Salvini: “Mi piace l’ipotesi di Giorgetti Commissario Ue”

Matteo Salvini esce allo scoperto sulla nomina di Giancarlo Giorgetti come Commissario europeo: “Il suo è uno dei nomi che mi piacerebbe rappresentasse non la Lega ma 60 milioni di Italiani in Europa – ha detto il ministro dell’Interno –. Vorrei mandare in Europa un italiano che si ricordi di esserlo per 5 anni”. L’apertura è arrivata nel corso della trasmissione Dritto e Rovescio rispondendo a una domanda sul sottosegretario leghista come possibile nome che sarà indicato dall’Italia. “Il governo italiano – ha aggiunto Salvini – ha diritto di nominare un Commissario europeo e noi abbiamo chiesto che si occupi di commercio, industria, agricoltura e quindi lavoro”, ha aggiunto. Il problema del capo della Lega, semmai, sarà convincere lo stesso Giorgetti. Ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, martedì scorso, il sottosegretario a Palazzo Chigi ha negato le indiscrezioni sulla sua nomina in Europa. “Non sono interessato”, ha detto Giorgetti. Aggiungendo: “Cosa ce ne frega a noi del Commissario europeo, dobbiamo vincere le Olimpiadi”.

Il ricatto: senza le bombe, via i lavoratori

Se il governo si preoccuperà di rispettare i diritti umani nello Yemen a farne le spese potrebbero essere i lavoratori della Rwm Italia: è questo all’ingrosso il ricatto messo nero su bianco mercoledì dai vertici dell’azienda, che in Sardegna produce le bombe aeree, la cui vendita ai sauditi fu autorizzata nel 2016 dal governo Renzi.

Nello stesso giorno in cui la mozione di Lega e 5Stelle chiede al governo di sospendere le esportazioni di bombe d’aereo e missili che possono essere usati contro i civili verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, almeno finché non ci saranno sviluppi concreti nel processo di pace con lo Yemen, Fabio Sgarzi, direttore generale della Rvm Italia (filiale italiana della tedesca Rheinmetall) ha scritto a tutti i lavoratori. Motivo? Informarli dell’accaduto e fare pressione sul governo, che deve dare seguito alla mozione, decidendo quali sono le commesse che vanno bloccate. Sarà compito dell’esecutivo, scrive infatti, dare delle disposizioni precise “in merito alle aziende coinvolte, tra cui la Rwm Italia”.

Poi l’avvertimento ai lavoratori: “Come potete ben immaginare, questa decisione del Parlamento avrà un pesantissimo impatto sull’azienda e sui lavoratori di tutti gli Stabilimenti, ma dovremo comunque attendere le disposizioni di dettaglio del governo, prima di prendere qualsiasi decisione in merito”. Di più: “Sono allo studio misure di contingenza tese a garantire il buon andamento della società e a preservare il maggior numero di posti di lavoro possibili. A tal proposito, si informa che tutti i rinnovi contrattuali saranno eccezionalmente di breve durata e l’ingresso di nuovi lavoratori viene temporaneamente sospeso, eccezion fatta per quelli non differibili per garantire il buon andamento dell’azienda”.

Una presa di posizione e una minaccia neanche velata. Non a caso, il Comitato Riconversione Rwm chiede l’immediato interessamento del presidente del Consiglio Conte, del presidente della Regione Solinas, del consiglio regionale, dei sindacati e del mondo imprenditoriale e accademico, “al fine di promuovere e sostenere la messa in atto di attività alternative a quelle della produzione di bombe”. Il Comitato richiama anche l’attenzione sulla salvaguardia dei circa 300 lavoratori, che “non devono subire le conseguenze di un’eventuale chiusura dello stabilimento e conseguente delocalizzazione”.

Mittal alza la posta: prepara la causa contro l’Italia

L’adagio è antico: se vuoi la pace, prepara la guerra. ArcelorMittal Italia, il cui management incontrerà Luigi Di Maio al ministero giovedì prossimo, lo sta seguendo alla lettera: non solo i 1.400 operai messi in cassa integrazione dal 1° luglio senza neanche consultare i sindacati; non solo la nota in cui annuncia che, se il governo non ripristinerà lo “scudo penale” tolto col dl Crescita, l’ex Ilva di Taranto chiuderà il 6 settembre; ma anche – a quanto risulta al Fatto – la preparazione di una possibile causa (miliardaria) allo Stato per la modifica unilaterale del contratto di vendita degli impianti (c’è il tema dello scudo penale, ma anche la nuova Autorizzazione ambientale annunciata dal ministro dell’Ambiente Costa).

