Ultrà fascisti della Curva Sud all’assalto del parco “rosso”

Ci sono quattro ettari di verde a Roma, il parco Andrea Campagna (intitolato all’agente della Digos ucciso nel 1979 a Milano dai Proletari armati per il comunismo), che dal 1981 sono gestiti da un’associazione, poi divenuta cooperativa, di giovani compagni poi divenuti signori di 60 anni. Un vecchio autobus regalato all’epoca dall’Atac, trasformato in bar, punto ristoro, è il simbolo di questo spazio “legalizzato” nel 2006 dal sindaco Walter Veltroni. I vecchi occupanti divennero legittimi responsabili, addirittura il fondatore del Pd fece costruire una struttura di legno ad arco sopra l’autobus fermo, con locali di servizio. La cooperativa si chiama On the road e in 38 anni è diventata un punto di riferimento per il quartiere, passando indenne anche all’assalto di Salvatore Buzzi perché Mafia Capitale aveva messo gli occhi pure su questo fazzoletto incastonato nel quartiere Monti Tiburtini, periferia est della metropoli, non lontana da quella Casal Bruciato salita agli onori delle cronache per la vicenda dell’abitazione assegnata alla famiglia rom con annesse proteste organizzate da CasaPound.

Anche qui si sente l’aria dell’abbandono, con i cassonetti stracolmi di rifiuti che ammorbano l’estate di Roma. E anche qui l’estrema destra è protagonista, infatti alcuni degli ultrà romanisti dei Boys, che da almeno un anno cercano di prendere possesso del parco a scapito della coop On the road, sono legati a doppio filo con i cosiddetti fascisti del terzo millennio.

Botte da orbi, ultimamente, non sono mancate. Il 9 giugno il primo episodio. È una tranquilla domenica romana e la coop concede lo spazio alla comunità filippina della zona, una quarantina di persone che festeggiano un compleanno. I “neri” si avvicinano, chiedono da bere, fanno i prepotenti. L’atmosfera si scalda, “i filippini ci hanno rubato un telefonino”, accusano i camerati, volano schiaffi, pugni, viene ferito al volto un ragazzo romano, disabile, tifoso della Roma, come gli ultrà che lo picchiano. La festa finisce, le persone scappano. Gli ultrà nei giorni seguenti rompono le serrature dell’autobus e della struttura di legno. Ci mettono i lucchetti, conquistano il territorio. Alcuni di loro sono pregiudicati. Qui lo spaccio di droga non manca. I responsabili di On the road hanno paura. E fanno bene. Giorgio Di Fazio, 51 anni, pregiudicato “recuperato” dalla coop, non commette reati da dieci anni, la mattina del 10 giugno viene malmenato e allontanato di peso dall’autobus. Maurizio Zaia e lo stesso Giorgio vengono avvicinati e picchiati la sera del 15 giugno. Maurizio, storico animatore della cooperativa insieme al fratello Claudio, attuale presidente, rimane per terra ferito. I carabinieri, accorsi, impediscono che finisca peggio.

Il capo degli ultrà, Massimo er Pelato, si aggira minaccioso insieme ai suoi sgherri, anche ieri, mentre famigliole con bambini passeggiano e gruppi di anziani discutono a voce alta di politica e di calcio. Fanno base in un baretto della vicina via Meda. “Sta di nuovo là quello, andiamo a tirarlo via”, dice uno di loro riferito a Giorgio, che ha passato la notte dentro l’autobus a cui è stata nuovamente cambiata la serratura dalla coop. “Ma così abbiamo paura – si sfoga Maurizio –, abbiamo restituito questo posto al quartiere con anni di duro lavoro. Questi alberi li abbiamo piantati noi. Prima Mafia Capitale, oggi questi criminali: ci vogliono cacciare. Ma resisteremo”.

