Thom Yorke bravo, ma non stupisce più

Thom Yorke arriva a mezzanotte, come Babbo Natale. O le streghe, dipende dai gusti. Non passa dal camino ma da Netflix, la piattaforma sulla quale da mezzanotte (e un minuto) di oggi si può ascoltare il nuovo disco solista del cantante dei Radiohead – che uscirà in formato fisico il 19 luglio per l’etichetta XL – e dove si può anche vedere il cortometraggio di Paul Thomas Anderson che lo accompagna. Un lungo video-clip su tre canzoni dell’album, dalle atmosfere appropriatamente oniriche. Perché mezzanotte è anche l’ora dei sogni, e i sogni sono il filo rosso che unisce i brani di Anima. Suggestionato dalla lettura di Carl Gustav Jung, l’artista inglese riflette in questa sua nuova fatica – a meno di un anno dalla colonna sonora di Suspiria di Luca Guadagnino – sulla nostra (in)capacità di ri-processare le immagini che ci arrivano nel sonno, spesso fonti di ispirazione per chi vive di creatività.

“Hai difficoltà a ricordare i tuoi sogni? Noi di Anima abbiamo costruito una ‘dream camera’, chiama questo numero”. Così recitavano i misteriosi manifesti comparsi a Londra e Milano che hanno fatto da teaser per il disco. Chi digitava il numero non riaveva indietro il prodotto del proprio subconscio, ma in compenso poteva sentire una traccia di Anima. Una campagna di advertising virale un po’ contorta, e tutto sommato neanche troppo innovativa per un avanguardista come Yorke.

Al di là delle strategie di marketing, del medium scelto per il lancio – questo sì sorprendente, considerando le critiche feroci che Yorke ha riservato in passato a Netflix – e degli argomenti più o meno dichiarati delle canzoni (dalla Brexit, appena evocata, al rapporto malato e “mutante” con una tecnologia onnipervasiva), la musica di Anima avvolge l’ascoltatore senza tuttavia spiazzare con svolte radicali.

Chi conosce il mondo del musicista vi ritroverà panorami famigliari, e non soltanto perché diversi pezzi erano già stati presentati dal vivo. In Last I Heard si agitano ancora gli spettri dei Radiohead di Kid A e Amnesiac (più il secondo del primo), in Twist e Not The News le atmosfere destrutturate e frammentate richiamano termini di riferimento spesso citati come James Blake, Four Tet o Flying Lotus, mentre piacevolmente “fisici” e meno cerebrali risultano l’etno-funk cibernetico di Traffic e la ritmata confessione di I Am A Very Rude Person. L’apice della scaletta è peraltro di gran lunga la splendida, e per certi versi “classica”, Dawn Chorus. In una intervista Thom Yorke ha sottolineato, molto intelligentemente, come siamo sempre più portati a conformarci all’immagine che di noi trasmettono i device che utilizziamo quotidianamente. Se questo disco, intenso e ricco di spunti, ha un limite forse sta proprio in questo: ci rimanda l’immagine di un Thom Yorke che ci aspettiamo.

Poche leggi ma buone prassi: così il cinema impiega le minoranze

“Diverso fra gli altri”. Era il 1919 quando in Germania usciva nelle sale il primissimo film contro l’omofobia, un vero manifesto a condanna della legge tedesca che puniva col carcere l’omosessualità prima che Hitler estremizzasse la punizione nei campi di concentramento. Anders als die Anderen (appunto Altro fra gli altri) di Richard Oswald è fra le perle inedite al Cinema Ritrovato in corso a Bologna e cavalca il tema della discriminazione di generi – o della “diversità” per ampliare gli orizzonti – ante litteram, almeno nel cinema.

