Dibba e la dittatura

Alessandro Di Battista ha tutto il diritto di scrivere un libro. Per giunta un buon libro, Politicamente scorretto (Paper First), di cui ovviamente quasi tutti noteranno solo quelle tre o quattro frasi – per costruirci sopra cagnare – senza soffermarsi su quella che è la tesi provocatoria: ovvero il “nuovo fascismo”, che l’autore non identifica con Salvini e derivati – a cui pure dedica cannonate a pioggia – bensì con la dittatura del politicamente corretto. Con quell’eterno equilibrismo, quasi sempre “de sinistra”, che non rischia mai e cerca sempre l’applauso facile, titillando i buoni sentimenti e decidendo (dall’alto di non sa che cosa) chi siano i buoni (cioè loro) e chi i cattivi (cioè chi non la pensa come loro).

Di Battista identifica questo “nuovo fascismo” col Pd, col gruppo Repubblica, con certi salotti televisivi (tipo Fazio) e con Roberto Saviano, citato a maggio ad Accordi & disaccordi come emblema del politicamente corretto più furbino e furbastro. Nel libro Di Battista non si limita a rampognare i suoi colleghi 5 Stelle ora al governo: a volte lo fa, ma più spesso li difende a spada tratta, ribadendo il concetto – troppo autoassolutorio – secondo cui l’unica colpa dei 5 Stelle sia quella d’esser troppo puri per fare strategie. La tesi “Alice nel Paese delle Meraviglie” che ha portato alla frizione con Lilli Gruber. Durante quella puntata di Otto e mezzo, Di Battista ha regalato un assist a Di Maio: l’idea di non far valere questa legislatura qualora il governo cadesse d’estate, disinnescando così il limite (per Di Battista invalicabile) del doppio mandato. L’autore è quindi arrivato a negare se stesso pur di togliere a Salvini la possibilità di forzare oltremodo la mano a Di Maio.

C’è però un problema, che non è certo la decisione di non ricandidarsi nel 2018 per girare il mondo con compagna e figlio. Il pubblico, ora per troppo amore e ora solo per abitudine, è spesso egoista: vuole che il loro idolo faccia sempre quello che vuole lui. Il giornalista deve scrivere sempre la stessa cosa, il musicista sempre la stessa musica. Un approccio insopportabile, che dimentica come anche le persone famose siano – anzitutto – esseri umani. Con il loro privato e con i loro sogni. Di Battista può fare il giornalista, il falegname e persino la controfigura di Nardella: la vita è sua e non dei suoi fans. Solo che Di Battista non ha mollato tutto per una nuova vita, ma se ne sta in mezzo al guado: da una parte ha lasciato, dall’altra no. Il suo è una specie di avamposto yo-yo, che peraltro lui non nasconde, ammettendo di non sapere ancora cosa fare da grande. Così però, oltre a esporsi a critiche e sfottò (Crozza), indebolisce – involontariamente – tanto i 5 Stelle quanto quel che resta di questo governicchio sempre più stitico e palloso.

È ovvio che, nel momento più complicato della sua vita, Di Maio sbrocchi di fronte a un amico che – pur con tutto l’affetto che si vuole – lo mette ancor più in difficoltà. L’abbandono dei vari “dissidenti di professione” è irrilevante: è gente che non c’era anche quando c’era, ciclicamente incline a cercare (senza mai trovarlo) uno scampolo di gloria. Pulviscolo moscio. Al contrario questo scontro pubblico tra Di Maio e Di Battista, il cui mix fu decisivo per la campagna elettorale del 2018, è per il M5S dannosissimo: un esempio spaventoso di masochismo bambinesco (telefonarsi, no?), nonché l’ennesimo regalo a Salvini. Ultimamente ho come la sensazione che, nei 5 Stelle, ci sia una sorta di gara a chi sbaglia di più. E ognuno, in questa strana e scellerata corsa, dà il “meglio” di sé.

