Un lieto fine nonostante la Brexit: la missione europea di Ken Follett

“Sono le storie quelle che contano, non le frontiere o i passaporti”. Ora la Brexit mobilita anche quattro scrittori britannici da milioni di copie in tutto il mondo: Ken Follett, autore dei Pilastri della terra, Jojo Moyes, regina dei romanzi rosa, Kate Mosse, la scrittrice del best-seller I Codici del Labirinto, Lee Child, creatore del fortunato personaggio letterario e poi cinematografico di Jack Reacher.

Vogliono parlare a quell’Europa che il Regno Unito col referendum sulla Brexit sembra aver respinto. E non a caso scelgono l’Associazione della stampa estera a Londra per lanciare “The Friendship Tour”, una campagna che per 10 giorni, a novembre, toccherà quattro capitali per “rassicurare i nostri lettori e amici europei che per noi, malgrado la Brexit, nulla è cambiato. Che teniamo a loro. E che il 48% della popolazione britannica ha votato per restare in Europa e condivide i suoi valori di unità e fratellanza”.

Si parte da Milano, il 17 novembre al Teatro Carcano, nell’ambito del Book City Festival. Poi Madrid, Berlino, Parigi. “Siamo imbarazzati, avviliti, arrabbiati per quello che sta succedendo nel nostro paese” spiega Ken Follett. È stato lui – che puntualizza “Sono gallese, non inglese” – ad avere l’idea, a coinvolgere gli altri, a ragionare su un format che prevede uno scambio con lettori e giovani scrittori, che saranno invitati sul palco nelle diverse tappe. “Brexit è un disastro. Il ritorno dei nazionalismi, in tutta Europa, mi fa pensare al clima degli anni Trenta. Non ho nessuna fiducia nei due candidati alla successione di Theresa May, Boris Johnson e Jeremy Hunt. Boris è un clown”. E qualcuno in sala ricorda come Nigel Farage si sia vantato di non leggere mai romanzi. È un allarme condiviso da Lee Child, in collegamento da New York dove vive: “È stata la letteratura francese a cambiarmi la vita. L’ipotesi di un ticket Trump-Johnson è orribile”.

Nel Medio Oriente “50 miliardi Usa non fanno la pace”

“Peace for Prosperity”, il piano che la Casa Bianca ha svelato ieri sera a Manama in Bahrain alla Conferenza economica sul Medio Oriente, è un fascicoletto a colori di sole 38 pagine. Somiglia tristemente a un piano di sviluppo immobiliare che viene proposto ai primi acquirenti ancor prima che sia aperto il cantiere, un prezzo invitante e molte promesse di sviluppo.

Così il “seminario economico” di Manama è nato sotto un forte scetticismo, il tentativo è quello di smussare il conflitto in Medio Oriente con un fiume di dollari. Cinquanta miliardi in dieci anni, da investire su larga scala per sollevare l’economia palestinese – ma in parte anche quella di Giordania, Libano ed Egitto.

Al momento non appare come un’iniziativa destinata al successo, nonostante il genero-consigliere del presidente Donald Trump, Jared Kushner, abbia avuto quasi due anni per metterla a punto. A Manama non sono presenti né ministri palestinesi né tantomeno israeliani, declassata la partecipazione di Giordania e Egitto che hanno accettato a denti stretti di mandare un osservatore. “I soldi”, come ha riassunto il presidente dell’Anp Abu Mazen, “non sono tutto, sono importanti, l’economia è importante, ma la politica è più importante ancora”. I palestinesi non vogliono parlare di economia se prima non si affrontano le questioni politiche, quelle cruciali. Lo status di Gerusalemme, lo stop agli insediamenti colonici nella Cisgiordania occupata, i confini definitivi di Israele, il destino di profughi palestinesi. Tutti argomenti che la Casa Bianca, in perfetta sintonia con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non vuole affatto affrontare.

“Non riesco a capire come i palestinesi possano respingere un progetto prima ancora di aver sentito di cosa si tratta, non perdono un’occasione di perdere un’occasione”, è il commento salace del premier israeliano che però evita di affrontare in concreto le proposte americane. “Sai come ho scoperto l’annuncio di questa conferenza? – racconta al telefono Saeb Erekat, il capo dei negoziatori palestinesi – dalla Cnn!”. “Prima – è la sua analisi – gli Usa hanno tagliato 350 milioni di dollari dal pacchetto di aiuti e lasciato 112 progetti incompiuti nei nostri territori, poi si presentano con queste proposte provando a comprarci in cambio del congelamento del diritto alla nascita di uno Stato palestinese”.

Il piano – che economicamente dovrebbe essere sostenuto dai ricchi emirati del Golfo Persico – con le sue 179 infrastrutture e piani imprenditoriali è un “libro dei sogni”. Promette progetti che non possono essere realizzati, finanziati da denaro che non esiste e che dipende da un accordo di pace che non si vede all’orizzonte. Il problema di Peace for Prosperity non sta tanto nelle sue proposte stravaganti e irrealistiche – come la superstrada da 5 miliardi di dollari per collegare Gaza (sotto assedio da 12 anni) alla Cisgiordania o l’incremento della produzione dell’hummus come prodotto locale per i turisti – quanto nel fatto che ignora la realtà sul terreno. Lo sviluppo del settore privato è ostacolato dalle restrizioni che Israele impone al movimento di beni e persone in Cisgiordania da e verso lo Stato ebraico, come spiega l’ultimo rapporto della Banca Mondiale. “Non si tratta di migliorare le condizioni di vita sotto occupazione militare ma di liberare l’economia palestinese mettendo fine all’occupazione israeliana”, commenta Erekat per giustificare il boicottaggio palestinese alla Conferenza.