Il Pd si spacca sulla Libia: Orfini contro la maggioranza

La collaborazione con la Guardia costiera libica per frenare i flussi di migranti, inaugurata dai governi del Pd ma contrastata dalla sinistra, porta la prima grana per il segretario Dem Nicola Zingaretti. Un gruppo di deputati della minoranza interna, guidati da Matteo Orfini, ma anche della sua corrente, come Enza Bruno Bossio, hanno firmato una risoluzione insieme a LeU e +Europa che chiede la fine della cooperazione con Tripoli mentre la posizione ufficiale del gruppo è per proseguire tale collaborazione (una mozione è stata fatta da Marco Minniti e Lia Quartapelle). Il voto in aula oggi sarà la prova del nove. L’adesione al documento di alcuni deputati dem riaccende il dibattito interno, come avvenne nel 2018 tra favorevoli (il ministro Minniti) e contrari. Tra questi c’era e c’è Matteo Orfini, oggi è in minoranza, ma anche esponenti della sinistra interna che oggi appoggiano il segretario Zingaretti, anche in nome della “discontinuità” con le politiche renziane, come la Bruno Bossio. Il Gruppo Pd ha invece presentato una risoluzione favorevole al proseguimento della cooperazione con Tripoli, come ha sottolineato il capogruppo Graziano Delrio, in continuità con le politiche dei governi Renzi-Gentiloni.

’Ndrangheta in Emilia, c’è un politico di FdI

Come Grimilde, la regina cattiva delle fiabe, l’Emilia-Romagna non vuole più guardarsi allo specchio per vedere le proprie imperfezioni e finge di essere quello che non è. Poco meno di un anno dopo le 119 condanne del maxi processo alle cosche calabresi in Regione, l’inchiesta “Grimilde” svela come la famiglia Grande Aracri non abbia mai smesso di fare affari tra le province di Parma, Piacenza e Reggio Emilia. Insieme al boss Francesco e i figli Salvatore e Paolo, residenti a Brescello – primo (e unico) comune emiliano sciolto per mafia – sono finite in manette altre 13 persone ritenute legate ai clan di Cutro (Crotone).

Giocava un ruolo fondamentale Giuseppe Caruso, fino a ieri politico di Fratelli d’Italia e presidente del Consiglio comunale di Piacenza, ex dipendente delle Dogane, molto noto in città. “Ho mille amicizie, da tutte le parti, bancari, oleifici, industriali, tutto quello che vuoi, io so dove bussare”, diceva intercettato. A lui e al fratello Albino, altro arrestato, nel 2015 chiese aiuto una ditta del Mantovano per uscire da una situazione di difficoltà finanziaria. Secondo i Caruso sarebbe stato “Francesco Ghizzoni”, piacentino, ai tempi amministratore delegato di Unicredit, a risolvere il problema. Ghizzoni, che si chiama Federico ma agli atti è indicato come Francesco, non è indagato e secondo gli investigatori è possibile che i fratelli abbiano millantato la sua conoscenza. Con piglio da imprenditore, Giuseppe spesso consigliava il boss Salvatore: “Io gli parlo chiaro, gli dico: non la dobbiamo affogare st’azienda, dobbiamo cercare di pigliare la tetta e succhiare o no?” Un rapporto quasi paritario: “Ultimamente Salvatore mi dice: ‘Stai a casa, lasciami stare, vediamoci poco’. Perché? Perché è giusto, nel senso che io dal di fuori se ti posso dare una mano te la do, compà, perché al di fuori mi posso muovere. Dopo che si viene ‘bruciati’, la gente ti chiude le porte”.

Il padre di Salvatore, Francesco, era già stato condannato per associazione mafiosa nel 2008. I Grande Aracri sapevano di essere sotto controllo ma non per questo si sono fermati. “Si adattano camaleonticamente alla realtà, da 40 anni cercano di gestire questo territorio muovendosi in una zona grigia – ha sottolineato Francesco Messina, capo della Direzione centrale anticrimine della polizia– si fa un po’ fatica da addetti ai lavori a capire come, in un’area dove c’è una diffusa cultura della legalità, queste cose non si riescano a superare”. Le indagini sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna e hanno impegnato il Servizio centrale operativo della polizia e le Squadre mobili di Bologna, Parma, Reggio e Piacenza. Sedici le misure cautelari, dodici gli accusati di mafia, 76 gli indagati.

I cutresi emiliani facevano affari di ogni tipo: dall’acquisto di 350 villette in Belgio alle minacce contro un pizzaiolo di Reggio, reo di fare concorrenza alla cosca con una pizza migliore. Nessun particolare sfuggiva al loro controllo, dal singolo motorino alla carta di credito American Express, tutto era intestato a prestanome ma la email era sempre sgrandearacri@gmail.com.