Caro Zinga, ora fa’ qualcosa di sinistra

Zingaretti ha vinto largamente le primarie raccogliendo una domanda di discontinuità rispetto alla stagione renziana. Comprendo la sua cura per l’unità del partito e dunque la discontinuità in uno stile di leadership non divisivo. Dopo la deriva renziana verso il partito personale (il PDR), lo svuotamento degli organi collegiali di partito, le direzioni ridotte a sedi di ratifica di decisioni già assunte, l’abbandono del partito sul territorio, l’inerzia a fronte dell’annunciata rottura di Bersani certificata in un celebre fuori onda di Delrio (“Renzi non ha fatto una sola telefonata per scongiurarla”).

Ma la discontinuità promessa da Zingaretti dovrebbe esprimersi in primis nella politica e nelle politiche (al plurale) del Pd. Esemplifico: mettersi alle spalle la velleitaria presunzione dell’autosufficienza che ha condotto il Pd all’isolamento e riprendere una politica delle alleanze. Un “campo largo”, un centrosinistra plurale – si dice – ma che francamente sono di là da venire. Abbandonando tatticismi e reticenze e mirando a mettere insieme in concreto un fronte competitivo con una destra-centro attestata intorno al 50 per cento, non si possono esorcizzare due questioni. Quella posta, magari scompostamente, da Calenda (spesso indisponente ma… vivo) di una formazione di centro di stampo liberale con la quale il Pd, partito da sinistra di governo, possa eventualmente allearsi; e quella, tabù, di un dialogo, senza pregiudizi e senza sconti, con i 5 Stelle o comunque con quella parte di essi in dissenso dall’alleanza con la Lega che li sta cannibalizzando. Questione ineludibile da parte di chi scommette strategicamente sul ripristino di una fisiologica polarizzazione destra-sinistra, concepisce se stesso come partito posizionato nel campo della sinistra e considera Salvini come il principale avversario, oggi senza reali competitor. Questione abitualmente elusa con la banale formula di rito: parlare agli elettori pentastellati (ovvio, ci mancherebbe), non con chi li rappresenta. Ma prendiamo per buono questo proposito. Domando a Zingaretti: davvero pensa di fare breccia tra gli elettori 5 Stelle e il vasto popolo degli astenuti balbettando sul caso Lotti, ringraziandolo per il suo asserito senso di responsabilità nell’autosospendersi dal partito (?) a fronte di comportamenti “sconcertanti e inaccettabili” (così Mattarella)? È plausibile che la minoranza renziana possa rompere brandendo la bandiera della difesa di Lotti? Per placare i renziani, si è concessa la ripresa (verbale) della formula “vocazione maggioritaria”, giocando sull’equivoco. Perché è formula che o non significa nulla (chi mai può aspirare alla minorità?) o significa esattamente ciò che teorizzò Renzi (e ancor prima Veltroni) e che ha condotto il Pd alla sconfitta e all’isolamento. Parlare oggi di vocazione maggioritaria in questo secondo senso (autosufficienza) suona ridicolo per un partito attestato poco sopra il 20 per cento. Questo si dovrebbe obiettare a chi fa della vocazione maggioritaria il proprio mantra, la propria bandiera. A costoro soprattutto preme l’ermetica chiusura ai 5 Stelle. In concreto? O minorità eterna o liason con FI e magari con la Lega, come sostiene più apertamente il Foglio, che patrocina il “partito del Pil”, con dentro tutti tranne i 5 stelle. Hic Rodus, hic salta.

Non è più tempo di giocare con le formule, ma di decidere il profilo identitario del Pd. Se non ora quando, caro Zingaretti, voltare pagina e marcare con chiarezza le distanze da chi, dentro il partito, si attarda su un passato sconfitto, si esercita nell’ostruzionismo al nuovo corso e, come non bastasse, osa difendere una concezione del potere a tutti gli effetti indifendibile come quella squadernata dalle intercettazioni?

