Evade il boss Morabito: doveva essere estradato

Insieme a tre complici ha scavato un tunnel, poi è saltato sul tetto del carcere prima di raggiungere la strada. E riprendersi, assieme alla libertà, il primato di primula rossa della ‘ndrangheta. È la rocambolesca fuga dal carcere di Montevideo di Rocco Morabito, boss di ‘ndrangheta e broker internazionale della cocaina. Uno smacco per le autorità italiane, che appena due anni fa festeggiavano il suo arresto in Uruguay.

Morabito, appartenente alla importante famiglia di Africo, in Calabria, quando venne arrestato, era latitante da 23 anni: è fuggito proprio in prossimità della sua estradizione, decretata dalla Corte d’appello lo scorso 29 marzo, dopo quasi due anni dall’arresto (e dopo che il procuratore Nicola Gratteri si scagliò sul fatto che il rientro in Italia evidentemente “non interessasse a nessuno”).

Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è furioso. “È sconcertante e grave che un criminale come Rocco Morabito sia riuscito a fuggire da una galera dell’Uruguay, mentre era in attesa di essere estradato in Italia. Mi prendo due impegni. Primo: fare piena luce sulle modalità dell’evasione, chiedendo spiegazioni immediate al governo di Montevideo. Secondo: continueremo a dare la caccia a Morabito, ovunque sia, per sbatterlo in galera come merita”.

Conosciuto anche col soprannome di “Tamunga”, Morabito è abituato a muoversi in Sudamerica, realtà dove gode di importanti protezioni non solo criminali. I soldi non gli mancano. Quando lo arrestarono nel 2017 in un lussuoso hotel di Punta de Este, gli trovarono, oltre a una villa con piscina e 13 cellulari, 12 carte di credito, 4 libretti di assegni, 1 libretto con azioni al portatore per un valore di 100mila dollari, e in contanti 54.151 dollari e 2.540 pesos uruguaiani.

Condannato in contumacia di 30 anni per traffico di droga, Morabito, nipote di Peppe “’u tiradritto”, uno dei capi indiscussi della ’ndrangheta di Africo, nella sua lunga latitanza ha sempre contato su identità fasulle e ricchezze. L’ultimo documento che gli hanno trovato addosso era intestato a Francisco Antonio Capeletto Souza, imprenditore brasiliano nel settore della coltivazione della soia. Uomo dalle mille facce, è uno dei più importanti broker della droga che la ‘ndrangheta tratta e acquista direttamente dai “cartelli “ colombiani e messicani.

Anche da giovane Rocco Morabito sa come muoversi in ambienti diversi dalla sua Calabria. Studi all’Università di Messina, negli anni 80-90 del secolo passato regno degli “africoti”, il giovane rampollo riesce a scampare alla guerra di mafia che colpisce la sua famiglia. Nel 1989 gli uccidono il fratello Leo, e lui stesso rimane ferito in un agguato. Da qui la decisione dell’intera cosca di spedirlo a Milano, dove i Morabito avevano loro filiali.

È nella città della Madonnina che il giovane Rocco comincia a occuparsi del traffico internazionale di cocaina. Il suo contatto iniziale è Francesco Sculli, nel 1992 arrestato a Fortaleza, in Brasile, assieme a Waleed Issa Khamayis detto “Ciccio”, che con altri complici stava tentando di importare in Italia mezza tonnellata di cocaina. Fuga anche da Milano e direzione Sudamerica dove Rocco, che oggi ha 53 anni, rimane per oltre 23 anni, praticamente indisturbato.

Nuova tangentopoli, altri imprenditori vogliono patteggiare

Cresce il numero di arrestati nell’inchiesta della Dda di Milano su un vasto giro di mazzette, appalti e nomine pilotate e finanziamenti illeciti alla politica, che puntano a patteggiare le pene dopo aver, in sostanza, ammesso i fatti e aver riempito pagine e pagine di verbali collaborando con gli inquirenti. Intanto, mentre per domani è fissato l’interrogatorio davanti ai pm per Mauro De Cillis, direttore operativo di Amsa, l’azienda che si occupa di rifiuti nel capoluogo lombardo, domani mattina comparirà di fronte agli inquirenti anche l’ormai ex consigliere comunale milanese di FI Pietro Tatarella, anche lui finito in carcere. Nel frattempo, oltre all’imprenditore di Gallarate (Varese) Pietro Tonetti, che ha già reso una ricostruzione dettagliata “cristallizzando” la vicenda che riguarda l’apertura di uno dei supermercati della catena Tigros nella cittadina lombarda, vorrebbero patteggiare, da quanto si è saputo, anche Alberto Bilardo, ex segretario di FI a Gallarate e uno degli uomini più a contatto con Nino Caianiello (nella foto), presunto “burattinaio” del sistema, dopo aver collaborato con i pm in oltre 700 pagine di verbali, e Piermichele Miano, ritenuto un presunto intermediario di mazzette.

