Agenti massacrarono il tifoso bresciano, ma chi ha picchiato non è identificabile

Di santi e di eroi, nelle curve degli stadi, non ce ne sono. Il mondo degli ultrà ha però sempre una telecamera puntata la domenica, e chi sgarra paga. Uno di loro da tempo chiede, con la voce che gli resta, di rendere riconoscibili anche gli agenti di Polizia che operano dentro e fuori gli impianti. Ma anche questa volta, inutilmente. E le speranze di Paolo Scaroni di avere nomi e cognomi di chi lo ridusse in coma e trasformò la sua vita in quella di una persona invalida al 100% ora si riducono. I giudici della Corte d’appello di Venezia, presidente Citterio, hanno confermato l’assoluzione per insufficienza di prove degli agenti del Reparto mobile di Bologna accusati di aver “massacrato” il tifoso del Brescia, sui binari della stazione di Porta Nuova, a Verona, al termine di Hellas Verona-Brescia il 25 settembre del 2005.

“Imploravo di smettere… il rumore dei colpi sono gli ultimi ricordi che ho di quel giorno”, racconta Scaroni al Fatto. La rivalità storica tra le due tifoserie del Verona e del Brescia qui non c’entra. I “colpi” che ricorda Scaroni sono quelli di una carica degli agenti della Celere di Bologna alla stazione di Verona: tutto ripreso dalla Polizia di Stato. Quando però, sette anni dopo i fatti (e due richieste di archiviazione respinte), il caso approda in un’aula di tribunale, il video è tranciato. “Le riprese sono state artatamente manomesse per impedire una corretta ricostruzione degli eventi” è scritto nella sentenza di primo grado del processo contro otto agenti di Polizia: per il tribunale di Verona si era trattato di “un pestaggio gratuito e del tutto immotivato“. Mancano però prove certe a carico degli imputati: è assoluzione. Un film che si è ripetuto due giorni fa davanti alla Corte d’Appello di Venezia, nonostante le nuove testimonianze di agenti che hanno rotto il silenzio. “E ancora una volta la condanna verso chi mi ha ridotto così è sfuggita sul più bello. Mi fa schifo tutto questo” commenta Paolo.

Scaroni ha 42 anni, e due vite in una. Quella vissuta fino a quel settembre 2005 – titolare di un’azienda agricola e allevatore di tori durante la settimana, e ultrà del Brescia nel weekend – e quella successiva alla serie di manganellate che gli hanno spaccato la testa, bruciato anni di memoria e devastato il futuro. “Lesioni compatibili con l’uso di uno manganello impugnato al contrario” scrivono i giudici nella sentenza di primo grado, smentendo la Questura di Verona che aveva parlato di un ferimento dovuto al lancio di un sasso da parte degli stessi tifosi. “La richiesta di condannare in appello tutti a sette anni mi aveva fatto sperare”, confida Scaroni. “Se il processo fosse stato a parte invertite con otto ultrà sui banchi degli imputati avremmo già la sentenza definitiva”.

Il tifoso bresciano, oggi invalido, combatte “per evitare che un’altra persona subisca quello ho vissuto io”. L’Italia gli ha riconosciuto un indennizzo da un milione e 400 mila euro, che ha però il sapore di una beffa. “Viene ammesso – aggiunge Scaroni – che sono stati uomini dello Stato a massacrarmi di botte, ma i responsabili diretti resteranno per sempre impuniti. Eppure basterebbe un numero sul casco a identificare gli agenti… Tutti devono poter sapere chi sono”.