Perché non ci sarà la guerra all’Iran

Non ci sarà una guerra contro l’Iran. Ma non ci sarà neppure la pace. Gli Usa non attaccheranno l’Iran nei modi della guerra classica seguiti l’ultima volta in Iraq e Afghanistan – attacco aereo, invasione di terra, cambio di regime, amministrazione proconsolare o a delega stretta. Non lo faranno per una serie di motivi, il maggiore dei quali è che il complesso militare-industriale americano sa di aver raggiunto il limite massimo possibile del suo budget e ha come obiettivo strategico la propria perpetuazione e non l’espansione. Il Pentagono e le industrie della difesa frenano durante le crisi perché hanno bisogno della minaccia della guerra ma non della guerra vera e propria. Anche perché sono consapevoli che, se la fanno, questo tipo di guerra, è certo che la perdono.

I conflitti mediorientali recenti sono stati un secondo Vietnam, togliendo ogni dubbio circa il fatto che la forza armata più costosa del mondo non è in grado di vincere alcuna guerra, né convenzionale né asimmetrica.

La potenza di fuoco americana è senz’altro capace di radere al suolo un Paese – vedi Iraq 1990 e 2003 – provocando milioni di vittime e danni giganteschi. Oppure può terminare l’annientamento di una nazione già quasi distrutta da infinite guerre civili come l’Afghanistan. Ma se il fine della guerra è quello di piegare ai propri voleri la volontà di un nemico, le avventure militari Usa degli ultimi decenni sono state tutte delle sconfitte senza appello.

L’invasione dell’Iraq è servita solo a produrre un governo filo-iraniano. Quella dell’Afghanistan ha perpetuato i talebani, e ci si trova ora costretti a fare con loro un negoziato che si poteva fare 22 anni e un milione di morti fa. La guerra coperta contro Assad è terminata con Assad saldamente in sella, con mezzo milione di vittime e con gli indecenti postumi dell’essere andati ancora una volta a letto col diavolo sunnita nel tentativo di vincerla. La Libia post-Gheddafi, poi, da nazione più ricca dell’Africa, è diventata, dopo la cura Obama-Sarkozy, una landa desolata, preda di signori della guerra e terroristi di ogni risma.

Queste semplici verità sono sotto gli occhi di tutti, e sono state una delle matrici principali della vittoria di un presidente presentatosi come non-interventista come Trump. Il quale sa che un attacco-invasione dell’Iran, o del Venezuela o di qualunque altro Paese, gli costerebbe la rielezione.

Tutto ciò può sembrare una buona notizia, ma lo è solo in parte. L’alternativa che si profila non è la crescita della pace. La guerra convenzionale viene sempre più sostituita da quella ibrida, cioè da un misto di uso della forza, sanzioni economiche devastanti, disinformazione e lotta informatica su vasta scala.

Il Venezuela degli ultimi tre anni è stato un test eloquente. Gli Stati Uniti hanno aggredito il Paese con tutti i mezzi possibili, eccetto l’intervento militare diretto. E continuano ad assediarlo nell’intento di farne crollare il governo socialdemocratico e appropriarsi delle sue ingenti risorse. La guerra ibrida contro il Venezuela è stata preceduta da quella contro Cuba e l’Iran, iniziate la prima negli anni 60 e la seconda nel 1979. I risultati sono stati l’opposto di quelli voluti da Washington, perché le sanzioni hanno consentito ai governi dei due Paesi di rimanere in carica per 60 anni in un caso e 40 anni nell’altro. Ma è questa la strada che Trump e l’America intendono percorrere anche nel prossimo futuro. Dobbiamo aspettarci, perciò, per quanto riguarda l’Iran, un misto di sporadici raid e attacchi aeronavali Usa, e sanzioni e pressioni più pesanti volti al vano scopo di rovesciare il regime e gettare il Paese nel caos.

La tensione contro l’Iran aiuterà a stabilire quel grado di allarme che è necessario per giustificare il mantenimento dell’attuale, mostruoso, budget militare e dell’intelligence Usa. Ma il suo principale effetto sulla politica iraniana sarà di spianare la strada a una dittatura dei Guardiani della rivoluzione dopo avere archiviato Rouhani, riforme, spinte democratiche e accordo nucleare del 2015.