Morte alla Sapienza: accuse e scaricabarile

La morte di un ragazzo, l’università nel caos, scambi d’accuse e scaricabarile. È il momento della polemica, politica, perché coinvolge i movimenti studenteschi vicini ai centri sociali, il rettore della Sapienza di Roma e il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Tutto ruota attorno alla tragica fine di Francesco Ginese, il 26enne foggiano che venerdì notte si è ferito a morte nel tentativo di scavalcare il cancello di un ingresso secondario della Città universitaria, per raggiungere un evento non autorizzato organizzato dai collettivi universitari, cui stavano partecipando più di 2.000 persone. “Prima o poi doveva scapparci il morto”, bacchettano le associazioni studentesche più “moderate”.

Il fascicolo aperto dal pm Stefano Rocco Fava viaggia su due binari paralleli. Sul primo sta lavorando il commissariato di polizia della Sapienza e riguarda la morte di Francesco. Un’informativa ricostruisce che intorno all’una il ragazzo, pare in compagnia di coetanei, avrebbe deciso di scavalcare il cancello d’ingresso che affaccia su via De Lollis, forse per arrivare prima al luogo dell’evento musicale in corso; nel saltare dall’altra parte si è ferito la gamba su uno spuntone, cadendo a terra, soccorso a stretto giro dall’ambulanza presente su richiesta degli organizzatori. L’ipotesi di reato è omicidio colposo, non vi sono indagati: l’autopsia e i colloqui con i testimoni definiranno se il ragazzo abbia assunto droghe e se in qualche modo sia stato indotto nell’errore di preferire l’ingresso più vicino a quello più “facile”, poco distante, nel piazzale. Smentita la notizia che fosse necessario pagare un biglietto.

C’è poi l’altro livello d’indagine, l’evento abusivo in luogo pubblico, sul quale sta lavorando la Digos. E che, si apprende, non sarà collegato con la morte del 26enne. I collettivi universitari, vicini alla sinistra radicale romana, pubblicizzavano da tempo la Notte Bianca alla Sapienza, in scena dal 2008. Non un rave, ma un contest di eventi ludico-culturali sulla falsariga delle notti bianche dello scorso decennio, con cibarie e bevande (alcoliche). “Nessuno l’ha autorizzato, né è mai stata chiesta autorizzazione”, ha riferito il rettore Eugenio Gaudio. Ma allora perché i cancelli erano aperti? Secondo l’ufficio stampa della Sapienza, i ragazzi “forzano gli ingressi o manomettono le fotocellule”. Il preside di Lettere, Stefano Asperti, al Fatto ammette: “Avevamo parlato di quello della sera prima, a villa Mirafiori. Ma ora i ragazzi dovrebbero darsi una regolata”

Nella città universitaria c’è una vigilanza privata ma anche il commissariato di polizia ‘Sapienza’, a cui il rettore ha dichiarato di aver “segnalato per tempo la situazione”. “Ma non bastava – commentano da via San Vitale – Gaudio avrebbe dovuto chiedere la forza pubblica”. Eventualità rischiosa, perché avrebbe potuto causare sontri e cariche in piena notte. A puntare il dito contro Gaudio c’è anche Salvini, secondo cui “ora il rettore deve spiegare”. Perché, denunciano i rappresentanti dalle associazioni di studenti Sapienza InMovimento e Azione Universitaria, “queste feste abusive sono sempre più frequenti e vengono difese dalla politica”. La Digos lavora sui profili – almeno una ventina – g riconducibili agli organizzatori . Cosa ne sarà dei tanti eventi, anche autorizzati, che si svolgono alla Sapienza con cadenza quasi settimanale?

