Castaldo: “Potremo fare un gruppo in Ue anche in seguito”

L’ultimo vero sondaggio il Movimento lo ha fatto con il Gue, il gruppo della sinistra nel Parlamento europeo di cui fanno parte gli spagnoli di Podemos e i greci di Siryza. Ma la trattativa per ora si è arenata e allora il 5Stelle Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento di Bruxelles, prende tempo: “Mica è detto che se uno non riesce a fare un gruppo subito, non lo possa fare anche nei prossimi mesi”. Tradotto, il M5S spera ancora di creare un proprio gruppo in Europa, anche se i tentativi portati avanti negli ultimi mesi sono naufragati con il voto del 26 maggio. Perché dei possibili alleati in Ue del Movimento, solo i croati di Zivi Zid hanno eletto un loro candidato, mentre per costruire un gruppo servono almeno 25 eletti di sette nazionalità diverse. Così i 14 eletti del M5S ora stanno cercando una casa, cioè di entrare in un gruppo, e da qui nascono le trattative con il Gue. Difficili, perché il Movimento in Italia è pur sempre alleato con la Lega, un partito che in Ue è considerato di estrema destra. Nell’attesa, Castaldo prova a vedere positivo: “Vedremo le occasioni che ci saranno, comunque, in ogni caso, restiamo aperti alle opportunità che si dovessero presentare, come sempre abbiamo fatto”.

La “Betlemme” 5S che ha perso il cuore e la testa del Movimento

Come se un uragano avesse scoperchiato la casa, divelto i mobili, fatto volare via gli inquilini. Bologna, il luogo in cui tutto nacque. Il luogo di quell’8 settembre del 2007, del famigerato, visionario, ciclopico Vaffa Day, insieme vendetta e vaffanculo, proposta e protesta, ora è un campo desertificato, asfittico. La casa dei grillini, cioè Internet, pare disabitata. Il sito bolognese dei pentastellati che si immagina zeppo di post e di commenti, di casini, di accuse, è un freezer. L’ultimo scritto è di Marco Piazza, uno dei tre consiglieri comunali, ed è del 12 febbraio scorso. Il penultimo intervento è dell’11 gennaio, ed è sempre lui a scriverlo. Il terzultimo è ancora di Marco Piazza, anno domini 2018. Zero commenti, zero iniziative. Max Bugani, la star bolognese, candidato a sindaco, è rintracciabile per un suo ricordo da bimbo. Data: 22 novembre del 2010. Racconta come gli apparve Beppe Grillo. Lui, cioè Max, aveva otto anni e il suo babbo gli fece ascoltare un’audiocassetta del comico. La scintilla scoccò in quel preciso momento e divenne “Amore”, virgolette e maiuscolo sono dell’autore.

Bugani, incravattato e plurinominato (consigliere comunale ma anche socio della piattaforma Rousseau e vice capo della segreteria particolare di Di Maio) non risponde a telefono, né ai messaggi. Impegnatissimo, fortissimo, con un’agenda pienissima di cose da fare. Lo sanno quasi tutti: parlare con Max è diventato difficile. Se non si è in grande confidenza poi… Amen. Bologna è comunque l’esatto punto geografico dove la sberla delle Europee si è fatta sentire di più, dove le posizioni perse a favore della Lega sono state il prezzo più salato da consegnare all’alleanza di governo. Dora Palumbo, consigliere comunale, scelse di andarsene un minuto dopo: “Ho votato contro quell’alleanza, ho perso e sono uscita. Per me era inconcepibile anche solo ipotizzare un governo con i leghisti dei quali conoscevamo la cifra culturale e politica. Bisognava rifiutare ad ogni costo e spiegare agli italiani che non potevamo andare con quelli là. E invece no. Allora ho scelto di dimettermi dal gruppo consiliare, e credo di aver fatto la cosa giusta. Pochi giorni fa Toninelli è venuto a dire alla base qui, proprio qui, che il passante di Bologna si farà. Il No al passante è stato l’elemento qualificante delle nostre campagne, un No grande quanto un’autostrada. Non ho alcun rimorso, ho fatto bene a dire ciao e cambiare strada”.