SeaWatch, no della Corte Ue. “Nessun diritto allo sbarco”

I 42 migranti sulla nave Sea Watch resteranno ancora in mare. Neppure la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha ordinato di farli sbarcare, spiegando di non poter imporre al governo italiano alcuna “misura provvisoria” che possa sospendere, anche temporaneamente, il provvedimento ai sensi del decreto Sicurezza bis che li tiene da quattordici giorni a 16 miglia da Lampedusa.

I giudici di Strasburgo suggeriscono alle autorità italiane di “continuare a fornire l’assistenza necessaria alle persone a bordo” della nave, “che sono vulnerabili a causa della loro età o delle loro condizioni di salute”.

La decisione è una vittoria dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, che nei giorni scorsi non si era fatto impietosire dalle condizioni dei migranti a bordo della nave, commentando che se fosse stato per lui potevano restare “lì fino a Natale e a Capodanno”, mentre dovevano farsene carico “Olanda e Germania”.

“Anche la Corte europea conferma la scelta di ordine, buon senso, legalità e giustizia dell’Italia: porti chiusi ai trafficanti di esseri umani e ai loro complici – ha detto Salvini –. Meno partenze, meno sbarchi, meno morti, meno sprechi. Indietro non si torna”.

La nave della ong tedesca, battente bandiera olandese, aveva salvato da un naufragio, lo scorso 12 giugno, 53 migranti a circa 47 miglia dalle coste libiche. Il Viminale aveva subito negato lo sbarco, consentendolo solo a dieci migranti tra cui minori e donne incinte e poi a un altro.

La Sea Watch si trova ancora in acque internazionali, per evitare di entrare in territorio italiano e incorrere nelle sanzioni previste dal nuovo decreto sicurezza: una multa fino a “50 mila euro” per l’equipaggio e la possibile confisca dello scafo.

Per questo motivo, il capitano Carola Rackete e i migranti si erano rivolti alla Corte europea, facendo appello agli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione, chiedendo di poter sbarcare subito e presentare le richieste di protezione internazionale.

La Corte ha quindi domandato all’Italia quante persone erano già state scese dalla nave, il loro possibile stato di vulnerabilità, le misure previste, e la situazione attuale a bordo della Sea Watch. Poi ha chiesto ai singoli migranti le loro condizioni fisiche e mentali, e il loro possibile stato di vulnerabilità. Le risposte evidentemente bnon hanno convinto i giudici. L’articolo 39 del regolamento, spiegano, “consente alla Corte di indicare misure provvisorie” ma “solo in caso di rischio imminente di danno irreparabile”.

I legali di Sea Watch hanno espresso “sconcerto” per la decisione, che definiscono “contraddittoria dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali”. Adesso sarà la capitana della nave, Carola Rackete, a decidere se forzare il divieto italiano e avvicinarsi a Lampedusa, come aveva già preannunciato, o dirigersi altrove.

A farsi portavoce dei migranti, che a bordo denunciano di essere “allo stremo” delle forze e di sentirsi in “prigionia”, è stato il Garante dei detenuti, Mauro Palma, che ha presentato un esposto alla Procura di Roma, perché vengano verificati eventuali aspetti penalmente rilevanti sul blocco della nave.

Agenzia delle Entrate, in cella l’ex direttore provinciale di Como

Corruzione e rivelazione di segreti di ufficio: per questi reati ieri la Guardia di Finanza di Como ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti dell’ex direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Como (ora direttore dell’Agenzia di Varese) e di un funzionario della stessa agenzia già in servizio a Como e ora capo area dell’ufficio legale dell’agenzia a Pavia. Ai domiciliari il titolare del 33,33% del capitale sociale di Tintoria Butti srl, mentre sono finiti in carcere quali mediatori della corruzione due titolari dello studio commercialista Pennestrì di Como. Per gli investigatori, il titolare del 33,33% di Tintoria Butti, quale corruttore, tramite i commercialisti avrebbe promesso e in parte corrisposto una cifra non inferiore ai 2.000 euro al capo team dell’ufficio legale, affinché accogliesse un ricorso presentato davanti alla Commissione Tributaria di Como. Prima di essere trasferito a Varese, il direttore dell’agenzia di Como si era impegnato a favorire la chiusura dell’accertamento attraverso una transazione di 25 mila euro. Il suo successore non aveva però accettato la transazione, nonostante le insistenze del capo team dell’ufficio legale.

