Le multinazionali eludono il Fisco per 20 miliardi l’anno

L’Italia ha storicamente un problema di fedeltà fiscale, percentualmente specie nel Mezzogiorno. Il problema dell’evasione, però, è che la parte effettivamente recuperabile all’erario è solo una parte del totale: ci sono attività economiche, per non fare che un esempio, che semplicemente non sopravviverebbero all’emersione. Negli ultimi decenni, però, accanto alla “vecchia” evasione è cresciuto nel mondo il peso dell’elusione fiscale e, in particolare, quella dei grandi gruppi multinazionali: soldi con cui si creano aziende potenti come Stati e che, come Stati, pretendono legislazioni di favore.

L’elusione è quel meccanismo che, utilizzando scappatoie legali, ha come unico scopo sottrarre al Fisco quanta più base imponibile sia possibile. Molto all’ingrosso, questi grandi gruppi tentano di spostare i loro profitti e le attività delle loro aziende, per quanto possibile, verso i molti paradisi fiscali sparsi per il mondo, Europa compresa, anche grazie ad accordi bilaterali (spesso segreti) coi governi: di fatto, da due decenni l’aliquota effettiva che le big corporate pagano sui loro proventi continua a scendere. Il caso estremo, come vedremo, sono le cosiddette WebSoft, da Google e Amazon in giù.

Di quanti soldi parliamo? Anche qui si tratta di stime. Nella sola Ue, ad esempio, la Commissione sostenne che nel 2015 erano stati sottratti al fisco dei vari Paesi tra 50 e 70 miliardi. Un più recente rapporto dell’Europarlamento critica questa stima e sostiene che 160-190 miliardi l’anno siano “una stima conservativa delle entrate fiscali per l’elusione delle multinazionali”. Volendo applicare in modo spannometrico questo dato all’Italia, che pesa per poco più dell’11% del Pil dell’Unione, si parla di 17-21 miliardi di euro ogni anno.

Il politico più impegnato per la cosiddetta “web tax” in Italia, il deputato del Pd Francesco Boccia, parla solo per le WebSoft (Software & Web Companies) di “una base imponibile superiore ai 50 miliardi: l’Italia dovrebbe recuperare tra i 6 e gli 8 miliardi all’anno”. Ricchezza prodotta in Italia su merci e servizi consumati in Italia da Amazon, Facebook e gli altri che prende la via dei paradisi fiscali, Irlanda e Lussemburgo in primis e, da lì, in quelli d’Oltreoceano.

I giganti del web sono l’avanguardia dell’elusione fiscale. L’Area Studi di Mediobanca nel suo report sui bilanci 2017 delle multinazionali ne ha censiti 21 (su 397 grandi corporate analizzate): pur essendo il 5,2% del campione rappresentano ormai l’8,1% dei profitti “e addirittura il 19,4% del valore di Borsa”. Le prime tre per fatturato sono Amazon (148,3 miliardi), Alphabet (cioè Google con 92,4 miliardi) e Microsoft (75). Per capirci sul loro peso anche “politico”, basti dire che queste 21 WebSoft sono società più liquide della media (285 miliardi) e amano la finanza: il 25% del loro attivo è investito in titoli a breve scadenza, più di quanto facciano in percentuale le banche (21%) e incomparabilmente di più delle abitudini delle corporate del manifatturiero (3,1%).

Secondo Mediobanca: “Nel 2017 circa due terzi dell’utile ante imposte delle WebSoft è stato tassato in paesi a fiscalità agevolata (Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi ecc.) con un risparmio di imposte pari a 12,1 miliardi di euro”. Nel periodo 2013-2017 il risparmio cumulato sfiora i 50 miliardi.

E questo, ovviamente, non tiene conto di altre pratiche aggressive a partire dall’elusione dell’Iva. Il servizio studi della Camera, ad esempio, ha calcolato per il 2016 in circa 50 miliardi il giro d’affari sul web in Italia: il commercio (Amazon) rappresenta ben oltre la metà della torta, ma pesano anche i servizi di pubblicità online (Google, Facebook). Su questa massa di soldi, le tasse pagate sono irrisorie.

Sempre più spesso, peraltro, le spericolate attività elusive di aziende e/o governi che fanno dumping fiscale finiscono sui giornali: è il caso della maxi-multa da oltre un miliardo che il gruppo francese del lusso Kering si appresta a pagare all’Agenzia delle Entrate o di quella da 115 milioni della banca svizzera Ubs o ancora, guardando all’estero, dei 343 accordi fiscali – svelati dall’inchiesta LuxLeaks – tra il Lussemburgo e varie aziende (anche italiane), avallati tra gli altri dall’allora premier e oggi presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.