Una questione che, nel mondo dell’audiovisivo italiano, fatica ancora oggi a trovare risposte precise soprattutto nella definizione di dispositivi legislativi e contrattuali ad ampio spettro. La clausola denominata Inclusion Rider – di cui si è trattato alcuni giorni fa sul Fatto nel suo utilizzo americano – è pressoché sconosciuta nel Belpaese con una giustificazione che riguarda la differenza sostanziale della “geografia umana” (storica, sociale, politica…) fra i due Paesi. Una verità parziale, perché pregiudizi e discriminazioni di qualunque forma o natura devono cessare in un territorio che aspira alle “pari opportunità”. Certamente le manovre da formulare e poi applicare devono tener conto delle specificità territoriali, considerando che in Italia sotto l’etichetta “categorie protette” afferisce quasi esclusivamente la disabilità. Per il resto, il concetto di “diversità” si lega essenzialmente alla differenza di gender (anagraficamente inteso) e in tal senso dal 2016 esiste almeno a livello di management un decreto legge (n. 175) che riguarda le società partecipate e prevede che “un terzo del genere più debole (in ambito professionale è quello femminile, ndr) venga rappresentato sia nel Cda che nel collegio sindacale”. A riferirne è Enrico Bufalini, direttore dell’archivio storico e dell’area cinema e documentaristica nonché responsabile delle risorse umane di Istituto Luce Cinecittà, che notoriamente è a partecipazione pubblica. “Da noi non è applicato l’Inclusion Rider come immagino nella maggioranza delle aziende e società italiane; tuttavia posso affermare che non solo aderiamo pienamente al dl del 2016, ma al momento nell’organico vantiamo numeri che si avvicinano alle pari opportunità: su 270 dipendenti 113 sono donne, cioè il 42% che sale al 53% se si considera unicamente il settore impiegatizio. A livello dirigenziale tutti e 4 i dirigenti sono uomini, ma questo perché le nostre assunzioni non sono recenti, mentre in termini di quadri la presenza femminile è del 50%”. E sempre nell’ambito di Istituto Luce – Cinecittà a garantire la parità di genere sono anche alcune “buone pratiche” attivate nelle testate giornalistiche del gruppo, ovvero 8 1/2 e Cinecittà News: “Dividiamo sempre gli equilibri fra voci femminili e maschili sia fra i collaboratori che negli intervistati per le nostre inchieste” assicura Cristiana Paternò, vice direttore di entrambe le riviste. Entrando nello specifico del “cinema che si fa” va subito detto che in base alla nuova Legge Cinema esiste una “premialità” sia a livello di contributi selettivi che automatici per la produzione di film a regia femminile, e assai significative sono alcune proposte work in progress e iniziative già operative grazie a gruppi e movimenti sensibili al problema operativi in seno all’industria dell’audiovisivo.

L’esempio più virtuoso arriva dall’associazione internazionale Women in Film, Television & Media che vanta un’attivissima sezione italiana presieduta dalla sceneggiatrice e produttrice Kissy Dugan. Accanto al lavoro concertato con varie associazioni (DeA, Dissensocomune, Doc.it, 100 autori, WGA, Lazio Film Commission, EWA, etc) WiFT&M Italia ha lanciato lo scorso febbraio il progetto 10% per 5050, che prevede un incentivo finanziario del 10% a tutti i progetti produttivi che si presentano equilibrati sotto il profilo di genere. A oggi in Europa già una ventina di fornitori per l’audiovisivo vi hanno aderito. Il primo service provider italiano a essersi associato è la EDI Effetti Digitali Italiani, società leader nel campo degli effetti visivi con sede a Milano. A spiegarlo è Giorgia Priolo, produttrice e responsabile dello sviluppo dei progetti cinema e serie tv nonché socio fondatore di WiFT&M Italia: “Si tratta di un progetto che supporta con uno sconto del 10% le opere audiovisive che hanno parità di genere secondo il punteggio previsto dal programma ReFrame creato da WiF Los Angeles con il Sundance Film Festival; in pratica ci sono 8 punti che premiano la presenza femminile in ruoli artistici e tecnici: l’opera che ne raggiunge almeno 4 ha diritto all’incentivo. EDI è stata la prima società in Italia ad aderire per offrire tale incentivo e sta lavorando affinché altri fornitori si associno”.