Vince il candidato unico, i prof congelano il concorso

Non c’è pace per l’Umbria: dopo le inchieste sulla sanità e le dimissioni della governatrice del Pd Catiuscia Marini, ora è un concorso universitario per un posto da ricercatore in Diritto privato ad agitare le acque. “Un concorso con modalità anomale – spiega al Fatto Simona Carlotta Sagnotti, ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Perugia – al punto da spingermi a fare richiesta di accesso agli atti per verificare i miei dubbi. Le mie perplessità non sono risolte”. Anzi: l’esito è stato sospeso e il Senato accademico ha chiesto un parere all’Avvocatura di Stato per un parere. “Come se non bastasse – dice la Sagnotti – non mi hanno voluto dare spiegazioni in consiglio di dipartimento. Non c’è trasparenza”.

Ma andiamo con ordine. Parliamo di un bando per un posto di ricercatore di tipo “b” in Diritto privato. È uno di quei posti che, dopo tre anni e l’abilitazione nazionale, permette di diventare professore associato e quindi è fra i più ambiti per chi vuole fare carriera universitaria. L’avviso per la selezione, ad agosto del 2018, è così dettagliato e così targhettizzato che il sito www.trasparenzaemerito.org segnala subito l’anomalia dei requisiti, ritenuti troppo stringenti e legati a una profilatura specifica. Insieme all’ “Osservatorio indipendente sui concorsi universitari” lo segnala con una lettera al rettore, al direttore del dipartimento di Giurisprudenza, al ministro dell’Istruzione e all’Autorità anticorruzione (Anac).

Ci sono diversi problemi: il ritardo o la mancata pubblicazione dei verbali del concorso, l’eccessiva specificità del titolo (“Profili civilistici della Global Value Chains”), la dettagliata descrizione sintetica (“La ricerca intende studiare i problemi giuridici posti dalle GVC… Riemerge il problema del diverso regime fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, nonché della scelta fra hard e soft law… gli effetti sull’ambiente… sull’accesso alla giustizia dei danneggiati e sulle regole risarcitorie…”), la conoscenza della sola lingua tedesca come requisito. Così, alla gara partecipa un solo candidato. “Fin qui nulla di irregolare – spiega Trasparenza e Merito – Solo l’amara constatazione che, a fronte di una nuvola di abilitati nel settore, il bando disincentivasse la partecipazione”.

Il candidato viene prima ammesso alla discussione dei titoli e delle pubblicazioni. Non ha l’abilitazione nazionale né assegni di ricerca o borse post-dottorato. Vince. Ma al momento della verifica dell’autocertificazione e delle documentazioni presentate, gli uffici vanno in difficoltà. I requisiti non rispondono ai canoni richiesti. Da lì rallentamenti, verifiche, addirittura la riconvocazione della commissione e nuovi verbali. Infine la conferma dell’assegnazione del posto. Ma quando il decreto rettorale arriva al Senato accademico che deve approvarlo, infatti, si arena perché i docenti non sono convinti. Gli atti un mese fa sono stati mandati all’Avvocatura di Stato e da allora si attende.

“Ho fatto l’accesso agli atti per questo concorso – spiega la professoressa Sagnotti – anche se avevo approvato il concorso a livello di consiglio di dipartimento. Poi ho avuto qualche dubbio”. Come i docenti del Senato accademico. “Non voglio accusare nessuno, noto fatti che mi lasciano dubbiosa. Come il consiglio di dipartimento di qualche giorno fa, durante il quale ho chiesto chiarimenti al direttore di dipartimento, Giovanni Marini, che è il marito della professoressa che presiedeva la commissione del concorso. La risposta è stata verbalmente violenta nei miei confronti e mi è stato detto che non era all’ordine del giorno. Mi chiedo se un fatto di questa rilevanza non potesse essere discusso tra le ‘Varie ed eventuali’, quantomeno per una questione di trasparenza? Come è possibile, ad esempio, che mi si chieda di firmare tutti insieme quattro verbali dei consigli precedenti, di cui uno di ottobre? Avevo votato contrario, mi è stato chiesto di giustificare il voto: come potevo ricordare di cosa si era parlato otto mesi fa?”.

