Quanti commissari nel Pd Zingaretti è già nei guai

“Non prende posizione”, “non osa”, “non buca lo schermo”, “non decide”. I commenti che si fanno sul segretario del Pd, Nicola Zingaretti, sia tra gli amici che tra i nemici, sono tutti preceduti dal “non”. C’è poi chi si spinge a dire che “ha già sbagliato tutto” e che “è già finito”. Vero o falso che sia, il governatore del Lazio, più che un leader, è considerato un traghettatore, un personaggio di passaggio, un amministratore dell’esistente. E dietro di lui si moltiplicano le figure, se non pronte a prendere il suo posto, in fila per commissariarlo.

Il più visibile e il più esposto è Carlo Calenda. Che gioca come punta di attacco dentro al Pd, ma intanto guarda fuori dal Pd, che ha fatto il pieno di preferenze alle Europee per i dem, ma nel frattempo lavora a un partito di centro. Con l’avallo di Zingaretti, assicura lui. Senza, ribatte continuamente il segretario. Di certo, con quello di Paolo Gentiloni, che è il padre nobile per eccellenza, in questo momento. E pure uno dei tanti leader ombra di Zingaretti. In caso di elezioni, sarebbe lui il candidato premier, il federatore, quello che dovrebbe tenere insieme un Pd uno e trino: il centro di Calenda, il Pd propriamente detto e poi una sinistra, guidata dall’esperienza di Italia in Comune. Che il modello sia un po’ quello dell’Unione, nel centrosinistra lo pensano tutti. Che sarà Gentiloni il leader, un po’ meno. Sta scaldando i motori ormai da tempo il sindaco di Milano, Beppe Sala. Molto attivo, su più piani, di lui si raccontano cose disparate: che farà un partito di centro, o più probabilmente, che sarà lui il federatore. Ieri Milano è stata designata per le Olimpiadi. Da una parte un successo, dall’altra un motivo per rimanere. Ma Sala per la scalata del centrosinistra è partito lontano.

C’è chi scalda i motori e chi ritorna. È il caso di Marco Minniti che ieri ha scritto un lungo intervento per il Foglio. “Ciò che il Pd non può essere, e che forse ha corso, corre, il rischio di diventare, è di proporsi come una confederazione debole di correnti deboli”, dice l’ex ministro dell’Interno, candidato contro Zingaretti per qualche breve convulso momento. E poi indotto a fare un passo indietro dall’ambiguità dell’appoggio di Matteo Renzi, che da una parte l’ha lanciato, poi ha cercato subito di commissariarlo e alla fine l’ha scaricato. “I sindaci sono l’esempio emblematico e virtuoso di una risposta al nazional-populismo”, scrive ieri. Da non sottovalutare il fatto che proprio Giorgio Gori , il responsabile Enti locali del Pd, era uno dei 12 Sindaci che avevano sostenuto la candidatura di Minniti. Una sua discesa in campo non è neanche immaginabile. Ma la voglia di gestire e costruire uno spazio pare esserci tutta. Di certo non può aspirare a fare il segretario, ma persino Maurizio Martina, entrato praticamente in maggioranza, un attimo dopo la sconfitta alle primarie: “Cambiare il Pd riguarda tutti noi. Ridefiniamo la forma e la sostanza del modo di essere democratici in questo paese”.

E poi, c’è il solito Matteo Renzi. Porta avanti i suoi Comitati civici, vagheggia su partiti di centro che non ha abbastanza consenso per fondare. Qualcuno dei suoi arriva persino a chiedere un altro congresso. Difficile per chiunque pensare che possa tornare. Ma a bombardare il quartier generale resta sempre – potenzialmente – il numero uno.