I pm Ielo e Fava: la vera storia del duello alla Procura di Roma

C’è una conversazione intercettata nell’inchiesta di Perugia che illumina il conflitto tra due pm importanti della Capitale: Paolo Ielo e Stefano Fava. Il 16 maggio, mentre il trojan registra, Fava consegna al collega Luca Palamara le carte (pubbliche) sugli incarichi dell’avvocato Domenico Ielo, fratello del pm. Sono le consulenze ottenute dalla società in amministrazione straordinaria Condotte. Le carte di Condotte nella conversazione sono messe in relazione a quelle su una causa che vedeva contrapposto il pm Paolo Ielo con Brunella Bruno, sorella del commissario di Condotte, Giovanni Bruno, già imputata di Paolo Ielo, poi assolta. Fava consegna i fogli a Palamara che – secondo i pm di Perugia – vuole usarle contro il pm Ielo perché lo ritiene colpevole di aver trasmesso le carte della Finanza sui suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti che poi porteranno all’inchiesta perugina per corruzione contro di lui.

Fava spiega così il loro contenuto: “Sul fratello di Ielo, la prima pagina che t’ho dato è il sito di Condotte. Tutti gli altri atti che ti ho dato ora (sono, ndr) tutti pubblici: sentenze, rinvio eh … tutto quanto”.

Due mesi prima di quel colloquio, il 12 marzo, Il Fatto aveva pubblicato la notizia che lo studio di Domenico Ielo aveva ottenuto, con altri avvocati, da Condotte, sottoposta a vigilanza del Mise, un incarico di consulenza legale del valore di 251 mila euro all’anno (“con progressive riduzioni del 15 per cento in caso di rinnovo”) per assistenza giudiziale e stragiudiziale per cause del valore di 484 milioni.

L’incarico risulta dal sito di Condotte, dove però non è precisato, nonostante l’articolo del Fatto lo abbia chiarito, che l’80 per cento del compenso va allo studio Ielo-Mangialardi. Gli altri avvocati si spartiscono solo il 20 per cento.

Fava consegna a Palamara le carte del sito di Condotte insieme a quelle del processo partito dal solito pm Henry John Woodcock e concluso a Roma con un’assoluzione già in primo grado per il magistrato amministrativo Brunella Bruno e solo in appello per il generale co-imputato Walter Cretella. Fava mette in relazione l’incarico del 2018-19 a Domenico Ielo con il processo del pm Ielo a Brunella del 2016. Perché Giovanni e Brunella sono fratelli e Giovanni è – tra i tre commissari di Condotte – quello che segue di più le cause legali.