Siri e il mutuo senza garanzie, si indaga per autoriciclaggio

È autoriciclaggio l’ipotesi di reato contestata nell’indagine della Procura di Milano sul caso dell’acquisto da parte dell’ex sottosegretario leghista Armando Siri di una palazzina a Bresso, nel Milanese, attraverso un mutuo di 585 mila euro acceso con una banca di San Marino. L’inchiesta è ancora agli inizi e sarebbe a carico di ignoti, quindi senza indagati. Al centro della vicenda c’è la compravendita da parte di Siri di una palazzina per la figlia a Bresso grazie a un mutuo di circa 600 mila euro concesso “senza garanzie” dalla Banca Agricola Commerciale di San Marino. Una compravendita alla quale la trasmissione Report oltre un mese fa ha dedicato una puntata e che la Banca d’Italia ha incasellato come operazione sospetta e “girato” alla Guardia di Finanza che ha redatto un’informativa. L’ex sottosegretario della Lega non è indagato per questa vicenda, mentre è sotto inchiesta a Roma per corruzione per aver tentato di promuovere provvedimenti per favorire l’imprenditore Paolo Arata in cambio di 30 mila euro, dati o promessi.

La nomina del capo dei pm di Roma si farà in autunno: Mattarella dixit

Primo input del Quirinale eseguito. Come avevamo già anticipato, la settimana prossima, quando riprenderanno i lavori del Csm – ora in pausa da Commissioni e Plenum – la competente Quinta commissione seguirà l’ordine cronologico per discutere e proporre nomine dei vertici giudiziari senza procuratori, così come dei presidenti di tribunali e Corti.

A proposito dei tribunali, secondo quanto risulta al Fatto, si è ritirato dalla corsa a presidente del Tribunale di Salerno Massimo Forciniti, influente membro togato del Csm fino a settembre scorso, di Unicost, la corrente centrista di Luca Palamara, il pm romano indagato a Perugia per corruzione. Forcinti è sempre stato vicino a Palamara così come a Luigi Spina, il capogruppo di Unicost costretto alle dimissioni nelle settimane scorse perché indagato a Perugia con l’accusa di rivelazione e favoreggiamento pro Palamara.

Il rispetto cronologico delle pratiche in Quinta, fa slittare la nomina del procuratore di Roma, che ha portato alla crisi più grave del Consiglio dai tempi della P2, dopo l’estate, anche se il testo unico permette deroghe all’ordine cronologico, per “motivate ragioni”, come – ad esempio – l’importanza della Procura della Capitale. Se per Roma ci sarà una deroga si vedrà più avanti. Quel che è certo è che la settimana prossima la commissione presieduta da Mario Suriano, togato di Area (progressisti) discuterà del Tribunale di Messina che è senza presidente da un anno. A seguire, la Procura di Salerno, senza capo da dieci mesi, poi del Tribunale di Mantova e Brescia. Salvo cambiamenti dell’ultimo momento, slitta a settembre la discussione sul procuratore di Torino, che ha il posto vacante da dicembre scorso. L’11 giugno si è ritirato dalla corsa il Pg di Reggio Calabria Dino Petralia, che prima dello scandalo era dato per favorito. Quindi, se non ci saranno decisioni diverse, prese in corso d’opera, le nomine di Roma e Perugia saranno affrontate in pieno autunno.

Come ormai è noto, la nomina del procuratore di Roma è stato il fulcro della discussione da sottobosco tra due politici del Pd, Luca Lotti, pure imputato a Roma e Cosimo Ferri, pure membro della commissione Giustizia, Palamara e 5 consiglieri del Csm, di cui quattro ormai ex e uno autosospeso, una condizione inesistente a livello giuridico. A Roma si devono nominare anche due procuratori aggiunti, posto a cui ambiva Palamara e a Perugia altri tre.

Consip, Lotti in aula: “Me ne occupavo su delega di Renzi”

“Parlavo con Marroni perché da sottosegretario, ancorché non fosse una mia delega, ero informalmente preposto a intrattenere rapporti tra la Presidenza del Consiglio e le partecipate dello Stato, anche Consip”. Così, in sostanza, l’ex sottosegretario Luca Lotti – durante l’interrogatorio reso ieri nell’udienza preliminare – spiega il motivo dei suoi incontri con Luigi Marroni, l’ex amministratore delegato della centrale acquisti, il manager che con le sue dichiarazioni ha reso l’ex ministro un imputato a Roma. Favoreggiamento è il reato contestato a Lotti dai pm di Roma, che ieri hanno ribadito: l’ex sottosegretario deve andare a processo.