Tutto partì da Bologna: limite dei due mandati ai parlamentari, no agli inquisiti, figurarsi ai condannati. Cemento zero, rifiuti zero, ambientalismo spinto. Fu Bologna che fece conoscere il movimento a personaggi popolari. Fu grazie al VDay che Fiorella Mannoia e Ligabue, due influenti nomi dello spettacolo, fecero da apripista tra i giovani e giovanissimi. Ma ora? “Il nostro problema è la capacità di interpretare le esigenze del nostro popolo”, dice Silvia Piccinini, consigliere regionale. “Quando sei al governo divieni titolare di una delega. E come ti comporti? Come la assolvi? Chi chiami? Chi ascolti? Quali decisioni prendi? La nostra confusione, che poi si riflette nella caduta dei consensi, è di non aver saputo mantenere una rete di protezione, un collegamento costante con il cuore dei militanti, con la base. Il movimento è nato orizzontale: eravamo tutti dappertutto. Tutti insieme. Tutti sempre. Il governo ti costringe alla solitudine: a volte ci azzecchi, a volte non ci azzecchi. Ma quando stai per sbagliare e non c’è nessuno che ti tira la giacchetta, allora l’errore pesa di più e provoca più danni”.

Bologna doveva dare l’esempio all’Italia, il motore dei Cinquestelle ora invece è il deserto. Di Bologna è Giulia Sarti, deputata della prima ora, molto amata e anche molto accreditata. Fino a quando una storia di foto e di soldi, il cerchio tragico del potere romano, ne ha divelto la reputazione e costretta ad emigrare verso la terra di nessuno: autosospesa. Quel che più colpisce è che su Facebook, dove la Sarti si è fatta vedere l’ultima volta il 25 aprile scorso, anche i commenti sono svogliati, anche l’ira funesta è un ricordo, i contrasti sbiaditi, i veleni perduti. “A me nei primi giorni successe che i carabinieri dovettero presidiare la casa, tanto era la furia della base che Grillo aveva scatenato contro di me”. Giovanni Favia, oggi ristoratore, è stato il primo espulso eccellente, il primo “traditore” eccellente, il primo eletto e subito tranciato. “Quando io prendevo diecimila voti di preferenza, a Napoli Fico raggiungeva a stento l’un per cento. Di Maio non so. Per dire che qui c’era tutto: la testa e il cuore del movimento”.

La testa e il cuore. “Se fai le cose bisogna che poi le dici, le spieghi bene. Altrimenti è come se non fossero fatte, come se nessuno avesse capito granché”. Manuela Sangiorgi, sindaca di Imola dall’anno scorso, è convinta che si possa resistere e anche avanzare, riallineando i fatti con le opinioni ma soprattutto i social manager alle istituzioni. “Dire, comunicare. Spiegare bene. Certo, alcuni errori potevano evitarsi. Alcuni doppi incarichi per esempio…”.

Bologna la dotta, la grassa e ora, per scorno che sia, la verde padana. La Lega ha già carica la pistola fumante: portare Lucia Borgonzoni, la sottosegretaria alla Cultura che non legge libri, alla poltrona di presidente della Regione e completare il lavoro già iniziato a Forli e Ravenna con altri due sindaci padani.

E i Cinquestelle? Ecco Favia: “I penta stars? Credete che siano morti, vero? E invece il 17 per cento non è affatto un cattivo risultato. Hanno il vantaggio competitivo di non avere un gancio ideologico, una visione delle cose. Possono dire a e poi b. Sono totalmente spregiudicati. La gente non ha memoria e, visto quel che offre il mercato, non mi stupirei se alle prossime elezioni riprendessero a salire. Li conosco troppo bene, e ho avuto la fortuna di conoscere Gianroberto Casaleggio, che analizzava i gusti e gli umori degli italiani. Così lievi, così ballerini, così immorali”.

Madamine in piazza per un flash mob pro Tav e pro Giochi

Fuori tempo massimouna cinquantina di torinesi esponenti di diversi comitati civici tra cui “Sì Torino va avanti” e “Sì Tav Sì Lavoro” si sono dati appuntamento ieri sera sotto Palazzo Civico per un flash mob promosso all’indomani dell’assegnazione dei Giochi olimpici invernali del 2026 a Milano e Cortina. “Manifestiamo la non indifferenza della città e dei cittadini di fronte a una partita che l’amministrazione comunale non ha voluto giocare”, sottolineano le madamine in piazza con cartelli e bandiere a cinque cerchi facendo riferimento alla mancata partecipazione del capoluogo piemontese alla candidatura.