Il problema della guerra ibrida, infatti, è che essa finisce col dimostrarsi uno strumento ancora più inefficace della guerra convenzionale. Vari studi hanno dimostrato come la prima, soprattutto tramite la componente sanzioni, possa essere altrettanto crudele della seconda verso la popolazione civile. La guerra ibrida finisce regolarmente col rafforzare le tendenze nazionaliste dei Paesi presi di mira, dando tempo ai governi colpiti di costruire mezzi di protezione interna e alleanze internazionali in grado di neutralizzare sanzioni e disinformazione. E oggi, in un mondo multipolare, queste alleanze sono molto più numerose e praticabili che in passato. Il rischio che gli Stati Uniti impieghino altri 50 anni per imparare anche questa lezione rimane tuttavia molto alto.

Mail box

 

I 5S non “dovevano studiare” per riuscire a governare bene

La definizione dei Cinque Stelle “Alice nel paese delle meraviglie” – affibbiata dalla Gruber – è stata ripresa e, com’era prevedibile, strumentalizzata. Non capisco perché i parlamentari grillini continuino ad andare nel salottino di Otto e mezzo per farsi massacrare: mi pare che ogni cosa detta venga poi distorta. Dire che i 5S dovessero studiare prima di governare mi sembra ingeneroso: malgrado qualche loro innegabile errore, queste accuse non le aveva mai fatte ai discutibili ministri del governo Renzi.

Almeno i grillini sono tutti laureati, come grandissima parte dei loro parlamentari. Bisogna riconoscere che questo movimento ha avuto l’umiltà di affidarsi sempre a persone molto competenti, fra cui Conte, simbolo di autorevolezza. Mi pare che i precedenti governi le decisioni le prendessero ascoltando imprenditori, Confindustria, imposizioni dell’Europa… Qualcuno ha governato addirittura nell’interesse delle proprie aziende, mentre ora (finalmente) l’impressione è che si pensi ai cittadini. A meno che la Gruber non volesse dire che sarebbe meglio andare prima a scuola di scaltrezza, strategie della vecchia politica, disonestà intellettuale e non. Se fosse così, avrebbe ragione: studiando quelle materie, il M5S potrebbe salire nei sondaggi, come sta succedendo agli altri partiti, che in quelle “discipline” sono molto più preparati.

Enza Ferro

 

Salvini futuro premier, ma ne sarebbe capace?

Salvini non vuole fare il premier: non si sente in grado di farlo.

Preferisce di gran lunga fare il battitore libero e lasciare ad altri i noiosi e impegnativi summit. All’Europarlamento, durante il suo mandato, fu platealmente accusato, nel suo imbarazzato silenzio, di assenteismo e disinteresse. Da ministro non è mai al Viminale ma può viaggiare e discutere via Twitter con gli alleati, e le riforme le comunica in libertà, a seconda dell’aria che tira, senza calcolarne prima la fattibilità. Invece da premier dovrebbe stare in ufficio, avere le idee chiare, collaboratori di qualità sempre al proprio fianco e partecipare con autorevolezza e competenza agli appuntamenti internazionali per difendere i nostri interessi. L’unica iniziativa che Salvini ha perseguito con una certa determinazione e che gli ha fatto guadagnare voti è il blocco agli sbarchi.

Se non sfrutta questo momento favorevole per rovesciare la maggioranza e diventare premier, significa che teme di diventarlo. E un’occasione così non si ripresenterà tanto facilmente: non appena l’effetto “chiusura porti” si dissolverà, il suo mito tramonterà rapidamente.

Gianfranco Belisari

 

Minibot, le proposte irreali non durano mai a lungo

Meglio tardi che mai, recita il proverbio, saggiamente. L’onorevole Giorgetti, che passa per essere una “mente pensante” della Lega, ha finalmente detto quello che tutti diciamo: i minibot sono una boiata pazzesca, per usare un eufemismo alla Fantozzi. Ci voleva tanto a capirlo? Un suggerimento ai sostenitori della balzana idea: provate a lanciare anche i Pinibot (per pagare il rimboschimento forestale), iVinibot (per il marketing di Barbera e Chianti), o i Micibot (per pagare le scatolette di pollo ai nostri gatti)… Magari, almeno quello, sarà un successo travolgente!