Ma con un avvertimento: “Qui si parla solo di Consip”. L’avviso del pm Mario Palazzi è chiaro: in questo procedimento non deve entrare altro. E il riferimento è al terremoto che ha creato l’inchiesta della Procura di Perugia nel Consiglio superiore della magistratura. Quella in cui è finito nelle intercettazioni (ma non da indagato) anche Lotti, mentre discuteva della nomina del futuro procuratore capo di Roma con il parlamentare dem Cosimo Ferri e il pm Luca Palamara. Non solo: perché dalle intercettazioni viene fuori come Lotti sapesse di un esposto contro Paolo Ielo, il pm romano finito poi nel mirino di alcuni che volevano usare proprio quell’esposto per screditarlo. E Ielo (che ieri non era in aula) con Palazzi sostiene l’accusa nel procedimento Consip.

In ogni modo, quando esce dall’aula, ai giornalisti Lotti dice: “Non mettevo bocca sulle nomine nelle Procure. Ho letto sui giornali che c’erano relazioni con la Procura di Roma, ma queste non ci sono mai state, tanto è vero che la richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti è stata fatta”.

Ma questa è una questione che deve rimanere fuori dagli affari della Procura capitolina, dove si discute della fuga di notizie arrivata nel 2016 alle orecchie di Marroni. Come in passato ieri Lotti ha ribadito la propria estraneità e stavolta deve convincere il giudice Clementina Forleo che il 16 ottobre deciderà se condividere l’impostazione dei pm romani.

Chi lo ha tira in ballo è Marroni, che il 20 dicembre 2016 davanti ai pm napoletani dice: “Ho appreso in quattro differenti occasioni, da Filippo Vannoni (presidente della fiorentina Publiacqua, ndr), dal generale Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Luca Lotti di essere intercettato”. Ferrara a detta di Marroni, gli disse di averlo saputo dall’ex Comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette.

Lotti ieri in aula ha quindi ribadito: non poteva dire nulla a Marroni perché nulla sapeva. Dice di aver appreso di un’indagine napoletana sugli appalti Consip solo il 21 dicembre 2016 quando Il Fatto rivela l’esistenza dell’inchiesta su Romeo e cita anche Carlo Russo, l’amico di Tiziano Renzi (per il padre dell’ex premier inizialmente indagato per traffico di influenze c’è stata un richiesta di archiviazione). È sempre Il Fatto che il 23 dicembre 2016 rivela l’iscrizione di Lotti nel registro degli indagati per favoreggiamento e rivelazione di segreto (per questo reato è stata chiesta l’archiviazione).

In aula quindi l’ex ministro spiega di aver visto Marroni due volte nel 2016, a gennaio e poi il 3 agosto. Erano incontri, si difende, finalizzati a capire l’andamento di Consip, la cui gestione in quel momento infatti veniva applaudita dai renziani per gli ottimi risultati ottenuti con la spending review. Solo di questo, dice, ha parlato con Marroni. E lo ha ribadito anche quando in aula è iniziato un botta e risposta con il pm Palazzi sul luogo di incontro del 3 agosto con Marroni. Per la Procura l’accesso è avvenuto presso la sede di Largo Chigi (e sono stati depositati accertamenti per dimostrarlo), per Lotti invece a Palazzo Chigi. Ma perchè Marroni avrebbe dovuto tirare in ballo l’ex sottosegretario, si domandano ieri in aula. “Sono due anni e mezzo che me lo chiedo”, dice Lotti, ricordando anche come lui in passato non fosse stato molto d’accordo con la sua nomina in Consip.

Con Lotti, ieri il pm Palazzi ha ribadito la sua richiesta di rinvio a giudizio anche per il generale Emanuele Saltalamacchia (accusato di favoreggiamento) e per l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette (imputato anche di rivelazione di segreto). A processo, per l’accusa, deve andare anche Gianpaolo Scafarto, il maggiore del Noe, accusato di aver falsificato un capitolo di un’informativa dei carabinieri nella parte che riguardava Tiziano Renzi, ma anche di depistaggio e rivelazione di segreto.

Lotito, Lotirchio, Lotutto: declinazioni di un uomo “avulso”

Da una ventina d’anni gira lungo le insonni carreggiate della cronaca con tre macchine blindate, quattro telefoni e (forse) una pistola. Ogni tanto gli odiati “sepolcri imbiancati della putritudine” lo infilano nel tunnel dei processi, ma ne esce indenne con luminose batterie di avvocati e disincanto: “Sto mondo va cambiato. Mi mettono in mezzo, ma solo perché il mio nome rende tutto più croccante”.