“Non siamo qui per chiedere le dimissioni della sindaca ma per far sentire la voce dei torinesi che vogliono essere protagonisti dello sviluppo del territorio – aggiungono – ora che le Olimpiadi sono state assegnate altrove, è necessario lavorare tutti insieme su altri progetti che Torino ha capacità e professionalità per sviluppare, come automotive, aerospazio, nuovi investimenti, infrastrutture. Torino vuole di più, non ci accontentiamo di piccoli sì”.

Altro che “costo zero”: i veri dati su Roma 2024

Con l’assegnazione delle Olimpiadi invernali 2026 a Milano e Cortina torna a levarsi il coro di chi sostiene che i Giochi del 2024 a Roma sarebbero stati una grande occasione per la rinascita della città. Complici le difficoltà della giunta di Virginia Raggi in tema di mobilità, decoro e rifiuti, la disputa è tornata attuale vista l’impossibilità di imprenditori, parte della classe politica e dei media – a partire dal Messaggero che parla di “occasione persa da 3 miliardi” e “giochi a costo zero” – a uscire dal modello di sviluppo legato al cemento che da anni ingessa la Capitale.

Se i Giochi del 1960 furono una grande occasione per ridisegnare l’urbanistica romana è difficile dire altrettanto del dossier preparato dal Coni per la candidatura del 2024, poi bocciato dalla giunta Raggi a settembre 2016. Perché gli impianti sportivi e le infrastrutture di trasporto realizzati per l’unica edizione italiana delle Olimpiadi estive contribuirono a fare di Roma un città più moderna mentre il programma preparato per il 2024 dava l’impressione di parlare soprattutto agli interessi degli imprenditori cittadini del mattone.

Ecco allora che torna utile ripassare le cifre del documento presentato dal comitato organizzatore a febbraio 2016. Uno studio appositamente realizzato dall’Università di Tor Vergata parlava di 5,6 miliardi di euro di costi per realizzare impianti sportivi, villaggio olimpico, media center, strade, ferrovie e strutture logistiche. In sede di presentazione, il Coni sostenne che il budget era low cost rivisto a 5,3 miliardi di euro di cui si contava di coprirne 3,2 tra contributo del Cio, merchandising, sponsor e vendita dei biglietti. Al resto avrebbe dovuto provvedere il governo italiano (in media i costi iniziali delle olimpiadi lievitano del 185%). Impatto stimato in termini di lavoro in 48 mila nuovi occupati in 6 anni.

Un fiume di soldi da riversare sulla città, se si considera che l’ultima grande opera pubblica realizzata a Roma, la Metro C, è costata finora poco più di 3 miliardi, con costi lievitati mentre il cantiere è ancora aperto dopo 12 anni. Risorse che sarebbero servite per completare l’avveniristica Città dello Sport – un palazzetto per il nuoto, basket, volley e tennis disegnato da Santiago Calatrava – avviata nel 2007 per ospitare i Mondiali di Nuoto del 2009, costata finora circa 250 milioni di euro e mai completata perché ne servirebbero altrettanti. Allora i lavori per la struttura erano stati affidati dall’Università di Tor Vergata, proprietaria dell’area, alla ditta Vianini del gruppo Caltagirone, editore del Messaggero. Per completarla sarebbe stato cambiato costruttore? Ironia della sorte a guidare il Comitato per i Mondiali di Nuoto c’era, immancabile, Giovanni Malagò.

Altra centralità su cui puntava il progetto olimpico era quella della Fiera di Roma, realizzata dal gruppo Lamaro dei fratelli Toti, per ospitare boxe, arti marziali e gare acquatiche. Inaugurata nel 2006, da oltre un decennio è alle prese con problemi di debiti, scarsa affluenza di visitatori e padiglioni che letteralmente sprofondano vista la subsidenza del terreno. Senza contare il rischio di realizzare un bacino artificiale per gli sport acquatici non lontano dall’aeroporto di Fiumicino.