Basta un esempio per capire come queste pratiche avvelenino il clima all’interno dell’Ue. Moltissimi italiani stanno in questi giorni programmando le vacanze: una grossa percentuale tra questi sceglieranno di prenotare online tramite siti come Booking o Airbnb. Queste imprese – tecnicamente Online Travel Agencies (Ota) – guadagnano attraverso le commissioni pagate dai gestori degli hotel o delle case in affitto: la loro parte, a seconda dei casi, si aggira tra il 18 e il 25% del prezzo della prenotazione. Un gran bel guadagno per una mera attività di intermediazione, ma che quei siti sono in grado di imporre perché hanno milioni di clienti in tutto il mondo. Ecco, per l’erario, il problema arriva dopo.

Di quella massa di denaro, infatti, poco o nulla resta in Italia nonostante sia innegabilmente prodotta qui: Booking versa le sue (poche) tasse in Olanda, Airbnb in Irlanda. Globalizzazione e digitalizzazione sono anche questo: aziende che estraggono ricchezza dai territori, dalle loro infrastrutture e dai loro cittadini portandosi i profitti dove credono, dopo aver scelto sull’apposito menu l’aliquota più scontata.

In Mario Monti c’è l’altro Mario, Brega: “Io so’ sovranista così”

Noi lo sospettavamo e finalmente martedì sera ne abbiamo avuto la plastica conferma. Dentro Mario Monti si nasconde un altro Mario: no, non Draghi, Mario Brega, il caratterista romano caro a Sergio Leone e Carlo Verdone. In Un sacco bello Brega, interpretando il padre di Verdone, replicava così alla fidanzata hippie del figlio che gli aveva dato del “fascio”: “A me? Io non so’ comunista così, so’ comunista così!” (e s’intende comunista il doppio, con tutti e due i pugni alzati). Ecco, martedì sera in tv Mario Monti – che di certo non è comunista né così né in altri modi – ha tirato fuori il Brega che sonnecchiava in lui: “Io sono due volte più sovranista di coloro che si dicono sovranisti”. E qui la spiegazione: “Lo sono in primo luogo perché la vorrei a livello europeo questa sovranità”. Insomma, Monti ce l’ha più grossa la sovranità ed è disposto, se proprio dovesse, a inchinarsi solo a quelli che la vogliono – “questa sovranità” – al livello dell’Impero Galattico di Guerre stellari. Se è più piccola, la sovranità, non lo dovete neanche disturbare. E poi c’è il secondo motivo, il colpo di genio: “Perché tengo molto al fatto che non ci siano invasioni specifiche di quel che resta della sovranità italiana: ecco perché nel 2012 ho detto niente Troika”. E qui si vede il Brega gentiluomo: quando ormai la sovranità è piccola piccola si può sempre fare i signori. D’altronde, “’sta mano po esse fero o po esse piuma: oggi è stata piuma” (e del doman, com’è noto, non v’è certezza).

Milano-Cortina, i titoli da diabete rendono ciechi

Troppo zucchero fa venire il diabete. E sulla vittoria di Milano-Cortina (strano ircocervo) alla candidatura per le Olimpiadi invernali del 2026 è stato steso tanto di quello zucchero da uccidere anche il più sano degli sportivi. “Miracolo a Milano”, titolava Repubblica. L’enfasi non è mai un buon ingrediente del giornalismo. Che festeggino i politici che hanno vinto e che su quella vittoria costruiranno le loro carriere future, ci sta. Ma che i giornali si accodino, anzi li scavalchino, per celebrare le magnifiche sorti e progressive del lombardo-veneto in tuta da sci o da curling, è ridicolo e anche un po’ penoso. Significa rinunciare a ciò che rende giornalismo il giornalismo: il distacco critico su quello che viene raccontato, il rifiuto di applaudire e gridare evviva, la volontà di controllare, il ruolo di cane da guardia nei confronti dei poteri.

Che pena vedere tanti bravi colleghi trasformarsi da giornalisti in trombettieri del regimetto delle grandi opere, dei grandi eventi, dell’Expo e dell’Olimpiade, dei tunnel e del Tav. Si è aperta una nuova stagione di melassa e di retorica. Si dice che siamo in epoca post-ideologica: falso. L’ideologia non è mai stata tanto forte e tanto trasversale, quasi senza opposizione. Non più le grandi e tragiche ideologie del Novecento; ma le piccole, ridicole ideologie di uno sviluppismo da Disneyland, con i “grandi eventi” – un’esposizione universale, un insieme di gare sportive – presentate come fossero il New Deal.

