbloccata. La richiesta di Salini era una riduzione del 20% del compenso annuo, quindi 448 mila euro. Ma alla fine ci si sarebbe accordati per un calo del 10%: 224 mila euro. Un risparmio che toccherà solo il suo compenso. Non è chiaro il resto: quanto sborserà in meno la Rai a Officina a fronte del dimezzamento delle puntate dovuto alla soppressione della seconda serata?

Fazio avrebbe accettato il taglio in quanto “misura non punitiva ad personam”, ma come una “richiesta generale dell’azienda”. Esprimendo però contrarietà alla riduzione del budget di Che tempo che fa. E ora Salini tornerà alla carica anche con gli altri. “La mission della Rai è una generale riduzione dei costi, dalle risorse interne agli artisti”, aveva detto qualche tempo fa in Vigilanza. Con Fazio pare esserci riuscito. Ma solo a metà rispetto all’obbiettivo iniziale.

Il Pd vuole il salario minimo per sindaci e capi delle Province

Ma il Pd lo vuole o non lo vuole il salario minimo? Parrebbe di sì, almeno a leggere la proposta del senatore dem, Antonio Misiani. Che ha le idee chiarissime: il salario minimo ci vuole eccome, ma per i sindaci e i presidenti delle province. Che adesso sperano finalmente di poter veder crescere i loro redditi. Perché se dovesse essere approvato, il provvedimento presentato qualche mese fa da Misiani, prima che Nicola Zingaretti lo promuovesse responsabile del Dipartimento economia e sviluppo della nuova segreteria del Nazareno, potrebbero festeggiare alla grande.

Certo, magari non proprio a champagne, perché sempre di salario minimo si tratta: ma 1.500 euro fissi al mese, e per di più netti, per i sindaci dei piccoli e piccolissimi Comuni, sarebbero comunque una manna. Certo sempre più dei 9 euro lordi l’ora proposti per tutti i lavoratori dal Movimento 5 Stelle che con la sua proposta si è tirato dietro un sacco di critiche pure del Pd.

Ma cosa prevede la proposta di Misiani? Gli stanno davvero a cuore gli amministratori locali e non solo i sindaci. Perché nemmeno i presidenti delle province resteranno a bocca asciutta, anzi. Sempre secondo il progetto di legge dem, a loro andrebbe addirittura meglio: perché oggi non beccano una lira per l’incarico. Ma se la misura che ha proposto dovesse diventare legge, farebbero in molti casi un colpaccio.

Per tali cariche elettive non è prevista alcuna indennità: sono infatti eletti tra i sindaci della provincia e devono accontentarsi dello stipendio che gli spetta come amministratori comunali, nonostante il doppio incarico. Questo perché gli enti provinciali erano stati destinati alla soppressione nella riforma costituzionale approvata dalle Camere nel 2016. Poi però la soppressione vera e propria non c’è stata più. “Occorre prendere atto che oggi la mancata cancellazione delle province dalla Carta costituzionale, a seguito del referendum confermativo del 2016, ha condotto al paradosso per cui i presidenti di provincia non percepiscono alcuna indennità a fronte dell’esercizio di una carica non certo priva di oneri e responsabilità” spiega Misiani nella relazione che accompagna il suo disegno di legge. Che contiene pure una vera chicca a beneficio dei presidenti delle province.

Ossia la previsione di un salario ad hoc davvero presidenziale. Che proprio minimo non è. Perché in ogni caso gli emolumenti a loro favore non potranno essere inferiori a quelli riconosciuti ai sindaci dei comuni capoluogo, ossia di città di medie e grandi dimensioni. E siccome le indennità dei sindaci crescono in base alla dimensione delle città che amministrano, per i presidenti delle province sarebbe davvero una manna: se sono già sindaci della città capoluogo insomma non ci perderanno un euro. Ma se putacaso si trovano a amministrare una città più piccola, avranno diritto a un’indennità assai più cospicua. E a quel punto essere eletti alla provincia vorrà dire, rispetto a ora, staccare un biglietto vincente della lotteria.