Una batteria di fuoco che, sostengono fonti vicine al dossier, serve in primo luogo a ridurre il governo a più miti consigli. Di Maio e soci, d’altro canto, rischiano la figuraccia di dover fare marcia indietro, ma non hanno molte armi in mano. Davanti si trovano il cliente più scomodo possibile: ArcelorMittal – principale produttore di acciaio in Europa, un fatturato da 70 miliardi di euro e utili per 4,5 miliardi – non ha bisogno dell’impianto di Taranto, che peraltro perde un milione al giorno, gli serve solo che non finisca a un suo concorrente.

Può, insomma, guadagnarci anche portando la produzione a zero: anzi, visto che nel vecchio continente c’è una sovracapacità di 30 milioni di tonnellate/anno e i clienti Ilva se li è già presi, fermare l’acciaieria pugliese potrebbe persino essere una buona idea. È il peccato originale di aver scelto ArcelorMittal per Taranto: magari alla fine resterà, ma solo alle sue condizioni.

Di Maio, ieri sera a Porta a Porta, ha prima regolato i conti con Matteo Salvini, che mercoledì sera s’era buttato sull’ennesima difficoltà del capo grillino: “Le crisi aziendali si affrontano con trattative serrate, non coi tweet o parlando in tv: mi dispiace che ci sia stata un’interferenza su questa trattativa, perché le interferenze la danneggiano”.

Nel merito, Di Maio ha promesso che da questa situazione “si uscirà con buonsenso, ma non accetto ricatti. Io non dico ‘sissignore’: al centro ci sono i lavoratori, non le multinazionali”, anche se Arcelor “non può pagare gli errori del passato”.

E quelli che pudicamente vengono definiti “errori del passato” sono tutta la questione: l’Ilva di Taranto è una fabbrica fuori legge, ma dal governo Monti a questo si è deciso di migliorarne gli standard ambientali continuando a produrre (sempre meno). L’inquinamento è continuato, l’ambientalizzazione che doveva concludersi nel 2015 ora è slittata al 2023, le bonifiche sono ferme. ArcelorMittal teme che, senza “l’esimente penale” volgarmente detto “scudo”, i pm metteranno manager e azienda sotto inchiesta. Un timore non del tutto ingiustificato, secondo Francesco Bruno, docente di diritto ambientale all’Università Campus Bio-Medico di Roma e avvocato dello studio legale internazionale Pavia e Ansaldo.

Il problema è che sullo “scudo” pende giudizio di costituzionalità su ricorso del gip di Taranto (la sentenza è attesa a ottobre): “Se l’esimente viene interpretata come se riguardasse condotte future è chiaro che la Consulta non potrà che dichiararla incostituzionale – spiega il giurista –. Il caso è diverso se, ed è la mia interpretazione, riguarda invece le condotte passate e il loro effetto sulla gestione degli impianti, tanto più se – come sostiene l’azienda – l’esimente è contenuta nell’accordo tra governo e Mittal. Mi spiego: Mittal a Taranto, senza esimente penale, potrebbe essere indagata, ad esempio, per inquinamento o omessa bonifica anche durante l’attuazione del Piano Ambientale. L’accordo di vendita e anche la legge, però, prevedono che l’ambientalizzazione avvenga mentre l’acciaieria è in funzione”.

L’incombere della Consulta è quel che rende ancor più confusa la situazione: la continuità aziendale ha certo i suoi diritti, ma come la Corte ha già detto nel 2018 il legislatore non può tutelare la produzione violando “i diritti inviolabili legati alla tutela della salute e della vita”. Ecco, in questo dibattito vita e salute non sono citate quanto dovrebbero.

Il ritiro di CasaPound: “Mai più alle elezioni, voteremo i sovranisti”

CasaPound non esiste più come partito. L’ha annunciato il suo fondatore Gianluca Iannone: dopo l’ultima delusione delle Europee, i fascisti del Terzo millennio non compariranno più sulla scheda elettorale. L’ha annunciato il fondatore, Gianluca Iannone: “CasaPound Italia ha deciso di mettere fine alla propria esperienza elettorale e partitica. La decisione di oggi non segna affatto un passo indietro, ma anzi è un momento di rilancio dell’attività culturale, sociale, artistica, sportiva di Cpi, nel solco di quella che è stata da sempre la nostra identità specifica e originale”. Insomma, le tartarughe tornano movimento e centro sociale, ma senza velleità elettorali. Lo conferma il segretario Simone Di Stefano: “Torniamo alle origini perché, per andare dietro alle elezioni, abbiamo perso lo spirito iniziale. Il nostro compito non deve più essere quello di presidiare ogni giorno i centri di accoglienza”. Dove andranno a finire i (pochi) voti di CasaPound? “Di volta in volta – dice Di Stefano – sceglieremo di appoggiare chi ci convincerà di più. L’area di riferimento sarà quella sovranista”. I confini li definisce Francesco Polacchi, l’editore di Altaforte: “Le nostre idee sono a disposizione di Lega, Fratelli d’Italia e M5S”.