Libri, le mosse contro Amazon

Un nuovo Piano nazionale per la promozione della lettura sarà discusso in Parlamento entro la prima metà di luglio: 3,5 milioni di euro per sostenere il sistema culturale e la diffusione dei libri in Italia. Argomento centrale: un nuovo tetto per gli sconti fissato al 5% del prezzo per contrastare lo strapotere dei siti di ecommerce. Il nuovo testo modifica la normativa attuale (la Legge Levi del 2011) che prevede invece un massimo del 15% di sconto sulle vendite sia in libreria sia su internet. Alla nuova soglia del 5% faranno eccezione i libri di testo adottati dalle scuole, scontabili fino al 15%, e i testi venduti alle biblioteche, su cui non vi è limite. Per un mese l’anno, inoltre, editori e distributori potranno effettuare sconti del 20% sui propri titoli, tranne per quelli pubblicati nei sei mesi precedenti al mese della promozione. Tra i tredici articoli del nuovo disegno di legge, spicca l’art. 7 che vieterà il cross merchandising di Amazon.

Per l’Adei (Associazione degli editori indipendenti) è “un primo prezioso traguardo” perché “difende le librerie dal rischio di estinzione” e “introduce regole ineludibili che permettono concorrenza più equa”. E su Amazon precisa: “Questa azienda non è il male. Il suo operato è prezioso ed efficiente, ma non si può consentire che assuma una posizione dominante, come purtroppo sta accadendo”. Non a caso è di questi giorni l’apertura di un ricorso per posizione dominante di Amazon in America. Opposto è il parere dell’Aie (Associazione Italiana Editori). Il presidente Ricardo Franco Levi la ritiene “una legge contro la lettura” perché riduce gli sconti “senza aiutare gli acquisti di libri”. E conclude: “Queste nuove norme si tradurranno in un aggravio di spesa per le famiglie e i consumatori, in un indebolimento della domanda, in una riduzione degli acquisti, in un danno per il mercato”.

Insta-Nanni e i social: l’autarchico ha abdicato

Insta Nanni. C’era una volta (Io sono) un autarchico, quarantatré anni dopo Moretti non è più lo stesso, ovvero – dizionario – non “fa a meno o crede di poter fare a meno di qualsiasi rapporto o scambio con gli altri”. Dunque Instagram, dunque l’attesa del nuovo film, Tre piani, che diviene essa stessa film a colpi di ciak condivisi sul social network. Il numero di follower, 6.604, non è propriamente da influencer, ma l’esposizione sì: è partito regalandoci – uno per piano – tre ciak il 30 maggio, @nannimoretti_, e sta diligentemente continuando la tabellina. Tre piani è già una soap-opera, pardon, una Insta-opera: abbiamo visto, tra gli altri, Nanni che parla con un collaboratore e all’improvviso si lascia cadere esanime su un letto, Margherita Buy che fa Margherita Buy, ossia piange e ride e “schifo, non lo so fare così!”, la Rohrwacher piegata in due dal dolore, Moretti a darle il ritmo dei respiri e “Stop, buona, brava Alba!”.

Quasi concluse le riprese iniziate il 4 marzo (16 settimane, un lusso) e in attesa di entrare al montaggio dopo le vacanze, Tre piani fa maggese, ma non su Instagram: il 24 maggio Nanni pubblica una telefonata con Alba, e nei commenti (37) si va dal “anche se a piccolissime dosi… crea dipendenza” al “non ti affaticare molto”, dal “Diobono Nanni” al “nei meandri della mia mente… Ho sempre associato il Nanni regista a un Freud… Non so spiegarmi questo collegamento”, e figuriamoci noi. Non mancano gli esperti né gli esegeti: “Faccio i complimenti al focus-puller per la sfocatura iniziale (…) la tua reazione f.c. (fuoricampo, ndr) era bella ma indugi sul piano ascolto di Alba”. Tot capita tot sententiae, e chissà se dopo esserci meritati Alberto Sordi oggi ci meritiamo questo Nanni social.