Incendio in azienda rifiuti, morti nel fiume anche i pesci gatto: “Brutto segnale, sono resistenti”

Decine di pesci morti e una forte puzza. Si presenta così da giorni il tratto del fiume Sacco che attraversa Ceccano, in provincia di Frosinone. L’allarme è stato lanciato da alcuni cittadini domenica pomeriggio, mentre nel capoluogo l’azienda di smaltimento rifiuti Mecoris andava in fiamme. La concomitanza dei due eventi ha indotto a una serie di ipotesi non fondate al momento su alcuna evidenza scientifica. È in corso un’indagine della magistratura per l’incendio e si attendono i risultati delle analisi condotte da Arpa Lazio nell’area dove sono stati rinvenuti carpe e pesci gatto morti. “Non è la prima volta che accade”, avverte Alberto Valleriani, presidente dell’associazione ambientalista Retuvasa. A novembre 2018, nel fiume era stata trovata della schiuma. La Valle del Sacco, uno dei 39 siti di interesse nazionale, attende da anni la bonifica. Include 19 comuni, su cui insistono 79 aziende. “Questa è la fotografia della storia industriale d’Italia”, commenta Valleriani. Con gli incentivi della Cassa del Mezzogiorno, in questa parte del Lazio meridionale hanno proliferato poli farmaceutici, petrolchimici, aziende di detersivi, depuratori, una fabbrica di eternit, una piccola acciaieria di proprietà dell’Ilva e molto altro. Per la bonifica sono stati stanziati 53,6 milioni. La Regione è responsabile unico dell’attuazione, ma non ha ancora istituito un ufficio tecnico. Né il sito è coperto dal Registro tumori, sebbene il rapporto Sentieri riporti un eccesso di mortalità per varie patologie oncologiche. “È inquietante che i pesci gatto muoiano perché sono molto resistenti alla carenza di ossigeno e all’inquinamento”, fa sapere Luca Fontana dell’associazione pescatori laziali. In attesa dei rilievi scientifici, il sindaco Roberto Caligiore assicura: “Abbiamo sollecitato tutti gli enti preposti”.

Vendetta d’amore ucraina: fa passare l’ex fidanzato libanese per uno jihadista

Una vendetta d’amore molto pericolosa. Un piano per far passare l’ex, un 26enne libanese studente di Ingegneria al Politecnico di Torino, come un pericoloso seguace del terrorismo islamico. L’aveva escogitato una studentessa 25enne, originaria dell’Ucraina, dopo che lui le aveva detto di non volerla sposare. Lei aveva addirittura annunciato le nozze ai parenti del ragazzo e lui aveva deciso di lasciarla per quel suo comportamento morboso. La giovane voleva fargliela pagare, ma è stata denunciata per calunnia, furto e danneggiamento aggravato.

Lei, D.M., iscritta alla specialistica di Scienze politiche, aveva architettato tutto per bene e stava riuscendo nel suo intento. Approfittando di un’assenza dei custodi dello studentato in cui vivevano, aveva rubato le chiavi della stanza del suo ex e, mentre lui era all’estero, era entrata per appendere foto dei leader di al Qaeda, dello Stato islamico e di Hamas e immagini dei combattenti. Con uno spray aveva scritto sul muro la “shahada”, la professione di fede dell’Islam, quella riprodotta sulla bandiera nera dell’Isis. Poi aveva sparso resti di cibo per terra. Dopo qualche giorno i gas prodotti avevano innescato l’allarme antincendio. Così lo scorso 23 novembre gli agenti della Digos della questura di Torino, guidati dal dirigente Carlo Ambra, sono intervenuti nella residenza “Olimpia” scoprendo tutto il materiale. I sospetti sono subito caduti sul 26enne che, appena saputo di essere ricercato dalla polizia in Italia, ha informato le autorità che sarebbe rientrato per spiegare tutto. L’inchiesta del sostituto procuratore Enrico Arnaldi di Balme ha preso un’altra piega ed è emersa la messa in scena della sua ex: l’ucraina aveva denunciato il ragazzo, ma ha smesso di parlare quando è stata messa di fronte alle evidenze, rese più forti dalle analisi del Dna trovato sugli oggetti lasciati nella stanza.