Nave Ong, indagine a Roma sul blocco del governo Conte

Non c’è solo Agrigento. Sul caso Sea Watch 3 adesso indaga anche la Procura di Roma. Ma se in Sicilia i fari sono puntati sul comportamento della Ong tedesca, nella Capitale la situazione è diversa e i protagonisti potrebbero essere altri: l’inchiesta è mirata a capire se sia stato commesso un reato impedendo, per 15 giorni, lo sbarco a 42 migranti. Il fascicolo romano – affidato al sostituto procuratore Sergio Colaiocco e per ora senza indagati né reati – è stato aperto dopo il deposito dell’esposto del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, il quale ha chiesto di valutare “la situazione” che definisce “conseguenza” sia delle scelte della Ong battente bandiera olandese “sia delle azioni fin qui compiute dall’Autorità del nostro Paese”. I magistrati quindi dovranno decidere se e per quali reati procedere.

In altre occasioni, in fascicoli su casi analoghi, è stato configurato il sequestro di persona. È successo per esempio nel marzo scorso quando a Roma è stata aperta un’indagine su una vicenda simile: era gennaio e sempre la Sea Watch 3 ha dovuto attendere 12 giorni davanti al porto di Siracusa prima dell’autorizzazione allo sbarco. In questo caso, i pm capitolini hanno iscritto per sequestro di persona (senza però indagare nessuno) e poi trasmesso gli atti alla Procura di Siracusa, che a sua volta, li ha immediatamente consegnati ai colleghi di Catania, dove ha sede il Tribunale dei ministri.

L’esito di questa vicenda è arrivata appena una settimana fa con la decisione di Catania di archiviare la posizione del premier Giuseppe Conte, dei vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio e del ministro Danilo Toninelli, iscritti inizialmente nel registro degli indagati per sequestro di persona.

Il Tribunale dei ministri ha così stabilito che a gennaio scorso la Sea Watch “è entrata in Italia in maniera unilaterale e senza le necessarie autorizzazioni della Guardia Costiera”.

I motivi che hanno spinto i magistrati di Catania ad archiviare adesso però diventano fondamentali per analizzare questo nuovo caso Sea Watch.

La procura di Roma ha infatti chiesto nei giorni scorsi copia delle motivazioni e solo dopo averle lette il pm Colaiocco – facendo un’attenta valutazione anche delle conseguenze del decreto Sicurezza bis – prenderà una decisione anche sul fascicolo appena aperto.

Come detto, chi ha sporto denuncia è il Garante dei diritti dei detenuti. “Se da una parte – è scritto nell’esposto – convenzioni internazionali riconoscono all’Italia il potere di precludere l’ingresso nei porti a navi straniere per effetti dell’esercizio della sovranità dello Stato costiero sul mare territoriale e sulle acque interne, salvo ovviamente casi di forza maggiore, dall’altra è proprio l’esercizio della sovranità ad attribuire allo Stato la giurisdizione sugli individui e, di conseguenza, il dovere di riconoscere a essi tutti quei diritti derivanti dagli obblighi internazionali che lo Stato stesso si è vincolato a rispettare”.

E poi aggiunge: “Ne consegue che ai migranti soccorsi devono essere riconosciuti tutti i diritti e le garanzie che spettano alle persone sulle quali l’Italia esercita giurisdizione”.

“Inoltre il prolungato divieto di sbarco imposto alle persone tuttora presenti a bordo dell’imbarcazione – continua Palma – rischia di configurarsi come una privazione de facto della loro libertà personale”.

Il Garante che “non può e non vuole intervenire sulle scelte di politica di contrasto al fenomeno migratorio che possono essere alla radice della situazione in atto, né sulle valutazioni della scelta operata dal comandante della nave”, chiede alla Procura “di valutare la possibilità che i fatti rappresentati, qualora accertati, costituiscano ipotesi di reato; ciò anche al fine di tutelare il nostro Paese rispetto al rischio di incorrere in sede internazionale in conseguenti censure o sanzioni”.

L’attuale caso Sea Watch 3 è il primo che i magistrati si trovano a dover affrontare dopo il decreto Sicurezza bis targato Matteo Salvini: da Roma, come pure dalla Procura di Agrigento, adesso si tracceranno le prime linee guida.