Il viminale in disco, la disco al viminale

Che l’amicizia fraterna tra Salvini e Massimo Casanova non fosse solo questione di Papeete si era capito già. Un po’ perché il padrone dello stabilimento di Milano Marittima e il ministro dell’Interno non si frequentano solo lì: Matteo è ospite d’onore pure a Lesina, a Bosco Isola, nella maxi tenuta dell’amico imprenditore. Un po’ perché il loro rapporto ha una dimensione politica: Casanova è stato candidato alle Europee e ha portato a casa più di 60 mila preferenze, volando dritto dritto in Parlamento a Strasburgo. Però non finisce qui: la frequentazione – tra le altre – della discoteca romagnola ha consentito a Salvini di avvicinarsi molto ai problemi complessi di questi centri d’aggregazione, e soprattutto a chi li gestisce. Se non è Salvini che va in discoteca, sono le discoteche che vanno da Salvini: stamattina al Viminale il ministro accoglierà i rappresentanti dei locali. All’ordine del giorno – si apprende – “l’avvio di un tavolo di confronto per l’adozione di iniziative condivise per prevenire fenomeni di illegalità, l’abuso di alcol, lo spaccio e il consumo di sostanze stupefacenti in prossimità dei locali da ballo”. Seguirà una conferenza stampa, nella quale presumibilmente il ministro annuncerà di aver sconfitto – o quasi – la piaga della droga sulle piste da ballo. A cominciare dal Papeete, per conquistare l’Italia.

Il Capo d’Italia col Daspo al decoro

Èiniziata la stagione dei pezzi di costume su Salvini, da intendersi nel senso del capo di abbigliamento che si indossa in spiaggia per star freschi e prendere i bagni, dopo i mesi delle pappardelle al cinghiale e dei cappelletti al ragù per la sterminata sfilza di selfie a tema tirolese-prealpino-strapaesano (con incursioni meridionali-insulari per la campagna di conquista delle terre del Sud). Allo scattare del solstizio d’estate, Sky Tg24 muove la fanteria di marina e intercetta il ministro dell’Interno sul bagnasciuga di Milano Marittima per una imprescindibile intervista da Cinegiornale Luce. Sarà un caso, ma pochi giorni prima una giornalista della testata si era permessa l’impensabile, ovvero di contestare al vicepremier la definizione di Tripoli quale “porto sicuro”, meritandosi per direttissima la ormai notoria incanata che Salvini riserva a chi non ne sugge il verbo: “Scusi lei fa politica? Se vuole far politica si candidi con la sinistra”. Lo spavento di averlo urtato dev’esser stato tanto, in redazione, se una settimana dopo una troupe viene inviata ai bagni preferiti dal ministro per riparare all’offesa con uno sbarazzino servizio, infatti subito condiviso sui social della Bestia.

Mentre le temperature sulla litoranea adriatica toccano i 40 gradi Celsius, l’inviato in camicia bianca abbottonata affonda le scarpe nella rena per interpellare il Vate che prende il sole in piedi e a petto ignudo: “Sulla spiaggia non c’è tregua, anche da parte di chi vuole un selfie…”. Come fosse stato sorpreso in un momento privato, il ministro si schermisce: “Eh eh, sto cercando di finire il libro, ho piazzato i bimbi con paletta e secchiello… però va be’, dai, si lavora”. L’inviato, la fronte imperlata di sudore, ci crede, anzi rilancia: “Questo è un anticipo di vacanza!, però, come diceva, il pensiero va all’Europa?”. L’inciso “come diceva” dice tutto: l’essere appesi a ogni parola di Salvini, la supina acquiescenza al suo codice. Ma quando “diceva”, Salvini? Indifferentemente dalla scrivania del Viminale, in Tv o in fila al bar per prendere il ghiacciolo. “No”, fa Salvini, “io ho da 11 giorni questa imbarcazione olandese con una Ong tedesca che va in giro per le acque del Mediterraneo…”. Segue la solita litania sui 6 miliardi che diamo all’Europa eccetera. Il cronista, ipoteso, intossicato dalle lozioni solari, tace. I bagnanti della domenica accorrono seminudi nella canicola. La forza del campo magnetico attorno a Salvini persiste incredibilmente nella spoliazione volontaria dei segni del carisma, “alle bagnature di Riccione o di Ostia o d’altro qualunque lido della Italia dov’egli apparisse ignudo del torso co’ tettarelli sua” (Gadda su Mussolini), nell’ostensione del ventre atonico sormontato da una collanina col crocefisso di legno, di quelle che danno sui pullman delle gite a Assisi. La spiaggia opportunamente devucumprizzata da decreto salviniano detto “Spiagge sicure” risulta deserta di senegalesi e venditori di cocco.