La Banca Mondiale stima che l’economia nelle aree palestinesi abbia registrato una crescita zero nel 2018, un palestinese su tre è disoccupato e il 25 per cento della popolazione vive con meno di 6 dollari al giorno. Impressionanti i dati di Gaza dove la disoccupazione ha superato il 67 per cento. Senza affrontare l’occupazione israeliana, gli investimenti in progetti o costruzioni rimangono esposti a potenziale distruzione, confisca, furto o uso improprio da parte delle autorità israeliane. Un rapporto del 2016 intitolato “Squandered Aid” valuta in 65 milioni di dollari i costi dei danni a progetti finanziati dall’Ue per demolizione o confisca israeliana.

“Chiediamo di avere il controllo della nostra terra in Cisgiordania nell’ambito della soluzione dei due Stati”, dice ancora Erekat, “delle nostre spiagge sul Mar Morto, di quelle sul Mediterraneo, dobbiamo avere il controllo delle nostre risorse naturali: se ci permetteranno di farlo mettendo fine all’occupazione israeliana non avremo bisogno di un solo dollaro per il nostro sviluppo”.

Ue: erano 4 nemici a Visegrad

C’era una volta il Gruppo di Visegrad: Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria, quattro Paesi dell’ex blocco comunista che formavano un “nucleo duro”, nazionalista e sovranista, dentro l’Unione europea e ne tenevano in scacco molte politiche. Agendo coesi, avevano un peso superiore alle loro dimensioni politiche, economiche, demografiche. Adesso, l’intesa si sta sgretolando, “picconata” da sussulti d’europeismo e di solidarietà dalla Slovacchia e dalla Repubblica Ceca.

Il “no”’ del Gruppo di Visegrad bastò, ad esempio, a fare saltare la decisione del 2016 di redistribuire fra i Paesi dell’Ue i migranti che via mare arrivavano soprattutto in Italia e in Grecia; e fu determinante nell’impedire la riforma del Protocollo di Dublino sull’accoglienza dei richiedenti asilo, finché una sconsiderata condiscendenza italiana non rese vincolante l’unanimità e di fatto impossibile la riforma.

Il Gruppo prende il nome dalla città-fortezza ungherese dove, nel 1335, si incontrarono Giovanni I di Boemia, Carlo I d’Ungheria e Casimiro III di Polonia; e dove, nel 1991, si riunirono i leader dei Paesi appena usciti dal comunismo. La coesione del mini-blocco, che ha anche attirato la Croazia nella sua orbita, teneva, nonostante sistemi politici e pulsioni ideologiche non fossero omogenei: nazionalisti, anti-russi e integralisti cattolici i polacchi; cultori della democrazia illiberale predicata dal premier Viktor Orbán e islamofobi in nome del cattolicesimo gli ungheresi; populisti di destra e liberisti i cechi; populisti di sinistra gli slovacchi. I partiti al potere fanno parte di famiglie politiche diverse del Parlamento europeo: i polacchi stanno con i conservatori, insieme ai tories britannici (e a Fratelli d’Italia); gli ungheresi nel Ppe, da cui sono stati al momento sospesi; i cechi con i liberali; e gli slovacchi con i socialisti (ma c’è stato di recente un cambio della guardia al potere). Tutti erano però uniti nel negare solidarietà ai partner europei e nel volere godere dei benefici (senza subire i vincoli) derivanti dall’appartenenza all’Unione. Poi qualcosa s’è incrinato. Polacchi e ungheresi tengono ancora dritta la barra nazionalista. Ma sia Jaroslaw Kaczynski, gemello di Lech, il presidente polacco morto nel 2010 in un incidente aereo in Russia, sia Orbán hanno rifiutato l’alleanza sovranista loro proposta da Matteo Salvini. I primi segnali di frammentazione di Visegrad 4 sono venuti dalle Presidenziali slovacche, vinte a marzo dell’avvocatessa progressista ed europeista Zuzana Caputová. A maggio, le Europee sono state una cartina di tornasole, con risultati arlecchino nei Paesi del Gruppo.

In Polonia, i conservatori nazionalisti ed euroscettici sono arrivati al 45,6 per cento, davanti alla lista unica “europeista” dell’opposizione (38,3 per cento); Kukiz’15, alleato del M5S, non ha passato la soglia di sbarramento. In Ungheria, l’affluenza è stata record (42,3 per cento) e ampia la vittoria di Fidesz, il partito del premier Orban, che ha superato il 50 per cento e ottenuto 13 seggi. In Rep. Ceca, il partito del premier Andrej Babis è arrivato primo, con il 21 per cento dei suffragi e 6 seggi, ma la distribuzione dei voti è molto frastagliata. In Slovacchia, infine, i progressisti europeisti della neo-presidente Caputová hanno vinto, i socialdemocratici dell’ex premier Robert Fico hanno perso un terzo dei voti, l’estrema destra è salita al 12 per cento (dal 2). Un colpo forse mortale alla tenuta politica del Gruppo di Visegrad può essere venuto dall’oceanica – per le dimensioni della Rep. Ceca – manifestazione di domenica scorsa contro il premier Babis. Ma il Vertice dell’Ue del 21 e 22 giugno ha mostrato che i Quattro sanno ancora far di conto: giocando sulla vocazione carbonifera di Polonia e Rep. Ceca, hanno bloccato gli obiettivi Ue 2050 di lotta al cambiamento climatico, tenendosi una carta da giocare nella trattativa che importa: il bilancio Ue 2021/27.