Visti dalla Germania “La plebaglia attacca la capitana tedesca”

La stampa tedesca difendela sua capitana. In Germania, patria della Rackete, la Bild critica le scelte italiane: “Attacco della plebaglia contro la Capitana tedesca. Il ministro dell’Interno italiano non vuole che la nave di salvataggio tocchi terra e insulta la salvatrice della Sea Watch”. Inoltre puntualizza: “Salvini, che spende una parte significativa del suo orario lavorativo sui social media (vanta 33.600 post su Twitter) descrive equipaggio e rifugiati come trasgressori della legge, e ha minacciato sui social di confiscare la ‘nave pirata’ e di farli arrestare”. Sulla stessa linea Das Welt: “Salvini si infuria con la Capitana della Sea Watch”, e aggiunge: “Salvini parla di una lotta politica a bordo” e poi “scaglia frecciate contro ‘la ricca e bianca tedesca’”.

Jetzt, partner online della Suddeutsche Zeitung, propone ai lettori un’intervista alla protagonista della vicenda, in cui “nonostante un’imminente punizione, Carola Rackete afferma: ‘Se l’Italia non collabora, noi possiamo solo forzare la soluzione’”.

Der Tagesspiegel si spinge oltre: “Difendere la fortezza d’Europa, additando i soccorritori dei migranti come criminali, il nuovo dramma della Sea Watch mostra che è un fallimento”. E chiosa: “Il bene contro il male, il Capitano contro la capitana”, prima di definire Rackete “l’Antigone dalla chiglia”, citando la protagonista della tragedia di Sofocle che da sola sfidò il potere. Anche in Olanda – Paese sotto la cui bandiera naviga la Sea Watch – si parla del caso, perché, come ricorda De Telegraaf: “Il vicepremier è furioso coi Paesi Bassi. E avverte: ‘Che qualcuno ad Amsterdam si svegli’”. Però il giornale ribatte, citando le norme internazionali: “Tuttavia, il governo olandese afferma che secondo il diritto marittimo internazionale non ha alcun obbligo di accettare migranti da una nave battente bandiera olandese. I migranti devono essere portati nel più vicino porto sicuro”. Anche NRC Handelsblad parla della “Sea Watch in rotta di collisione con Salvini”, e fa il punto: “Il dibattito europeo sulle migrazioni si è concentrato sul duro confronto tra la capitana e il Capitano, coi Paesi Bassi direttamente coinvolti”, per poi descrivere il vicepremier come “l’architetto della politica dei porti chiusi”.

Non sarà un giudice a risolvere la crisi: la sfida tra Ong e governo è tutta politica

Non c’è una via legale per risolvere il caso della Sea Watch 3: lo scontro ormai è tutto politico. E non comincia ora, ma nell’estate del 2017, quando il ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) cerca di regolare il ruolo delle Ong nel Mediterraneo chiedendo loro di firmare un codice di condotta. Il codice richiede alle Ong di astenersi dai comportamenti che possono semplificare il lavoro ai trafficanti e renderle complici, magari in buona fede, del commercio di disperati (non entrare nelle acque libiche se non in situazioni di emergenza, non spegnere i trasmettitori di posizione, collaborare con la politica). Sea Watch, Ong tedesca con navi battenti bandiera olandese, non firma: la sua azione deve restare autonoma da ogni ingerenza governativa.

Due estati dopo, il ministro dell’Interno è Matteo Salvini e la linea non è più coordinare le Ong ma sradicare l’ultima rimasta, Sea Watch, la quale, a sua volta, non prova più a muoversi nelle pieghe di una normativa fluida, ma vuole lo scontro frontale con il governo italiano in una forma di disobbedienza civile. L’ultima crisi si è risolta il 19 maggio quando il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha sequestrato la nave Sea Watch per accertare se erano stati commessi reati dal capitano e dall’equipaggio, una mossa che ha portato alla rottura dello stallo perché dalla nave sequestrata i migranti andavano fatti scendere. Per questo Salvini ha voluto il decreto Sicurezza bis che introduce sanzioni amministrative fino a 50.000 euro per il capitano, così da creare un disincentivo parallelo a quello penale (la nave viene sequestrata in caso di violazione reiterata del divieto di sbarco).

E arriviamo all’attuale caso Sea Watch 3 e a tutte le sue ambiguità giuridiche. Il 12 giugno la nave dell’Ong salva 53 persone al largo della Libia. Come da prassi chiede ai governi di Italia (coordinamento delle operazioni mediterranee), Malta (Paese vicino) e Olanda (Paese di bandiera) dove portarli. Risposta: in Libia. Primo ostacolo: la convenzione di Amburgo dice di portare i naufraghi in un porto sicuro, place of safety.