Il suo nome è Claudio Lotito, detto Lotutto, presidentissimo della Lazio e di tante altre cose, amico di tutti e di nessuno. “Io sono io”, dice. Anzi: “Sono un avulso”. Ed è vero anche al colpo d’occhio sembrando un Charlie Brown diventato grande, il carattere a metà tra un Ciarrapico e i Cesaroni, ma “sempre con il vangelo e il rosario in tasca”, a dispetto dell’indole fumantina che non porge mai l’altra guancia.

Ma in quanto alla politica e ai politicanti Lotito non è avulso affatto. Ha ammirato Andreotti. È passato a Gianfranco Fini. Ha ignorato Renzi: “Non so se c’è dell’altro oltre l’apparenza”. È approdato a Berlusconi – “sono amico di Silvio, di Paolo e pure di Galliani” – che all’ultimo giro lo ha candidato senatore, per il momento primo dei non eletti, ma con in ballo il riconteggio di queste ore: “Spes ultima dea”.

Viene dal nulla di Ciampino e dalle imprese di pulizia, moltiplicate dagli appalti pubblici. Ha fatto i soldi in fretta. Quanti non lo sa nessuno, li fa vedere raramente e per questo lo chiamano Lotirchio. Si è preso la Lazio, dopo il crac di Sergio Cragnotti, forse la Federcalcio, dopo Calciopoli, “quando mi sono messo Tavecchio sulle spalle”, senza mai smettere di pontificare un po’ in italiano, un po’ in latino, come il Papa. Il Papa del calcio, naturalmente. E sempre arabescando una sua personale filosofia che suona come un gioco di parole: “Nel calcio mi ispiro al Manzoni: l’utile per scopo, il vero per soggetto, l’interessante come mezzo”. Non vuol dir nulla, ma qualcosa sembra. E sembrare è il suo segreto. Uno dei tanti che maneggia, facendosi trovare dove non ti aspetti. Per esempio a notte fonda all’Hotel Champagne con Luca Palamara e una pattuglia di magistrati, giocando al risiko delle procure. Cui prodest? O sulla rotta declinante di Alitalia per candidarsi al salvataggio di tutta la baracca volante. Con quali soldi?

Pizzicato dal trojan dalla Guardia di Finanza, ha detto di non sapere nulla di quella cena a mezzanotte con i giudici per dessert: “Leggo che siamo amici, ma mica è vero. Io sono un personaggio pubblico, un’autorità, conosco un sacco di gente”. Risposta che non spiega, salvo che “autorità” è la parola chiave della frase. In quanto all’Alitalia siamo al remake. Disse nel 2014: “Se mi danno Alitalia, la rimetto a posto in cinque anni”. All’epoca non ha gli ha creduto nessuno. Ora che servirebbero 200 milioni per entrare almeno alla fase di rullaggio, il nessuno è diventato Gigi D Maio, auguri.

Lotito nasce nell’anno 1957, dove oggi decollano i low cost e atterra la polvere. Padre carabiniere, madre insegnante, radici rustiche a San Lorenzo di Amatrice. Volenteroso a scuola, come l’Alfieri che spesso cita: “Volli, sempre volli, fortissimamente volli”. Laurea in Pedagogia col massimo dei voti. La sua specialità non sono i pupi, ma i conti, il latinorum e la pulizia. Comincia con la prima impresa nel 1987. Ne fonda tre: Linda, Aurora e Bonadea. Poi entra nel catering e nella vigilanza. Incassa appalti pubblici milionari in Regione, Comune e Provincia. Ospedali, Enti, Asl. Qualcuno storce il naso. Qualche magistrato indaga. Finisce in manette nel 1992 per turbativa d’asta, sospettato di sapere in anticipo i massimi ribassi delle gare. Incassa una condanna in primo grado per Calciopoli. Un’altra per ostacolo agli organi di vigilanza. Poi tutto passa in cavalleria tra archiviazioni, prescrizioni, assoluzioni, ricorsi. Compresa l’accusa di non avere pagato multe per 26 mila euro al Comune, colpevole di scorrazzare lungo le preferenziali con la scorta. “Ma vi pare che uno come me si fa cancellare le multe?”. E poi: “Pago 6 milioni l’anno di tasse e corro dietro a due multe?”.