Altra mina per l’occupazione: dopo Whirlpool taglia anche Jabil

Nemmeno il tempo di vedere spiragli per la Whirlpool di Napoli che una nuova tegola si è abbattuta sull’industria campana: la Jabil, multinazionale delle telecomunicazioni, vuole licenziare 350 dei 700 lavoratori impegnati a Marcianise (Caserta). Lo ha detto lunedì ai sindacati, che ieri hanno scioperato per otto ore. Domani al ministero dello Sviluppo economico si terrà un incontro urgente per discutere di questa nuova crisi.

La mossa dell’impresa non era del tutto imprevedibile. Ha sorpreso, invece, per le dimensioni del taglio. La società americana, che produce componenti elettronici, in questi anni si è insediata nel territorio casertano attraverso una serie di acquisizioni. Una di queste nel 2015, quando ha preso lo stabilimento Ericsson di San Marco Evangelista, allora in grosse difficoltà. Anche in quell’occasione c’è stato un esubero di personale, e la trattativa con il governo Renzi ha permesso di mantenere 335 dei 400 addetti. Le uscite sono avvenute solo su base volontaria e dietro incentivo economico. Quell’accordo, tra l’altro, ha previsto l’impegno a non fare licenziamenti collettivi fino a marzo 2018. Appena è scaduto quel termine, però, la Jabil ha subito ripreso in mano le forbici per sfoltire ancora il suo organico. Questa volta l’obiettivo era mettere alla porta 250 persone per passare da 830 a 580 dipendenti. La raffica di riunioni al ministero è iniziata con il governo Gentiloni per poi diventare uno dei primi dossier sul tavolo del ministro Luigi Di Maio. Il 25 giugno 2018 è arrivata la nuova intesa: anche questa volta la Jabil si è impegnata a non licenziare nessuno, e avviare un percorso per ricollocare i lavoratori in sovrabbondanza in altre aziende che ne facessero richiesta. Queste ultime, tra l’altro, si sono anche impegnate a non licenziare i nuovi arrivati. Fino a oggi, però, solo in 120 hanno trovato un nuovo posto. Quindi in teoria permarrebbero 130 esuberi su 700. Ma per l’azienda la situazione si è fatta ancora più complicata, perciò ne ha aggiunti altri 220, portando a 350 il numero di licenziamenti. “Da diversi anni a questa parte – ha spiegato la Jabil – il sito di Marcianise si è dovuto confrontare con un contesto economico sfidante. I volumi si sono ridotti e le risorse sono rimaste sotto-utilizzate. Nonostante gli sforzi e a seguito di una lunga ed estesa disamina della capacità produttiva attuale e prospettica, si è resa necessaria un’ulteriore riduzione della forza lavoro entro settembre”. Secondo il segretario Fiom di Caserta Francesco Percuoco, questa scelta è un tradimento degli accordi con il ministero, perché “con l’accordo dello scorso anno la Jabil si impegnava a non licenziare”.

Autostrade, la battaglia finale sulle nuove regole

Nel decreto per Genova, diventato legge il 16 novembre 2018, il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ha inserito una clausola che cambia radicalmente il sistema col quale vengono regolate le tariffe autostradali e potrebbe produrre anche una sensibile riduzione dei pedaggi. La competenza per determinare le tariffe passa dai funzionari del ministero all’Autorità di Regolazione dei Trasporti (Art), guidata oggi da Andrea Camanzi, che applicherà nuove regole comuni a tutte le concessionarie. Viene così meno lo spazio per negoziati e scambi di favori tra ministri e concessionari, che in passato hanno contribuito non poco a gonfiare le rendite del settore.

Al ministro Toninelli va riconosciuto il merito e il coraggio di aver rinunciato all’esercizio di un potere tanto ambito dai suoi predecessori. Quando l’Autorità di Regolazione dei Trasporti fu istituita, nel 2011, le sue competenze per quanto concerne la regolazione delle autostrade furono limitate alle sole nuove concessioni, su pressione delle concessionarie che preferivano confrontarsi con funzionari già noti. E, va ricordato, il ministero dei Trasporti non era disposto a rinunciare a poteri tanto rilevanti. L’Autorità ha iniziato quindi a diventare “operativa” nel settore soltanto l’anno scorso, quando si è trattato di definire le condizioni della prima “nuova” concessione, quella della Autobrennero. Col decreto per Genova la competenza dell’Art è stata invece estesa anche a tutte le convenzioni già in essere.