Il ministero dell’Interno dice che la Libia risponde al requisito, l’Onu, Organizzazione internazionale delle migrazioni e la Commissione europea dicono di no, perché la Libia non ha firmato al Convenzione di Ginevra sui rifugiati, è uno Stato in una guerra civile latente e i migranti vengono confinati in lager gestiti dai trafficanti. Sea Watch ha una base giuridica, quindi, per non andare in Libia, ma la scelta di puntare sull’Italia è politica, naviga verso lo scontro.

Gli avvocati di Sea Watch chiedono al Tribunale amministrativo del Lazio di sospendere il decreto ministeriale di Salvini che vieta l’ingresso nelle acque italiane della nave. Il Tar respinge il 18 giugno con una doppia motivazione: dopo un’ispezione sanitaria sono già sbarcate dieci persone (minori, donne incinte) in condizioni di salute precarie, gli altri al momento non sono vulnerabili, “eventuali situazioni emergenziali possono essere risolte con le medesime modalità già praticate a cura delle Autorità competenti dello Stato”. Ma il Tar poi precisa che non è compito suo stabilire la legittimità delle scelte di Salvini, può soltanto accertare se il decreto che vieta l’ingresso della Sea Watch è conforme ai criteri fissati dal decreto Sicurezza bis appena approvato. La “tutela del diritto di asilo o di altri diritti fondamentali” compete alla giustizia ordinaria, non a quella amministrativa.

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) risponde in modo analogo alla richiesta di applicare “misure urgenti”, cioè lo sbarco, da parte di Sea Watch. Ricorso respinto: finché il governo italiano (che quindi è responsabile) garantisce assistenza alle persone a bordo, non ci sono le basi per giustificare uno sbarco forzato, poiché le persone più vulnerabili sono già scese. L’esito è un po’ paradossale: il governo che non vuole i migranti sul proprio territorio li può tenere in mare soltanto se assicura loro assistenza sanitaria, cibo e acqua, cioè le stesse cose che darebbe loro sulla terraferma ma in modo più economico.

La prossima tappa giuridica può essere soltanto portare il decreto Sicurezza bis alla Corte costituzionale, ma ci vuole prima un processo e un giudice che ne metta in discussione la costituzionalità. A quel punto la Consulta si troverà un po’ in imbarazzo: il decreto Sicurezza bis è stato riscritto su indicazione del Quirinale. Bocciarlo significherebbe dire che il Colle ha avallato un decreto incostituzionale su un tema così delicato.

Il Colle tace, il M5S si allinea: tutto pur di schivare le urne

Quasi tutti vogliono evitare il voto, quindi Matteo Salvini può quasi tutto, almeno fino al 20 luglio. È il sillogismo dei gialloverdi, che tiene assieme il governo come e più del contratto su cui l’hanno costruito. Perché il cemento ora non è un pezzo di carta ma la paura, quella di sprofondare in un voto a settembre che pure il calendario e una generale stanchezza hanno reso un’ipotesi residuale. Però meglio non rischiare. Quindi al Salvini che se la prende con la capitana della Sea Watch perché “viene a rompere le palle in Italia” i Cinque Stelle danno solo pacche sulle spalle. “L’Europa ha fallito quindi noi agiamo di conseguenza”, riassume Luigi Di Maio, fedele alla linea a Porta a Porta. Mentre il Quirinale tace.

Perché per il Colle la priorità sono i conti, la procedura d’infrazione da evitare proprio come il voto. Ed è la missione del premier Giuseppe Conte, “che adesso pensa solo e sempre alla procedura” come spiegano da tutti i Palazzi che contano. I migranti invece sono un affare innanzitutto del ministro dell’Interno, e comunque “la nave Sea Watch ha assunto una condotta che ritengo di una gravità inaudita” fa sapere Conte dal Giappone, aggiungendo che si farà sentire con il premier olandese Rutte: “Lo inviterò a valutare il comportamento di una nave che batte la loro bandiera”. Non deraglia, l’avvocato. Anche pompiere, sulle autonomie: “Ci siamo aggiornati a mercoledì, e ho convocato tutti i ministri e gli staff tecnici per completare il lavoro. Siamo ormai in dirittura di arrivo, la porteremo in Consiglio dei ministri: io sono il garante”.