A 35 anni il cuore gli fa un regalo: sposa Cristina Mezzaroma, pupilla della dinastia di palazzinari ad alto reddito. Non lo conosce ancora nessuno. Per non sfigurare coi cognati, al matrimonio compra rose bianche e una Lamborghini. Va a vivere sull’Appia antica con 3 ettari di parco, statue romane, piscina. E se non bastasse, acquista 1600 metri quadrati di villa a Cortina, più grande e più in alto di quella dei Benetton: “Così je tiro le palle di neve in giardino”.

Il complesso del parvenu lo mette in moto ogni mattina all’alba: “Lavoro più di tutti e dormo tre ore per notte”. Quello che ha se lo merita e lo dice: “Sono volitivo e combattivo. Applico Dante: fatti non foste a viver come bruti”. E in affari “il do ut des”.

Il colpo grosso lo fa nel 2004, quando compra la Lazio e finalmente entra nel giro dei pallonari nazionali con gloria e guai. La gloria di cinque coppe vinte in 15 anni. I guai delle tifoserie ultras a cui ha tolto il potere di ricatto, il traffico di magliette e i biglietti. Affronto che ricambiano imbrattandogli il viale di casa. E qualche volta avvelenando l’onore della squadra con gli adesivi di Anna Frank, spacciati, per colmo di idiozia, come un insulto ai romanisti. Quella volta è corso in sinagoga a scusarsi, peccato per quella frase detta (e poi negata) un po’ prima al telefono: “Famo ’sta sceneggiata. Ma te rendi conto?”.

Quando entra in partita, la società è in fondo al pozzo della Cirio con numeri da manicomio: fattura 84 milioni, ne spende 86 e ha 550 milioni di debiti. L’allenatore guadagna 3,5 milioni di euro l’anno e l’amministratore uno. “Aho! Sono stato come Gesù che caccia i mercanti dal tempio”.

Con il decreto salva-calcio ha dilazionato i debiti con il Fisco in 23 anni di comode rate. E con la penna rossa ha cancellato le spese. Ha litigato a morte con i procuratori “che so’ negrieri assatanati di soldi!”, dimezzato gli ingaggi ai calciatori, “ragazzini viziati” e le fanterie tecniche dei perdigiorno. Per 15 anni, uscendo da Formello, ha spento la luce nelle stanze.

Dice che all’inizio in Federcalcio nessuno lo ascoltava, “ora stanno zitti perché sono diventato autorevole”. Per questo parla sempre in prima persona singolare e al maiuscolo: “Mi credevano una meteora, invece sono sempre qua”. Un condottiero dal cervello fine: “Io pe capi’ dieci anni ce metto un minuto”.

Vive tante vite tra telefonini trillanti e appuntamenti sempre improvvisi. Parla coi ministri. Litiga in tv coi giornalisti: “Sei anarfabbeta!”. Sbriga cause nei tribunali e affari nei consigli di amministrazione: “Ho messo d’accordo Sky e Mediaset e portato i diritti tv a 1,2 miliardi”.

Prova a raddoppiare il miracolo della Lazio ora che si è comprato un pezzo di Salernitana. E vuole coltivare i giocatori “come si fa coi semi”. Non smette mai di celebrarsi: “Il pallone è per tutti, il calcio per pochi”. E di raccontarsi come un buon padre di famiglia: “In tanti nell’ambiente pensano al binomio fica & soldi, io no. Io sono monogamo convinto”. Quando lavora troppo, parla troppo, corre troppo, si addormenta all’improvviso. E russa.

Sull’impero dei suoi 6 mila dipendenti, ogni domenica vola alta l’aquila del suo ego dentro a un cielo dipinto di bianco e di azzurro, che non sono solo i colori della squadra, “ma anche quelli della Madonna”. Lo dice con la modestia dei devoti. Lo dice sognando un giorno di indossare le ali della santità. Quelle di Alitalia sono solo un depistaggio per chi ci crede. Un conquibus avulso che fa curriculum.