La narrazione sostituisce i fatti, lo storytelling si mangia la realtà, i pierre sostituiscono gli statisti. A dispetto delle cifre e dei dati. Dei disastri economici di quasi ogni olimpiade. Degli sprechi. Degli impianti abbandonati. Stiamo ancora aspettando che i professoroni della Bocconi, che avevano fatto le mirabolanti previsioni dello sviluppo che Expo avrebbe generato, ci spieghino che fine hanno fatto i milioni di occupati previsti, i miliardi di indotto generati, i punti di Pil promessi. Oggi il giochetto si ripete: il Sole 24 ore ci dice che l’Olimpiade della neve, che ha per capofila la città dove non nevica più, produrrà “una ricaduta sul territorio da 4,5 miliardi e 36 mila posti di lavoro”.

Tutti a ridere felici, a battere le mani, a suonare le trombette e i kazoo, perché Milano, che effettivamente è già l’unica città europea d’Italia, continuerà a crescere e a diventare più bella e più ricca. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe accorgersi che da anni a Milano la crescita è diseguale, che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E che, se l’uguaglianza è davvero la tua bandiera, gli investimenti li devi progettare dove sono più necessari, non dove c’è già più ricchezza. Invece abbiamo una sinistra del “piove sempre sul bagnato”.

E giù a ridere felici e a compiacersi di quanto sia bella Milano (vero!), ma considerandola il villaggio di Asterix del centro, circondato dalle periferie e dalle suburre e dagli hinterland incattiviti e lasciati senza speranza.

Il sindaco Giuseppe Sala è riuscito a convincere (quasi) tutti che il modello Expo sia stato positivo, vincente e di successo. Due miliardi di euro pubblici spesi, 700 milioni incassati: strana idea di successo. Ora ci riprova con l’Olimpiade invernale. Grazie ai soldi distribuiti a pioggia e senza gara, ai tempi di Expo, è riuscito a diventare sindaco. Ora grazie ai soldi dei Giochi invernali si costruirà un futuro come candidato presidente del Consiglio. Una carriera tutta costruita a spese dello Stato – cioè nostre. La più costosa campagna elettorale della storia italiana.

 

La leopoldina di Lotti, il finto autosospeso

Se non avessimo consacrato un pezzetto del nostro cuore all’ultimo glorioso epigono della commedia all’italiana, Matteo Renzi, e non sperassimo diuturnamente in un suo ritorno sulle scene da protagonista, saremmo tentati di buttarci sull’amico Luca Lotti.

Egli già lunedì ci aveva fatto sognare: intercettato dai cronisti all’uscita del tribunale dove è stato ascoltato per la vicenda Consip, alla domanda se per caso intenda dimettersi da deputato alla luce dei suoi incontri notturni con membri del Csm, ha replicato categorico: “Ho già fatto un post, anzi due post, su Facebook, nel quale (sic) ho spiegato quali sono le situazioni, quello che io non ho fatto”; il che rientra appieno nel solco della cultura giuridica hardcore dei garantisti del Valdarno, i quali dopo ogni indagine che ha visto coinvolti loro o i loro genitori o i loro amici del cuore e (dunque) ministri hanno sempre perentoriamente avvertito i magistrati via Facebook che non era aria (“Adesso basta”, digitò furiosa la Boschi, “Ora basta”, tuonò Lotti chissà contro chi, visto che ad accusarlo erano due ex amici di Renzi, Vannoni e Marroni, “Se qualcuno pensa che si possa utilizzare la strategia giudiziaria per eliminare un avversario dalla competizione politica sappia che sta sbagliando persona”, intimò Renzi quando gli arrestarono i genitori, il tutto sempre, ovviamente, “credendo nella giustizia”).

Ci era anche molto piaciuta, giorni fa, la sinistra allusione di Lotti anti-Zanda alla seduta spiritica che rivelò l’indirizzo del covo delle Br durante il sequestro Moro e a cui partecipò Prodi, ma non Zanda, al tempo collaboratore del ministro dell’Interno Cossiga; ma siccome Zanda, responsabile legale del partito, aveva praticamente licenziato Lotti sui giornali, tanto valeva affumicarne la reputazione: “Fa quasi sorridere che tale richiesta arrivi da un senatore di lungo corso già coinvolto – a cominciare da una celebre seduta spiritica – in pagine buie della storia istituzionale del nostro Paese”.