Per il Villaggio Olimpico invece era stata scelta sempre la zona di Tor Vergata dove realizzare 17.000 posti letto in 4.250 appartamenti, che al termine dei giochi sarebbero stati destinati all’ateneo. Il tutto in un’area dove il Piano Regolatore non prevede nuove centralità abitative di quel tipo.

Bob, pattinaggio e sicurezza Il Cio preoccupato dai conti

Olimpiadi economiche, efficienti, a prova di sprechi. Da Sala a Zaia, da Malagò a Giorgetti lo promettono tutti in coro, anche se in passato non è quasi mai successo. Col passato però c’è una grossa differenza: le nuove regole del Comitato internazionale, la cosiddetta “Agenda 2020”, che per far fronte alla fuga di candidati oggi permettono progetti low cost, con recupero di vecchi impianti e abbattimento di costi. Ed è quello che ha fatto Milano-Cortina: delle 14 sedi di gara, 13 sono già esistenti e una sola andrà costruita ex novo (da privati). È così che si sono potuti contenere gli investimenti pubblici a soli 230 milioni di euro, senza apparenti rischi di aumenti: meno c’è da fare, meno c’è la possibilità che i costi salgano. In teoria. In realtà le insidie sono tante: persino il Cio parla di “costi sottostimati” in un paio di casi.

L’Agenda 2020 è una grande novità per i Paesi organizzatori, ma che funzioni davvero è ancora tutto da dimostrare: è stata approvata a fine 2014, la prima edizione basata sulle nuove regole sarà Parigi 2024 (proprio quella che sarebbe dovuta andare a Roma). Per verificarne gli effetti positivi bisognerà aspettare almeno 5 anni. Nonostante tutta questa parsimonia, il dossier italiano presenta almeno un punto debole evidente: la pista di bob Eugenio Monti di Cortina ’56, esistente ma, abbandonata da anni, è da rifare. Per riattivarla ci vorranno addirittura 47 milioni (uno dei costi maggiori) e potrebbero non bastare.

“L’investimento è considerevolmente sotto stimato”, potrebbero volerci molti più soldi, il “modello di gestione futura necessita approfondimenti”: sono parole del Cio, non dei soliti “gufi”. Infatti la commissione suggeriva di utilizzare un impianto all’estero (come avrebbe fatto la Svezia, in Lettonia), magari St. Moritz, ma Cortina e il Veneto si sono impuntati. Il rischio di un nuovo salasso, come fu Cesana per Torino 2006, è concreto: anche perché la disciplina non ha seguito in Italia, il futuro è un’incognita. Come per lo stadio di pattinaggio di Piné (Trento), da oltre 30 milioni: oggi la Regione se lo può permettere, quando diventerà una mega-arena i costi di gestione saranno più alti. Quello dei Giochi che passano e gli impianti troppo grandi che restano è uno dei classici problemi olimpici. Nemmeno aver deciso di spalmare la manifestazione aiuta: i villaggi olimpici da costruire sono diventati addirittura tre. Moltiplicando le opere si moltiplicano i rischi.

Poi c’è la sicurezza. È una spesa fuori dal conto di 1,3 miliardi, costo totale dell’evento. Il governo si è impegnato a farsene carico (con la possibilità di rivalersi sulle Regioni in caso in cui le uscite superassero le entrate): le stime del ministero parlano di 400 milioni. Proprio la sicurezza è una di quelle voci che in passato ha fatto schizzare alle stelle i costi: per Pyeongchang 2018 se n’è andato oltre un miliardo, a Londra 2012 il budget fu esattamente raddoppiato (alla fine 600 milioni), anche Vancouver nel 2010 ebbe grossi problemi per la vicinanza agli Stati Uniti (circa 750 milioni, cinque volte in più del previsto). Una variabile impazzita, che dipende dal contesto internazionale e dal periodo storico.

Ammesso che il budget venga rispettato, l’ultimo ostacolo sarà concludere in tempo i lavori. Purtroppo l’Italia ha una lunga tradizione di ritardi. Le Universiadi che partiranno a Napoli la settimana prossima sono state un’angosciante corsa contro il tempo (non per colpa del Coni, che non ha avuto ruoli). Per i mondiali di sci di Cortina 2021, gustoso antipasto dei Giochi, si era partiti per tempo, con poteri commissariali e ben 4 anni di anticipo, eppure i ritardi sono già conclamati (specie per i lavori stradali in capo a Anas). Il governo ha appena approvato una deroga che sposta il termine di consegna ad appena una settimana dall’evento. Quanto alla mobilità, il dossier non prevede interventi ma si basa su quelli programmati: alta velocità Milano-Venezia, pedemontana, statale Alemagna. Dipende da governo ed enti locali: auguri.