In coma da insolazione, la salivazione azzerata, il cronista domanda: “Quale suggerimenti al premier ha dato?” (sic). “Sta lavorando bene”, risponde il Capo d’Italia, e nessuno dei due avrebbe cuore a continuare, se non fosse per un pungolo personale dell’inviato: “Ma: la flat tax si riuscirà a fare? Quanti soldi servono? Si troveranno?”. “Già trovati”. Il ministro che ha dato il Daspo al decoro suo proprio, mentre di quello degli altri è intransigente cultore, riguadagna la battigia nell’esibita normalità di uomo medio, se non nella bischeraggine che ci sorbiremo per tre mesi di mutandoni da mare e selfie col mojito (un miraggio rovesciato di Aldo Moro a Terracina in giacca e cravatta, scarpe coi lacci, soprabito). Il cronista viene soccorso con flebo di Polase. Sotto lo stesso sole, più a sud, sulla nave Sea Watch rosolano carni umane nel silenzio o al massimo nel lieve disturbo che recano i morenti di sete.

Salvini, Mr. Papeete e la foto con l’indagato per mafia

Nel consueto notiziario di good news diramate dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, ieri mattina c’era anche questa: “Trenta arresti per mafia in provincia di Lecce: i carabinieri hanno stanato un gruppo criminale accusato di traffico di droga, danneggiamento, detenzione abusiva di armi e materiali esplodenti, estorsione, ricettazione, minaccia aggravata, sequestro di persona e violenza privata. #lamafiamifaschifo”.

Salvini esulta per l’operazione di polizia, giustamente. C’è un però: tra gli indagati nella maxi inchiesta risulta anche Guido Nicola Stefanelli, sindaco di Scorrano (comune di 7mila abitanti in provincia di Lecce). È accusato – come scrive la Gazzetta del Mezzogiorno – di aver promesso appalti e gestione di servizi pubblici al gruppo mafioso in cambio del sostegno elettorale del clan. Stefanelli non è esattamente una star della politica nazionale ma è un personaggio che negli equilibri locali salentini qualcosa conta. Ex tenente di Raffaele Fitto, si è candidato alle elezioni di Scorrano in una lista civica ma è considerato dai media e da fonti locali molto vicino al senatore leghista Roberto Marti, che ad aprile ne avrebbe propiziato l’elezione nel consiglio provinciale leccese. Chi fa politica sul territorio assicura che lo stesso Stefanelli abbia fatto campagna per il Carroccio in occasione delle ultime elezioni europee.

In particolare si sarebbe speso per un candidato: Massimo Casanova. Meglio noto, su queste pagine, come Mr. Papeete: è il proprietario del famoso stabilimento balneare di Milano Marittima, lo stesso dove Salvini si è fatto intervistare domenica a torso nudo e dove va a trascorrere regolarmente le sue vacanze estive. L’amicizia tra Salvini e Casanova ha radici profonde: il ministro leghista è ospite fisso anche nella tenuta dell’imprenditore sul Gargano, a Bosco Isola (finita sotto la lente della Guardia di finanza, che indaga per abuso edilizio). Casanova è diventato quindi il candidato di punta della Lega alle Europee nel collegio Italia Meridionale, con eccellenti risultati: 64mila preferenze e biglietto staccato per una legislatura nel Parlamento di Strasburgo.

Ieri però è arrivato il social-boomerang: poche ore dopo il trionfale tweet di Salvini sull’indagine che coinvolge anche Stefanelli, sono iniziate a circolare in rete le fotografie dello stesso Stefanelli sul palco di un comizio elettorale di Casanova, al quale partecipava anche Marti.

L’imprenditore del Papeete non vuole parlarne (“Casanova non rilascia interviste”), ma dalla comunicazione leghista arriva una smentita secca: “Stefanelli con noi non c’entra nulla, dei suoi guai non sappiamo niente, non sappiamo come sia finito su quel palco”.