Gianluigi De Marchi

 

Deficit: se la politica non può risolvere, almeno lo ammetta

Perché nessuno ha il coraggio di dire che l’enorme deficit, ormai irrisolvibile, dipende quasi unicamente dagli errori, dalle incapacità, dall’amoralità dai costi della politica in un sistema che non è adatto all’Italia?

Orlando Bergonzi

 

Regeni, staccare gli striscioni non ce lo farà dimenticare

Un’altra moda si affaccia nella nostra povera Italia: dimenticare Giulio Regeni. Staccare striscioni appesi a balconi di istituzioni che dovrebbero ricordarlo in nome di presunte altre necessità. Del giovane friulano torturato non si sa più niente: tutto tace sotto il sole d’Egitto e nessuno sotto il nostro sole si attiva. Io persevero, donna qualunque, a ricordare quel povero ragazzo innocente, solo e soltanto col mio braccialetto giallo.

E non lo leverò fino a quando gli assassini non saranno individuati.

Susanna Di Rinzo

 

Carenza di medici, la colpa è del numero chiuso

Circa 40 anni fa mi iscrissi al corso di laurea in Medicina e Chirurgia all’università della mia città, Bari. Eravamo circa 1200 matricole suddivise in tre corsi, ma già a metà del primo anno gli studenti erano diventati circa 600, e man mano il numero si era ridotto col passare del tempo.

Avveniva la cosiddetta “selezione naturale”, il sistema reggeva ed era ben collaudato, ma… la scellerata idea di qualche “solone” (sostenuta dai vari governi che si sono avvicendati in questi ultimi anni) di istituire il numero chiuso, hanno fatto sì che ora ci ritroviamo senza medici.

Inutile sottolineare che i ragazzi se ne vanno. Cosa dovrebbero fare? Invecchiare e vivacchiare nella speranza di non vedersi sorpassare dai soliti raccomandati?

Col risultato che oggi a noi tocca fare i conti con questo sistema senza cure.

Marino Petruzzellis

Il nuovo orale non è un quiz, ma una sfida a interpretare un testo

Gentile redazione, alla Maturità – dopo la seconda prova mista – ha finalmente debuttato il “nuovo orale”, fortemente voluto dal ministro Bussetti: 45 minuti di colloquio, tre buste da cui pescarne una a caso, domande “multidisciplinari” più che sui contenuti specifici delle diverse materie. Non somiglia un po’ troppo a un quiz televisivo? L’esame, con queste riforme, mi sembra sempre più generico e quindi lacunoso, se non inutile.

Evelina Citti

 

Gentile Evelina, capisco da dove scaturiscono le sue perplessità, legate alla ormai mitica formula di Mike Bongiorno: “La uno, la due o la tre?”. Ma a giudicare dalle prime interviste dei ragazzi all’uscita dagli orali, il risultato è stato esattamente l’opposto di un quiz televisivo: non c’erano domande, ma testi o documenti. Un candidato ha detto di aver trovato la formula della Relatività di Albert Einstein, un altro un brano di Karl Popper, altri la fotografia di un quadro o quella di un evento storico del Novecento. La sfida che così i ragazzi si trovano di fronte è proprio quella centrale della loro vita, quella a cui tutta la scuola italiana dovrebbe preparare: comprendere, interpretare, giudicare un testo. Chi non è in grado di farlo è definito “analfabeta funzionale”: una persona che è, sì, in grado di leggere, per esempio, un contratto o un editoriale, ma non di comprenderne il senso. In Italia, questa sfortunata categoria comprende il 47 per cento dei cittadini: quasi una persona su due non è in condizioni di esercitare una vera sovranità sulla propria vita. Sul proprio voto, per esempio: comprendendo i programmi dei partiti, e leggendo gli articoli di giornale che raccontano (o dovrebbero raccontare) la verità circa quegli stessi partiti, o i loro leader. I ragazzi che oggi fanno la Maturità non smetteranno di aprire buste per il resto dei loro giorni: e la scuola della Repubblica (una scuola fedele alla Costituzione) non dovrebbe prepararli a diventare ingranaggi di un sistema immodificabile (come avviene con la nefasta alternanza scuola-lavoro, quando non venga redenta e rovesciata dalla fantasia di insegnanti consci del proprio scopo), ma invece offrire loro gli strumenti del pensiero critico. Se i contenuti di quelle buste saranno stati scelti bene, il corpo a corpo con un testo e il suo commento alla luce di un lungo corso di studi potrebbe essere davvero il migliore degli esami. Naturalmente, le commissioni dovranno giudicare questi ragazzi con più sapienza e più giustizia di quanto non farà il mondo. Ma questa è un’altra storia.