Un arresto a Chiavari per l’omicidio dell’ex killer di mafia

La squadra mobiledi Genova ha arrestato una persona accusata dell’omicidio di Orazio Pino, l’ex collaboratore di giustizia freddato con un colpo di pistola in un parcheggio a Chiavari (Genova) lo scorso 23 aprile. Gli agenti, coordinati dal pubblico ministero Silvia Saracino, stanno eseguendo anche diverse perquisizioni. Dietro all’omicidio ci sarebbero motivi sentimentali ed economici. Gli investigatori della Squadra mobile di Genova, agli ordini del primo dirigente Marco Calì, hanno arrestato Sergio Tiscornia (nella foto), operaio di 50 anni, fidanzato dell’amante della vittima. Gli agenti hanno eseguito diverse perquisizioni, anche in casa della donna. Secondo quanto emerso dalle indagini, coordinate dal pm Silvia Saracino, la donna aveva accusato Pino di avere rubato alcuni gioielli dalla società di compro oro che avevano messo in piedi insieme. La ex socia lo aveva denunciato ma la vicenda era stata archiviata. La donna avrebbe anche chiesto soldi per il mantenimento di sua figlia, nata dall’unione con l’ex collaboratore. Fondamentali per risolvere il caso l’analisi delle telecamere della città e dei tabulati telefonici.

Guerra a “Rep”, Viviano querela Foschini

Questa è la storia di un’amicizia finita a rotoli e a carte bollate tra due giornalisti di Repubblica. È la storia di Francesco Viviano che si appresta a querelare Giuliano Foschini e che su Facebook a cadenza periodica gli lancia strali e accuse, chiamando in causa Ordine dei giornalisti e Fnsi perché, in sostanza, sostiene di essere stato tradito da un collega. È la storia di come una telefonata privata tra i due cronisti che lavoravano sullo stesso caso, e registrata da uno all’insaputa dell’altro, sia finita sulla scrivania del pm che li ha indagati entrambi. È la storia di uno scoop su Silvio Berlusconi che si è tramutato in una condanna a un anno e due mesi per pubblicazione di atti coperti da segreto per Viviano, il giornalista che fu registrato, e che da allora non ha perdonato il collega che spinse il tasto rec, indicandolo come la causa della sua condanna.

Ecco come due grandi firme di giudiziaria, si sono unite e divise dalla notizia uscita il 17 marzo 2010. Quel giorno Repubblica ha un pezzo di Viviano che è una bomba. Ci sono le intercettazioni della Procura di Trani sulle pressioni di Silvio Berlusconi per chiudere Annozero. Ci sono i virgolettati di Berlusconi, Gianni Letta e del commissario Agcom Giancarlo Innocenzi, ed altro. Stanno nelle 40 pagine della richiesta che il pm di Trani ha inoltrato al Gip per ottenere dalla Camera l’autorizzazione all’utilizzo. Viviano, secondo la ricostruzione diventata definitiva con la sentenza di Cassazione, sarebbe entrato di nascosto nella stanza del Gip per prelevarle, fotocopiarle in un altro luogo e utilizzarle per il suo articolo. Il giorno prima lui e Foschini, il primo allora 61enne e il secondo 25enne, erano stati visti insieme nel palazzo di Giustizia di Trani. E quando esce il pezzo e scatta l’indagine sulla fuga di notizie, Foschini viene convocato in Questura come testimone. Ne uscirà indagato. Quel giorno sarebbe avvenuta la registrazione della telefonata tra Viviano e Foschini. Non compare a supporto delle motivazioni della condanna, ma sarebbe stata oggetto di una domanda del pm a Viviano. Su tutto, del resto, le versioni dei due divergono.

