Siamo assediati dai turisti rapaci

Il turismo di massa sta cambiando geneticamente non soltanto Venezia e Firenze, ma anche Roma, la più vasta delle città storiche che fino a qualche anno fa si era in parte difesa grazie proprio alla dimensione della città antica. Esso è divenuto più concentrato e più mordi-e-fuggi.

Il più veloce, in assoluto, è quello dei crocieristi delle maxi-navi. Non soltanto a Venezia. A Roma non attraccano per fortuna alle banchine del Tevere, si fermano a Civitavecchia primo porto passeggeri d’Italia, e il mercoledì arrivano nella Capitale i loro clienti, in pullman o in treno creando problemi ai pendolari della linea tirrenica. Il mercoledì coincide con l’udienza papale e quindi crea ulteriori sovraffollamenti verso San Pietro. I crocieristi sostano a Roma poche ore, il tempo per un giro ai Fori, al Colosseo, piazza Navona, una pizza e poco altro e poi riprendono la via del mare. Un turismo ingombrante che lascia ben poco dietro di sé. Quanti dei frettolosi visitatori (i più frettolosi sono i cinesi) va al di là dell’itinerario Vaticano (che poi è Cappella Sistina, neanche le Stanze di Raffaello)-Fori-Colosseo?

Un turismo veloce, di corsa, che va sempre più alla ricerca di soluzioni economiche, sia sul piano del pernottamento sia su quello della ristorazione, con una ulteriore dequalificazione dei servizi. Si pensi che a Roma il soggiorno si è ormai ridotto a 2,63 giorni. Firenze sta ancora un po’ più sotto, 2,60. Venezia a 2,32 giorni di permanenza. Veramente poco. Ovviamente cala di molto, parallelamente, la spesa pro-capite di questo turismo ultraveloce. Va un po’ meglio nei centri d’arte della provincia: a Pisa per esempio i turisti si fermano circa tre giorni e a Viterbo quattro, ma si tende, anche qui, a ridurre pernottamenti e spese.

Dieci anni fa, nel 2009, gli arrivi di turisti a Roma erano calcolati in 9.620.000 e le presenze in 24.481.861 con una media di 2,54 giorni. Le camere offerte erano circa 47.000 e i posti-letto oltre 94.000. L’87% dei letti alberghieri erano in hotel da 5, 4 e 3 stelle. Nel 2017, otto anni dopo, gli arrivi sono risultati 12.403.438 con un incremento del 3% scarso e le presenze sono risultate 29.293.952 con un aumento vicino al 2% e quindi una riduzione del soggiorno a 2,36 pernottamenti. Risultati appena discreti o mediocri. Con profondi mutamenti però nella geografia dell’ospitalità. La percentuale di posti letto disponibili nella fascia alta, del fly-to-quality, cioè degli hotel da 4 e 5 stelle è cresciuta, certamente: una sessantina di hotel a 4 stelle in più e una decina di 5 stelle in più, a fronte di un netto calo dei 3 stelle e a una sorta di collasso degli alberghi a 2 e a 1 stella. Sostituiti ad abundantiam dall’offerta di B&B, Airbnb, case di vacanze, affittacamere, case religiose, ecc. emerse e sommerse.

La vera esplosione di questi ultimi dieci anni è tuttavia quella della offerta di appartamenti, camere o addirittura letti in maniera incontrollata. Sia chiaro, nessuno di noi è contrario a una sana, regolata, garantita concorrenza nel settore dell’ospitalità. Ma qui ci troviamo di fronte a un fenomeno incontrollato, lasciato largamente correre nel sommerso, con ripercussioni gravi sul piano della qualità, della trasparenza, della trasformazione urbana, dell’evasione fiscale, dell’igiene e della sicurezza. In tempi di terrorismo internazionale che in una metropoli esposta come Roma ci siano – come sostiene il presidente di Federalberghi, Giuseppe Roscioli – più di 20.000 offerte in Rete, non è per niente rassicurante. Negli anni di piombo del terrorismo nazionale venne istituito l’obbligo per alberghi e pensioni di denunciare alla Questura i rispettivi ospiti. Obbligo che continua. Ma cosa arriva dalle migliaia di strutture abusive o soltanto in parte legali? Nulla di nulla. E sappiamo da casi recenti quanto può essere rischioso: che senso ha schierare truppe in piazza Navona se intorno ci sono camere in affitto del tutto incontrollabili?