Basterà puntare al posto giusto, perché c’è stipendio e stipendio. E non tutti i comuni sono grandi, complessi e popolosi come quelli di Roma, Milano e Napoli. Anzi, per dirla tutta, a volte, i sindaci fanno la fame, o quasi: è una tabella del ministero dell’Interno a fissare le indennità massime attribuibili ai primi cittadini dei quasi 8 mila comuni italiani, in proporzione al numero di abitanti. Che a Misiani del Pd non piace per niente perché quel parametro introduce un meccanismo che premia solo chi si può permettere di assumere un incarico così mal pagato. E soprattutto non misura l’impegno e le responsabilità che gravano pure sugli amministratori delle piccole realtà locali a fronte di una vera miseria, molte volte, appena 1.000 euro mensili per dodici mensilità. “Vi sono alcuni oneri, alcuni rischi e alcune responsabilità – spiega – che ciascun sindaco si assume a prescindere dalla consistenza numerica del comune amministrato. Pensiamo solo per fare un esempio ai costi che ciascun sindaco deve sostenere in sede legale per potersi difendere adeguatamente a fronte delle sempre più frequenti denunce che gli amministratori locali si trovano a dover fronteggiare”. Il salario minimo come assicurazione professionale.

Se ne va Beppe Sala? “Il Pd non basta, serve un nuovo soggetto”

Ora ci si mette anche Beppe Sala a turbare i sonni di Nicola Zingaretti: “Il Pd può crescere ancora, ma non più di tanto – ha detto a L’Espresso in edicola da domenica – Solo un nuovo soggetto può riportare al voto qualcuno che normalmente non va a votare, qualcuno che ha votato per i 5Stelle e perfino qualche elettore della Lega che fa fatica ad accettare l’estremismo salviniano”. Non una scissione, ma quasi, basta che non si voti troppo presto: “Con elezioni a breve termine si rischia che il nuovo soggetto sia solo una figurina”. Resta da capire chi sarà il leader: Sala? “Voglio essere sincero: mi piacerebbe, ma oggi non posso, tanto più che c’è questa nuova responsabilità (le Olimpiadi invernali, ndr). Chi ha capacità, proposte, deve farsi avanti”. Ovviamente s’è fatto avanti Carlo Calenda: “Al mio amico Sala ribadisco quanto detto mille volte: il moderatismo in Italia non serve ed è spesso sinonimo di gattopardismo, bisogna lavorare su contenuti e programmi radicali. Condivido anche che il Pd non basta e penso che Sala sarebbe un pilastro fondamentale per una nuova aggregazione capace di battere i nazionalisti. Iniziamo a lavorarci possibilmente insieme: il tempo è poco e le divisioni già troppe”.

Molise, chiude punto nascite: 40 sindaci pronti a dimettersi

I parti calanoe il punto nascite chiude, ma 40 sindaci non ci stanno e minacciano le dimissioni. A Termoli, in provincia di Campobasso, infuria la protesta per il decreto firmato dal Commissario alla Sanità del Molise, Angelo Giustini, e del sub Commissario Ida Grossi, che prevede la fine delle attività di ostetricia all’ospedale San Timoteo, a partire dal prossimo 1° luglio. Secondo lo stesso Giustini i motivi sono la mancanza di standard di sicurezza e il basso numero di gestanti: solo 300 all’anno scelgono di partorire lì.

Però i primi cittadini di 40 comuni della bassa molisana si schierano dalla parte dell’ospedale e dei cittadini e promettono di abbandonare le proprie fasce se il provvedimento dovesse entrare in vigore. Una mobilitazione per sensibilizzare il Ministero della Salute, che in una nota risponde: “La Regione Molise ha chiesto una deroga all’ipotesi di chiusura esclusivamente per il punto nascita di Isernia, che è stato concesso a condizione che venisse chiuso il punto di Termoli”. Anche mamme e donne del posto minacciano battaglia, e il 1° luglio manifesteranno davanti al presidio sanitario.

il m5s non ha più opzioni: ora si vada alla conta

Ormai non c’è più ambiguità: il progetto del Tav sta andando avanti e non si fermerà da solo. I Cinque Stelle devono prenderne atto. Dopo aver avviato la procedura che porterà ai bandi dal lato francese per 2,3 miliardi, la società costruttrice Telt ha promosso anche gli avvisi per la parte italiana. Il tentativo di prendere tempo, anche agitando un progetto alternativo tutto da valutare ma che nessuno prende sul serio, è fallito. Quello di delegare la scelta ai tecnici pure: la commissione del ministero dei Trasporti guidata da Marco Ponti ha concluso che l’opera ha un impatto economico negativo per 7 miliardi ma non c’è stata alcuna conseguenza politica. La sconfessione dell’approccio costi-benefici non solo lascerà procedere il Tav, ma renderà impossibile fermare sprechi addirittura maggiori anche se privi della stessa rilevanza politica (ferrovie assai poco utili al Sud, da 20 miliardi).