“La mia condanna – scrive Viviano sui social – è ‘discendente’ (come hanno scritto i tribunali di primo e secondo grado ed anche in Cassazione) dalle dichiarazioni di Foschini, che mi ha accusato e che ha anche registrato una conversazione tra me e lui che è finita in mano ai pm. Foschini, grazie alla sua “collaborazione” e al suo avvocato Paolo Sisti di Forza Italia (quindi vicino a Berlusconi oggetto dello scoop) è uscito dall’inchiesta perché definito ‘testimone assistito’. Io mio sono fatto difendere dagli avvocati del mio giornale come era giusto. Questo Foschini, non ha ‘rossore’? Al Fatto ha aggiunto: “Lo querelo per aver dichiarato alla Verità che ho mentito”. Sentito dal Fatto, Foschini replica con poche e misurate parole: “Non penso di essere una notizia e non ho niente da nascondere, mi sono sempre comportato correttamente e non ho mai consegnato nessuna registrazione ai pm”. Che sarebbe stata estrapolata dal telefonino di Foschini sequestrato dalla Procura qualche tempo dopo l’interrogatorio. Dopo la condanna, il Cdr di Repubblica ha espresso “umana solidarietà” a Viviano. Lui lo ha interpretato come un “sono fatti tuoi…”. Coi panni lavati sulla piazza di Facebook, sulla bacheca di Viviano è intervenuta Virginia Piccolillo del Corriere della Sera: “Questa non è solo una questione etica di viltà e tradimenti personali. Ma di una grave violazione deontologica, compiuta ai danni di un collega, all’interno dello stesso giornale, Repubblica, che si è fatto bello dello “scoop” ma non ha esitato a lasciarti solo. Che squallore”.

Colpo a Gomorra, ma Scianel ora è in fuga: “Minaccia alta”

Centoventisei arresti, 130 milioni di euro sequestrati, una nuova pericolosa latitante, Maria Licciardi, un ospedale, il San Giovanni Bosco, già noto per le formiche sui pazienti, definito dai pm “sede sociale” dei camorristi. L’Alleanza di Secondigliano subisce un duro colpo dalla Dda di Napoli, ma il procuratore capo Giovanni Melillo non usa mezzi termini: “Questo sodalizio criminale ha le mani sulla città”.

L’ospedale San Giovanni Bosco è schiacciato tra le strade polverose del rione Amicizia, l’aeroporto Capodichino e la tangenziale. Era il novembre scorso quando le immagini di una paziente intubata in un letto invaso dalle formiche fecero il giro del mondo. Quello che non si sapeva è quanto rivelato ieri da Melillo: “Era diventato la sede sociale dell’Alleanza di Secondigliano: gli uomini dei Contini controllavano il funzionamento dell’ospedale, dalle assunzioni agli appalti, alle relazioni sindacali”. E non solo: “L’ospedale era diventata la base logistica per trame delittuose, come per le truffe assicurative attraverso la predisposizione di certificati medici falsi”.

Il clan Contini “grazie a figure interne all’organizzazione o all’ospedale da un lato era in grado di poter soddisfare ogni tipo di esigenza dei cittadini, superando con una certa celerità lunghe liste d’attesa o impasse burocratiche, e, dall’altro, per compensazione, esaudire richieste avanzate dal personale sanitario”. Insomma, chi era amico o sodale dei boss saltava la fila o otteneva benefit. Com’era possibile tutto questo? Con “direttori sanitari sempre a disposizione del clan e pronti ad accettarne le imposizioni, medici che hanno prestato la propria opera per feriti da arma da fuoco del clan che non dovevano passare in ospedale”. Uno scenario da narcostato. Invece siamo in Italia nel 2019. La camorra offre servizi, aggira le leggi, va incontro alle sensibilità delle persone, al dolore. Per chi aveva un familiare deceduto in ospedale e desiderava però riportarlo nel letto di casa era possibile rivolgersi ai boss. Al prezzo di 500 euro, carte truccate dai medici, e defunto trasportato a casa in ambulanza da paziente dimesso. Un pentito puntualizza: “Chiaramente perché tutto vada in porto vi è anche la collusione dei medici che non fanno apparire la morte in ospedale”. L’ordine dei medici di Napoli implora di “non criminalizzare tutti i professionisti del San Giovanni Bosco, c’è chi non ha abbassato la testa”. Ma la ministra della Salute Giulia Grillo chiede “lo scioglimento dell’ospedale per infiltrazioni mafiose”.