L’abusivismo diffuso della ricettività turistica ha anche ripercussioni non secondarie sulla sporcizia della città più visitata la quale si offre ingombra di sacchetti e sacchi di plastica di immondizia, spesso sventrati di notte (e anche in pieno giorno ormai) da gabbiani, cornacchie e altri animali. Sacchi e sacchetti che decorano strade e vicoli quasi permanentemente. Da una parte, per ragioni di sicurezza, l’Ama ha abolito i cassonetti nei rioni storici, dall’altra B&B abusivi, affittacase e camere si guardano bene dal dotarsi – come devono fare i residenti normali – di contenitori differenziati per la spazzatura da piazzare negli androni, anche quando questi ci sono. In realtà molto spesso utilizzano per affitti brevi mini-appartamenti o ex laboratori direttamente affacciati sulla strada, a volte veri e proprio loculi coi letti a castello e uso di cucina. Di qui sacchi e sacchetti abbandonati per strada e la permanente sporcizia diffusa per ogni dove. In certe zone sarebbe bastato mantenere i cassonetti sul Lungotevere, ma quegli spazi sono stati utilizzati per parcheggiarvi i pullman turistici.

C’è poi il problema tutt’altro che secondario della evasione fiscale in generale e dell’imposta di soggiorno in particolare. Su Repubblica Ettore Livini ha scritto (21 giugno 2019): “L’Italia si è mossa finora in ordine sparso. Diciotto Comuni (su 997) hanno affidato alla piattaforma Usa la raccolta diretta della tassa di soggiorno. Firenze ha incassato 6,8 milioni di euro nel 2018. Milano 2 milioni nei primi due mesi di applicazione. Briciole rispetto all’evasione legata al business”. Airbnb ha infatti registrato per la sola Roma 218 milioni di entrate, per Milano quasi 94 e 107 per Venezia. Rimasti intonsi? Pare di sì.

È la sharing economy bellezza! fa notare qualcuno, sharing economy che dilaga in tutte le capitali del turismo. Che si sono però dotate di strumenti di controllo e di politiche di repressione ben più forti e che mostrano la volontà di fare chiarezza nel mercato turistico. I Comuni devono essere dotati dalla Regioni di strumenti di indagine e di regolarizzazione molto più forti. La Capitale, per essere considerata tale, deve avere una gestione speciale, come hanno, in forme diverse ma pur sempre speciali, la Greater London, la Grand Paris, Berlino e la stessa Madrid. Ma anche in attesa di questi strumenti speciali collegati al fatto fondamentale di essere riconosciuta Capitale del Paese, dalla collaborazione fra Campidoglio e Regione deve sortire, anche in materia turistica, una strategia politica che valorizzi la qualità dell’ospitalità, punti su eventi culturali più diffusi e duraturi, eviti la desertificazione del centro storico o, peggio, la sua trasformazione in una mediocre costellazione di affittacamere, un banale, confuso e anche pericoloso “divertimentificio” permanente. Nel quale i cittadini non hanno più alcun ruolo, perché non ci sono più.

Matteo, un ministro che minaccia i rom sui social network

Come dimostrano i periodici test delle Iene che si appostano davanti al Parlamento per sottoporre deputati e senatori a domande di cultura generale (“Cos’è una moschea?”, “il luogo dove pregano gli ebrei”), i nostri politici non hanno paura di fare brutte figure e pur di andare in tv farebbero e direbbero qualunque cosa. Del resto la reputazione non esiste più, e manco la vergogna: il consenso è l’unico valore superstite. Solo che ormai siamo talmente assuefatti a certi comportamenti che non vediamo quando si passa il segno. Lo ha fatto – sai che novità – il ministro delle esternazioni Matteo Salvini. Ieri dichiarava sul Tav “leggero”, “amo i treni che corrono”; l’altroieri sulle Olimpiadi che adesso gli piacciono, ma quando le proponeva Renzi per Roma no; qualche giorno fa invece ha pubblicato sui social un violentissimo post di minacce e insulti a una donna, pluripregiudicata per furto (condannata a 25 anni di carcere e liberata perché incinta per l’undicesima volta). Giudicate voi se un ministro della Repubblica può associare la sua persona (e soprattutto la sua funzione pubblica) a queste parole: “Questa maledetta ladra in carcere per trent’anni, messa in condizione di non avere più figli, e i suoi poveri bimbi dati in adozione a famiglie perbene. Punto”.