Ai Cinque Stelle, da sempre oppositori del Tav (ma non di altre opere), restano poche opzioni. Non fare nulla equivale a dire che il Tav va fatto e si farà. Le azioni concrete di matrice governativa sembrano escluse, per ostilità della Lega e perché il M5S non vuole far saltare la maggioranza su una vicenda tutto sommato regionale. Impossibile azzerare i vertici di Telt o rivedere le risorse già stanziate. Resta la pista parlamentare: il Movimento può cercare un voto sul Tav, non otterrà nulla ma almeno renderà palese che esiste una maggioranza in favore dello spreco sulla Torino-Lione e lascerà traccia di una sua concreta opposizione. Può rimettere in discussione i vari accordi internazionali (l’ultimo del 2017). O, più semplicemente, promuovere una mozione che non è vincolante ma, come dimostra il caso di quella approvata sui mini-Bot, può avere grande impatto. Se poi la maggioranza sopravviverebbe a questo tentativo è un’altra storia. Ma sul tema Tav non sembrano rimaste opzioni di compromesso o rinvio.

Il rapporto choc del Senato francese: i ponti “a rischio reale” sono 25 mila

I ponti “a rischio reale” sono 25.000 in Francia e se non si interviene subito un dramma come quello del ponte Morandi di Genova non può essere escluso: è l’allarme lanciato da un rapporto senatoriale di cui ieri Le Figaro ha reso noti i contenuti. Lo stato dei ponti francesi è “preoccupante”, ha detto Hervé Maurey, il deputato centrista responsabile del rapporto intervenuto alla radio France Info. Se i ponti oggi stanno così è perché “le strutture invecchiano e molte arrivano a fine vita, ma anche perché non sono stati consacrati i mezzi sufficienti alla loro manutenzione. Per evitare che si verifichi in Francia un dramma come quello di Genova – ha detto Maurey – bisogna investire il necessario”. Di fronte all’urgenza, i senatori chiedono un “piano Marshall” sin dal 2020. Oggi lo Stato francese investe 45 milioni di euro ogni anno nella manutenzione dei suoi ponti. Ma non è abbastanza, ammoniscono i senatori. Bisogna più che raddoppiare i fondi e investire almeno 120 milioni di euro all’anno per garantire la sicurezza dei circa 12mila ponti statali. Di questi 1.750 presentano oggi un “rischio di crollo”.

La situazione non è migliore per i ponti gestiti dalle collettività locali, tra 200mila e 250mila. In mancanza di un inventario, il numero esatto di ponti presenti sul territorio francese non è noto neanche ai senatori, che puntano tra l’altro il dito contro la “negligenza” dello Stato che non ha mai proceduto a fare un “inventario”.

Stando al rapporto, il 18%-20% dei ponti a gestione comunale “non è del tutto sicuro”. Mentre 5 ponti in media per dipartimento avrebbero bisogno di essere ricostruiti nei prossimi 5 anni. Per questi ponti a gestione locale i senatori chiedono la creazione di un fondo di 130 milioni di euro all’anno per 10 anni destinato ad aiutare le collettività a realizzare un inventario e una diagnostica esatta e quindi a procedere ai lavori necessari nei prossimi 5-10 anni.

Secondo Maurey, lo Stato dovrebbe imparare a considerare i suoi ponti come un “patrimonio”: “Bisogna fare manutenzioni regolari, con un approccio razionale, smettendola di intervenire solo quando ci sono crolli”. L’inchiesta sui ponti francesi era stata lanciata subito dopo la tragedia di Genova, che il 14 agosto 2018 aveva provocato la morte di 43 persone. Del resto, poco prima del crollo del Morandi, durante la notte del 15 maggio 2018, un muro di sostegno di un viadotto della A15, tra Gennevilliers e Argentueil, a nord-est della capitale, era pericolosamente crollato su alcuni metri di strada senza fare vittime.

Dell’incidente, passato inosservato in un primo tempo, si era parlato solo dopo i fatti ben più gravi di Genova, e si era saputo tra l’altro che il ponte, tre mesi dopo, era ancora chiuso. All’epoca la ministra dei Trasporti, Elisabeth Borne, aveva promesso “trasparenza” sullo stato strutturale e la sicurezza dei ponti francesi. Lo stesso ministero aveva dovuto riconoscere che il 7% dei ponti statali rischiavano di crollare.