Questa è la ricostruzione che fa Fava il 16 maggio del procedimento Bruno-Cretella: “È arrivato da Woodcock al solito impacchettato, Ielo lo ha preso, lo ha trattato come tratta quei processi e alla fine Cretella condannato a una pena bassissima e la Brunella Bruno,(…) e lui non ha impugnato e il fratello di Brunella Bruno al fratello di Ielo gli da quell’incarico pazzesco” (…) “nei confronti di Brunella Bruno (…) che tu trovi qua, poi conclude lui e chiede l’assoluzione per un reato di calunnia e per l’altro reato chiede una pena minima. Poi viene assolta e lui non fa impugnazione”. A prescindere dall’uso scorretto che ne voleva fare Palamara, la questione posta merita un approfondimento. Ielo ha chiesto la condanna per rivelazione di segreto e l’assoluzione nei confronti di Brunella Bruno per la presunta calunnia nel 2016. Poi non ha appellato l’assoluzione piena. Passano due anni e nel 2018 il fratello di Paolo Ielo, avvocato affermato, viene scelto da Condotte, guidata anche da Giovanni Bruno, fratello di Brunella. Certo sono passati due anni, ci sono altri due commissari, un comitato di sorveglianza più un giudice delegato e il ministero che vigila. Certo, Ielo è un pm che non appella quasi mai le assoluzioni. Però è sensato porre domande all’avvocato Ielo su rapporto con Bruno e Condotte. “Ho conosciuto prima il giudice amministrativo Brunella Bruno e poi – spiega con trasparenza l’avvocato Ielo – il fratello. Nel giugno del 2017 ho partecipato a un convegno al quale partecipava in una giornata diversa anche Brunella Bruno. Poi ne ho fatto uno nel 2018 in cui c’era la dottoressa e l’ultimo nel maggio scorso, stavolta come relatore-moderatore insieme a lei. Alla fine di agosto del 2018 mi ha contattato il fratello Giovanni – prosegue l’avvocato Ielo – telefonicamente. Mi ha detto che era uno dei tre commissari di Condotte e che conoscevo sua sorella. Poi mi ha chiesto se avevo conflitti di interessi rispetto a Condotte. Gli ho detto di no e a quel punto mi ha chiesto se il nostro studio poteva assistere Condotte in un contenzioso. Dopo un secondo piccolo incarico, l’avvocato Bruno mi ha richiamato a settembre per chiedermi se volevamo partecipare a una procedura di selezione per un incarico più importante. Così siamo stati selezionati”.

L’assoluzione di Brunella Bruno diventa definitiva per il mancato appello di Ielo il 23 settembre 2016. La nomina per sorteggio di Bruno a commissario Condotte è dell’agosto 2018. Il primo convegno tra l’ex imputata Brunella e il fratello dell’inquisitore risale a 9 mesi dopo la mancata impugnazione. Spiega Domenico Ielo. “Né Brunella né Giovanni Bruno mi hanno mai parlato di mio fratello. Non sapevo che era stato pm contro Brunella”. Imbarazzo per la coincidenza? “Nessuno. Difendo colossi come Eni, Mediaset, Iliad. Non ho visto nulla di strano nella proposta di Condotte”.

Domenico Ielo è stato socio del grande studio Erede-Pappalardo e da un paio di anni si è messo in proprio con Giovanni Mangialardi. Visto che il sito non riporta tutti gli incarichi, approfittiamo per fare un po’ di trasparenza: “Oltre a quello da 250 mila euro, ci sono tre incarichi extra. Il primo incarico – spiegano dallo Studio Ielo-Mangialardi – vale 12 mila euro, il secondo 3 mila, il terzo 18.200, più Iva”. I compensi non sono stati ancora pagati da Condotte. Più ridotta la quota del gruppo Eni sul fatturato milionario dello studio. Nel biennio 2018-2019 Eni Spa vale 10.075 euro, Agi ha pagato 26 mila euro, Syndial 18.795 e Eni servizi solo 5mila euro.

“Contro le deviazioni clientelari, cambiare rotta: mi candido al Csm”

Nino Di Matteo lei si candida al Csm con la corrente AeI fondata da Piercamillo Davigo: com’è arrivato a questa scelta?

Ho deciso di accettare l’invito con la speranza e l’entusiasmo di dare un contributo alla spallata definitiva a un sistema non più tollerabile: le correnti sono diventate cordate di potere non solo interne, ma anche esterne alla magistratura e condizionano la carriera, e talvolta il lavoro quotidiano del magistrato. Non sono iscritto a AeI, non sono iscritto a nessuna corrente e non è mia intenzione farlo. Però nutro una profonda stima nei confronti dei colleghi Ardita, che conosco da molti anni, e Davigo: hanno dato una nuova impronta alla consiliatura, decidendo come gruppo di rivolgersi a componenti esterni come me, a candidati non iscritti. È la strada maestra: l’accesso agli organi di autogoverno così come a quello dei ruoli direttivi dell’Associazione nazionale magistrati non possono essere condizionati dal criterio dell’appartenenza a correnti.

Questa decisione avviene dopo uno scandalo che ha messo in rilievo connessioni forti e ingiustificate, fra magistratura e politica. Cosa si può fare ora?