Nella ricostruzione gerarchica dell’Alleanza salta all’occhio il ruolo delle donne dei clan, ritenuto “fondamentale” dalla Dda. Tra queste una sola detiene ruoli direttivi: Maria Licciardi, 68 anni, scampata agli arresti del Ros dei carabinieri di ieri mattina e in serata ancora irreperibile e che, a meno di colpi di scena, sarà presto inserita nella lista dei più pericolosi latitanti delle mafie italiane, da Matteo Messina Denaro in giù. Detta “la madrina” o ’a piccirella a causa della sua statura è la capa del clan che porta il suo cognome dalla morte in carcere del fratello Gennaro ’a scigna. L’Alleanza di Secondigliano gestisce da anni numerose attività criminali, dal traffico di droga all’import-export di prodotti contraffatti, all’usura. Proprio “la madrina” ha inaugurato un nuovo ramo d’azienda gestendolo personalmente, quello della prostituzione. La Scianel della terza stagione della serie Gomorra è ispirata anche e soprattutto a Maria Licciardi.

E se Scianel non basta tra gli arrestati c’è anche “Harry Potter”: soprannome di Vincenzo Tolomelli, 32 anni, non precisamente un simpatico maghetto ma addetto alla compravendita di droga per conto dell’omonimo zio, 62 anni, anch’egli arrestato ieri, con cui si spende pure per abbassare il prezzo degli stupefacenti per i suoi clienti. Sono microstorie di un immenso impero del male e il procuratore Melillo ammonisce: “Non c’è una riduzione della minaccia criminale a Napoli. L’Alleanza svolgeva una tutela sostitutiva dell’ordine pubblico”.

“Stupro di gruppo dopo la discoteca”: l’incubo di una 21enne

Un passaggio in auto dopo la discoteca si è trasformato in uno stupro di gruppo. Così ha raccontato una ragazza di 21 anni nella sua denuncia. Sarebbe successo a Mantova: nella notte fra sabato e domenica, dice di aver accettato di essere riaccompagnata a casa da un giovane appena conosciuto nel noto club “Mascara”, anziché dall’amico con cui si era recata in discoteca. Ma a poca distanza dal locale, il giovane ha fermato la macchina e sarebbe stato raggiunto da altri amici che poi l’avrebbero violentata per ore, fino al mattino di domenica. La giovane, ancora sotto choc, non ha saputo dire con esattezza in quanti fossero.

Dopo lo stupro, la ragazza sarebbe stata abbandonata per strada nei pressi di Bonferraro, nel Veronese e ha chiesto soccorso all’ospedale di Legnago. Ai medici, che hanno confermato l’avvenuta violenza, ha raccontato tutta la drammatica vicenda.

Ora i carabinieri dei comandi provinciali di Mantova e di Verona stanno lavorando insieme: al vaglio le venti telecamere in funzione sia all’interno del locale, sia nel parcheggio, per risalire all’identità dei presunti stupratori.

Si indaga su “abusi sessuali” contro i chierichetti del Papa

C’è un’inchiesta alla Procura di Roma, a un chilometro dalle mura vaticane, che può mettere in imbarazzo le gerarchie ecclesiastiche fino a papa Francesco. Riguarda i presunti abusi, almeno in parte fra minori, commessi nel Preseminario San Pio X, l’istituto che all’interno della Santa Sede ospita i chierichetti che servono messa in San Pietro con il Papa. Ragazzini in un percorso “pre-vocazionale”. “Ci entrai nel 2006, avevo 13 anni”, ha raccontato un giovane, oggi 26enne, che chiameremo Mario. “Appena arrivai l’allora rettore, monsignor Enrico Radice, mi indicò un ragazzo di un anno più grande di me, già ammesso al seminario. Mi disse che ero giovane e per ogni cosa dovevo affidarmi a lui. Di lì a poco iniziò a entrare quasi tutte le notti nella stanza in cui dormivo con altri due, mi accarezzava, mi praticava sesso orale, costringeva me a fare altrettanto, poi veri e propri atti di sodomia”.