Ed è chiaro l’intento di togliere a Salvini la miccia per un’eventuale crisi. Il Di Maio strapazzato dalle urne del 26 maggio invece deve presidiare la trincea delle autonomie, una ferita per il Sud che è rimasta la sua ridotta. Così giura: “Se l’autonomia danneggia ancora il sud dovranno passare sul mio cadavere”.

Sangue finto, tanto anche Salvini sa che numeri e norme delle autonomie non tornano. Però il capo della Lega deve tenere buoni i governatori del Nord e la base storica del Carroccio, soprattutto in Veneto. Ergo, dovrà simulare di aver fatto qualcosa, e Conte lo sa. Per questo nella riunione di mercoledì dovrebbe arrivare un testo con le proposte sul tema dei vari ministeri, da sottoporre alle Regioni. Mentre sul resto i 5Stelle temporeggiano. Così sul Tav Di Maio, dopo aver negato l’ipotesi di una tratta “leggera” pure evocata sabato su Repubblica da Laura Castelli, ributta la palla nel campo di Conte: “Vedremo a cosa porteranno le trattative tra il premier e la Francia, i bandi emessi sono revocabili, spero in una soluzione prima possibile”. Ma morire per la Torino-Lione, quello no.

D’altronde “bisogna scavallare il 20 luglio” è il messaggio che Di Maio ha recapitato per giorni a ministri e generali, ben sapendo che votare a settembre sarebbe per lui ferale. “Luigi ha bisogno di tempo e anche noi” riassume un deputato di peso. Tempo per riaversi dalle ferite e realizzare la riorganizzazione di cui sta gettando le basi incontrando gli iscritti regione per regione. Tra settembre e ottobre, nel decennale del Movimento, dovrebbero arrivare le nuove regole e la struttura, con referenti territoriali e una segreteria. “Si voterà tra quattro anni” è lo scongiuro del capo. Certo, poi c’è anche Alessandro Di Battista, tuttora scomunicato da Di Maio, che su Sea Watch suona un’altra nota: “I migranti li farei sbarcare affinché intervenga la magistratura, per poi ridistribuire questi disgraziati in altri Paesi”.

Neanche lui vuole il voto: “Nonostante un’alleanza con un personaggio che è parte del sistema, l’andazzo del contratto di governo è positivo”. Ma Di Battista dubita: “Ho posticipato i miei progetti all’estero (cioè il viaggio in India, ndr) perché temo che Salvini voglia la crisi, e non sarebbe nell’interesse del Paese”.

Sea Watch: Italia contro Ue su sbarco e ricollocamenti

Da un lato ci sono le manovre diplomatiche per lo sbarco dei 42 naufraghi a Lampedusa, che sono partite subito dopo l’ingresso della Sea Watch 3 in acque italiane, e mentre scriviamo sono però ancora in una fase di stallo. Dall’altro, dopo i continui contatti verbali tra Guardia di Finanza e Procura di Agrigento, nella serata di ieri è stato aperto un fascicolo d’indagine. I finanzieri sono persuasi che il capitano della Sea Watch, Carola Rackete, abbia commesso due reati: violato il divieto d’ingresso nelle acque territoriali italiane e, di conseguenza, favorito l’immigrazione clandestina dei passeggeri a bordo. La procura valuterà se confermare l’ipotesi investigativa oppure no. E in attesa che l’Unione europea trovi la disponibilità di qualche Stato al ricollocamento dei 42 naufraghi, la situazione a mezzo miglio da Lampedusa si fa sempre più tesa. A bordo si teme che qualcuno decida di lanciarsi in mare. E non è escluso che il comandante della nave tenti ancora una volta di avvicinarsi alla costa nonostante i divieti.

Nel frattempo il Commissario europeo alla migrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, continua a trattare il ricollocamento dei naufraghi con gli altri stati europei. Fallito, almeno per ora, il tentativo operato dal governo italiano – a partire dal ministro dell’Interno Matteo Salvini – con l’Olanda che non ha offerto alcuna disponibilità. Il dilemma in queste ore è se autorizzare lo sbarco soltanto dopo l’accordo sui ricollocamenti oppure, come sostiene Avramopoulos, consentire ai naufraghi di toccare terra per poi distribuirli: “La soluzione è possibile solo una volta sbarcati. Auspico che l’Italia contribuisca a una soluzione veloce per le persone a bordo”.