Ma ieri abbiamo capito che il personaggio di Lotti, scoperto dal talent scout Matteo in un campetto della provincia toscana e proiettato nel potere romano, sta venendo fuori in tutto il suo splendore solo ora, alla terza stagione del renzismo. Dal 5 al 7 luglio, ha battuto l’Ansa, Lotti riunirà a Montecatini la sua corrente “Base riformista”, corrente che si deve intendere del Pd, se il claim del convegno è “presentare il manifesto dell’Italia riformista” per “non rinunciare al profilo più innovativo del Pd”. Tutto ciò pochi giorni dopo essersi fieramente “autosospeso” dal Pd (“Non partecipo al festival delle ipocrisie”), ricorrendo a un istituto previsto dal Regolamento delle Commissioni di Garanzie del Pd. Domandiamo: ma, se riunire una corrente di partito non può essere annoverato tra le attività di un partito, cosa lo è? Intendiamo: a parte brigare coi magistrati per esprimere preferenze o idiosincrasie sulle nomine per le Procure d’Italia che incidentalmente indagano su di te. O la leopoldina lottiana non c’entra niente col Pd e anzi è un’Opa ostile su di esso, o l’autosospensione di Lotti, accettata con tante grazie da Zingaretti, era una buffonata. O, come sospettiamo, entrambe le cose. Non appare quantomeno inopportuna, agli occhi del segretario, una chiamata a raccolta della milizia lottiana per “la nuova Italia riformista”, con tutto quel che grava su Lotti? La risposta, ovviamente, è no. Figuriamoci se quel partito di anime morte che galleggia spettrale tra i flutti come la barca di Coleridge si mette a fare lo schizzinoso prima di nuove elezioni, coi gruppi parlamentari ancora in mano a Renzi. Eppure basterebbe ammettere che schegge impazzite del partito si fanno i fatti propri coi voti di elettori ingenui convinti di votare quel partito e finirla lì onorevolmente, parola che – è Sciascia che parla – appartiene a tutti fuorché agli onorevoli.

Procure e nomine: è l’ora del coming out

Non tutti sanno quanto le procedure per la nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari possano essere complesse. Non basta, per esempio, che l’aspirante presenti la prescritta domanda, deve pure telefonare a uno o più componenti del Csm per perorarne l’accoglimento. O, almeno, è questa la scusa accampata da generazioni di consiglieri per giustificarsi coi trombati: “E che ti devo dire… Non hai telefonato a nessuno, pensavamo che non ci tenessi”. E, se per gli incarichi direttivi ordinari è questione di una telefonata, le cose si complicano ulteriormente per la copertura dei posti più importanti, specialmente le Procure, dove, abbiamo scoperto, entrano in ballo anche cene notturne, incontri riservati, mediatori che garantiscono l’affidabilità del candidato, e così via fino ai dossier, alle indagini mirate, alle intercettazioni e ai trojan… Insomma una vitaccia !

Questo per dire che il “quadro sconcertante e inaccettabile” denunciato dal presidente Mattarella ha radici profonde, e che non è tutta colpa del ruolo nefasto esercitato dalle correnti, o delle interferenze “politiche” che inquinerebbero la scelta dei dirigenti. Quello che oggi ci propongono i giornaloni – e i magistrati non azzittiti dall’imbarazzo – è uno scenario francamente di comodo. Le correnti da tempo non esistono più: più o meno come la politica e i partiti politici, sono semplici etichette dietro le quali si celano i vari “signori della guerra”. Sono loro a dettare legge, a tessere alleanze trasversali e a ordire guerre trasversali. Gettare la croce sul Palamara di turno è un’operazione di costruzione del capro espiatorio, mirante a occultare le vere ragioni di una deriva, che usa certi valori forti come paravento “nobile” di pratiche che non lo sono affatto.

Prendiamo il caso della separazione delle carriere. È l’incubo della corporazione e, per scongiurarlo, si fa uso (e abuso) dei valori forti dell’“autonomia” e dell’“indipendenza”, che dovunque nel mondo tutelano la funzione del giudice, e non anche del pm. Poco male, se non fosse che la cosa provoca danni, dal momento che l’Italia è grosso modo l’unica democrazia occidentale in cui un organo intriso di “politicità” come la Procura non ha, né direttamente né indirettamente, responsabilità politica.

Si noti che le cene e tutte la manfrine venute fuori in questi giorni riguardano quasi esclusivamente le nomine delle Procure. La cosa è in qualche modo “naturale”, dato il loro carattere “politico”. E sarà sempre così, qualsiasi riforma venga fatta. L’importante sarebbe che queste tensioni non si riverberino anche sull’organo che dovrebbe garantire l’autonomia e l’indipendenza del giudice – questo sì un valore sacro della democrazia e della separazione dei poteri – e che oggi è, invece, quello stesso Csm che nomina i pm.