Nel sistema in vigore fino a oggi, i pedaggi vengono variati in base a sette diverse “formule” (regole tariffarie) ciascuna delle quali si applica a diverse concessionarie, cui spesso è stato concesso di scegliersi la “formula” preferita. L’Art ha invece elaborato una nuova normativa che dovrebbe applicarsi in modo uniforme a tutte le concessionarie, determinando le variazioni dei pedaggi per ogni periodo regolatorio.

Le concessionarie e la loro associazione di categoria (Aiscat) si sono dichiarate violentemente contrarie a questo cambiamento. Eppure la nuova normativa riconosce e assicura ai concessionari un tasso di rendimento sul capitale proprio investito assai elevato ed analogo a quello applicato da altre Autorità in settori regolamentati come l’energia. Qual è dunque il motivo di insoddisfazione delle concessionarie?

Vi sono molti aspetti della nuova normativa che possono influire sulla redditività, come la valutazione della qualità del servizio o gli obiettivi di incremento della produttività. Ma il punto centrale, il vero motivo di scontro, è che per la prima volta si definisce e misura il cosiddetto Cin – Capitale investito netto – e la redditività viene commisurata al capitale investito. Sembrerebbe ovvio ma la formula del price cap deliberata dal Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica, nel 1996 non fa menzione alcuna del capitale investito!

La formula iniziale, e così pure tutte le varianti successive, contengono parametri (inflazione, produttività, investimenti, qualità del servizio) che determinano di quanto debbano aumentare le tariffe ma non viene fatto alcun riferimento esplicito a quanto sia il capitale netto investito di ciascuna concessionaria, che avrebbe dovuto determinare il livello iniziale della tariffa. Non si poteva fare altrimenti perché sarebbe emerso che gli esigui capitali investiti dalle concessionarie erano già stati largamente ammortizzati. Per agevolare la privatizzazione della società Autostrade fu introdotto un price cap anomalo, di cui beneficiarono poi anche tutti gli altri, pubblici e privati.

La normativa elaborata dall’Art introduce invece un sistema price cap chiaro e logicamente coerente. La variazione tariffaria viene determinata per ogni quinquennio sulla base di previsioni di traffico, investimenti e costi, e viene rivista poi ogni nuovo periodo regolatorio. La variazione tariffaria dipende dai costi operativi ammessi (tariffa di gestione) e dalla remunerazione del capitale investito al netto degli ammortamenti (tariffa di costruzione). L’aspetto più delicato e più indigesto per le concessionarie è proprio la quantificazione del capitale netto investito, che potrebbe portare a sensibili riduzioni nel livello dei pedaggi.

La normativa dell’Art prevede un’ottima remunerazione ma commisurata al capitale netto effettivamente investito: una rivoluzione culturale difficile da digerire per chi è abituato ad ottenere lauti profitti a fronte di esigui versamenti di capitale, spesso solo simbolici.

Sull’applicabilità della nuova normativa dell’Autorità alle concessioni preesistenti è quasi certo che si apriranno controversie legali dagli esiti incerti. Tuttavia col lavoro dell’Autorità si è aperta una nuova fase storica in cui non potranno non prevalere sia l’introduzione di una normativa price cap uniforme e logicamente coerente, sia il contenimento dei profitti dei concessionari in rapporto al capitale da loro effettivamente investito. Rivedendo magari anche valori che furono di molto gonfiati con rivalutazioni monetarie accreditate come maggior capitale investito.

 

Povero Manfred, l’hanno rimasto solo

Certe cose fanno male al cuore, davvero. Ieri, per dire, sulla Stampa c’era un’intervista a Manfred Weber che avrà commosso anche i più cinici tra i lettori. Weber, si dirà, chi era costui? Ma come? Ma è lo spitzenkandidat del Ppe! Che poi – ce lo ha spiegato un amico che è stato in Belgio – sarebbe il candidato presidente alla Commissione Ue. Weber è tedesco della Csu, la filiale bavarese del partito della Merkel, che tradizionalmente è un filo meno a destra di Hitler: e infatti al nostro piace la garrota del debito per i greci, l’austerità per tutti gli altri terroni e pure Orban, ma solo quando gli porta i voti. Qual è il problema? Ecco, Weber a questa storia dello spitzenkandidat che poi fa il presidente ci ha creduto ed è comprensibilmente sconvolto da quando ha sentito Macron, che qualcosa pesa, dire che “il sistema dei candidati è una fiction”. E Weber? L’ha presa bene: “Difenderemo la democrazia”. Cioè? “Io sono il candidato del partito che è arrivato primo”. Farsi da parte? “Non è questo il punto”. E se nominano il candidato socialista o liberale? “No, il primo partito ha diritto di esprimere il candidato”. Se non andrà così, ci informa, “torniamo ai giorni bui degli accordi a porte chiuse”. Eh sì, i tempi bui prima di Weber, chi se li scorda? Col roaming, per carità, ma allo scuro e senza democrazia. Noi speriamo ce la faccia: il popolo lo vuole. Ma come chi? Manfred, no? Ditegli sempre di sì, lo diceva pure Scarpetta.