È ipocrita e inaccettabile la sorpresa di chi, rispetto a quanto emerge dalla intercettazioni di Perugia, finge di cadere dalle nuvole. La degenerazione del sistema di autogoverno, il collateralismo politico, il carrierismo, la burocratizzazione, la pericolosa gerarchizzazione degli uffici in Procura, rappresentano un cancro che da molti anni cammina veloce all’interno di un corpo che non ha reagito. Troppe volte sono stati premiati magistrati che nella loro attività hanno tenuto conto di criteri di opportunità politica, e invece isolati magistrati che hanno cercato di lavorare seguendo solo la logica del dovere. Se sarò eletto, mi impegnerò per provare a invertire la rotta: non possiamo cedere alla rassegnazione. Mai come oggi il Paese e i cittadini, soprattutto i più esposti agli abusi del potere, hanno bisogno di una magistratura che recuperi forza, autorevolezza e indipendenza.

Crede questo sia possibile?

Non ci sono solo queste pagine squallide, nella nostra magistratura. C’è, per fortuna, in tutto il dopoguerra e negli ultimi 30 anni, una storia di coraggio, di indipendenza, di una lotta all’illegalità a 360 gradi, nei confronti del potere come nei confronti della mafia e del terrorismo. È la storia che ha portato alla sbarra personaggi come Andreotti, Dell’Utri… Ci sono moltissimi magistrati che, in silenzio, ogni giorno, lavorano con dedizione e sacrificio. Noi dobbiamo lottare perché non si verifichi più che i magistrati non allineati – e sono tanti – vengano mortificati nelle loro legittime aspirazioni di carriera e abbandonati quando con le loro inchieste disturbano il potere. Questo è il contributo che ciascuno dei membri del Csm dovrà dare. Ora o mai più: è necessario dare un segnale di forte discontinuità. Il ruolo della magistratura è insostituibile, e sento in questo momento, da tante parti, la necessità di riformare la legislazione in materia.

C’è chi ha avanzato la proposta del sorteggio.

Io personalmente non la condivido. Allo stato è incostituzionale. A me sembra poi devastante, istituzionalmente e culturalmente, che passi il messaggio che chi quotidianamente amministra la giustizia non sia in grado di scegliere i suoi rappresentanti. Quelle che io definisco “deviazioni clientelari” non si curano solo con espedienti legislativi. Siamo di fronte ad un problema più alto, di etica e dignità professionale: quella che dobbiamo recuperare.

La sua è una storia professionale molto ricca e complessa. Lei è stato il magistrato della Trattativa Stato-mafia; è stato annunciato come possibile Guardasigilli, e poi la vicenda del pool stragi… le delusioni alla fine sono state tante. Come vede ora la sua candidatura per il Csm?

Non ho volontà di rivalsa rispetto al passato. In questo momento l’urgenza è che la magistratura sana trovi la forza di ricompattarsi, soprattutto per respingere il desidero di una parte significativa del potere – non solo politico – di approfittare dell’attuale discredito generalizzato per ridimensionarne di fatto l’autonomia. È un rischio che, al di là del momento, vedo concreto.

Privacy, slitta il voto al Senato per la scelta dell’Authority

Nulla di fatto, per il momento, sull’Autorità per la privacy. Il voto previsto per oggi al Senato è stato rimandato a data da destinarsi: non c’è accordo tra le forze della maggioranza sui nomi da indicare per i suoi membri. Uno stallo che potrebbe riguardare anche la seduta dell’11 luglio per l’elezione dei membri dell’Autorità del garante delle telecomunicazioni, cioè l’Agcom. Le indiscrezioni prevedevano per la Privacy due posti ai grillini, tra cui il Garante, uno per la Lega, uno per le opposizioni. Invece per l’Agcom, il presidente al Carroccio o a Forza Italia, un commissario ai leghisti, uno ai Cinque Stelle, due per le opposizioni, fra cui il Pd. Ma non si è ancora giunti all’intesa, e il Senato ha posticipato la decisione. Per la Privacy il vicepremier Luigi Di Maio aveva promesso: “Ci adopereremo per individuare una figura al di sopra di qualsiasi sospetto”, visti gli agitati trascorsi per le multe comminate da Soro, il Garante uscente, già parlamentare Pd, alla piattaforma Rousseau per la gestione dei dati degli iscritti. Intanto il Parlamento ha raccolto oltre 200 candidature, tra docenti universitari, politici, avvocati ed esperti.