Tomaso Montanari

Fermato padre bimba morta. Medico legale: “È un caso singolare”

È accusato di ripetuti maltrattamenti, di lesioni, di omissione di soccorso e di omicidio volontario Giuseppe Passariello, padre di Iolanda, la bimba di 8 mesi morta nella notte tra venerdì e sabato a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. L’uomo è stato arrestato nella serata di domenica, dopo una prima attività di indagine, in attesa dell’autopsia sul corpo della bimba, mentre la mamma, Imma Monti, è indagata a piede libero in concorso per lo stesso delitto.

I poliziotti hanno ascoltato anche vicini di casa, familiari e assistenti sociali che seguivano la famiglia da qualche tempo. Racconti che hanno fatto emergere una condizione di estrema fragilità: il papà, diversi precedenti a suo carico, aveva lasciato poco tempo fa una comunità di recupero per tossicodipendenti. Era tornato a Sant’Egidio del Monte Albino, dove viveva da un anno e mezzo insieme con la moglie, la piccola e un altro bimbo di due anni.

Al termine dell’autopsia, il medico legale Giuseppe Consalvo, non ha voluto rilasciare dichiarazioni: “È un caso singolare. Non posso dirvi nulla. Lo capirete da domani, dalle evoluzioni che ci saranno”.

Il prete molestò cinque bimbi Chiesti 5 milioni alla Diocesi

La diocesi di Savona è stata citata in giudizio per un totale di quasi 5 milioni di euro per cinque casi di pedofilia.

Tre delle vittime furono sottratte alle famiglie dai servizi sociali e affidati a don Nello Giraudo, che avrebbe abusato di loro. L’associazione Rete l’Abuso ha depositato cinque citazioni che chiamano in giudizio direttamente la diocesi di Savona, “la cui omissività ha permesso che don Nello Giraudo (denunciato all’allora vescovo di Savona Giulio Sanguineti già lo stesso anno dell’ordinazione sacerdotale) continuasse per quasi 30 anni ad abusare dei minori a lui affidati”.

La prima udienza è fissata per il 15 novembre. “È stato un percorso difficile malgrado l’associazione dia il patrocinio gratuito alle vittime, abbiamo pagato noi le perizie. Il prossimo 15 novembre c’è la scadenza dei termini, entro quella data se la diocesi avanzerà una proposta ragionevole si potrà discuterne, prima di andare in udienza”, spiega Francesco Zanardi, presidente della Rete l’Abuso e una delle vittime. I fatti si riferiscono al secolo scorso e ai primi anni di quello in corso per un totale di alcuni decenni. Nel mirino, tra gli altri, è finito proprio don Nello Giraudo, processato per diversi episodi di pedofilia. Finché nel 2003 l’ex vescovo di Savona, il cardinale Domenico Calcagno, ha preso carta e penna per scrivere all’allora prefetto per la Congregazione della dottrina della fede, Joseph Ratzinger, per chiedere “la cortesia di un consiglio circa l’atteggiamento da tenere, intendendo il sacerdote continuare con un impegno pastorale. Per quanto possibile intendo evitare che abbia comunque responsabilità che lo mettano a contatto con bambini o adolescenti”. Finché non sono arrivate le denunce della procura, che hanno portato la Chiesa a sollevare il prete dall’incarico.