Tratto dal romanzo omonimo dell’israeliano Eshkol Nevo, prodotto da Sacher Film e Fandango, con Rai Cinema e Le Pacte, scritto dal regista con Federica Pontremoli e Valia Santella, Tre piani è interpretato, oltre che da Moretti, Buy e Rohrwacher, da Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini, Elena Lietti, Denise Tantucci, Alessandro Sperduti, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Tommaso Ragno, Stefano Dionisi. Nelle nostre sale l’anno prossimo, con probabile passaggio al 73° Festival di Cannes (12-23 maggio 2020), è per Nanni il primo soggetto non originale in quasi mezzo secolo di carriera: novità espansa nel diverso approccio col pubblico, già apostrofato “dimmerda” in Sogni d’oro del 1981. Il Nostro s’è fatto meno monadico e più inclusivo, nolente – fu il Fatto a svelare l’origine letteraria e il cast di Tre piani – o volente: set blindato d’abitudine, ma sui social l’auto-scoop delle clip. Non che il cineasta, 66 anni il 19 agosto, non si fosse già provato in divertissement a scopo più o meno promozionale: a fine 2013, mentre compiva i sopralluoghi per Mia madre (2015), proiettò al Nuovo Sacher due cortometraggi spacciati per trailer di fantomatici lungometraggi, Scava dolcemente l’addome, in cui scioglieva il gluteo col pilates, e Autobiografia dell’uomo mascherato, lui stesso, sulle note di Ambrogio Sparagna.

Stavolta accompagnamento e fidelizzazione al film sono più smaccati: diffondere il making of, svelare il backstage, affinché Tre piani possa essere “partecipato”. È la dura legge del marketing 4.0, sebbene in qualche post l’emozione filtri per davvero: la piccola Chiara finisce di girare, Nanni chiama l’applauso sul set e la bacia; la Buy s’impunta, Nanni le promette: “Ora vai a casa, tra due minuti vai a casa”, e con 6.210 visualizzazioni è il post di maggior successo.

Eppure, questa discesa in social non è scevra di complicazioni e contraddizioni: che ne è della vocazione minoritaria esplicitata in Caro diario (1993): “Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone”; che ne è del fustigatore di usi e costumi linguistici di Palombella rossa (1989): “Come parla? Le parole sono importanti”; che ne è dell’isolazionismo variabile di Ecce bombo (1978): “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Le apparenze ingannano, il Moretti che si auto-promuove su Instagram potrebbe rivelarsi un animale social a tutto tondo, perché i fondamentali li ha, e da tempo: “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose” (Ecce bombo), “Continuiamo così, facciamoci del male” (Bianca, 1984) e “Ho voglia di litigare con qualcuno” (Aprile, 1998).

Scandalo Lava Jato: niente libertà per Lula, ma gli uomini di Jair tremano

La seconda camera del Tribunale Supremo Federale (Stf) del Brasile ha respinto la proposta di uno dei suoi membri, Gilmar Mendes, di scarcerare Luiz Inacio Lula da Silva in attesa di una decisione sul ricorso presentato dai suoi avvocati. I legali dell’ex presidente chiedono l’annullamento del processo – nel quale Lula è stato ritenuto colpevole di corruzione e riciclaggio – perché il magistrato che lo ha condannato in primo grado, Sergio Moro – attuale ministro della Giustizia del governo di Jair Bolsonaro – ha dimostrato di non essere imparziale. A favore della scarcerazione all’indomani della pubblicazione delle intercettazioni che mettevano in dubbio l’imparzialità di Moro, si era espresso addirittura Bernie Sanders, il senatore democratico e candidato alle presidenziali Usa 2020. “Oggi, è più che mai chiaro che Lula da Silva è stato incarcerato, dopo un processo politico, in cui gli è stato negato un dovuto giudizio legale”, aveva dichiarato Sanders. Resta lo scoop giornalistico su Lava Jato, secondo cui l’inchiesta della magistratura brasiliana sulla corruzione legata alla statale petrolifera brasiliana, è stata guidata per danneggiare il Partito dei Lavoratori; ha promosso l’impeachment della presidente Dilma Rousseff e ha compromesso la vittoria di Lula, il quale sconta dal 2018 dodici anni per corruzione e riciclaggio. Lo scoop ha creato una tormenta politica a Brasilia, dove il Supremo tribunale federale – lo stesso organo che rifiutò di concedere l’habeas corpus a Lula, con cui avrebbe potuto partecipare alle presidenziali 2018 – non solo avrebbe potuto concedergli il beneficio, prima negato, ma aveva il potere anche d’annullare la condanna. Invece per 3 voti a 2, i magistrati hanno deciso che Lula rimarrà in carcere finché non prenderanno una decisione sulla presunta parzialità di Moro. Discussione questa che avverrà dopo le ferie giudiziarie d’inverno, il 1° agosto.