Madame furto – così è stata ribattezzata Vasvija, 33enne rom di origine bosniaca senza fissa dimora, con un conto in sospeso con la giustizia grande come una casa – non si scompone mai quando la arrestano (“Tanto non farò un giorno di galera, come tutte le altre volte”, disse l’estate scorsa quando l’avevano beccata a Termini). Madame è sempre enceinte, come si direbbe in un romanzo vittoriano, e usa la circostanza come scudo. Più o meno ha un figlio ogni due anni di galera e qui la matematica è fondamentale, come ben si dimostra nell’indimenticabile Ieri, oggi e domani di Vittorio De Sica. Nell’episodio Adelina (firmato da Eduardo De Filippo) Sophia Loren vive a Forcella, campa vendendo sigarette di contrabbando – “Americane, inglesi, svizzereee” – e costringe il marito disoccupato (Marcello Mastroianni) a periodiche maratone coniugali per assicurarsi di tenere sempre “la panza”. Qui c’è poco da fare poesia, come nella commedia che vinse perfino l’Oscar: l’ultima volta Madame furto è stata arrestata dopo avere derubato, insieme ad altre colleghe, una donna di 86 anni, disabile in sedia a rotelle. Nessuna indulgenza, per carità, verso chi si approfitta dei più deboli. E tuttavia un ministro mai e poi mai può invocare la sterilizzazione di una donna, manco fosse un gatto randagio. Non può minacciare qualcuno anche se è pregiudicato, non lo può mettere alla berlina. Non può perché rappresenta la comunità e le sue regole, non solo perché ha giurato sulla Costituzione (speriamo, dopo averla letta) e nei Paesi democratici si amministra la giustizia, non la vendetta. Non può soprattutto perché un rappresentante dei cittadini non espone al pericolo del linciaggio una persona per quanto poco raccomandabile. Se qualcuno ha dubbi su chi sia più vile (chi abusa di un infermo o chi del proprio potere?), è certo chi sia più responsabile. Ora, come i nostri lettori sanno, noi non siamo tra quelli che ogni cinque minuti gridano alla dittatura fascista alle porte: crediamo che la cornice repubblicana, i diritti costituzionali e le garanzie dello Stato di diritto non siano in pericolo. Però attenzione: le parole sono l’anticamera dei fatti e la violenza verbale di governo sta diventando inaccettabile. Qualche settimana fa, Salvini ha giustamente denunciato il silenzio sotto cui passano le numerose minacce che riceve: dovrebbe seriamente chiedersi se non sia il momento di mettere la museruola alla Bestia.

Prima caccia al tesoro in cui i cacciatori si stampano il tesoro

Se vi piace la caccia al tesoro – come gioco, passatempo, rebus enigmistico, giallo intricato o citazione letteraria – siete nel posto giusto. E la caccia al tesoro presuppone che ci sia un tesoro, che nessuno sappia dov’è, oppure che chi sa dov’è lo tenga ben nascosto agli altri concorrenti, come fa il viceministro all’Economia, Massimo Garavaglia: “Le coperture ci sono, non le dico altrimenti Di Maio me le ruba”.

Questa immagine di Di Maio che ruba le coperture a Garavaglia, pare una nuova variante della politica economica – gli studiosi la collocano tra Keynes e Macario – e intanto veniamo a sapere per vie traverse (lo dice uno degli economisti ultrà della Lega, tale Rinaldi) che il tesoro che tutti cerchiamo è di 53 miliardi di euro. Il giallo s’infittisce. Cresce la tentazione di catturare e torturare Garavaglia perché dica tutto: “Dove sono ’ste coperture? Parla subito, oppure diamo il tuo numero di telefono a Calenda!”. Che orribile minaccia. Mentre si segue la pista principale – Garavaglia sa dov’è il tesoro e Di Maio si mette la tutina da Diabolik per derubarlo – nella Lega dilaga il surrealismo. Da Losanna Giancarlo Giorgetti, potentissimo della Lega, una specie di Salvini senza cotechino nell’inquadratura, manda platealmente al diavolo un sedicente economista della Lega, Claudio Borghi, negando la possibilità di calcolare come parte del tesoro i famosi mini-bot. In effetti sarebbe la prima caccia al tesoro al mondo in cui i cacciatori si stampano il tesoro da soli.