A parte ciò, la cosa che davvero non va nella magistratura è quella sua cultura autoreferenziale che tende a identificare sempre di più la giurisdizione e la stessa giustizia come una “cosa loro”, da gestire secondo logiche opache e senza alcun obbligo di renderne conto ai cittadini e alle altre istituzioni. Un eccesso di “chiusura”, piuttosto che di nefaste influenze esterne. Lo si vede anche nei processi: le decisioni che i giudici assumono sono per lo più incomprensibili, sembrano rispondere a logiche burocratiche che spesso hanno poco a che fare con il fatto reale sul quale dovrebbero pronunciarsi.

Quello che non va, secondo me, è l’incapacità della magistratura di essere davvero giusta, nel senso comune del termine, prodiga com’è di lezioni morali nei confronti di tutti gli altri (nei provvedimenti, nelle conferenze stampa, nelle dichiarazioni pubbliche), ma singolarmente priva di senso morale per ciò che concerne la sua propria attività e le sue carriere.

C’è dunque bisogno di riforme radicali, certamente, ma è indispensabile anche una rivoluzione culturale: occorre anche un salto di qualità nell’idea che i magistrati hanno di sé e del loro ruolo. Chissà che un primo passo in questa direzione non possa essere il coming out degli attuali dirigenti degli uffici giudiziari, che rivelasse se e quali cene, incontri o contatti, abbiano preceduto la loro nomina. Un’iniziativa di certo irrituale, ma forte: un segno di discontinuità con il passato.

Il rischio che altrimenti si corre è che una fredda e lucida analisi costi/benefici dimostri alla fine che l’autonomia e l’indipendenza di una magistratura così chiusa e gelosa delle sue prerogative, attenta agli equilibri interni ma sostanzialmente ingiusta nelle sue decisioni, rappresenti un danno, e non una garanzia, per i cittadini.

Mail Box

 

Salvini riscuote consensi per la mediocrità degli elettori

In un dibattito su La7, Mieli, Pansa e Sgarbi sostenevano che Salvini è forte, furbo e intelligente. Dissento assolutamente. Secondo me, il ministro è di intelligenza media, non è colto e forte, ed è mediamente furbo. Ecco perché riceve consensi. La sua mediocrità incontra quella di tanti italiani che non pensano modi utili per uscire dalla crisi, ma solo al proprio orticello che vogliono rigoglioso, magari continuando a evadere il fisco (tanto ci sono i condoni). Bisogna fare attenzione, uno di questi “furbetti” ce lo siamo sciroppati per vent’anni. La storia, soprattutto per chi non la conosce o non l’ha vissuta, insegna poco o niente.

Laura Matteini

 

Olimpiadi? Piuttosto si pensi alla ricostruzione in Abruzzo

Cari politici, invece di pensare alle Olimpiadi, ricordatevi che L’Aquila e l’Abruzzo sono in ginocchio da dieci anni. La ricostruzione l’avete trasformata in una corsa a ostacoli e lo sport olimpionico degli abruzzesi consiste in un salto in lungo per la loro stessa sopravvivenza.

Michel Giuntini

 

Politici sui social: l’incubo più grande è perdere i like

Sapete qual è la più grande paura di un politico da social network?

Scandali finanziari? Sottosegretari indagati? Pfui! La sua vera fobia è non prendere like sul suo post felpato, o nessuna condivisione con la merenda delle undici.

Per un partito che spende centinaia di migliaia di euro sui social, un calo nei “Mi piace” sarebbe peggio di una pioggia di avvisi di garanzia.

Salvatore L. Marras

 