Commissione banche, Pd e Forza Italia non fanno partire i lavori

“Apprendiamo con sconcerto che alcuni partiti, in particolare Pd e Forza Italia, non hanno ancora indicato i loro componenti della Commissione d’inchiesta sulle banche”. L’attacco arriva dai senatori del Movimento 5 Stelle. La nuova commissione parlamentare di inchiesta sulle banche è stata istituita da una legge approvata lo scorso 26 febbraio con un voto quasi unanime della Camera. Dovrebbe occuparsi – tra le altre cose – di analizzare i profili di gestione degli enti creditizi, studiare le condizioni per l’istituzione di una procura nazionale per i reati bancari e finanziari, i profili di incompatibilità e conflitto d’interessi delle autorità di vigilanza. E poi fare chiarezza sulle responsabilità nelle recenti crisi che hanno penalizzato centinaia di migliaia di risparmiatori. I lavori però nono sono ancora partiti: finché Pd e Forza Italia non indicano i propri componenti non possono cominciare. Per questo i Cinque Stelle ieri sono tornati alla carica: “Non vogliamo pensare che questi partiti abbiano paura di fare la dovuta chiarezza – ha detto la senatrice grillina Laura Bottici –. È arrivato il momento di assumersi le proprie responsabilità”

Riconteggi: ai gialloverdi due senatori in più

Eora chi glielo dice a Edoardo Patriarca del Pd che deve andarsene davvero? Il padre del Terzo settore, infatti, perderà il seggio in Parlamento, dove l’altro giorno aveva simbolicamente abbandonato i lavori della commissione Lavoro riunita sulla questione del salario minimo.

Ora invece sarà messo alla porta del Senato sul serio e per di più grazie al voto dei suoi stessi compagni di partito. Perché ieri la Giunta per le elezioni presieduta da Maurizio Gasparri ha deciso all’unanimità che per oltre un anno ha calcato abusivamente, si fa per dire, i tappeti di Palazzo Madama. Quando invece il 4 marzo del 2018 avrebbe dovuto essere eletto il suo acerrimo rivale della Lega, Stefano Corti con cui si erano sfidati all’ultimo voto nel collegio di Modena: dopo il riconteggio di migliaia di schede si è infatti scoperto che il seggio spetta, per 55 voti di differenza, all’esponente del Carroccio. Che dunque si assicurerà, all’esito della procedura di contestazione avviata, un senatore in più. Esattamente come il Movimento 5 Stelle. A cui la Giunta, questa volta a maggioranza, ha deciso di assegnare il seggio rimasto vacante in Sicilia dove i pentastellati avevano eletto tutti, ma proprio tutti, i candidati all’uninominale e al proporzionale. Ma si dovrà pescare tra i non eletti in un’altra circoscrizione.

Cosa che ha mandato letteralmente su tutte le furie Pietro Grasso che ha così commentato: “Lega e M5S calpestano l’art. 57 della Costituzione che stabilisce inequivocabilmente che l’elezione dei senatori è su base regionale per puntellare con un senatore in più la loro fragile maggioranza”. Mal di pancia, per giorni, pure tra i senatori grillini siciliani che pretendevano che il seggio rimanesse nell’isola, magari attingendo dalla lista dei supplenti. Questo prima che il costituzionalista della Bocconi Lorenzo Cuocolo, richiesto dai 5 Stelle di un parere pro veritate, sentenziasse che la strada non era praticabile. E che l’unico modo per non lasciare il Senato a composizione mutilata, ossia a 314 senatori, era applicare la legge elettorale, ma della Camera. Al di là dei pareri e delle leggi, per i 5 Stelle il rischio era quello di rimanere a bocca asciutta quando invece, pallottoliere alla mano, rinforzare i numeri della maggioranza al Senato, che attualmente tiene a fatica per 3 o 4 voti di scarto, è indispensabile come il pane. Specie dopo l’uscita di Paola Nugnes che ha detto addio al Movimento dopo una militanza decennale. Ma se Lega e 5 Stelle ridono, brinda pure Forza Italia. Che fa il colpo più grosso di tutti, sulla carta. Perché riesce a strappare il seggio nientemeno che a Matteo Salvini, eletto in Calabria e che ora dovrà slittare nel Lazio nel seggio che Cinzia Bonfrisco ha lasciato libero staccando un biglietto per il Parlamento europeo.