Il ragionamento di Giorgetti ha un senso: “Se i mini-bot si potessero fare li farebbero tutti”. Elementare. Che è anche, tra parentesi, la cosa che dovrebbe dirsi sempre chi ha un’idea nuova: magari se non l’ha mai fatto nessuno prima, ci sarà un motivo. Come per incanto, riparte l’epopea dei mini-bot, che è una sotto-trama del giallo principale (il tesoro da 53 miliardi). Non solo i mini-bot nessuno sa esattamente cosa sono, ma nessuno sa nemmeno come si scrive mini-bot (io scelgo il trattino radical-chic, ma qualcuno lo scrive tutto attaccato, mini-bot, e altri con lo spazio, mini bot). È un po’ come se si discutesse del ritorno alla li-ra o alla l’ira.

Grande confusione. Alimentata dal fatto che alcuni sostenitori del mini-bot ne hanno diffuso dei fac-simile dove ci sono Tardelli, Falcone e Borsellino e Oriana Fallaci (5, 10, e 20 euro), e invece di pensare a cercare il tesoro, tutti hanno cominciato a discutere forsennatamente: e perché non Pertini? E Sophia Loren, no? Eccetera, eccetera. Divertente, ma ricordo a chi si è distratto dicendo la sua (e Totò?), che stiamo sempre cercando 53 miliardi di euro che solo Garavaglia sa dove sono (ma non lo dice).

Naturalmente i mini-bot avrebbero un nobile scopo: quello di saldare i fornitori della pubblica amministrazione che vengono pagati con enorme ritardo con soldi veri, mentre così verrebbero pagati in tempi ragionevoli con mini-bot da cinque euro sui quali campeggia Tardelli esultante perché ha segnato alla Germania, oppure la sora Fallaci che voleva far saltare le moschee in Toscana. Lo spericolato immaginario leghista.

Del resto, l’alternativa è secca, e questo lo dice sempre il Rinaldi di cui sopra, leghista economico: per trovare 53 miliardi “o si usa la bacchetta magica o si usano i mini-bot”. Bene, apprezziamo le basi scientifiche del ragionamento. Resta da capire come, quando, quanto, in che modo funzioneranno, chi li potrà ricevere, o magari spendere, o magari (esagero, attenzione) incassare come fossero soldi veri. Intanto che (non) se ne discute continua la caccia al tesoro, che è quel che poi è diventata da anni la vera pratica italiana della politica economica, un cercare riserve dimenticate, tesoretti spuntati dal nulla, risorse insperate. Garavaglia, che sa, tace, se no Di Maio gli ruba le coperture.

Col grande evento lo spreco. È sicuro

Nella sfida per ottenere le Olimpiadi invernali 2026, la strana abbinata Milano-Cortina e la Patria tutta, ha trionfato contro un unico concorrente. Ma abbiamo addirittura corso il rischio di correre da soli: Stoccolma ha manifestato forti perplessità, prima di decidersi a partecipare alla competizione. E subito, all’indomani del trionfo, qui da noi si stimano strepitosi benefici economici: come mai allora non c’era una coda di aspiranti alle porte dei giudicanti? Ovviamente perché questi mirabolanti benefici non sono considerati tali dalla maggioranza delle nazioni candidabili (non si vuole mettere nell’elenco la Giamaica, ma insomma…).

Il primo problema con questi grandi eventi è che troppo spesso le analisi ex post smentiscono quelle ex ante, e non soltanto perché i costi tendono a esplodere, come capita quando ci sono di mezzo molti soldi pubblici. Il problema è che il metodo che si usa sempre in Italia, quello del “Valore aggiunto”, citato anche dal vicepremier Matteo Salvini e da molti studiosi assai poco avvezzi a dire dei “No”, di solito porta a dire “Sì” a qualunque progetto. Infatti una certa quantità di Valore aggiunto, quando si spendono dei soldi pubblici o privati, si ottiene sempre: è composto dalla somma dei maggiori salari che ogni spesa genera e dai maggiori profitti delle imprese che producono beni e servizi (è la remunerazione aggiunta dei fattori della produzione).

È ovvio che con questo unico criterio di valutazione i risultati non possono essere che positivi. Politici e imprenditori e sindacati ne sono ovviamente felicissimi e commissionano a mani basse a professori esultanti analisi da condurre con questo approccio. Ma appare altrettanto ovvio che usare questo metodo per singoli progetti non ha senso. Altrimenti faremmo cinque Olimpiadi, due Expo, un giubileo e tre Tav all’anno. Forse non è il caso.

Occorre almeno estrema prudenza nel come questa analisi sul “Valore aggiunto” viene usata, evitando per esempio di considerare come benefici consumi aggiuntivi, mentre ne sostituiscono altri. Occorrerebbe soprattutto affiancare questo tipo di analisi, che spinge sempre a dire di sì, alla ben più severa analisi costi-benefici, che non assume implicitamente il costo dei fattori produttivi come nullo. Meglio ancora se corredata da una modellistica adeguata, come per esempio quella nota come Cge (Computable General Equilibrium).