Diesel+, l’Eni rischia la multa per pubblicità ingannevole

Da giorni la stampa, Fatto incluso, è piena di pubblicità dell’Eni che sottolinea l’importanza delle azioni individuali per l’ambiente. Ma questa svolta verde del gruppo petrolifero non è sempre indolore: Eni rischia una sanzione dalla Autorità antitrust che ha avviato un procedimento per pubblicità ingannevole contro un’altra campagna, quella per Eni Diesel +. Le associazioni Movimento Difesa del Cittadino, Legambiente e la European Federation of Transport and Environment hanno sollevato il caso a fine febbraio, l’Antitrust deciderà entro il 23 settembre.

La campagna ora non viene più trasmessa, ma sul sito aziendale c’è ancora il contenuto che le associazioni contestano: “Test e attività di benchmarking su carburanti venduti in Italia hanno confermato le eccellenti caratteristiche di Eni Diesel +. Grazie al 15% di componente rinnovabile (l’innovativo Green Diesel), Eni Diesel + riduce significativamente le emissioni inquinanti: fino al 40% di idrocarburi incombusti e ossido di carbonio. Inoltre grazie a un ciclo produttivo più sostenibile contribuisce a ridurre le emissioni di CO2 in media del 5%”.

Lo spot sulle virtù del carburante è stato visto da oltre 1,7 milioni di persone su Youtube, dalla sua prima apparizione nel 2017. Eni ha già risposto ai solleciti delle associazioni che contestano il dato e l’Antitrust, nel procedimento, tiene già conto di queste repliche. Il calo “fino al 40 per cento” degli idrocarburi si riferisce in realtà alle particelle con dimensioni inferiori al micron (le più dannose), ma soltanto su autobus Euro3, molto inquinanti. E non è neppure detto che gli autobus usino davvero il Diesel Eni, perché di solito le aziende dei trasporti hanno forniture dedicate e non si rivolgono ai benzinai normali. La riduzione del temuto NOx è inferiore, “meno 10 per cento”.

C’è un “40 per cento” anche nei test sulle automobili Euro5 ed Euro6, è il calo delle “emissioni gassose”. Ma questo si riscontra “solo nelle prime fasi di funzionamento del motore” e, come ha riconosciuto la stessa Eni, “prima dei filtri antiparticolato e sistema di abbattimento NOx, perché i filtri avrebbero eliminato qualsiasi differenza”, si legge nel documento Antitrust. Che conclude: “Negli autoveicoli più recenti gli effetti dell’utilizzo del prodotto risulterebbero insignificanti, non essendo misurabili a valle dei filtri montati su tali vetture”.

Anche l’annuncio di una riduzione dei consumi “fino al 4 per cento” grazie a Eni Diesel + potrebbe risultare ingannevole, secondo l’Autorità, perché “non è chiaro se le prove tecniche su cui si basa tale affermazione fossero caratterizzate da condizioni tali da consentirne la generalizzazione con cui viene vantata nei messaggi”. C’è poi un aspetto più generale: la pubblicità Eni sembra attribuire le virtù ambientali del suo Diesel + a quella vantata componente “rinnovabile” pari al 15 per cento. Ma secondo l’Antitrust non c’entra nulla: “Non risulterebbe che la componente ‘green’ del prodotto sia tale da conferire al carburante in questione la capacità di avere un impatto ambientale positivo”. Secondo quanto ha ammesso l’Eni, nota l’Antitrust, le pur limitate virtù del Diesel + “deriverebbero da altri ingredienti”.

L’autorità guidata da Roberto Rustichelli chiede all’azienda di produrre “studi e argomentazioni” che hanno permesso di classificare come green e “rinnovabili” alcune componenti del carburante, fino a sostenere che fare rifornimento con Diesel + “aiuta a proteggere l’ambiente”. Poi chiede conto dei dettagli dei test in base ai quali è stato annunciata la riduzione del 40 per cento delle emissioni gassose e del 5 per cento dell’anidride carbonica, oltre al risparmio del 4 per cento sui consumi. L’Antitrust vuole conoscere anche quanti soldi ha investito l’Eni per diffondere queste informazioni. Eni fa sapere al Fatto di aver già inviato all’Antitrust “la documentazione relativa ai test e alle analisi condotte anche da esperti indipendenti” sulle caratteristiche dell’Eni Diesel+.

Eni rischia una sanzione amministrativa tra 5.000 e 50.000 euro per pubblicità ingannevole. Ma l’Antitrust indaga anche su “pratiche commerciali scorrette” che possono comportare multe fino a 5 milioni. Comunque poco per il bilancio dell’Eni, ma significative.

Un’estate non basta: ecco perché nessuno fa più lavori stagionali

Inizio giugno: su siti e giornali viene segnalata la difficoltà degli albergatori e degli operatori turistici di Gabicce Mare, Pesaro, a reclutare lavoratori stagionali. “Colpa del reddito di cittadinanza” titolano, riportando le parole del presidente degli albergatori del posto, Angelo Serra. “È così da anni”, precisa però Serra al Fatto. Qualche giorno dopo si accoda un imprenditore del Veneto: “Pochi hanno voglia di fare sacrifici”. La colpa è sempre di ragazzi e lavoratori, soprattutto del Sud, che preferiscono stare sul divano invece che lavorare per tre mesi nelle località di vacanza. Ma quali sono le condizioni offerte agli stagionali? Ho creato un curriculum finto ma credibile e ho provato a candidarmi a decine di offerte.