Ma che era successo nel collegio plurinominale Calabria 1? Un gran pasticcio stando ad esempio alle sezioni di Palmi 15 e Celico 3 dove erano stati attribuiti alla Lega il 100 per cento dei voti. Brogli? Pare di no: errori di trascrizione che il 4 marzo 2018 hanno penalizzato la candidata forzista Fulvia Michela Caligiuri. Che ora verrà ripagata della lunga attesa e del ricorso per ottenere giustizia. E soprattutto un posto al Senato.

Stipendi Rai: Fazio, Vespa e Conti resistono ai tagli

Sul taglio agli stipendi i volti noti della Rai fanno resistenza. E diversi sono i “no” alle proposte di ritocchi (del 20% circa) avanzate dall’azienda. Ma l’amministratore delegato Fabrizio Salini non demorde. Finora gli ha detto no Carlo Conti, il cui contratto è in via di rinnovo alla stessa cifra degli anni scorsi, ma gli hanno risposto picche pure Bruno Vespa e Fabio Fazio. Di fronte a queste resistenze, sarà poi difficile per l’ad andare a ottenere “sacrifici” da altri personaggi di primo piano. “Un tetto al compenso degli artisti non c’è e, in un sistema di libero mercato, non ha senso che ci sia. Ma all’interno di una politica generale di riduzione dei costi, chiederemo a tutti dei piccoli sacrifici”, aveva detto Salini qualche tempo fa in commissione di Vigilanza. Il problema è che, poi, le star rischiano di andarsene.

Prendiamo, per esempio, Carlo Conti. Al conduttore del Festival di Sanremo il contratto scadeva il 7 giugno scorso e circolavano voci su un possibile suo passaggio a Mediaset. E il conduttore aveva detto apertamente di non gradire sforbiciate: “Il mio compenso è stato già tagliato due volte negli ultimi due rinnovi, non mi sembra giusto continuare…”. Così è stato: per Conti il rinnovo arriverà alla stessa cifra, un milione e mezzo all’anno per i prossimi due.

Poi c’è Vespa. La trattativa è ancora in corso, ma anche nell’ultimo incontro, a inizio giugno, tra il vertice aziendale e l’avvocato del conduttore, sembra che il giornalista non sia intenzionato a fare passi indietro. Dice: “Mi sono scocciato che si parta sempre da me, stavolta inizino dagli altri e poi vengano da me”. Il compenso di Vespa, per tre puntate settimanali di Porta a Porta, ammonta a 1 milione e 280 mila euro (prima erano 1 milione e 900 mila). Per ora la trattativa è congelata ma c’è tempo fino a settembre, quando scadrà il suo contratto.

Poi c’è Fazio. Negli ultimi mesi si è fatto un gran parlare della riduzione del suo mega stipendio, deciso ai tempi dall’ex dg Mario Orfeo. Il conduttore di Che tempo che fa, ora passato a Raidue e senza più la puntata del lunedì, si era detto disponibile a rivedere il compenso di 2 milioni e 240 mila euro a stagione, blindato da un contratto capestro che rende impossibile modifiche, se non con il suo benestare.

Fazio, però, nonostante il cambio di rete e l’impegno dimezzato, a quanto si apprende, percepirà esattamente la stessa cifra. La trattativa, anche in questo caso, è ancora in corso ma alla fine il risparmio per la Rai sarà dovuto solo al taglio dei costi industriali e autoriali (elargiti a Officina srl) per le puntate in meno. Ma viste queste premesse, cosa accadrà con gli altri? Per esempio Mara Venier, con contratto scaduto a 600 mila euro l’anno, che ha ottenuto buoni ascolti con la sua Domenica in. O Amadeus, il cui contratto scade nel 2019 (biennale da 850 mila annui). O Paola Perego, col contratto in scadenza a fine agosto (225 mila euro a stagione). E Antonella Clerici, il cui contratto è di quelli pesanti (1 milione 250 mila), in scadenza nel 2020. Ma da rinnovare c’è anche Enrico Lucci che, su Raidue, percepisce 500 mila euro a stagione.