Il professor Jérôme Massiani, molto più esperto di chi scrive nell’analisi di grandi eventi, oltre a raccomandare estrema prudenza, osserva che dai dati ex ante questa olimpiade non sembra messa male, se starà rigorosamente nei costi previsti.

Pensiamo al caso di Expo 2015 a Milano, considerata dai più un grande successo, nonostante i conti estremamente opachi: il preventivo per le infrastrutture esterne era di 9,5 miliardi di euro, un multiplo di quello per la manifestazione vera e propria, sui cui risultati resi pubblici pur vi sono stati vivaci dibattiti. Nulla invece è stato rendicontato dei quei 9,5 miliardi di soldi pubblici, né dal punto di vista economico né finanziario né procedurale. La motivazione implicita era stupefacente: trattandosi di opere pubbliche, erano sicuramente utili alla collettività. Il dibattito è come sempre inutile, tutto quello che rileva è l’arbitrio del principe benevolo e onnisciente.

Qualcosa si sa comunque, ma è pochissimo: non tutti quei soldi sono stati spesi, e sicuramente molte opere costosissime realizzate sono rimaste del tutto inutilizzate. Vi sono raccordi autostradali multilivello per collegarsi a parcheggi rimasti deserti che neanche Los Angeles… Basta dare un occhio a Google Maps. E come sono stati affidati lavori miliardari di dubbia utilità? Nessuno lo sa né lo saprà.

Poi in questi casi c’è sempre grande fretta, le scadenze sono impossibili da rispettare e di gare a volte proprio non se ne fanno, oppure se ne fanno di molto particolari. E figurarsi in tempi sovranisti come questi quanto spazio troveranno nelle gare costruttori polacchi o fornitori di impianti croati… Vi sono già stati grotteschi tentativi in passato di gridare “non passa lo straniero!” per eventi simili.

Oppure chissà, forse per le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina non andrà così, forse dell’utilità delle opere pubbliche aggiuntive sarà reso conto fino all’ultimo centesimo, con analisi finanziarie e costi-benefici sia ex ante che ex post, e non affidate a studiosi di parte, come è notoriamente chi scrive sempre male di spese pubbliche che fanno felici tanta brava gente. Chissà.

Mail box

 

Sanzioni Ue, la Germania alza la voce ma rischia per il surplus

Caro Fatto Quotidiano, da quando esisti ogni giorno ti comprai all’edicola, e ti apprezzai; continuerò a farlo fino alla mia vicina morte, qualunque cosa tu scriva, perché siete un gruppo di giornalisti intelligenti, coraggiosi, leali.

Ma perché insistere nell’ironia germanofoba-Weidmannofoba? Il surplus commerciale tedesco non deriva da alcun privilegio, deriva solo dalle loro virtù collettive. Sanno seriamente produrre beni-servizi, che gli altri apprezzano e comprano. L’Ue è composta dall’inaffidabile Uk, dalla brava Germania, da 27 altri Stati meno bravi. Noi siamo quelli che si presentano peggio, adoranti il rozzo Salvini che sa solo farneticare sgangheratamente: “Prima gli italiani!”. Io mi sento integralmente filo-Weidmann e filo Germania.

Giorgio Ruffini

 

Caro Giorgio, grazie di cuore per le tue belle parole. Ma se la Germania viola le regole Ue sul surplus commerciale, deve essere sanzionata come Berlino decide spesso che veniamo sanzionati noi per il deficit e il debito. Non credi?

M. Trav.

 

Capaccio: il corteo di ambulanze cosa nasconde?

Due settimane fa Franco Alfieri è stato eletto sindaco di Capaccio (dopo essere stato eletto, in passato, a Torchiara e Agropoli) e festeggiato con un corteo di autoambulanze, notizia riportata su tutti i giornali. Ma è stata sottovalutato il fatto che Alfieri è diventato sindaco grazie soprattutto al suo legame con Roberto Squeccio, un imprenditore condannato in Cassazione per estorsione con metodo mafioso.

L’alleanza di Alfieri con Squecco è dimostrata sia dall’inaugurazione della campagna elettorale con una grande festa evento al lido Kennedy, di proprietà dell’imprenditore, e con la presenza di Piero De Luca, sia dall’elezione come consigliere comunale nelle liste di Alfieri della moglie di Squecco.