Sotto il profilo giudiziario invece, come già spiegato, siamo alle indagini preliminari con l’apertura di un fascicolo, nella Procura di Agrigento, collegato alla denuncia dei reati ravvisati dalla Guardia di Finanza. Reati collegati anche al decreto sicurezza bis che consente al Viminale di “vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale” per “motivi di ordine e sicurezza pubblica” e “violazioni delle leggi di immigrazione vigenti”. La stessa Guardia di Finanza, secondo l’agenzia di stampa Adnkronos, ha fatto sapere che “sulla Sea Watch c’è una vigilanza attiva. Tutto l’equipaggio è pro azione ed è intenzionato a sbarcare con o senza autorizzazione”. E sulla Sea Watch 3 ieri sono saliti i parlamentari Graziano Delrio, Matteo Orfini, Davide Faraone (Pd), Nicola Fratoianni (Sinistra) e Riccardo Magi (+Europa). Hanno annunciato che resteranno a bordo fino a quando tutti i migranti non saranno stati lasciati sbarcare. E per i 42 naufraghi ieri s’è trattato del 14esimo giorno in mare sotto un sole sempre più cocente.

A fargli ombra un tendone rosso su un tappeto di coperte e vecchi vestiti. “Abbiamo provato tutto”, ha commentato ieri la comandante della nave, la 31enne tedesca Carola Rackete, “abbiamo chiesto ufficialmente un porto sicuro all’Italia, lo abbiamo fatto tre volte. Ma abbiamo chiesto anche all’Olanda. E alla Francia. Nessuno ci ha risposto. Ora basta, queste persone sono disperate, dobbiamo entrare in porto”. Ma alle 9 della sera la nave è ancora lì, a mezzo miglio dall’isola, in attesa che qualcosa si sblocchi. E qualcosa sembrava essersi sbloccata nel primo pomeriggio. Ma poi niente da fare. I 33 uomini, 6 donne e 3 minori restano lì. “Ho passato un anno in Libia – dice all’inviato dell’Ansa Joseph, che ha 26 anni – di cui 3 mesi in prigione. Mi picchiavano spesso, ma non so perché. Il mio sogno è andare in Europa, in un paese qualunque, dove ci sia pace”. “Sono un migrante – racconta invece un giovane guineano – non posso scegliere dove andare. Ma mi va bene qualsiasi posto lontano dalla Libia”.

Se non sarà concesso lo sbarco, la comandante della Sea Watch sembra pronta a forzare nuovamente la mano: “Non si gioca con la vita delle persone, la Guardia di Finanza ci ha promesso una soluzione rapida ma se così non fosse noi dobbiamo entrare. La situazione a bordo è peggiorata, qualcuno ha già detto di volersi buttare in mare. Finora abbiamo aspettato che il governo si prendesse le sue responsabilità, ma non lo ha fatto. E quindi tocca a noi”.

La situazione si fa di ora in ora sempre più drammatica: per i 42 naufraghi ci sono soltanto 2 bagni e 2 docce a disposizione. La Sea Watch – attraverso i suoi avvocati Alessandro Gamberini e Leonardo Marino – ha presentato un esposto alla procura di Agrigento per valutare “eventuali condotte di rilevanza penale” da parte delle “autorità marittime e portuali preposte alla gestione delle attività di soccorso” e chiedere che venga valutata “l’adozione di tutte le misure necessarie per consentire lo sbarco dei migranti”.

L’ora illegale

Mai come oggi la legalità è stata un concetto elastico, flessibile, trattabile, usa e getta a seconda degli interessi di chi la invoca o la teme. Tre casi concomitanti ci illuminano d’immenso.

1) Non è ancora finito il Carnevale di Rio per la grande vittoria olimpica di Milano e Cortina, ovviamente all’insegna del risparmio e della legalità, e già sui giornali si leggono appelli a mezza bocca alla Procura di Milano perché garantisca la stessa “tregua” che assicurò ai disinvolti appalti senza gara di Expo 2015, quando il pm competente Alfredo Robledo, si vide prima sfilare i fascicoli d’indagine dal suo capo e poi scaraventare dal Csm a Torino per evitare guai peggiori a Sala&C. Appelli che fanno sospettare intenzioni incompatibili col risparmio e la legalità, sennò perché tanta paura dei pm?

2) A Taranto i nuovi padroni dell’Ilva, gl’indiani di Arcelor Mittal, scelti a suo tempo dall’ottimo Calenda per rimpiazzare i Riva e i commissari, fanno sapere che senza l’immunità penale – gentilmente concessa dagli ottimi Renzi e Calenda e revocata dal cattivo Di Maio – chiuderanno lo stabilimento a settembre e chi s’è visto s’è visto. Anche lì, una multinazionale che s’impegna a rilevare uno stabilimento italiano secondo le leggi del Paese che lo ospita in cambio di copiosi guadagni e poi minaccia di andarsene se non gli viene assicurata l’impunità in caso di reati prim’ancora di commetterli (si spera), dà l’idea di non avere alcuna intenzione di osservare il Codice penale. E nessuno si scandalizza, come del resto nessuno fece un plissé quando il Pd regalò ai commissari di governo la licenza di delinquere, in quel caso di uccidere: l’unico scandalo, a leggere i giornaloni, è perché il governo Conte l’ha finalmente revocata.