Ristoranti e locali in bancarotta da Campo de’ Fiori a Trastevere: Loreti condannato a cinque anni

Il noto ristoratore di Roma, Leonardo Loreti, è stato condannato in primo grado, rito abbreviato, a 5 anni. È stato riconosciuto il dominus di un’associazione per delinquere, che acquistava società in difficoltà economiche, e invece di ripianarne i debiti, le portava al fallimento. Oltre a non pagare le tasse, i fornitori e i dipendenti; il gruppo ha trasferito gli utili in nuove società, costituite ad hoc e intestate a prestanome, per nascondere i reali proprietari.

L’inchiesta nasce nel 2014, dopo il fallimento della Virgilio srl, società utilizzata dalla famiglia Loreti per gestire l’omonimo ristorante a Campo de Fiori. Nel 2018 gli arresti.

Le indagini del sostituto procuratore Maurizio Arcuri e dalla Guardia di finanza, hanno permesso di smascherare il “metodo Loreti”, formato da una fitta rete di 20 aziende e 28 episodi illeciti: quindici bancarotte fraudolente, undici appropriazioni indebite e due casi di auto-riciclaggio.

Il centro operativo dell’organizzazione risiedeva nello studio legale dell’omonima famiglia (Loreti Snc) in cui lavoravano le sorelle dell’imprenditore, che si occupavano di tenere la contabilità del gruppo, supportandone la gestione delle attività. Per questo motivo sono state condannate Alessandra (3 anno e 4 mesi), Monica (3 anni e 4 mesi) e Cecilia Loreti (3 anni e 2 mesi). Condannato anche Andrea Garofalo, a 3 anni, considerato il braccio destro e factotum del ristoratore romano.

Tra le numerose attività sotto controllo di Loreti, che nel 2015 aveva tentato di trasferire i suoi interessi a Dubai, c’erano due ristoranti a piazza Campo dei Fiori, uno a piazza San Cosimato, uno a Vicolo del Cinque, uno a via del Governo Vecchio, uno a piazza Malva e il locale con vista panoramica “Lo Zodiaco”. Tutte attività che in seguito hanno cambiato gestione, e non sono coinvolte con l’inchiesta.

Ai giudici della Corte europea il ricorso urgente di Sea Watch Bloccata in mare da 13 giorni

Potrebbe decidere oggi la Corte europea dei diritti umani alla quale si sono rivolti gli avvocati della Ong tedesca Sea Watch, la cui nave Sea Watch 3 è bloccata ormai da 13 giorni al largo dell’isola di Lampedusa con 42 migranti a bordo, soccorsi a oltre 40 miglia dalle coste libiche. L’imbarcazione è rimasta da allora fuori dai limiti delle acque territoriali italiane, vietate con un provvedimento emanato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, di concerto con i ministri della Difesa e dei Trasporti Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, ai sensi del decreto cosiddetto Sicurezza bis promosso dallo stesso leader della Lega. Il governo italiano difende la sua decisione. Ieri la Commissione europea è tornata a sollecitare gli Stati membri a trovare una soluzione. Per Salvini è “facilei: nave olandese, ong tedesca: metà immigrati ad Amsterdam, l’altra metà a Berlino”. Intanto, i naufraghi si rivolgono alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo chiedendo “misure provvisorie” per spingere l’Italia a farli sbarcare. E disponibilità ad accoglierli è stata avanzata dalla Diocesi di Torino. Undici persone, tra cui minori e donne incinte, sono sbarcate nei giorni scorsi.