Così, racconta Mario, per sei anni, finché non decise di andarsene nel 2012. Non senza aver parlato, almeno dal 2009, con monsignor Radice: “Mi disse che ero invidioso di lui, che mi avrebbe mandato via e avrebbe raccontato tutto alla mia famiglia”. Il giovane riferisce di gravissime sofferenze. “Si è sentito solo, abbandonato, nonostante il tempo trascorso non ha superato quello che ha vissuto, la sua vita di relazioni è seriamente compromessa, è tuttora in cura da una psicoterapeuta – spiega l’avvocato Dario Imparato, che lo assiste –. Un anno di differenza a quell’età vuol dire molto, per di più il rettore aveva attribuito grande autorità all’altro giovane”. Nella denuncia il ragazzo scrive che altri giovanissimi avrebbero subito gli stessi abusi da parte di Gabriele Martinelli, oggi sacerdote 27enne in Lombardia.

La storia è nota dalla fine del 2017, quando ne scrisse Gianluigi Nuzzi nel libro Peccato originale (Chiarelettere) e se ne occuparono le Iene. La riferì un giovane polacco, Kamil, che per due anni, tra il 2010 e il 2011, aveva condiviso la cameretta con Mario e disse di aver assistito ai continui abusi e ai tentativi del ragazzo di negarsi al seminarista. Anche secondo Kamil, non era una libera relazione tra giovani gay. Solo allora Mario, raggiunto dalle Iene, si affidò all’avvocato Imparato per sporgere denuncia. “Mi rivolsi – spiega il legale – all’ufficio del Promotore di Giustizia vaticano”, il pubblico ministero della Santa Sede, al vertice del quale c’è il professore Gian Piero Milano con l’aggiunto professor Roberto Zanotti. Per quanto si è capito hanno indagato, hanno sentito una trentina di persone, nel dicembre scorso Panorama ha scritto che l’inchiesta era conclusa ma poi non se n’è saputo più niente, forse perché gli abusi su minori nel codice penale vaticano sono puniti solo in caso di tempestiva querela, mentre in Italia si procede d’ufficio.

Il servizio delle Iene lo vide anche l’allora procuratore della Repubblica di Sondrio, che aprì un fascicolo perché il presunto responsabile degli abusi diceva messa nel territorio di sua competenza. Poiché però le presunte violenze sarebbero state commesse in Vaticano, da Sondrio gli atti furono trasmessi, nel 2018, alla Procura di Roma, competente per i reati avvenuti all’estero, Vaticano compreso, in danno di cittadini italiani, esattamente come avviene per l’omicidio Regeni o i sequestri dei nostri connazionali all’estero. L’inchiesta è condotta nel più stretto riserbo dal pm Stefano Pizza con i carabinieri, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Maria Monteleone ed è alle battute conclusive. Al centro c’è don Martinelli, che si occupava addirittura di ritiri spirituali, cioè anche di giovanissimi, ma poi – secondo alcune fonti – sarebbe stato trasferito ad altro incarico. Ci sono gli abusi denunciati da Mario. La Procura sta anche ricostruendo, anche al di là del possibili rilievi penali, l’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche. Perché le notizie sui presunti abusi sono arrivati molto in alto, fino ai vertici dell’Opera Don Folci di Como che gestisce il preseminario San Pio X e al cardinale Angelo Comastri, vicario generale del Papa per la Città del Vaticano. Ci sono alti prelati che si sono dati da fare per chiarire, altri invece si sono girati dall’altra parte. Ai tempi dei presunti abusi, quando sul soglio pontificio c’era papa Ratzinger, come ai tempi in cui la vicenda è emersa sotto il pontificato di Bergoglio, che ha dichiarato guerra ai preti pedofili in tutti i continenti.