L’attenzione di tutti continua ad essere puntato sul corteo delle ambulanze di proprietà di Squecco.

L’Asl di Salerno ha aperto un’indagine, mentre sia Vincenzo De Luca che Nicola Oddati, neo responsabile del Partito democratico per il Mezzogiorno, hanno stigmatizzato l’imbecillità di chi ha organizzato il corteo di ambulanze. Cosa aspetta il segretario del Pd Zingaretti a prendere dei provvedimenti nei confronti di Alfieri?

Franco Pelella – Pagani (SA)

 

Non è solo colpa del governo: i cittadini rispettino le regole

Sono un italiano che ha sempre scelto il Belpaese per le vacanze. Per la prima volta sono rientrato da un viaggio in una regione italiana che non avevo mai visitato e ho conosciuto un territorio offeso, ferito, non amato. Abusivismo edilizio all’estremo, uliveti trasformati in villaggi fantasma, con villette bifamiliari costruite a metà con il cartello in vendita, condomini in area marina non finiti e abbandonati, pale eoliche ferme o rotte. Tutto a 60 metri dal mare, vicino una pineta incolta, che sembra dire “sono ancora qui a dispetto degli abitanti del posto”. Dopo alcune escursioni ho preferito rimanere nel villaggio aspettando che finisse la vacanza, deluso e arrabbiato per avere conosciuto un’Italia vilipesa dai cittadini e non dai politici o dal governo, come oggi è costume dire.

Enrico Reverberi

 

Zeffirelli, un regista pop per capolavori “democratici”

Un recente intervento di Tomaso Montanari sul suo blog fa da salutare controcanto alla stucchevole fioritura di ciarpame retorico in occasione della scomparsa di Franco Zeffirelli. Condivido il giudizio incisivo: siamo di fronte ad un esteta che sembra aver concepito l’arte in chiave puramente edonistica. La funzione vera e profonda dell’arte non è questa. E tuttavia, a mio avviso, non tutto è da buttare. Il suo approccio ad opere grandissime (penso soprattutto alle regie teatrali) si è mantenuto sostanzialmente alieno dalle velleitarie sovrapposizioni personali su capolavori che impongono umiltà. Un regista pop, che ha democratizzato l’insegnamento del suo mentore Luchino Visconti. E in una società come la nostra, in cui tanti, troppi mali nascono da un sostrato di ignoranza, questo mi pare un merito non disprezzabile. Definirei le sue regie “democratiche”: una mia vicina di casa, estimatrice assidua di spettacoli Mediaset, mi ha chiesto in prestito la Traviata dopo aver visto in Tv quella zeffirelliana. Confesso che mi si è allargato il cuore, e che ho mentalmente ringraziato quell’esteta reazionario augurandogli il paradiso.

Roberta De Simone

 

I NOSTRI ERRORI

Venerdì sera a Montecitorio per il voto sul decreto Crescita Matteo Orfini, Luciano Nobili e Paolo Siani erano presenti in aula, al contrario di quanto da noi scritto. Ce ne scusiamo con i lettori e con gli interessati. Tra gli 82 assenti, c’erano però anche Ettore Rosato e Gennaro Migliore (anche loro della minoranza renziana): la questione politica resta confermata.

Wa. Ma.

I retroscena. Non ci avevate promesso di scrivere di politica in modo diverso?

Da assiduo lettore del Fatto, ho letto l’editoriale del direttore di venerdì di rara lucidità e precisione. Poi mi addentro nella lettura degli altri articoli del giornale e, sempre più, mi imbatto in espressioni tipo: “Come sussurra un parlamentare a lui vicino; come ammette una fonte di governo; riassume lo staff; più perfide le consuete fonti del M5S; dicono ai piani alti; ma alcuni parlamentari raccontano che il capo politico l’abbia presa malissimo”. Ricordo i propositi, al varo del (nostro) quotidiano di non voler imitare le altre testate ricorrendo a parole ed espressioni convenzionali. Capisco che è difficile ottenere informazioni dalle fonti dirette, ma uniformarsi così alla maggioranza delle altre testate, con notizie e congetture che puntualmente vengono smentite dai fatti, sinceramente mi rende sempre più noioso e disturbante procedere alla lettura di questi articoli.