S’avanza l’autonomia. Conte: “Criticità”

Il vertice inizia che è ora di cena. A Palazzo Chigi ci sono Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Matteo Salvini più ministri vari. I temi sul tavolo sono molti, ma il piatto forte sono le intese per il regionalismo differenziato con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, cioè quella cosa che un pezzo rilevante di elettorato (anche dei 5 Stelle) ha iniziato a chiamare – non del tutto a torto – “secessione dei ricchi”.

La riunione – la prima ad alto livello da quando, a febbraio, le bozze dei testi sbarcarono in Consiglio dei ministri – era stata anticipata dal tono ultimativo di Salvini, che dopo il 34% delle Europee e le Olimpiadi invernali non ha più scuse per non accontentare il doge Luca Zaia e il “maroniano” lumbard Attilio Fontana: “Stasera abbiamo un’altra riunione sull’Autonomia: per carità, facciamola pure, ma noi siamo pronti da tempo. Il testo base è pronto per la riunione di domani (oggi, ndr) del Consiglio dei ministri, con grande vantaggio per tutte le Regioni italiane, altrimenti a Roma si ingolfa tutto. Le Olimpiadi ci dicono che dove corrono gli enti locali l’Italia vince”.

Parole che non avranno fatto piacere ai colleghi grillini, riuniti da Di Maio sul tema di prima mattina: sulla devoluzione di molte competenze e soldi dei ministeri di Lavoro e Sviluppo, Infrastrutture, Ambiente, Salute, Tesoro, Cultura, etc. non c’è alcun accordo.

Al vertice, poi, è entrato in gioco anche Giuseppe Conte. A quanto risulta al Fatto, il presidente del Consiglio si sarebbe presentato con una relazione preparata dal Dipartimento degli affari giuridici di Palazzo Chigi che sottolineava parecchie “criticità” delle bozze di intesa predisposte dalla ministra degli Affari regionali Erika Stefani coi governatori. E non di soli dubbi giuridici si è nutrito l’intervento di Conte, ma anche di quelli relativi ai trasferimenti dallo Stato alle Regioni: accogliendo tutte le proposte non sarebbe garantita, secondo questa interpretazione, la perequazione tra i territori ricchi e poveri (la secessione dei primi, appunto). D’altra parte lo stesso ministro Giovanni Tria, in audizione sul regionalismo differenziato, aveva parlato di richieste “non coerenti con la Costituzione”.

Altra questione, davvero cruciale, che divide Lega e 5 Stelle è il tipo di passaggio parlamentare da far fare alle tre intese prima della firma definitiva: i grillini sono per un iter normale, in tutte le commissioni e con pieno diritto di emendabilità; la Lega sa che così quel testo non sarà mai accettato dai suoi governatori.

Mentre andiamo in stampa, la riunione di governo è ancora in corso e in agenda ci sono altri due temi abbastanza spinosi: il salvataggio di Alitalia, su cui il ministero guidato da Luigi Di Maio sembra aver perso la bussola, e il caso della revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia. La cosa si trascina quasi da un anno, cioè dal crollo del ponte Morandi su un tratto gestito dalla società controllata dai Benetton: finora la procedura, nonostante un avvio rapido, è ferma alle missive incrociate con l’azienda.

“Cortina? Non dico no, però non squarciate le montagne”

Vince il premio Strega nel 2017 con Le otto montagne, scrive un bellissimo saggio l’anno seguente: Senza mai arrivare in cima. Paolo Cognetti è scrittore e montanaro.

Lei è il nemico numero uno delle Olimpiadi, il number one dei rosiconi.

C’è come la lieta attesa di una mia dichiarazione di ostilità assoluta. Così da venire immesso nello scolo mediatico degli oscurantisti, dei catastrofisti, di chi dice no allo sviluppo, alla modernità. Le solite scemenze.

Un personaggio come lei servirebbe tanto ai talk show: il milanese che è andato a vivere in montagna, l’intellettuale che con la pancia piena sostiene le cause perse.