La situazione sulla nave è sempre più critica. “Le persone a bordo – fa sapere la portavoce della ong, Giorgia Linardi – ci chiedono fino a che punto bisogna sentirsi male per potere essere sbarcate. Alcuni cominciano a minacciare di buttarsi in mare”. E, visto il divieto irremovibile di Salvini allo sbarco e l’assenza di risposte da parte dell’Olanda, Stato di bandiera della nave, i migranti hanno fatto ricorso alla Cedu. In base all’articolo 3 della Convenzione, “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti” come quelli che vivono da giorni i naufraghi salvati dalla Sea Watch. La Corte ha inviato richieste di informazioni al governo italiano e alla Ong. Da Palazzo Chigi, a quanto si apprende, la risposta ricalcherebbe la posizione fin qui tenuta da Salvini: la nave ha violato l’indicazione di portare in Libia i migranti e dunque è stata diffidata.

Gli anarchici e i monaci salutano Orso, ucciso mentre combatteva in Siria

Prima della tumulazione, la bara viene coperta dalla bandiera rossonera degli anarchici e viene accompagnata da un monaco vestito di bianco verso il posto in cui riposerà per sempre. Un accostamento cromatico e ideologico, immagine di mondi che in questa mattina non contrastano. A più di tre mesi dalla morte, Lorenzo Orsetti, 33enne fiorentino ucciso il 18 marzo scorso in Siria combattendo contro lo Stato islamico, riceve l’ultimo saluto della famiglia, degli amici, dei compagni. Rimarrà nel cimitero dei “grandi fiorentini”, il cimitero delle Porte Sante ai piedi della basilica di San Miniato al Monte, sulla collina che domina Firenze.

Trecento persone si sono ritrovate qui ieri mattina per l’ultimo saluto a Tekoser Orso, questo il suo nome di battaglia, nato il 13 febbraio 1986 a Firenze, cresciuto nel quartiere di Rifredi, morto a Baghuz. Ci sono i compagni anarchici in maglietta nera e occhiali scuri, gli amici che ruotano intorno ai Tullo Soldja, gruppo hip-hop, ma anche gli amici della famiglia – papà Alessandro, mamma Annalisa, la nonna Alda – legati alla parrocchia di Sant’Antonio al Romito, ci sono la comunità curda in Toscana e gli europei partiti a combattere nel Rojava. Sono tutti molto commossi. I turisti stranieri salgono le scale per ammirare il panorama e si trovano di fronte a questa insolita cerimonia. Davanti alla basilica la bara è coperta da fiori rossi e bandiere, quella dell’Unità di protezione popolare, l’esercito curdo che fa parte delle Forze democratiche siriane impegnate contro l’Isis, e quella del “Tikko”, l’Armata turca di liberazione degli operai e contadini. “La cosa peggiore che potremmo fare per Lorenzo è metterlo su un altarino, su un mobilino o attaccato a un muro – sostiene il padre -. Ci ha mostrato un modo di vivere che veramente merita di essere preso in considerazione. Chi vive così e chi muore così, lascia qualcosa”. Gli amici fiorentini vogliono ricordare Orso come un ragazzo: “Un anarchico istintivo, un anarchico di strada che prima della ragione usava il sentimento – ricorda Stiv -. Non ha mai fatto parte di gruppi politici o movimenti. Amava leggere, aveva sempre un libro in mano”. A Firenze “Orso si sentiva in gabbia”, nel Rojava aveva trovato se stesso. “Per noi Lorenzo era il partigiano italiano che lottava per la libertà”, scrivono in una lettera i comunisti turchi e curdi del Tikko. La madre legge il testamento: “Ha lasciato stupita anche me – commenta -. Da cinquant’anni andiamo in chiesa e non si mette neanche un sassolino. Te hai insegnato anche a noi”. In quello scritto “ci sono un sacco di parole non religiose che trasudano spiritualità”, nota don Andrea.

Quando prende la parola padre Bernardo Gianni, priore dell’abbazia di San Miniato, un anarchico sbotta: “Via i preti”. Il religioso replica con un sorriso: “Inizia a esserci un tasso clericale ad alto livello”. “Orso era ateo”, ricorda l’anarchico. “Questo è un cimitero laico sul suolo del Comune di Firenze – puntualizza il monaco -. Non è solo il cimitero dei ‘grandi’, ma anche il cimitero della libertà. Mi aspetto che voi non rispettiate gli orari per visitare la tomba di Lorenzo”.