Il curriculum. “I giovani alle prime armi si trovano facilmente, persone di esperienza no”, lamentava l’albergatore di Gabicce, Angelo Serra. Per questo preparo un curriculum che vanta un percorso solido: dal servizio in sala in un hotel del centro di Roma per quattro anni con mansioni di coordinamento e gestione dei fornitori ai due anni da barista in una struttura pubblica. Lo inserisco in un sito di annunci e rispondo a quelli disponibili.

La prima chiamata arriva da un hotel di Cervia: il titolare chiede età e quanto voglio essere pagata. Il lavoro: almeno 11 ore al giorno (“di più ma non di meno”, specifica), non c’è il giorno libero e nel weekend si lavora, “è il momento di maggiore affluenza”. Ripete: “Si lavora, si lavora, si lavora”. C’è il turno delle colazioni, dalle 6.30 alle 10.30, poi quello del pranzo dalle 12 alle 15 e quello della cena dalle 18 alle 22. C’è da pulire la sala, lavare a terra e riordinare. Alloggio e vitto sono inclusi: “Una stanza spartana con altre due ragazze”. Per queste mansioni io chiedo almeno 1.100 euro netti al mese. Risposta: “Dipende, puoi valere di più o di meno. Facciamo il periodo di prova e poi vediamo”. Una decina di giorni di prova e poi due mesi di lavoro. La paga? “Intorno ai 35 euro al giorno” per il periodo di prova.

La proposta dignitosa. La seconda proposta arriva dal gestore di due hotel di Rimini, a 50 metri dal mare. “Ho ricevuto un suo curriculum per la nostra ricerca di personale di sala – scrive su Whatsapp – Ci serve un cameriere/a giornata intera colazione/pranzo e cena, contratto fino al 15 settembre con messa in regola Full Time, non abbiamo giorno di riposo e la retribuzione è di 1.600 euro/mese con alloggio oppure 1.800 euro/mese senza alloggio”. Non male, se sono netti. Sembra di sì: “La cifra è forfettaria ed è netta per lei. Mentre per l’alloggio sarebbe in una camera tripla dell’hotel con un’altra ragazza del Marocco che già lavora con noi, poi dal 12 luglio a dopo ferragosto si aggiungerebbe la terza ragazza”. E il bagno? “Ne avete uno di uso esclusivo ma nel corridoio”. 800 euro al mese.

La terza offerta è di un signore che ha molta fretta. Lavora nel Chianti, ha una piccola trattoria in cui – spiega – vanno soprattutto stranieri, 60 coperti. Cerca un lavapiatti, ma anche qualcuno che possa aiutare in cucina. “Il lavoro è un po’ ballerino – premette –. Il primo turno è dalle 10 del mattino fino alle 15-16. La sera iniziamo alle 18 ma alle 22.30 il servizio è finito. Può capitare che ci sia qualche evento e si chiuda a mezzanotte, ma è raro”. Vitto e alloggio inclusi, una casa da condividere con tre o quattro persone, due per camera e bagno in comune. “Noi si paga 800 euro netti”, dice. Si lavora fino a ottobre.

L’intermediario. Un’altra offerta arriva da un hotel di Riccione. Cercano però una cameriera ai piani. “Non è un problema se sei di sala, puoi fare anche questo – spiega per convincermi l’intermediario che procura gli stagionali al titolare – basta un po’ di buona volontà. Tu a casa fai i servizi? Ecco, è la stessa cosa. Devi pulire la stanza e il bagno”. E gli orari? “Quelli del cameriere di sala: 7-14.30 e poi dalle 16.30 fino alle 21.30 circa”. Il lavoro dura due mesi, fino a settembre, 1.500 euro netti al mese, inclusa la prova di 15 giorni. “Ma se sei brava, qualcos’altro ci esce sempre”, ripete l’intermediario facendo capire che c’è possibilità di un fuori busta. L’alloggio è incluso, tre persone per camera e non c’è giorno libero.

Milano Marittima. “C’è una ragazza ora, in sala, che sta però sempre male e la stiamo mandando via. Abbiamo pochi mesi di lavoro e stare dietro ai problemi di una persona che si assenta per un po’ di mal di schiena, poi un po’ di mal di testa, un po’ di mal di stomaco… diventa difficile”. Il titolare di questo albergo a 3 stelle chiama da Milano Marittima e chiede: “Ha mai lavorato in Romagna? Qui il lavoro è diverso, è più complesso, abbiamo rapporti stretti con i clienti, ci sono quelli fissi, hanno gusti particolari…”. Non specifica quali. Vitto e alloggio sono inclusi, tre ragazze in una camera, 1.600 euro netti così divisi. “Una parte in busta, il resto in contanti fino a raggiungere la cifra”. Il contratto nazionale di lavoro prevede 6 ore e 40 al giorno, l’albergatore sostiene che almeno formalmente sarà rispettato: “Non facciamo inganni, svilupperà le sei ore e 40 e poi le verrà pagata la differenza di ore che farà”. Una differenza che però, faccio notare, è del cento per cento. I turni sono vicinissimi: 7-12 del mattino, poi 13 -15 e infine rientro alle 17.30 fino alle 21.