Alitalia, Di Maio stronca Atlantia: “Sono decotti”

Adesso il salvataggio di Alitalia è davvero su un binario morto. Mentre Autostrade, controllata dalla Atlantia dei Benetton, vede avvicinarsi il rischio concreto che il governo, o almeno così la vede la componente pentastellata, faccia un passo decisivo per la revoca della concessione per il crollo del ponte Morandi di Genova, il cui iter è partito quasi un anno fa. A stroncare l’ipotesi di un ingresso della holding dei Benetton nel salvataggio della compagnia aerea, che il governo ha affidato alle Ferrovie, è stato ieri lo stesso Luigi Di Maio. “Atlantia è decotta, non può essere coinvolta”, attacca il vicepremier a Porta a Porta , a Borsa ancora aperta: “Se abbiamo detto a Genova che revocavamo le concessioni, il giorno in cui in maniera coerente lo faremo quell’azienda perderà valore in Borsa. Se li mettiamo dentro Alitalia, faranno perdere valore anche agli aerei”.

A stretto giro arriva la replica di Autostrade che parla di “grave danno reputazionale” e di “dichiarazioni che perturbano l’andamento del titolo”, tanto da “riservarsi di attivare ogni iniziativa legale a tutela”. Passa qualche ora e Di Maio contrattacca: “I Benetton sono stati più veloci oggi a rispondere al sottoscritto (minacciando azioni legali) che a chiedere scusa ai familiari delle vittime di Genova”. Il titolo chiude poco mosso (-0,26%). Pd e Forza Italia attaccano il vicepremier. Confindustria chiede addirittura un intervento di Giuseppe Conte. Lega e M5S si scontrano per tutta la giornata, ma è Matteo Salvini a sferrare il colpo più duro: “Chi sbaglia paga ma prima di dire che le aziende sono decotte bisogna sapere che sono in ballo migliaia di posti di lavoro”.

L’uscita di Di Maio archivia i tentativi di dialogo con Atlantia avviati in questi mesi per evitare il fallimento di Alitalia. Alle Ferrovie, infatti, manca un investitore di peso che sottoscriva almeno il 30% della nuova società, senza il quale il gruppo statale si tirerà indietro. Al momento, oltre alle Fs, che avranno il 30%, ci sono solo gli americani di Delta e il Tesoro con il 15% a testa. Dopo la fuga delle partecipate statali, la holding dei Benetton è sembrata agli uomini vicini al dossier l’unico partner potenzialmente disponibile, visto che controlla già gli aeroporti di Roma. A patto, però, di archiviare gli intenti bellicosi sulla revoca della concessione.

Per settimane nessun 5 Stelle si è pronunciato sull’ipotesi. Eppure, oltre un mese fa un tentativo di dialogo era partito da Palazzo Chigi, a cui nel frattempo è passato il dossier. L’ipotesi era di rinunciare alla revoca, in cambio di un taglio delle tariffe di Autostrade (quella della A10, che attraversava il Morandi, sarebbero state azzerate) e un aumento degli indennizzi alle vittime del disastro di Genova. Atlantia è sembrata disponibile, ma il dialogo si è arenato con l’arrivo delle elezioni europee. L’attacco di Di Maio chiude la strada ai Benetton, già avallata da Salvini, e non sembra estraneo a quel che accade al ministero delle Infrastrutture.

Danilo Toninelli ha affidato a una commissione di esperti il compito di redigere una relazione per stabilire se ci sono le condizioni per revocare la concessione ad Autostrade, dopo che la società ha inviato a maggio le sue controdeduzioni ai rilievi del ministero. La task force, presieduta dal consigliere di Stato Hadrian Simonetti, ha ultimato il suo lavoro, che verrà consegnato a breve. Se il parere fosse positivo, il Mit potrebbe avviare l’iter: al netto del consenso politico (che ora manca), servirà capire anche come muoversi, visto il sicuro contenzioso miliardario che partirà.

L’unica certezza, ad oggi, è la scadenza del 15 luglio per presentare le offerte per Alitalia: senza una nuova proroga, resta solo Lufthansa, che però chiede 4 mila esuberi e di prendersi solo le parti buone del vettore.

Grandi opere, l’analisi costi-benefici è archiviata

L’uscita arriva nel momento peggiore per i 5Stelle, schiacciati dalla manovra a tenaglia di Lega e Ue sul Tav. Ieri Marco Ponti, capo della task force di esperti economisti incaricati di redigere l’analisi costi-benefici ha scaricato Danilo Toninelli, che lo aveva ingaggiato. Dopo aver lanciato appelli sul Fatto, in una serie di interviste ha accusato il ministro delle Infrastrutture di fare “come il suo precedecessore, Graziano Delrio”. “Toninelli ha deciso che non si blocca più nessun cantiere, compreso il Tav – ha spiegato al Corsera – Le nostre analisi sono state usate per fini politici, ma è evidente che non saranno mai applicate”.

