“Non prende posizione”, “non osa”, “non buca lo schermo”, “non decide”. I commenti che si fanno sul segretario del Pd, Nicola Zingaretti, sia tra gli amici che tra i nemici, sono tutti preceduti dal “non”. C’è poi chi si spinge a dire che “ha già sbagliato tutto” e che “è già finito”. Vero o falso che sia, il governatore del Lazio, più che un leader, è considerato un traghettatore, un personaggio di passaggio, un amministratore dell’esistente. E dietro di lui si moltiplicano le figure, se non pronte a prendere il suo posto, in fila per commissariarlo.
Il più visibile e il più esposto è Carlo Calenda. Che gioca come punta di attacco dentro al Pd, ma intanto guarda fuori dal Pd, che ha fatto il pieno di preferenze alle Europee per i dem, ma nel frattempo lavora a un partito di centro. Con l’avallo di Zingaretti, assicura lui. Senza, ribatte continuamente il segretario. Di certo, con quello di Paolo Gentiloni, che è il padre nobile per eccellenza, in questo momento. E pure uno dei tanti leader ombra di Zingaretti. In caso di elezioni, sarebbe lui il candidato premier, il federatore, quello che dovrebbe tenere insieme un Pd uno e trino: il centro di Calenda, il Pd propriamente detto e poi una sinistra, guidata dall’esperienza di Italia in Comune. Che il modello sia un po’ quello dell’Unione, nel centrosinistra lo pensano tutti. Che sarà Gentiloni il leader, un po’ meno. Sta scaldando i motori ormai da tempo il sindaco di Milano, Beppe Sala. Molto attivo, su più piani, di lui si raccontano cose disparate: che farà un partito di centro, o più probabilmente, che sarà lui il federatore. Ieri Milano è stata designata per le Olimpiadi. Da una parte un successo, dall’altra un motivo per rimanere. Ma Sala per la scalata del centrosinistra è partito lontano.
C’è chi scalda i motori e chi ritorna. È il caso di Marco Minniti che ieri ha scritto un lungo intervento per il Foglio. “Ciò che il Pd non può essere, e che forse ha corso, corre, il rischio di diventare, è di proporsi come una confederazione debole di correnti deboli”, dice l’ex ministro dell’Interno, candidato contro Zingaretti per qualche breve convulso momento. E poi indotto a fare un passo indietro dall’ambiguità dell’appoggio di Matteo Renzi, che da una parte l’ha lanciato, poi ha cercato subito di commissariarlo e alla fine l’ha scaricato. “I sindaci sono l’esempio emblematico e virtuoso di una risposta al nazional-populismo”, scrive ieri. Da non sottovalutare il fatto che proprio Giorgio Gori , il responsabile Enti locali del Pd, era uno dei 12 Sindaci che avevano sostenuto la candidatura di Minniti. Una sua discesa in campo non è neanche immaginabile. Ma la voglia di gestire e costruire uno spazio pare esserci tutta. Di certo non può aspirare a fare il segretario, ma persino Maurizio Martina, entrato praticamente in maggioranza, un attimo dopo la sconfitta alle primarie: “Cambiare il Pd riguarda tutti noi. Ridefiniamo la forma e la sostanza del modo di essere democratici in questo paese”.
E poi, c’è il solito Matteo Renzi. Porta avanti i suoi Comitati civici, vagheggia su partiti di centro che non ha abbastanza consenso per fondare. Qualcuno dei suoi arriva persino a chiedere un altro congresso. Difficile per chiunque pensare che possa tornare. Ma a bombardare il quartier generale resta sempre – potenzialmente – il numero uno.