Sfruttamento. Un rapido calcolo, sulla base di questo campione di offerte: in media, si lavora 12 ore al giorno, senza giorno libero per trenta giorni al mese a circa 1.500 euro, inclusi vitto e alloggio e una parte di nero. I lavoratori sono pagati quindi tra i 4 e i 5 euro l’ora, per un minimo di due mesi e fino a un massimo di quattro. Eppure non sono i soldi il problema. “La fuga degli stagionali non dipende dallo sfruttamento e dalle condizioni di lavoro – spiega il presidente dell’Ansl, l’Associazione nazionale lavoratori stagionali, Giovanni Cafagna – quello c’è sempre stato. La colpa è del dimezzamento del sussidio agli stagionali dopo l’introduzione della Naspi nel 2015”. Prima uno stagionale lavorava infatti per sei mesi all’anno e negli altri sei viveva del sussidio. “Certo, venivano sfruttati 12 ore al giorno, sette giorni su sette per sei mesi, però sapevano che quello sforzo eccessivo e non adeguatamente remunerato avrebbe comunque garantito il sostentamento nel resto dell’anno, grazie alla disoccupazione”. Oggi, invece, è rimasto lo sfruttamento nella stagione, ma i contratti sono diventati più brevi e il sussidio viene percepito per la metà del tempo. “Prima il datore di lavoro ti assumeva per sei mesi anche se per due lavoravi solo quattro ore al giorno: pareggiavi poi con le 12 ore consecutive in alta stagione. Oggi offrono due mesi, stessa paga ma con il doppio dello sforzo e la metà del sostentamento”, spiega sempre Giovanni Cafagna dell’Ansl. “Il sussidio è di 700-800 euro al mese – aggiunge – Per chi ha famiglia è un problema anche perderlo per soli tre mesi”.

I numeri. Secondo il rapporto dell’Osservatorio Excelsior di Unioncamere, sul 2018 (stilato in collaborazione con Anpal) l’anno scorso sono stati circa 1,3 milioni i rapporti di lavoro maturati nel settore del turismo tra giugno e agosto 2018. L’Inps ha stimato la firma di 550 mila contratti stagionali nello stesso periodo e in tutti i settori. Solo in 200 mila arrivano almeno a sei mesi di lavoro. Gli stipendi medi degli stagionali vanno dai 1.200 euro al mese del Sud ai 1.700 euro per un cameriere o un aiuto cuoco al nord. Tutti in regime forfettario, con massima elasticità di ore e applicazione.

Stile di vita. A queste condizioni il lavoro stagionale ormai attira soltanto chi è in difficoltà e ha bisogno di un impiego subito, non è più uno stile di vita che, per quanto non redditizio, è stato a lungo almeno sostenibile. L’introduzione del reddito di cittadinanza non sembra aver inciso sulle dinamiche di un settore in cui da tempo è saltato il fragile patto tra datori di lavoro e stagionali.

Per capire l’Italia basta un pet sitter

Se volete capire come cambia l’Italia, guardate i cani. Nel 2011 l’Istat ha censito la popolazione italiana ma non gli animali domestici. Che errore. Le statistiche sono poche sul tema ed è difficile cercare conferma nei numeri della sempre più diffusa impressione che ci siano trasformazioni profonde della nostra società rivelate dal rapporto con gli animali. Soprattutto nuove solitudini. Per questo sono interessanti i dati diffusi dalla app Yoopies che serve a trovare pet sitter, cioè persone che per lavoro accudiscono animali domestici altrui. Nell’ultimo anno gli aspiranti pet sitter sono aumentati del 27 per cento su Yoopies in Italia, sono oggi la ragguardevole cifra di 42.587 (il doppio di quelli che si sono presentati al concorso per diventare navigator). Un boom notevole che, nei dati di Yoopies sembra accomunare i Paesi mediterranei, quelli dove la famiglia un tempo era più forte e dove ora, par di capire, si cercano surrogati: +65 per cento di pet sitter registrati in Portogallo, +38 in Spagna, +28 in Francia. La spiegazione del proprio relativo successo è enunciata da Yoopies in modo lapidario: calo demografico e “crescente numero dei millennial che ritardano sempre più l’età del matrimonio e del primo figlio, privilegiando la presenza in casa e la cura di un cane o un gatto”. La popolazione italiana è in calo demografico dal 2015, da allora sono spariti 472.000 italiani. Ma quelli che restano si consolano con cani e gatti. E mentre la maggioranza di governo litiga sull’introduzione di un salario minimo legale da 9 euro all’ora, Yoopies ci informa che i pet sitter guadagnano in media 10,25 euro, ma al giorno (possono tenere più di un animale, certo, però difficile arrivare a una cifra dignitosa se si punta a vivere di quello). I cani sostituiscono i figli, ma noi millennial siamo troppo impegnati anche per la “gestione quotidiana delle passeggiate e dei momenti di gioco” (Yoopies) e questo genera un mercato di lavoratori iperflessibili da chiamare con un clic e pagati meno dei fattorini in bicicletta. E qualcuno lo chiama progresso.

Il declino di Bankitalia ha aperto la strada alla riforma M5S-Lega

Nel dibattito pubblico italiano, o almeno in quella porzione intermediata dai grandi giornali, si assiste a cose strane. Lega e M5S presentano al Senato una legge che riforma la governance della Banca d’Italia e sulla stampa fioriscono editoriali allarmati sull’attacco alla sacra indipendenza dell’istituto guidato da Ignazio Visco. Il retropensiero è che sia un’altra tappa in direzione dell’uscita dall’euro. Nessuno però spiega come si è arrivati a questo punto e se sia una scelta anomala nel contesto europeo.