Di un eventuale sì al rilascio, probabilmente, non beneficerebbe solo Lula, ma anche altri imputati della Lava Jato che ambiscono all’habeas corpus “Prima che le passioni contro o a favore dell’ex presidente Lula (il politico più noto tra quelli colpiti dallo scandalo-mazzette) venga a difendere ciecamente i loro interessi, è bene ricordarsi che anche Eduardo Cunha, Geddel Vieira Lima e Antonio Palocci potranno beneficiare di quello che sta accadendo”, ha affermato Gomes. L’ambito habeas corpus, infatti, potrebbe riportare in libertà anche politici, manager, imprenditori e pubblicitari dando un ulteriore schiaffo al ministro Moro che si è presentato al Senato per sottoporsi a un interrogatorio nel tentativo di evitare l’istituzione di una commissione d’inchiesta che indagherebbe su Lava Jato. Questo sarebbe devastante per il presidente del Brasile, l’ex capitano Bolsonaro e il suo governo – composto da più di cento ufficiali di alto grado, tecnici delle Forze armate e 18 nomi che facevano parte dell’equipe dell’inchiesta e che hanno seguito il giudice Moro in politica. L’entourage governativo è di continuo scosso da crisi e scandali che hanno colpito anche il senatore Flavio, figlio del presidente, coinvolto in un’inchiesta sul legame tra politica e il sanguinoso universo delle milizie.

Prima le chat cancellate, poi il telefono di Silvia sparisce

Silvia è stata rapita il 20 novembre scorso. Più di cinque mesi dopo, il 6 aprile, qualcuno accende suo il telefono cellulare, connesso con la scheda telefonica della compagnia keniota Safaricom. Entra sull’applicazione WhatsApp e si cancella da una chat cui la 23enne è iscritta insieme ad altre cinque sue amiche: “Silvia Romano ha abbandonato”. Quel numero africano ora risulta irraggiungibile: il telefono è spento. Ma chi ne è entrato in possesso? Chi l’ha manovrato per uscire dalla chat? Soprattutto, perché? In questo modo sono stati cancellati tutti i messaggi vocali che Silvia aveva scambiato con le amiche.

La volontaria italiana aveva due numeri kenioti e un numero italiano. Quello della compagnia Airtel è scaduto, ma, fino a pochi giorni fa, il telefono di Silvia è stato visto sul tavolo dell’ispettore della polizia di Malindi Peter Murithi che poi l’avrebbe consegnato ai suoi colleghi di Nairobi che gestiscono tutto il dossier Silvia Romano. Ma, nella capitale, telefono e scheda Sim non si trovano. “Non ne sappiamo nulla”, dichiara un funzionario incontrato al centro per il training degli investigatori sulla Mombasa Road. “Il telefono non è a Malindi?”

Quando Silvia è stata rapita ha abbandonato il telefono nella sua stanzetta a Chakama nella guest house senza nome di 7 stanze. L’apparecchio nei giorni successivi è stato consegnato alla polizia di Malindi, arrivata per un sopralluogo e per investigare. Conteneva la scheda telefonica della Safaricom. Ma dove sono finite le altre due schede, l’Airtel e quella italiana? Sappiamo che a Chakama, un villaggio che si snoda in orizzontale lungo una strada, questa compagnia telefonica funziona a tratti e solamente in alcune zone. Ma Silvia usava quella scheda, anche perché le telefonate costano meno di quelle effettuate con Safaricom. Infatti si spostava dal suo alloggio per muoversi dove il segnale fosse sufficientemente buono. La giovane volontaria – come si può vedere dal suo file, negli uffici della compagnia telefonica – ha acquistato la scheda telefonica il 5 novembre scorso, appena sbarcata all’aeroporto di Mombasa. A quanto risulta al Fatto Quotidiano nessun inquirente, italiano o keniota, è andato a verificare questo particolare. Tra l’altro in Kenya, cosa che non è possibile in Italia, il telefono può essere utilizzato anche come bancomat: attraverso un’applicazione che si chiama M-Pesa (pesa in swahili vuol dire soldi) può spedire e ricevere denaro. Così Silvia e gli altri volontari ricevevano i soldi per pagare lo staff, la suola per i bambini e per fare compere al mercato.