Diritto di replica

La lettera di Alessandro Colombera da voi pubblicata il 22 giugno e relativa al nostro castello di Grumello a Montagna in Valtellina contiene una serie di malevole inesattezze, molte delle quali riscontrabili sul sito web della nostra Fondazione. Il castello, donato al Fai negli anni ’90 dalla Società Enologica Valtellinese in stato di collasso, è stato restaurato dalla Fondazione in piena collaborazione con le Soprintendenze e con un investimento pari a 760 mila euro reperiti da molti generosi privati e aziende; è regolarmente aperto al pubblico dal 2001 senza pagamento di biglietto, ma a contributo libero. Si tratta di un raro esempio di castello gemino medievale e gli attrezzi agricoli per la manutenzione dei suoi spazi verdi sono da sempre custoditi alla base della torre militare che non è aperta al pubblico perché troppo piccola, senza copertura e priva di particolare interesse al suo interno; è invece aperta per riunioni e piccole mostre l’unica sala coperta di tutto il complesso, che si trova nel castello civile. La proprietà è stata cintata per evitare che il castello continuasse a essere, come prima della donazione, luogo di incontri equivoci notturni, spaccio e uso di stupefacenti et similia. Sarebbe interessante che il vostro lettore ci inviasse le foto dei rovi e delle erbacce da lui rilevate in modo da capire di cosa parla; è per altro la prima segnalazione del genere in 18 anni di regolare apertura al pubblico. In quanto al “torneo medievale da luna park” citato nella lettera, si è trattato di un limitato evento in costume organizzato in una domenica pomeriggio dai volonterosi giovani della delegazione Fai di Sondrio e con ingresso a contributo libero; una rievocazione storica dedicata ad antichi usi e mestieri per un pubblico di famiglie con ragazzi e organizzata assieme al gruppo “Lo scrigno del tempo”, la cui affidabile attività è visibile sul loro profilo Facebook. Quanto alla scontata risposta di Tomaso Montanari (la cui preconcetta poca simpatia per il Fai conosco da tempo) faccio solo presente che ai tempi di Giorgio Bassani l’articolo 118 della costituzione, che invita gli enti pubblici a favorire il ruolo sussidiario (non sostitutivo Tomaso!) dei privati, singoli o associati per lo svolgimento di attività di interesse generale, non era ancora stato scritto. Ritengo anzi che si debba in buona parte anche al grande ruolo sussidiario di Italia Nostra, dalla cui costola nacque nel 1975 il Fai, se quell’articolo è entrato nella carta costituzionale con la riforma del titolo V del 2001.

Marco Magnifico, vice presidente esecutivo del Fai

 

Caro Marco Magnifico, personalmente giudico profondamente sbagliata la riforma del Titolo V del 2001, imposta a maggioranza dal centrosinistra e confermata da un referendum. È lì, ricordo, che parte il treno che oggi minaccia di travolgere (con l’attuazione dell’autonomia differenziata pretesa oggi da Matteo Salvini) l’esistenza stessa dello Stato italiano. La sussidiarietà è solo uno dei tanti (pessimi) strumenti con cui si è divelta la presenza dello Stato: il risultato è un ritorno all’antico regime in cui, anche per provare a salvare qualcosa del patrimonio culturale, dobbiamo raccomandarci alla benevolenza di ricchi signori dai molti cognomi e dai ricchi appannaggi. Come rispose Isaiah Berlin quando gli chiesero cosa pensasse della morte, mi limito a ripetere “sono contrario”.

Tomaso Montanari

Berlinguer “La sua moralità non si tocca” “Vada a chiedere a chi ha ‘subìto’ i comunisti”

 

Sul Fatto del 21 giugno, Massimo Fini parlava della dimenticanza morale di Berlinguer, mettendo sullo stesso piano il Pci con Dc e Psi: “Berlinguer, dopo aver parlato della questione morale, dimenticava di essere parte integrante della partitocrazia di cui denunciava il clientelismo e la corruzione a cui partecipava come tutte le altre formazioni politiche”. Questo è assolutamente falso: ci dica in quale circostanza alti dirigenti del Pci sono stati coinvolti in atti di corruzione. Abbiamo avuto Pio La Torre ucciso dalla mafia che era il fulcro della corruzione. Per giustificare questo anticomunismo viscerale parlava poi dei soldi che Urss e Usa elargivano a Pci e Dc. Ebbene quei soldi erano a bilancio nel Pci, ma nella Dc non figuravano. Ma secondo Fini i soldi al Pci potevano considerarsi alto tradimento. Quale? Se oggi Fini è libero di scrivere lo deve all’alleanza fra Urss, Usa, Inghilterra e altri migliaia e migliaia di partigiani italiani e francesi, la maggioranza comunisti. L’Urss ha dato 20 milioni di morti fra civili e militari contro il nazifascismo. Togliatti anche con 5 pallottole sul corpo disse: “Abbiamo scelto la via parlamentare, se vinceremo governeremo, altrimenti opposizione”. Il Pci ha governato nella legalità grandi regioni – Emilia Romagna, Umbria, Toscana, dove dai Paesi nordici venivano a copiarci i sistemi sociali funzionanti come la scuola e il vivere comunitario. Fini chiude il suo articolo con Zingaretti, dicendo che è figlio del Pci partitocratico e clientelare e non può perciò che essere accusato di proseguirne, sia pur con qualche resistenza, se non la politica certamente la stessa immorale moralità. Il suo paragone è fortemente offensivo nei confronti di chi ha lottato in questo Paese per l’equità, la giustizia, contro il malaffare, per la difesa dei più deboli. Potrei essere d’accordo con Lei sulla conduzione politica del partito dopo la morte di Berlinguer. Ma per cortesia, non metta brave e oneste persone insieme ai ladroni di Stato, alla mafia, al malaffare.