Insomma, per il professore il Tav si farà. Ma non è solo questo il punto. “Anche Delrio – prosegue – aveva detto che ogni cantiere sarebbe stato giudicato con le analisi costi-benefici. Poi, quando si è trovato di fronte agli interessi costituiti, ha cambiato idea. A me Toninelli diceva che bisognava analizzare da capo tutto (…) Poi, appena ci sono stati un minimo di resistenza dei poteri costituiti e un problema di consenso, chi l’ha più visto e sentito”. Lo staff di Toninelli ha reagito stizzito: “Alle analisi costi-benefici si affianca sempre un’analisi giuridica – fa sapere il Mit – bisogna tener conto delle leggi, degli atti pregressi, dei vincoli contrattuali, dello stato dei lavori. Non di gruppi di potere che non hanno mai influenzato l’azione di governo”.

L’uscita di Ponti chiude una stagione forse mai decollata. Per mettersi d’accordo con la Lega – favorevole alle grandi opere inutili – i 5Stelle hanno messo nel contratto di governo l’analisi costi-benefici (Acb). Anche gli economisti di Renzi la volevano per archiviare una prassi indecorosa, ma i predecessori di Toninelli non l’hanno mai fatta. Toninelli c’è riuscito, ma si è dovuto scontrare con la difficoltà di sfidare il partito del cemento trincerandosi dietro i tecnici.

Lo si è visto subito. Appena istituita, la task force ha bocciato il Terzo valico ligure (6 miliardi) come uno spreco di soldi pubblici. La Lega ha fatto muro e – con l’aiuto dell’analisi giuridica, che preannunciava penali miliardarie – si è deciso di procedere. Sul Tav ci si è invece scontrati con l’astuzia della malafede. L’Acb ha stroncato l’opera, ma i suoi pasdaran hanno bocciato l’analisi e messo in dubbio la buona fede di Ponti schierando la loro geometrica potenza di fuoco sui grandi giornali. Ma il mondo di professionisti e politicanti piemontesi che da anni prospera sull’opera è nulla a fronte di quel che può scatenarsi se l’analisi costi-benefici divenisse l’unico metodo per decidere sulle grandi opere.

E infatti l’ingranaggio si è inceppato. La commissione Ponti si è sentita isolata, poco protetta dagli attacchi sulla Torino-Lione e inutile senza più l’obbligo di passare tutti i grandi progetti al vaglio dell’Acb. Quelli per l’alta velocità ferroviaria del Sud, come la Napoli-Bari (6 miliardi), già avviata, e la Palermo-Messina (10 miliardi) sono stati esclusi dalla valutazione per decisione del ministero. L’annuncio è arrivato lo stesso giorno, il 28 marzo, in cui il team di Ponti illustrava al dicastero l’analisi sull’alta velocità Brescia-Padova: 8,6 miliardi per un’opera senza flussi di traffico adeguato. L’analisi è negativa per 2,4 miliardi. Il ministero, però, non l’ha ancora pubblicata. Dieci giorni dopo, a Verona, Luigi Di Maio annunciava che l’opera – di cui dal 1991 è general contractor l’Eni – sarebbe stata completata.

Sulle altre (poche) grandi opere sottoposte a valutazione è invece arrivato un risultato indigesto ai 5 Stelle. A giorni, per dire, sarà consegnata l’Acb del tunnel dell’alta velocità di Firenze, i cui lavori sono fermi dal 2013 dopo lo scoppio delle inchieste per corruzione negli appalti. Per i 5 Stelle è da sempre simbolo di grandi sprechi, invece l’analisi di Ponti e compagnia sostanzialmente la promuove, anche perché, degli 1,6 miliardi previsti, ne sono stati spesi già la metà.

Anche la Gronda di Genova, opera odiata dai pentastellati liguri ma assai cara ai Benetton, padroni di Autostrade, è stata promossa dall’analisi, almeno per la bretella di Levante. Il dossier è stato consegnato prima di Natale e mai pubblicato perché il Mit ha chiesto di rifare i calcoli senza usare i dati di traffico di Autostrade.

Così l’Analisi costi-benefici fornisce solo uno strumento tecnico su cui esercitare poi una pressione politica, che però si è rivelata assai complicata.