Tornando ai messaggi, se alcuni vocali che Silvia spediva alle sue amiche in Italia sono stati cancellati, altri sono ben chiari, tra cui le critiche a Davide Ciarrapica, il ragazzo da cui Silvia Romano è andata a lavorare nel luglio di un anno fa, al Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre. La volontaria, il 14 ottobre scorso, invia questa nota: “Il pensiero che lui stia lavorando in modo così… che stia sprecando un botto di soldi, che stia rovinando questi bambini, perché li sta rovinando, sta illudendoli, li sta facendo vivere in un mondo che non è il loro mondo, che non sarà il loro quando a 18 anni usciranno da quell’orfanotrofio, e quindi li sta facendo vivere in un tenore di vita che non va bene, che è deleterio per loro e sta sputtanando un botto di soldi in cazzate, anziché accogliere altri bambini, anziché fare altri progetti e questa cosa mi sta torturando la testa ogni giorno sempre di più, mi faccio anche dei calcoli, lui si è preso un botto di soldi tra me e gli altri volontari, dove cazzo sono andati? Lui è una persona molto instabile, lui come tanti altri non dovrebbero avere proprio un orfanotrofio perché lui è una persona che deve risolvere i suoi problemi interiori prima di risolvere i problemi degli altri”.

Le parole di Silvia mostrano una personalità seria e volitiva che ha molto chiari i suoi obiettivi. Per stare da Davide, la ragazza doveva pagare 10 euro al giorno e siccome era rimasta un mese gli aveva dato 300 euro. Aveva poi fatto alcuni regali (persino una capra), ma Silvia non era contenta di come venisse gestito il denaro delle donazioni. Inoltre Davide sul suo sito ringraziava sempre con immensa gentilezza coloro che gli portavano o gli mandavano qualcosa. “Ricordo che una coppia appena sposata è arrivata portandogli parte dei regali di nozze e lui li aveva ringraziati entusiasta”, racconta una sua amica. “Ma per Silvia mai una riga, mai un accenno. E lei c’era rimasta molto, molto male”.

Jared, corriere di pace e mercante di morte

Il corriere della pace di Donald Trump è un mercante di morte: Jared Kushner (in foto), il “primo genero”, marito di Ivanka, la “prima figlia” del magnate presidente, è un uomo d’affari, non un diplomatico, cui il babbo e suocero ha affidato le scelte della propria Amministrazione in Medio Oriente. Di portare la pace nella Regione, Jared deve ancora dimostrarsi capace – né pare provarci a fondo –; ma a vendere armi, soprattutto al suo miglior cliente, l’Arabia saudita, s’è già dimostrato abilissimo: 110 miliardi di dollari di tecnologie ed equipaggiamenti militari in dieci anni, alla prima missione. Ivanka e Jared hanno superato indenni 30 mesi di presidenza Trump: mentre intorno a loro saltavano – anche più di una volta – tutte le posizioni critiche, loro sono rimasti saldi ai posti di consiglieri. Jared fu sfiorato dal Russiagate che, lambendolo, lo costrinse a lasciare d’urgenza il G7 di Taormina nel 2017, ma non vi è rimasto impaniato, come è capitato a quell’altro commesso viaggiatore di papà Donald, il figlio maggiore Donald jr.