Stefano Daniele

 

Caro Stefano, grazie per la lettera precisa e argomentata. Da lettore, non posso che condividere le sue perplessità. Anche io trovo di limitato interesse i cosiddetti “retroscena”, soprattutto perché spesso occupano molto più spazio nei giornali del racconto della scena, cioè delle decisioni, dei provvedimenti, dei dati. Detto questo, da cronista e poi da vicedirettore, ho dovuto prendere atto che è quasi impossibile raccontare la politica italiana escludendo quell’aspetto paludato e vischioso che lei ben sintetizza: l’intreccio tra fonti anonime, veline, articoli che sembrano retroscena e sono interviste mascherate, interviste che hanno il solo scopo di mandare messaggi criptati, colloqui (cioè interviste in cui l’intervistato vuole apparire, chissà perché, solo a metà), corsivi anonimi e analisi firmate da giornalisti che vanno letti soltanto perché hanno la reputazione di essere portavoce occulti di certi politici. Non si tratta (soltanto) di cattivo giornalismo, ma (soprattutto) di cattiva politica. Purtroppo è quella che abbiamo in Italia. Qui al “Fatto” il nostro sforzo è di raccontarla, anche se per seguirla da vicino si finisce per assorbirne qualche tratto anche linguistico, ma affiancando al flusso limaccioso di indiscrezioni e mezze verità da decodificare anche fact checking, analisi, commenti, per fino meta-giornalismo (racconto e spiegazione dei messaggi fatti passare attraverso i media). È un equilibrio difficile da trovare. Per riuscirci, abbiamo bisogno anche di lettori come lei che pretendono chiarezza e onestà intellettuale in cambio della loro scelta quotidiana di guardare il mondo attraverso i nostri occhi.

Stefano Feltri

Orchestra siciliana, la direttrice Udc cede al professore

Fuori la candidata dei presidenti della Regione e dell’Assemblea regionale siciliana, Musumeci e Miccichè, Ester Bonafede, dentro Antonino Marcellino, 57 anni, docente di Musicologia all’Università Tor Vergata di Roma, nominato dal consiglio di amministrazione della Foss sovrintendente dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. Si chiude con la nomina di un musicologo dal curriculum ineccepibile il braccio di ferro con Musumeci che fino all’ultimo ha minacciato il commissariamento dell’Ente, dopo il rifiuto a insediare la Bonafede, esponente dell’Udc, al centro di conflitto di interessi per un contenzioso con la Foss, da lei guidata negli anni scorsi, finito anche alla Corte dei Conti. Per lei si erano spesi anche il capogruppo Udc Eleonora Lo Curto e Gianfranco Miccichè, che avevano invitato il presidente della Foss Stefano Santoro alle dimissioni. Il delegato di Musumeci è persino uscito dall’aula al momento della votazione ma il cda è andato avanti lo stesso: “Abbiamo fatto – ha detto Santoro – una scelta sostenuta dal curriculum del professor Marcellino”.

“A chi fa ancora paura Peppino?” Colpite le targhe in memoria e la scuola intitolata a Impastato

A maggio è stata danneggiata la targa in via Felicia Impastato, ai primi di giugno hanno distrutto l’impianto elettrico dell’istituto Manzoni-Impastato nel quartiere Noce di Palermo alla vigilia di un incontro con Giovanni Impastato; il 18 giugno la furia dei vandali si è scaricata sulla targa dedicata a Peppino, inaugurata dal fratello Giovanni il giorno prima. E il 19 giugno, a Brolo (Messina), ignoti hanno rotto la targa dedicata al militante di Democrazia Proletaria ucciso a Cinisi, sul lungomare. A chi fa paura la memoria di Peppino Impastato? Se lo chiede dopo quest’escalation di violenza, il professore Salvo Vitale, che di Peppino fu compagno e amico: “Non sappiamo se ci sia un collegamento tra tutti questi episodi, non sappiamo se questi devastatori siano organizzati o affiliati alla mafia, se siano dei giovani in cerca di mettersi in mostra e di trovare una propria appartenenza in ambienti criminali – dice Vitale –. Si tratta di goliardia, di ragazzate, di rabbia, o c’è altro? Notiamo un clima diverso nelle ultime manifestazioni in cui è coinvolta Casa Memoria con la presenza di Giovanni Impastato, ed una particolare attenzione e mobilitazione delle forze dell’ordine che prima non si era vista in questi incontri, anche fuori dalla Sicilia”.