Sarebbe incredibile se i magistrati di Piazzale Clodio aprissero un processo prima di quelli della Santa Sede su abusi avvenuti in Vaticano, nell’istituto in cui i chierichetti del Papa dovrebbero essere trattati meglio di qualsiasi altro ragazzino, accanto a Casa di Santa Marta dove vive il pontefice. Proprio lui, papa Francesco, ha o avrà in mano le conclusioni dell’inchiesta vaticana. E il pontefice, se volesse, potrebbe intervenire anche sul codice, introducendo la procedibilità d’ufficio per gli abusi in danno di minori.

La Corte dei Conti boccia la flat tax: “Aumenta il debito”

Sono profonde le perplessità della Corte dei Conti sulla flat tax, la riforma fiscale promessa da Matteo Salvini. Il governo si attendeva di ottenere il sigillo dei magistrati contabili, una “dote” da mostrare all’Europa per evitare la procedura sul deficit. La relazione della Corte dei Conti invece esprime dubbi sulla crescita attesa dal governo per quest’anno e si sofferma sui “rischi gravi” di uno choc fiscale senza coperture adeguate di fronte a un debito pubblico vicino “ai limiti massimi della sostenibilità”. Sono le parole del procuratore generale Alberto Avoli: malgrado il riordino delle deduzioni fiscali e un generale riassetto delle tasse siano prioritari, la riforma pretesa dalla Lega (con un budget da 15 miliardi) “potrebbe avere ripercussioni gravi, tali da annullare o ridurre molto i benefici della rimodulazione delle aliquote”. Lo stesso Avoli avverte il governo – alla requisitoria erano presenti i ministri Tria (Economia), Toninelli (Infrastrutture e Trasporti), Bongiorno (Pa) e Stefani (Affari regionali) e il sottosegretario Giorgetti – che il debito non può aumentare “a dismisura” e ha “probabilmente raggiunto i limiti massimi di sostenibilità”, rischiando di pesare per tre, forse quattro generazioni future.

Pop Vicenza, il giudice lascia: tempi più lunghi e truffati furiosi

Il giudice si astiene, cambia il collegio del Tribunale e il processo per il crac della Banca Popolare di Vicenza subisce un inatteso stop. I tempi della prescrizione diventano così sempre più un incubo per i risparmiatori che attendono giustizia. Il dibattimento a Giovanni Zonin e altri sei imputati è cominciato a dicembre. Da sette udienze è entrato nella fase istruttoria. Ora, a sorpresa, il presidente Lorenzo Miazzi (fu presidente regionale Anm) ha chiesto di astenersi. I pm Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori avevano allegato alcuni documenti da cui risulta l’esistenza di una causa di lavoro intentata alla banca stessa dall’ex amministratore delegato ed ex direttore generale di PopVicenza, Samuele Sorato. Il manager non è imputato nel processo penale in corso solo perché la sua posizione è stata stralciata per ragioni di salute. Si era affidato nella causa di lavoro allo Studio Miazzi-Cester-Rossi di Padova. L’omonimia non è una coincidenza. Maria Luisa Miazzi, uno dei titolari studio, è sorella del giudice. Della causa non si è occupata in prima persona, ma il fatto che lo studio sia lo stesso, per una vicenda strettamente inerente a PopVicenza, avrebbe potuto creare imbarazzo.

Il presidente del Tribunale di Vicenza ha accolto la richiesta e nominato il giudice Camilla Amedoro. I due a latere, Elena Garbo e Deborah De Stefano, non verranno cambiati, ma la seconda assumerà la presidenza del collegio. Le parti civili si chiedono quali saranno le ricadute sui tempi del dibattimento. Il comitato di risparmiatori “Noi che credevamo nella Popolare di Vicenza” ha diffuso una nota: “Brutte notizie dal processo Zonin. Questo influirà in maniera negativa su tempi e risultati. Chiediamo che le istituzioni si adoperino. La Legge sarà anche uguale per tutti, ma vogliamo capire se ‘il sistema’ aiuterà centinaia di migliaia di cittadini risparmiatori a giungere a una verità”.