Roberto Ghisotti

 

Se lei avesse vissuto, poniamo, a Piacenza o a Parma senza essere un comunista avrebbe capito che la politica clientelare del Pci non solo non era diversa da quella degli altri partiti, ma era ancora più cogente. E proprio questo ha favorito Silvio Berlusconi che si è inventato un pericolo comunista che non esisteva più ma ha fatto leva sull’esasperazione di chi i comunisti, soprattutto in campo culturale, li aveva subiti. Quanto a me, o piuttosto alla mia famiglia, mio padre è stato in esilio a Parigi quindici anni per non sottomettersi al fascismo e mia madre ha dovuto fuggire dalla Russia per sottrarsi alle purghe di quell’anima gentile di Stalin di cui i dirigenti comunisti che lei elogia (non i militanti che erano in buona fede) conoscevano le nefandezze. Infine la guerra, mi pare, è finita da 75 anni e io mi sono stufato di queste polemiche catacombali. Preferisco guardare a quello che succede oggi e non mi pare che gli americani, i francesi (che tra l’altro la resistenza non la fecero affatto) e anche gli odierni russi siano delle anime candide.

Massimo Fini

Privacy e agcom da spartire assieme

Nove poltrone in palio, quattro per l’Autorità della Privacy, cinque per l’Autorità delle Comunicazioni (Agcom). Il Parlamento chiamato a designare otto membri (il capo dell’Agcom spetta al Cdm/premier), non se l’è sentita di fare mezza spartizione, come previsto dal calendario, e cioè di nominare soltanto il nuovo vertice della Privacy, dopo che il vecchio è scaduto una settimana fa. Allora ieri, dopo il Senato, anche i capigruppo della Camera hanno deliberato il rinvio a luglio, cercando di avvicinare il più possibile l’evento della Privacy a quello per l’Agcom, così da controllare meglio gli equilibri del patto tra partiti. Secondo le logiche dei gialloverdi, il Garante della Privacy andrà ai Cinque Stelle, mentre il presidente dell’Agcom ai leghisti, carica che volendo possono condividere con l’alleato locale di Forza Italia. Una rappresentanza, ovvio, va data anche alle opposizioni. Dunque non c’è fretta di ridare nuova linfa alle Autorità che sono tecnicamente indipendenti, ma che sono da sempre terreno di spartizione della politica perché la selezione – con o senza candidature – viene fatta nelle segreterie dei partiti e non utilizzando criteri oggettivi. Più prossimità che merito.

Resta il nodo della vendita di quelle leggere

La mozione, presentata da Lega e M5s, e approvata ieri alla Camera chiede all’esecutivo di “adottare gli atti necessari a sospendere le esportazioni di bombe d’aereo e missili” verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi, a capo della coalizione che combatte contro i ribelli Houthi in Yemen. Una richiesta che, se venisse recepita, metterebbe fine alla maxi commessa Rwm da 411 milioni di euro firmata dal governo Renzi e destinata a consegnare a Riyad circa 20mila bombe.

Oltre allo stop all’export di bombe e missili verso le due potenze del Golfo, nel testo approvato a Montecitorio si chiede anche uno sforzo all’Unione europea nel “valutare l’avvio e la realizzazione di iniziative finalizzate alla futura adozione di un embargo mirato sulla vendita di armamenti” ai due Paesi. Un primo passo, compiuto anche da altri membri europei, ultima la Gran Bretagna, per dare il via a una politica condivisa tra tutti gli Stati membri dell’Ue.

Ma se lo stop chiesto da Lega e Movimento 5 Stelle impedirà a bombe e missili Made in Italy di colpire i civili in Yemen, rimangono fuori dalle richieste al governo i mezzi militari (compresi elicotteri e aerei da guerra che, in Italia, sono prodotti anche da Leonardo) e di armi leggere (comprese armi d’assalto e fucili mitragliatori).

Proprio le armi leggere sono al centro di un’autorizzazione rilasciata dal governo Conte. Secondo i dati forniti dall’Istat sull’export dall’Italia, emerge che nel 2018, per la prima volta dal 1990, la fabbrica d’armi Pietro Beretta ha ricevuto un pagamento di circa 2,8 milioni di euro per esportazioni verso l’Arabia Saudita. Inoltre, il ministero degli Affari Esteri, nella sua relazione sulle autorizzazioni, mostra che degli oltre 13 milioni di euro verso Riyad alcuni si riferiscono a dei via libera alla vendita di armi leggere. “Con tali cifre – spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere (Opal Brescia) – si può affermare che si tratta di una commessa da un ente governativo, e non di tipo sportivo. È la prima autorizzazione alla vendita di armi leggere dall’Italia all’Arabia Saudita dal 1990, se si escludono esportazioni da poche decine di migliaia di euro che, visti i quantitativi esigui, potrebbero tranquillamente riguardare armi ad uso sportivo”. L’ultimo pagamento da oltre 2,8 milioni di euro, invece, non può riferirsi a un’esportazione di questo tipo perché, continua Beretta, nessun ente sportivo effettua ordini di tale portata in Arabia Saudita.