Dove i vandali hanno colpito con la stessa, furiosa, determinazione oltraggiosa: l’8 aprile scorso a Buccinasco, in provincia di Milano, nel murale per Peppino Impastato, firmato dallo street artist Giovanni Berets Beretta e inaugurato a marzo, è comparsa la scritta “W il duce”, oltre a una sigaretta fumante disegnata sul volto di Peppino. “Domani sarà riposizionata la targa nel Giardino Peppino Impastato – conclude Vitale – e siamo pronti insieme a chi ha sostenuto questo progetto di bonifica del parco di metterla anche altre mille volte, ancora qui o in altri posti se sarà necessario”.

Non paga gli alimenti, Morgan sfrattato: “Questa non è giustizia. Da Vasco a Ligabue, lasciato solo”

È andato via su un’auto scura, gli occhiali da sole e il sorriso dopo aver sfogato tutta la sua rabbia Marco Castoldi, alias Morgan, costretto a lasciare la sua abitazione di Monza pignorata ieri mattina, alla presenza dell’ufficiale giudiziario e della Polizia di Stato. Il provvedimento, emesso dal Tribunale di Monza, è conseguenza delle richieste di risarcimento a fronte del mancato pagamento degli alimenti alla figlia, da parte dell’ex moglie Asia Argento, che il cantautore ha definito “spietata”. Ieri Morgan ha sperato fino all’ultimo in un ulteriore rinvio, dopo quello concesso lo scorso 14 giugno. Poi, quando l’ufficiale giudiziario e le forze di Polizia in borghese hanno varcato l’ingresso, per qualche minuto ha perso la calma. “Sono venuti a portare fuori con la forza persone che non vogliono lasciare la loro abitazione”, ha urlato il cantante. E ancora: “Se capitasse a vostro padre o vostro figlio non avreste questa faccia. Questa è la legge ma non è giustizia, la giustizia è un’altra cosa”. L’ex frontman dei Bluvertigo non ha risparmiato neppure i colleghi che, a suo dire, lo avrebbero lasciato solo: “Da Vasco a Ligabue a Jovanotti, hanno come priorità il loro disco, come se al mondo importasse”. Il cantante ha detto di aver trascorso l’ultima notte scrivendo due canzoni, una dal titolo “la casa”.

Si dimette il primo sindaco 5stelle del Piemonte. Di Maio: “Clima difficile in maggioranza”

Alle 15.06 ha protocollato la lettera di dimissioni e in serata il sindaco Roberto Falcone l’ha letta in consiglio comunale. Si è chiusa così l’esperienza amministrativa del M5s a Venaria Reale, paese alle porte di Torino, il primo guidato dai pentastellati in Piemonte. Falcone aveva cominciato nel 2015, un anno prima della vittoria di Chiara Appendino nel capoluogo, vincendo al ballottaggio col 70 per cento circa delle preferenze. Aveva ancora dieci mesi di mandato, ma “a fronte del reiterarsi di atteggiamenti e comportamenti che ritengo irresponsabili e distruttivi di una parte della mia maggioranza”, il primo cittadino rileva “l’impossibilità di procedere nel governo”. “L’azione della sua giunta è stata ostacolata da un clima difficilissimo all’interno della stessa maggioranza, con azioni che erano improntate a fare emergere protagonismi”, sostiene Luigi Di Maio annunciando provvedimenti contro “chi mina l’azione dei sindaci 5 stelle”. Negli ultimi mesi la maggioranza di Falcone traballava. Poi pian piano sono venuti meno alcuni pezzi. Alla metà di maggio si era dimesso il suo vice e assessore al Bilancio Angelo Castagno. A fine maggio al voto sulla variazione di bilancio è mancato il numero legale per via di quattro assenze, quelle del presidente del consiglio comunale, Andrea Accorsi, e dei consiglieri Luca Stasi, Rosa Antico e Giovanni Battafarano. Falcone ha invocato la loro espulsione, ma il primo ha lasciato il M5s e gli altri tre si sono dimessi, lasciando una maggioranza risicata. “Ora sembra lui la vittima, ma tutto ciò è conseguenza della sua chiusura – è la versione di Stasi -. Mancava la democrazia interna”. Falcone, sostiene l’ex consigliere, non avrebbe ascoltato la sua maggioranza: “Molte volte ha posto un aut aut: o si faceva come voleva lui, o si dimetteva”. Nel 2017 poi si erano dimessi altri quattro consiglieri, tra cui l’allora capogruppo Raffaela Cantella che già due anni fa denunciava questi comportamenti di Falcone: “Non ha mai voluto instaurare un rapporto di collaborazione e non mi ha mai chiesto di incontrarci se non per riportare cose che già erano state messe in moto”, scriveva in una lettera aperta.