Alessandro Di Battista ha tutto il diritto di scrivere un libro. Per giunta un buon libro, Politicamente scorretto (Paper First), di cui ovviamente quasi tutti noteranno solo quelle tre o quattro frasi – per costruirci sopra cagnare – senza soffermarsi su quella che è la tesi provocatoria: ovvero il “nuovo fascismo”, che l’autore non identifica con Salvini e derivati – a cui pure dedica cannonate a pioggia – bensì con la dittatura del politicamente corretto. Con quell’eterno equilibrismo, quasi sempre “de sinistra”, che non rischia mai e cerca sempre l’applauso facile, titillando i buoni sentimenti e decidendo (dall’alto di non sa che cosa) chi siano i buoni (cioè loro) e chi i cattivi (cioè chi non la pensa come loro).
Di Battista identifica questo “nuovo fascismo” col Pd, col gruppo Repubblica, con certi salotti televisivi (tipo Fazio) e con Roberto Saviano, citato a maggio ad Accordi & disaccordi come emblema del politicamente corretto più furbino e furbastro. Nel libro Di Battista non si limita a rampognare i suoi colleghi 5 Stelle ora al governo: a volte lo fa, ma più spesso li difende a spada tratta, ribadendo il concetto – troppo autoassolutorio – secondo cui l’unica colpa dei 5 Stelle sia quella d’esser troppo puri per fare strategie. La tesi “Alice nel Paese delle Meraviglie” che ha portato alla frizione con Lilli Gruber. Durante quella puntata di Otto e mezzo, Di Battista ha regalato un assist a Di Maio: l’idea di non far valere questa legislatura qualora il governo cadesse d’estate, disinnescando così il limite (per Di Battista invalicabile) del doppio mandato. L’autore è quindi arrivato a negare se stesso pur di togliere a Salvini la possibilità di forzare oltremodo la mano a Di Maio.
C’è però un problema, che non è certo la decisione di non ricandidarsi nel 2018 per girare il mondo con compagna e figlio. Il pubblico, ora per troppo amore e ora solo per abitudine, è spesso egoista: vuole che il loro idolo faccia sempre quello che vuole lui. Il giornalista deve scrivere sempre la stessa cosa, il musicista sempre la stessa musica. Un approccio insopportabile, che dimentica come anche le persone famose siano – anzitutto – esseri umani. Con il loro privato e con i loro sogni. Di Battista può fare il giornalista, il falegname e persino la controfigura di Nardella: la vita è sua e non dei suoi fans. Solo che Di Battista non ha mollato tutto per una nuova vita, ma se ne sta in mezzo al guado: da una parte ha lasciato, dall’altra no. Il suo è una specie di avamposto yo-yo, che peraltro lui non nasconde, ammettendo di non sapere ancora cosa fare da grande. Così però, oltre a esporsi a critiche e sfottò (Crozza), indebolisce – involontariamente – tanto i 5 Stelle quanto quel che resta di questo governicchio sempre più stitico e palloso.
È ovvio che, nel momento più complicato della sua vita, Di Maio sbrocchi di fronte a un amico che – pur con tutto l’affetto che si vuole – lo mette ancor più in difficoltà. L’abbandono dei vari “dissidenti di professione” è irrilevante: è gente che non c’era anche quando c’era, ciclicamente incline a cercare (senza mai trovarlo) uno scampolo di gloria. Pulviscolo moscio. Al contrario questo scontro pubblico tra Di Maio e Di Battista, il cui mix fu decisivo per la campagna elettorale del 2018, è per il M5S dannosissimo: un esempio spaventoso di masochismo bambinesco (telefonarsi, no?), nonché l’ennesimo regalo a Salvini. Ultimamente ho come la sensazione che, nei 5 Stelle, ci sia una sorta di gara a chi sbaglia di più. E ognuno, in questa strana e scellerata corsa, dà il “meglio” di sé.