Eppure in quella fotografia, scattata durante un evento pugliese per festeggiare l’elezione di Casanova, le presenze non sembrano per nulla casuali. A tenere il microfono c’è il già citato senatore Roberto Marti, l’uomo a cui la Lega di Salvini ha affidato le sue fortune a Lecce e dintorni. Anche lui peraltro è indagato per una vicenda molto delicata: avrebbe avuto un ruolo nell’assegnazione di una casa confiscata alla mafia ad Antonio Briganti, fratello di un boss della Sacra Corona Unita. Oltre a Stefanelli, ci sono anche il deputato salviniano barese Rossano Sasso, il manager di Conversano (Bari) Nuccio Alfieri (nominato in quota leghista alla presidenza di Invimit, la società pubblica che gestisce il patrimonio immobiliare del ministero dell’Economia) e Giovanni Riviello, uno dei commissari di Salvini nel partito regionale. Insomma: oltre a Stefanelli c’è lo stato maggiore della Lega pugliese.

Il sindaco di Scorrano sarà passato lì per caso, come sostiene la comunicazione del Carroccio, e fino a prova contraria è pure innocente. Ma per gestire la formazione delle classi dirigenti salviniane nelle regioni del Sud – Puglia in primis – evidentemente i tweet non bastano.

La difesa di Dell’Utri vuole B. in aula al processo Trattativa

L’avvocato Francesco Centonze, legale di Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a 12 anni nel processo per la trattativa Stato-mafia, ha chiesto la rinnovazione del dibattimento in appello e la citazione a deporre dell’ex premier Silvio Berlusconi. L’istanza, già indicata nell’impugnazione, è stata reiterata ieri davanti alla Corte d’assise di secondo grado di Palermo. Berlusconi, che le motivazioni del primo verdetto dipingono come vittima della minaccia stragista rivolta da Cosa nostra allo Stato per il tramite di Dell’Utri, non è mai stato sentito in aula, né in fase d’indagine. Una circostanza che, secondo il legale, andrebbe sanata essendo l’esame di Berlusconi “una logica conseguenza dalla qualifica di persona offesa attribuita al medesimo nella sentenza impugnata in quanto destinatario finale della ‘pressione o dei tentativi di pressione’ di Cosa Nostra”. Dell’Utri, ex senatore, già fondatore di Forza Italia, sta scontando sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa ed è stato condannato in primo grado per la trattativa, per minaccia a corpo politico, insieme all’ex direttore del Sisde ed ex capo del Ros generale Mario Mori, ad altri ufficiali dell’Arma e ai boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà.

Il partito dove nessuno osa dire: “Matteo, sbagli”

Pubblichiamo un estratto del libro Il dittatore, in libreria da oggi.

Arrivato al Viminale, Salvini si scontrò subito con un problema gigantesco: la migrazione dall’Africa verso l’Europa di milioni di persone. Gente infelice, pronta a tutto pur di trovare un destino meno crudele. Che cosa poteva fare Salvini messo di fronte a una prova così terribile? Niente, tranne quel poco che aveva tentato il suo predecessore Marco Minniti, il ministro dell’Interno del governo di centrosinistra. Ma Salvini ha deciso di far diventare i neri il pericolo numero uno degli italiani. Rivolgendosi a un elettorato che nessuno conosceva, ma che odiava, con mille ragioni, la Casta dei partiti tradizionali. Il Capitano l’ha fatto uscire dal buio ed eccitando le paure più diffuse si è proposto come un leader che ne teneva conto, lo rispettava, si metteva al suo servizio. Conquistarne il voto era il suo obiettivo. E a oggi ci è riuscito alla grande. Anche grazie agli errori di altri leader che ormai non hanno più potere. Uno di questi è Matteo Renzi, colpevole di aver distrutto, sia pure non da solo, il Pd, l’unico che poteva opporsi al leghismo di guerra.