3) Dopo 14 giorni di navigazione nel Mediterraneo, approda sulle coste italiane la nave SeaWatch-3, di proprietà di un’ong privata tedesca ma battente bandiera olandese, carica di 42 profughi raccolti in acque libiche. In origine erano 52, ma 10 – quelli in pericolo – sono già sbarcati in Italia il 15 giugno. Il natante, guidato dalla capitana tedesca Carola Rackete, ha violato una serie innumerevole di norme italiane e internazionali, il che non le verrebbe consentito da alcuno Stato di diritto del mondo libero. Nel 2017 non ha firmato il Codice di autoregolamentazione del ministro dell’Interno Pd Marco Minniti, regolarmente siglato da altre ong, per farla finita col Far West nel Mediterraneo (migliaia di sbarchi e di morti). S’è addentrata nella zona di ricerca e soccorso libica, competenza della Guardia costiera di Tripoli.

Avrebbe dovuto far rotta sul porto sicuro più vicino: cioè in Tunisia o a Malta. Invece ha scientemente deciso di proseguire fino a Lampedusa, per creare l’ennesimo incidente in polemica con le politiche migratorie del governo italiano, secondo il copione collaudato da altre navi della stessa Ong (una saga a puntate: Sea Watch-1, 2, 3 e così via). Il governo ha negato il permesso di ingresso nelle acque territoriali e poi di sbarco nel porto. La capitana Carola, subito idolatrata da una sinistra a corto di idee e simboli, se n’è infischiata. Prima ha tentato di far annullare l’alt dal Tar: ricorso respinto. Poi di farsi autorizzare in via provvisoria e urgente dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Che però le ha dato torto, per la seconda volta (il diritto allo sbarco in Italia era già stato negato il 29 gennaio a un’altra Sea Watch con 49 migranti): il provvedimento provvisorio di sbarco, in deroga agli ordini di un governo, può essere adottato solo “nei casi eccezionali in cui i richiedenti sarebbero esposti – in assenza di tali misure – a un vero e proprio rischio di danni irreparabili”. E fortunatamente non è questa la situazione degli ospiti della SeaWatch-3 dopo la discesa delle tre famiglie con bimbi e donne incinte. Certo – precisa la Corte – il governo deve “continuare a fornire tutta l’assistenza necessaria alle persone in situazione di vulnerabilità per età o stato di salute”. Ma non esiste un diritto di accesso alle acque territoriali di uno Stato in violazione delle sue norme, salvo appunto per gravi motivi di salute, senza i quali la nave che ha compiuto il salvataggio (in questo caso, un’estensione del territorio olandese) è essa stessa un luogo sicuro per i naufraghi. A quel punto, siccome il tribunale italiano e quello comunitario le han dato torto, la capitana ha calpestato entrambe le sentenze. E l’ordine di fermarsi della Guardia Costiera e di Finanza. E s’è affacciata su Lampedusa sventolando una causa di forza maggiore già esclusa da Strasburgo: la salute dei migranti dopo 14 giorni di navigazione (che sarebbero stati molti meno se fosse andata dove doveva: Tunisia o Malta).

Quel che pensiamo su questa ennesima guerra delle opposte propagande fra alcune Ong e il governo italiano lo scriviamo da sempre: sulla pelle dei migranti, usati come ostaggi e scudi umani, si sta giocando una lunga, cinica e ipocrita gara tutta politica. Anche e soprattutto nella cosiddetta Europa, che sta a guardare. Sul piano umanitario, è fin troppo evidente che – stando così le cose – quei 42 disperati devono sbarcare in Italia, com’è sempre avvenuto, anche sotto il ministro della Cattiveria di un governo tacciato di fascismo e razzismo da chi in casa propria fa ben di peggio. Ma nessuno ci venga a raccontare che da una parte ci sono i buoni (l’eroica capitana) e dall’altra i cattivi (gli italiani xenofobi). O che un governo non ha il diritto-dovere di proteggere i confini da chi vorrebbe decidere le sue politiche migratorie dalla tolda di una nave tedesca con bandierina olandese. E di indicare l’unica via d’accesso all’Italia per chi ha diritto all’asilo: quella dei corridoi umanitari. Cioè, parlando con pardon, la via legale.