Perciò bisogna mutare la strategia. Riconosco che la montagna ha bisogno dell’uomo. E che l’uomo per vivere in montagna ha bisogno di lavorare. E solo il turismo porta danari, e dunque: vogliono le Olimpiadi? Non dire di no, ma elencare una serie di lavoretti da fare.

Le Olimpiadi sono anche l’industria dei bisogni. Veri, verosimili o anche falsi. Mica è facile spendere tanti soldi in poco tempo? Ci vuole fantasia…

Cortina è il set dedicato a questa nostra ricetta di rivisitazione delle opere e dei sogni.

Cortina, il luogo del vizio che ora è divenuta la capitale della riscossa nazionale. Ricorda quando Monti premier mandò la Finanza a fare le pulci ai ricconi in trasferta?

Amo Hemingway che ha amato Cortina. Per proprietà transitiva…

Dunque: la sua proposta per Cortina.

Bisogna lanciare un vasto programma per bonificare le aree insalubri dell’Ampezzo. Quelle deturpate dagli ecomostri.

Cortina tipo Bagnoli?

Esattamente. Buttare giù il brutto e al suo posto edificare il bello. I metri cubi non si toccano né si azzerano. Si addolciscono, si realizzano edifici che non abbiano il segno della ferocia.

Lei dice: riqualificare.

Le Olimpiadi possono anche servire a costituire nuovi parchi.

I soldi non mancheranno.

Per ogni metro quadro di cemento l’impegno a piantare un abete. Un contratto ecologista. Un vincolo di compensazione.

Noi italiani amiamo la montagna solo nei giorni di festa. Eppure – a parte la Pianura padana – è tutto un saliscendi.

Arraffiamo, squartiamo. Sistematicamente sbanchiamo. E io che vivo tra i monti vedo il segno predatorio dell’uomo: per pochi giorni all’anno si lasciano al sole metri cubi di asfalto, parcheggi vuoti, impianti di risalita chiusi. Opere monstre che hanno una vita breve, ma che alla montagna fanno tanto male.

Lei vive in Valle d’Aosta.

Per fortuna non mi toccano. Ma anche non sa cosa siano riusciti a combinare.

Cognetti, bisogna sempre ricordare di non incappare nella contraerea modernista.

Le Olimpiadi mi stanno bene. Si può chiedere di non squarciare le montagne? Osiamo offrire a Cortina, a quei concittadini che vivono, magari inconsapevoli, nell’orrido cementificato una speranza del bello possibile?

Gli abbattiamo la casa e la rifacciamo nuova.

Togliamo il brutto ed edifichiamo il giusto. Diamo un senso a questa operazione anche immobiliare. Bonifica significa restituzione del piacere, consegna alla natura del rispetto che dobbiamo portare.

Si può coniugare il cemento con la bellezza? La bellezza è letteratura.

Possiamo costruire un nuovo contratto sociale.

Lei parla dall’alto della sua baita. Ma nella metropoli milanese il cemento è la vita. È sviluppo e speranza.

Il cemento, se non governato, ci condurrà ad altro cemento. Bisogna erigere una rete di protezione culturale.

Una commissione per la bellezza. I cinque cerchi, gli olimpionici della natura.

Usare ago e filo per cucire e riconvertire. Oramai gli impianti di risalita sono fatti, gli alberghi esistono, le case pure. È quasi tutto sold out. Si può procedere alla rivisitazione dei luoghi. Riqualifichi, ristrutturi, riedifichi.

Un approccio riformista.

Altrimenti ti destinano nella celletta del signor no. Questa volta non mi fregano.

Dei rosiconi d’altura.

Dell’intellettuale che non conosce le esigenze del popolo.

Del mondo concretista che va avanti e voi che pascolate pensieri senza costrutto.

Esatto. Uno sconfitto in partenza.

Invece il lavoro da fare è insinuare.

Far dubitare della necessità di erigere mostri. Insinuare il dubbio che il bello sia meglio del brutto, che la montagna è meglio non raggiungerla in elicottero.

Ma l’uomo è il più spietato nemico, è feroce con la montagna.

La sente distante, neanche se ne accorge che esiste. Pensa all’urbe.

Riconosce il pendio solo se è molto urbanizzato.

Magari con un parcheggio multipiano. Il top.