A confermare che l’autorizzazione sia stata rilasciata dal governo Conte c’è il numero di riferimento visibile sulla relazione del Mef sulle “Esportazioni definitive per Nazioni” nel 2018: se si legge la parte relativa all’export verso l’Arabia Saudita, e si prendono in considerazione solo i pagamenti verso la Pietro Beretta, si vedrà che questi si riferiscono all’autorizzazione numero 72.405. “Considerando che i numeri delle autorizzazioni per l’esportazione di materiali militari rilasciate dal Maeci (Uama) sono progressivi – spiega Beretta -, si tratta con ogni evidenza di un via libera riferibile solo alla seconda metà del 2018”. Ovvero, quando il governo Conte era già in carica. C’è quindi un’autorizzazione per la vendita di armi leggere rilasciata da Uama alla Pietro Beretta che potrebbe non essersi esaurita con l’esportazione per 2,8 milioni e che non potrà in alcun modo essere fermata da un’eventuale applicazione del governo della mozione appena approvata.

Embargo sulle armi ai sauditi: la Camera approva la mozione

È già in corso una riflessione politica nel governo su come mettere in pratica la mozione di M5S e Lega, approvata ieri dal Parlamento, per chiedere di sospendere le esportazioni di bombe d’aereo e missili, che possono essere usate contro i civili, verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, finché non ci saranno sviluppi concreti nel processo di pace con lo Yemen. Dopo la Germania, la Danimarca, la Finlandia, la Norvegia e i Paesi Bassi, dunque, anche l’Italia si prepara a bloccare le esportazioni di alcuni tipi di armi. LeU e Pd chiedevano che fossero bloccati tutti i tipi di armamenti.

Passata con 262 voti favorevoli (tra cui anche alcuni del Pd) nessun contrario e 214 astensioni, la mozione chiede di “valutare l’avvio e la realizzazione di iniziative finalizzate alla futura adozione, da parte dell’Unione europea, di un embargo mirato”. E poi si chiede di proseguire l’azione per l’immediato cessate il fuoco nello Yemen continuando a sostenere l’iniziativa dell’inviato speciale dell’Onu, Martin Griffiths.

Erano state presentate altre quattro mozioni da parte di Leu, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Tutte respinte. E se la capogruppo del Pd in Commissione Esteri, Lia Quartapelle parla di “un grande passo in avanti, di un asse comune, in nome dei diritti umani”, Ivan Scalfarotto definisce “vergognoso” il testo.

La mozione lascia una serie di questioni aperte, che andranno sciolte dal governo. Con uno strumento in più, come sottolinea il sottosegretario agli Esteri M5S, Manlio Di Stefano: “Finalmente arriva un mandato politico preciso e coraggioso”. Molte delle difficoltà derivano dalla legge 185/90, che regola il commercio delle armi. Una legislazione piena di buchi che, tra le altre cose, non lascia la discrezionalità politica delle scelte all’esecutivo, come avviene in altri paesi (per esempio in Francia). La presa di posizione parlamentare ha un peso specifico non indifferente. Al centro delle discussioni ci sono le bombe aeree prodotte dalla Rwm Italia di Domusnovas. “Confidiamo – sottolinea parlando di queste ultime il senatore M5S Gianluca Ferrara – che la mozione porti all’immediato stop di queste forniture militari, autorizzate nel 2016 dal governo Renzi. Non è così pacifico: perché mentre per i 5 Stelle si tratta di una battaglia storica, Guglielmo Picchi, sottosegretario della Lega (che alla 185 ha la delega) ci tiene a dire: “Le commesse esistenti sono ancora in piedi”. Anche questo, però, è tutto da valutare.

L’ultima parola è alla Farnesina, che potrebbe agire sulle basi del Trattato internazionale sul commercio degli armamenti del 2014 e la posizione comune dell’Europa nel 2008. Per mettere al bando le bombe aeree potrebbe forse addirittura bastare un atto amministrativo del ministro e direttore dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), Francesco Azzarello. Ma in realtà serve la volontà politica del ministro degli Esteri, Moavero e di tutta la Farnesina. Intanto è stata espressa soddisfazione nel mondo della cooperazione umanitaria, da Save the Children a Oxfam, secondo cui tuttavia sarebbe più efficace sospendere l’export di tutto il materiale militare.