Jared Corey Kushner, 38 anni, è un finanziere e immobiliarista, che, dopo la condanna del padre per frode, prese la guida dell’azienda familiare. È anche editore del New York Observer e, nel 2016, contribuì alla strategia mediatica della campagna Trump. Sposato con Ivanka dal 2009, tre figli, è senior advidsor per il Medio Oriente del presidente Trump dal giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, e guida l’Office of American Innovation, che prima non esisteva. Certo, non tutte le ciambelle gli riescono col buco. Quella dell’“Accordo del secolo” per la pace tra israeliani e palestinesi è nata male, fin dal titolo troppo altisonante. L’incontro di Manama, chiusosi ieri, è stato man mano derubricato fino a seminario sugli aspetti economici, visto che non ci andava quasi nessuno. Aprendolo, Kushner ha prospettato interventi per 50 miliardi di dollari. Se la pace si comprasse, Jared saprebbe venderla.

Óscar e la niña Valeria come Alan Kurdi sulla coscienza Usa

Ci sono foto che fanno da spartiacque: nelle coscienze, se non nei comportamenti. In Europa, lo fu quella di Alan, il bimbo curdo riverso annegato su una spiaggia turca, a Bodrum. In America, lo sarà forse quella di un padre e della sua bimba di due anni morti annegati nel Rio Grande, mentre cercavano di passare dal Messico negli Stati Uniti in un tratto di confine dove il grande fiume dell’epopea western fa da muro: lui si chiamava Oscar Alberto Martinez, veniva da El Salvador; lei era Angie Valeria. La disgrazia sarebbe avvenuta domenica; i due corpi sono stati rinvenuti lunedì; presto saranno rimpatriati.

Il loro “sogno americano” infranto indigna l’America, almeno quella che non gonfia il petto alle trombonate del magnate presidente. Che infatti continua a fare dei migranti il tema forte della sua campagna elettorale, anche mentre raggiunge Osaka in Giappone: al G20, lo aspettano gli altri Grandi di questo mondo e un gomitolo arruffato di problemi irrisolti, in gran parte da lui creati: la crisi sul nucleare con l’Iran, lo stallo dei negoziati con la Corea del Nord, i negoziati con la Cina e l’Ue, il dialogo strategico con la Russia. Intanto, Washington si prepara all’audizione in Congresso del grande inquisitore del Russiagate Robert Mueller.

L’opposizione democratica non lesina le parole: fra i candidati alla nomination 2020, che tra oggi e domani si affrontano nei loro primi dibattiti, Beto O’Rourke dice che “il presidente è responsabile” e Kamala Harris denuncia “una macchia nella nostra coscienza morale”. Ma la commozione è bipartisan: “Non voglio più vedere un’altra foto così”, dice con un groppo in gola Ron Johnson, presidente della Commissione Giustizia. La foto choc viene esposta nell’aula del Senato dal leader della minoranza Chuck Schumer: “Trump guardi questa foto. Come fa a non capire che sono esseri umani che fuggono dalla fame e dalla violenza?”. La cronaca delle ultime ore raccolta altre tragedie di migranti morti che oggi acquistano rilievo speciale. In Texas, agenti di frontiera Usa hanno trovato quattro cadaveri non lontano dal Rio Grande: una giovane donna, due bambini e un neonato – forse, madre e figli –. Causa – probabile – del decesso: disidratazione e esposizione al caldo eccessivo.

Vista la foto, sentite le notizie, il presidente reagisce con un tweet, a modo suo: “Molte più persone di prima stanno venendo negli Usa perché la nostra economia va così bene, come mai nella storia. Ma noi stiamo mettendo le cose a posto, compresa la costruzione del muro!”. Per la quale, però, mancano i soldi. Quindi, il presidente se la prende con i democratici: “Vogliono confini aperti e questo vuol dire crimine, droga, traffico di esseri umani … e vogliono tasse più alte. I repubblicani vogliono quello che è bene per l’America, ovvero l’esatto opposto”. E il magnate loda il Messico, con cui ha appena concluso un accordo per la gestione dei richiedenti asilo.

La Camera stanzia 4,5 miliardi di dollari in aiuti umanitari per la crisi dei migranti lungo il confine. La legge deve però passare al Senato – e l’emozione per la foto potrebbe favorirne l’approvazione – ma potrebbe poi infrangersi contro il veto del presidente.