L’altro è Silvio Berlusconi. Lui era convinto che con il proprio carisma e i propri miliardi gli sarebbe risultato facile continuare a regnare su tre partiti: Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. Ma si trattava di una previsione sbagliata. Visto nella tarda primavera del 2019, Silvio si rivela un ottantenne malmesso, con poche energie e all’apparenza stanco di un gioco frustrante come la politica di oggi. Forse non ce ne rendiamo conto, ma nella Prima Repubblica nessun leader politico aveva rivelato una vocazione dittatoriale della stessa forza di quella di Salvini. Il numero uno del Pci, Palmiro Togliatti, che la borghesia moderata temeva come la peste, era un funzionario sovietico che si atteneva al patto di Jalta e considerava l’Italia un protettorato americano. Amintore Fanfani, che noi giornalisti democratici consideravamo un diavolo in terra, era in realtà un signore che da buon toscano non risparmiava le parole, ma aveva un solo traguardo: invecchiare bene accanto alla giovane moglie. Giorgio Almirante, il leader neofascista, capo del Msi, non aveva nessuna intenzione di far rivivere i tempi di Benito Mussolini. Salvini è sempre stato molto diverso da loro. Prima o poi i politologi dovranno studiare il suo caso. A loro offro uno spunto che non è mai stato oggetto di riflessione.

Il Capitano della Lega ha già sperimentato la dittatura nel suo stesso partito. Rispetto ai tempi della segreteria di Umberto Bossi, il partito delle Camicie verdi è cresciuto parecchio, accettando l’arrivo di militanti molto diversi per cultura politica e storia personale. Ebbene, non si è mai saputo dell’esistenza di dissidenti nella Lega di Salvini. Non c’è nessuno che in pubblico osi dire che Matteo sbaglia. Nella Seconda guerra mondiale, persino Winston Churchill aveva degli oppositori. A cominciare dal conte di Halifax che proponeva di trattare con Hitler. Ma il supercapo leghista sembra aver tagliato la lingua a tutti i suoi vassalli. E nulla impedisce di pensare che farà lo stesso con gli oppositori cheoseranno contraddirlo. Un’ultima caratteristica di Salvini è di non fare mai il passo più lungo della gamba. Ha saputo programmare con astuzia la sua scalata politica all’interno della Lega. È stato un seguace di Bossi, poi un graduato leghista, quindi un apprendista veloce e scaltro che ha fatto dimenticare i dirigenti del passato, come i Maroni o i Formentini, infine si è presentato come il sostituto naturale dell’Umberto. Nell’agosto del 2018 scrivevo su Dagospia: “Non è azzardato prevedere che le prossime elezioni politiche lo vedranno trionfare in tutti i collegi, a cominciare da quelli del Mezzogiorno. Salvini ci spera molto. Ha tolto la parola Nord dall’insegna della ditta. E non parla più di terroni, di clientele sudiste, di mangiaspaghetti e ancora meno di Roma ladrona”.

Adesso sappiamo come sono andate le Europee. Non è stata una prova da poco per Salvini. Ma il Capitano leghista ha portato a casa una quantità impressionante di voti. La sua Lega è diventata il primo partito italiano, ribaltando il rapporto con i 5 Stelle.

Vecchia e nuova guardia. La Lega litiga, di nascosto

Come la Lega di Umberto Bossi, pure quella di Matteo Salvini è un partito leninista. Uno comanda e tutti si accodano. Il dissenso è quasi ridotto a zero. Almeno ufficialmente. Perché sotto la cenere i malumori covano. Come si è visto con l’ultimo screzio, tra Giancarlo Giorgetti e Claudio Borghi. “I minibot sono inverosimili. C’è ancora qualcuno che crede a Borghi?”, le parole del sottosegretario. Lo scontro è il sintomo, ma la malattia è che la vecchia guardia del Carroccio mal sopporta i nuovi arrivati. Che però in Parlamento sono la stragrande maggioranza, perché Salvini ha costruito le liste in modo da mandare in Parlamento i fedelissimi. E peggio sarà in futuro.

Finché si tratta di beghe di partito, però, è un conto, ma quando si parla di economia, visto che la Lega è al governo, le cose cambiano. E Giorgetti, da sempre l’uomo della Lega su questi argomenti, un po’ sorride e un po’ si preoccupa quando sente parlare in tv gli economisti in ascesa: Borghi, ma pure Alberto Bagnai e Antonio Maria Rinaldi. Figuriamoci se, come spera, diventerà commissario Ue.