Nonostante queste prime resistenze, però, Salini non è intenzionato a cedere: per l’ad il piano di razionalizzazione delle spese è una mission fondamentale che deve andare avanti. E in tal senso gli fa gioco una risoluzione presentata dalla Lega in Vigilanza che chiede alla tv di Stato di ridurre i mega stipendi a dirigenti e artisti. Input arrivato direttamente da Matteo Salvini. “Basta coi mega stipendi e le produzioni esterne ai soliti amici degli amici!”, ha tuonato qualche giorno fa il leader della Lega. E i 5Stelle sono sulla stessa linea.

Linea dura del M5S su Autostrade, il titolo giù in Borsa

Momento delicato per Atlantia, tra capitolo concessioni e possibile (anche se mai confermato) ingresso in Alitalia. Dopo che nella serata di mercoledì il M5S ha portato in Consiglio dei ministri la richiesta di revoca della concessione ad Autostrade dopo il crollo del Ponte Morandi, il titolo di Atlantia (holding di controllo di Autostrade) perde il 4,3 per cento. “Abbiamo iniziato un procedimento complesso nel rispetto dei tempi. Nei prossimi giorni ci saranno importanti novità e anche in base a queste novità sicuramente ci saranno delle scelte”, avvisa il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. “Il M5S non vuole fare sconti a chi ha evidenti responsabilità, abbiamo aperto ieri sera un dibattito politico e un confronto con la Lega dicendo chiaramente laddove emergessero chiare evidenze di inadempimento che evidentemente noi riteniamo esserci, ma aspettiamo le risultanze delle commissioni dei tecnici”, aggiunge il ministro. La Lega preferirebbe evitare un contenzioso legale, si parla di un rischio penali da 20 miliardi e Matteo Salvini vedrebbe di buon occhio un coinvolgimento della holding di Benetton nella nuova Alitalia.

“Dal governo sì al Tav”. La realtà dietro le bufale dei giornali

Nella grande abbuffata di soldi e bugie attorno alle grandi opere, il Tav resta l’occasione più ghiotta per incassare i primi e distribuire le seconde. Ora sono partite le “manifestazioni d’interesse” per la costruzione del tunnel sia sul versante francese, sia su quello italiano. Il Corriere della Sera ieri dava per fatta l’opera: avviate le gare, partiranno anche i bandi con i capitolati d’appalto. Dimenticava di scrivere che invece tra la prima fase (le “manifestazioni d’interesse”) e la gara vera e propria è necessario il consenso dei due governi. Tanto che perfino sulla Gazzetta europea nei prossimi giorni sarà esplicitata la “facoltà di interrompere senza obblighi e oneri la procedura di gara in ogni sua fase”, come peraltro previsto anche dal codice francese degli appalti pubblici.

Ma “l’opera si farà”, per il Corriere, anche perché ormai “il ministro Danilo Toninelli si è fatto convincere”. Parola di Francesco Ramella, della commissione ministeriale presieduta da Marco Ponti. Peccato che Ramella smentisca quella frase che il Corriere gli attribuisce.

La Stampa ieri apre addirittura il giornale con il titolo “Tav, Conte pronto al sì”: più che una notizia, una divinazione, o una speranza. È sui finanziamenti europei, però, che girano le notizie più fake. Anche il Corriere, come altri giornali e il Sole 24 Ore in prima pagina, dà per scontato che l’Europa abbia innalzato al 55 per cento la quota dei lavori finanziati con soldi dell’Unione, per il tunnel di base e “anche per le tratte nazionali del tracciato”. Parola di Iveta Radicova, coordinatrice europea del Corridoio mediterraneo, che però non ha alcun potere di decidere i finanziamenti europei. Questi dovranno essere decisi dalla nuova Commissione, che ancora non è neppure insediata, e con una procedura, come ha spiegato Toninelli, che durerebbe almeno un paio d’anni.