Trump sta anche incontrando difficoltà a trovare le persone disponibili ad attuare le sue politiche. S’è già sbarazzato della responsabile della Homeland Security, Kirstjen Nielsen, che pure passava per essere una sua egeria, e deve ora fare i conti con le dimissioni del commissario pro tempore della Us Customs and Border Protection John Sanders, travolto dalle polemiche sul trattamento dei bambini immigrati separati dai genitori in campi al confine con il Messico: prigioni in cui i bambini sono senza assistenza medica né cibo adeguati, con neonati accuditi da altri minori. Sei sono morti lontano dai genitori.

Con un pugno uccise un artista per motivi futili: fermato 18enne

Un 18enne è stato fermato a Roma per l’omicidio di Umberto Ranieri, l’artista morto dopo esser stato aggredito in Largo Preneste il 17 marzo scorso. È un giovane di origini tunisine che di recente aveva acquisito la cittadinanza italiana: è lui, secondo i carabinieri della Compagnia Casilina, che avrebbe colpito con un pugno Ranieri tramortendolo, durante una lite scoppiata perché il 55enne aveva chiesto di non sporcare la strada. Il ragazzo con alcuni amici sgranocchiava semi di girasole, lanciandone a terra le bucce. Quando Ranieri, in arte Nniet Brovdi, si è avvicinato, chiedendo di usare i cestini, il 18enne l’ha aggredito e fatto cadere a terra, uccidendolo. Le indagini coordinate dalla Procura di Roma, sono partite da alcune testimonianze e si sono basate sull’analisi dei filmati di 30 telecamere di videosorveglianza installate nei pressi del luogo in cui si sono verificati i fatti e sui mezzi pubblici in transito in zona, quella sera. Gli investigatori hanno verificato oltre 70.000 registrazioni di telefonate e servizi di messaggistica registrati da diversi ponti ripetitori installati in diversi punti della Capitale. L’indagine ha consentito di concentrare l’attenzione su di un gruppo di persone, di cui faceva parte l’indagato.

Pronta una seconda discarica, ma la vecchia non è bonificata

Colline, campi, frumento e discariche. Il giallo del grano delle campagne di Serradifalco (Caltanissetta) potrebbe tingersi di nero per la realizzazione di una nuova discarica Tmb (trattamento meccanico biologico) di 450 mila metri cubi di rifiuti, che dovrebbe sorgere a 4 km dal centro abitato. Il nuovo impianto, contro cui si battono il comitato cittadino “No discarica” e l’associazione “Serradifalko”, sembra aver ricevuto l’ok da tutti gli enti preposti a rilasciare il nulla osta. A dare parere positivo anche il Genio Civile, il quale però nel 2007 aveva bocciato il progetto nella stessa zona in quanto aveva rilevato che “i segni di dissesto sono notevoli, i versanti sono interessati da fenomeni di mobilità che interessano strati mediamente profondi che rischiano di essere aggravati dall’incremento di carichi”. Nonostante il nuovo parere positivo dello stesso ente, i problemi della zona sono evidenti a occhio nudo: strade franate e impercorribili. “Serradifalco ha già dato – dicono dal comitato – questa nuova prospettiva ci viene calata dall’alto nonostante i problemi del territorio e nonostante i dati allarmanti dell’inquinamento e dei tumori”. Il riferimento è all’altra discarica che sorge a pochi passi dal terreno dove potrebbe nascere il nuovo impianto che è stata chiusa tredici anni fa in quanto lo spazio era esaurito e non è stata mai bonificata: “In questi territori il tasso di tumori è superiore del 23% rispetto la media nazionale – raccontano i componenti –. Una delle cause è l’ex discarica, il cui impianto di trattamento del percolato non è mai entrato in funzione e ad ogni pioggia il liquido finisce nei torrenti e nei campi vicini”. Accanto il terreno che potrebbe ospitare la nuova Tmb anche un’azienda biologica, che ha già visto morire diversi capi di bestiame per la vecchia discarica. Per gli imprenditori che hanno investito in allevamenti e agricoltura, quella nuova discarica segnerebbe la fine.