Il ddl 1332 è firmato dai capigruppo di maggioranza Massimiliano Romeo (Lega) e Stefano Patuanelli (M5s). È assegnato alla Commissione Finanze presieduta dal senatore Alberto Bagnai (Lega), economista assai critico sull’euro e considerato l’ispiratore del testo. La discussione partirà a luglio, quando verrà acquisito il parere della Banca centrale europea, visto che Bankitalia fa parte del sistema europeo delle banche centrali (Sebc).

Si compone di tre articoli e un allegato. L’obiettivo, si legge, “è di evitare che attraverso l’indipendenza si possa esulare dal sistema di bilanciamento e controllo dei poteri delle democrazie liberali”. La riforma affida un ruolo centrale a governo e Parlamento, fatta salva l’indipendenza prevista dai Trattati europei (in sostanza, il divieto di finanziamento monetario). Vengono riviste le regole per la nomina del direttorio, l’organo operativo composto dal governatore, dal direttore generale e da tre vice.

Oggi il governatore viene nominato dal presidente della Repubblica, su proposta del premier, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore di Bankitalia, un organismo con poteri di vigilanza sulla gestione, composto da 13 membri esterni scelti per cooptazione dall’assemblea dei soci. Il Consiglio ha un ruolo di rilievo sulla scelta del resto dei membri del direttorio, che nomina su proposta del governatore. La riforma invece estende anche al dg e a uno dei vice il meccanismo previsto oggi per la nomina del governatore, eliminando il parere del Consiglio, che viene esautorato da tutte le procedure. Gli altri due membri verrebbero infatti eletti uno a testa da Camera e Senato, a maggioranza assoluta dei presenti e scrutinio segreto. Vengono fissati anche dei criteri di onorabilità e professionalità per la scelta dei nomi. Il testo prevede anche che le modifiche allo Statuto di Bankitalia siano approvate per legge dal Parlamento, compito che adesso spetta all’assemblea straordinaria dei soci, costituita da decine di banche e assicurazioni private, oltre a Inps e Inail.

Secondo Bagnai la riforma non è un’anomalia nel contesto europeo, casomai lo è il caso italiano (simile alla Grecia). E in effetti in otto delle 19 banche centrali dell’Eurozona (dall’Estonia alla Finlandia) il Parlamento è coinvolto in varie forme nella nomina del Direttorio; in altri 7 è coinvolto il governo. Ci sono poi sistemi misti, come quello della Bundesbank (tre membri di nomina governativa e tre parlamentare) ed è a questo che si ispira il progetto Lega-M5S. Discorso diverso invece per la modifica dello Statuto, che – almeno tra i grandi Paesi – non sembra in mano al Parlamento ma agli organi interni degli istituti (si rischia il parere negativo della Bce). L’Italia lo ha deciso nel 2005 per adeguarsi alle normative Ue, che però sul tema non sono esplicite. Lo statuto di Bankitalia, peraltro, è già stato di fatto modificato diverse volte da una legge: fu un decreto del governo Letta, ad esempio, a rivalutare le quote di Bankitalia, per la gioia dei soci privati, e a fissare i criteri per distribuire i dividendi a loro e allo Stato.

Insomma, il ddl estende a Bankitalia i meccanismi di nomina delle Authority “indipendenti”, come l’Antitrust o il Garante della privacy. La paura per il rischio “lottizzazione” è legittimo – Mark Carney, ad esempio, fu scelto per la Bank of England con un bando sull’Economist – ma ignora che ai vertici di molte banche centrali europee siedono già ex politici, come Sylvie Goulard in Francia o Olli Rehn in Finlandia; o tecnici assai vicini alla politica come Jens Weidmann della Bundesbank.

Il vero nodo è il controllo democratico sulle scelte, che altrimenti restano affidate all’inappellabile volere dei tecnici, anche se prefigurano vincitori e vinti come ogni decisione politica. Oggi Bankitalia ha perso potere e prestigio, con l’euro non è più istituto di emissione e per le grandi banche fa solo da succursale della Vigilanza Bce. In questi anni, per di più, non ha evitato lo scoppio di diverse crisi bancarie, ma ha pensato e scritto per la politica le riforme del credito (dalle Popolari alle Bcc) e cercato di gestire il risiko bancario senza mai aprire a una maggiore trasparenza, che – dice la legge – “è naturale complemento dell’indipendenza di Bankitalia”. Quando nel luglio 2017 Renzi ha cercato di far fuori il governatore Visco, il Colle e il premier Gentiloni si affrettarono a rinnovargli l’incarico senza spiegare perché. È l’indipendenza, bellezza.

Si prevede un dibattito non sereno sulla riforma. Intanto, però, i gialloverdi possono festeggiare il sostanziale via libera addirittura della Bce a un’altra loro proposta: la norma interpretativa firmata dal leghista Claudio Borghi che chiarisce come le riserve auree gestite da Bankitalia restino sempre proprietà “impregiudicata” dello Stato.