Tria deve rinunciare al Dipartimento per gli investimenti

Non si può direche Giovanni Tria non ci abbia provato con determinazione, ma pare non gli sia andata bene. Anche l’ultima versione del decreto di riordino del suo ministero dell’Economia, infatti, non contiene il nuovo “Dipartimento dell’analisi, delle politiche e della programmazione della spesa in conto capitale” previsto nella bozza arrivata, ormai molto tempo fa, in pre-Consiglio dei ministri. Il Dipartimento, che sarebbe divenuto il quinto del dicastero, sarebbe stato creato in gran parte svuotando di compiti la Ragioneria generale dello Stato (a capo della quale si è insediato da poco Biagio Mazzotta) e avrebbe finito per essere un doppione della cabina di regia sugli investimenti appena avviata a Palazzo Chigi sotto la diretta regia di Giuseppe Conte: insomma, la struttura del Tesoro è stata percepita come uno spreco e una sorta di contropotere rispetto alla presidenza del Consiglio. Per questo, alla fine, del Dipartimento per gli investimenti non si è fatto nulla: dopo la mancata nomina alla Rgs, ennesima delusione per l’alta dirigente Alessandra Dal Verme, cognata dell’ex premier Gentiloni, che era destinata alla guida del nuovo organismo.

Lo strano senso dei renziani per i 5Stelle

Se c’è una cosa sicura è che i renziani (divisi tra lottiani, giachettiani, fedelissimi e orfani del capo) hanno tutto da perdere ad andare a votare, magari a settembre. Perché nelle liste di Nicola Zingaretti sarebbero decimati. Così, i sospetti di intelligenza con il nemico si sprecano.

Negli ultimi mesi, sono stati sospettati di tutto: dal voler fare la stampella occulta a una destra a trazione salviniana a cercare un abboccamento con i Cinque Stelle.

Questa ultima opzione negli ultimi giorni si è consolidata. Almeno a livello di tentativo. Perché adesso (Antonello Giacomelli docet), l’argomentazione di fondo è che non si può rischiare di consegnare il Paese a Matteo Salvini. Che l’operazione possa concretizzarsi davvero, è molto difficile. Ma nel frattempo, ci sono una serie di movimenti parlamentari incongrui e sospetti.

L’ultimo è stato sabato a Montecitorio, quando al voto di fiducia sul dl Crescita i dem presenti erano solo 29 su 111. Assenze composite e variegate, da Maria Elena Boschi a Paolo Gentiloni, passando per Luciano Nobili, Matteo Orfini e Paolo Siani. Anche se fossero stati presenti in blocco, non avrebbero cambiato il corso delle cose. Ma Nicola Zingaretti ha chiesto conto a Graziano Delrio, il capogruppo, che se n’è assunto tutta la responsabilità.

Erano le 20 di venerdì sera e probabilmente più che altro ha giocato la voglia di non esserci. Però, anche questo racconta di una situazione slabbrata e confusa, con un gruppo diviso tra correnti e le correnti divise al loro interno.

Le spaccature dentro Base Riformista (che fa capo a Luca Lotti, al mediatore Lorenzo Guerini e a Giacomelli) sono l’ultima goccia che contribuisce ad aumentare il caos: ognuno pensa per sé, l’opposizione sembra essere l’ultimo dei problemi.

Nel capitolo “strani pasticci” c’è il voto positivo a una mozione sui debiti della Pa che diceva sì pure all’introduzione dei minibot (iniziativa del leghista, Claudio Borghi).

Il Pd si è reso conto della gaffe (se ne è assunta la responsabilità la renziana, anzi boschiana, Silvia Fregolent). E a spiegare i fatti è stato Luigi Marattin (anche lui, renzianissimo): ogni gruppo ha inviato un proprio rappresentante per “trattare” la predisposizione di un testo condiviso. M5S e Lega hanno posto come condizione per una mozione unitaria l’inserimento di 10 parole, che menzionano la possibilità di introdurre i “mini-bot”. Il tutto era all’interno di un ragionamento complessivo di 4 pagine, considerato condivisibile. Marattin ci ha tenuto a specificare che una mozione non ha valore vincolante. Altra contraddizione in termini: allora, non era vincolante neanche la parte sui debiti della Pa su cui si è cercata una mediazione.

E poi c’è la questione salario minimo: i renziani sono andati vicini a votare la proposta Laus, che ricalcava praticamente quella dei Cinque Stelle. Anzi, era ancora più estrema: in quel disegno di legge i 9 euro all’ora erano netti, anziché lordi. Poi è intervenuta la mediazione di Tommaso Nannicini e il testo è cambiato.