Poi c’è tutta la partita dell’autonomia. Attilio Fontana, Luca Zaia, ma pure il bergamasco Daniele Belotti e lo stesso Giorgetti, stanno facendo una gran fatica a rassicurare gli elettori del Nord, il vecchio zoccolo duro del Carroccio. E anche su quel fronte la situazione è esplosiva. La trasformazione del partito da regionale a nazionale sta portando a imbarcare chiunque, spesso senza un minimo di esame del Dna. Persone che poi, anche quando sono di lungo corso come Claudio Durigon o Barbara Saltamartini, sull’autonomia del Nord fanno spallucce, perché devono tener buono il loro elettorato al Centro-Sud. Sulla trasformazione del partito in forza nazionale avrebbero qualcosa da dire pure i vecchi maroniani, anche se Salvini li ha fatti fuori dal Parlamento quasi tutti. I più coraggiosi vanno a sfogarsi con Umberto Bossi, ancora in clinica a fare riabilitazione dopo il malore di febbraio: molti, però, lo fanno di nascosto, perché parlare con Bossi, per alcuni salviniani doc, equivale a tradire il Capitano. Altra crepa, infine, è tra chi vuole tornare al voto col centrodestra e chi vuol proseguire con i pentastellati. E questo è l’unico tema su cui pure i fedelissimi del vicepremier si dividono. Tanto poi alla fine deciderà Matteo.

 

I genitori di Regeni: “Via gli ambasciatori della Ue dal Cairo”

Anche se lo striscione”Verità per Giulio Regeni” è stato rimosso dal palazzo della Regione Friuli Venezia Giulia, il ricordo del ricercatore triestino è sempre presente: in 5000 hanno già firmato la petizione per farlo riappendere. E i genitori di Giulio continuano a chiedere che si facciano azioni concrete per costringere Il Cairo a rivelare cosa successe nel 2016 a loro figlio: “Dichiarare l’Egitto Paese non sicuro e richiamare i nostri ambasciatori potrebbe essere un segnale forte di pretesa di rispetto dei diritti umani. Giulio era un cittadino europeo e merita l’impegno di tutte le nostre istituzioni”. I Regeni lo hanno scritto in una lettera che Marta Grande (M5S), presidente della commissione Esteri di Montecitorio, ha letto di fronte ai deputati italiani e del Bundestag tedesco, riuniti a Berlino. Anche il presidente della Camera, Roberto Fico, ha ricordato il giovane ucciso: “Questo è il murales dedicato a Giulio Regeni che si trova a Berlino – ha scritto pubblicandone la foto su Facebook – Portare il suo caso nel cuore dell’Europa assume un forte significato”. Caso di cui discuterà oggi col suo omonimo tedesco Wolfgang Schäuble.

Il dissenso non si può silenziare. Ma fare l’opposizione è più facile

Sta succedendo quel che era naturale succedesse quando una forza politica prende una batosta del genere alle elezioni: i 5 Stelle sono entrati in confusione. Anche perché c’è una regola sacra che vale anche in politica: i generali che perdono, anche se non hanno colpe, devono essere cambiati. Per questo non ha senso che ora Di Maio si ostini a chiedere un silenzio interno, in un momento in cui il Movimento si sta già ri-organizzando tra chi spinge per Di Battista, chi per Fico e chi per un futuro con Giuseppe Conte, senza contare quelli che sono già usciti fuori e che potrebbero costituire un asse. E allora non ha senso, come fa Di Maio, pretendere che Di Battista non parli, perché vuol difendere una leadership continuando a essere leader nello stesso modo che ha portato alla disfatta. Poi è chiaro che Di Battista fa il suo gioco: vuole elezioni anticipate e sa che il Movimento le perderà, ma si candida a essere il leader di un partito che fa opposizione, cosa in cui probabilmente è più bravo.

Governisti contro movimentisti Un classico, come la vecchia Dc

Il conflitto interno tra governisti e movimentisti è un classico della politica: la discussione tra Di Maio e Di Battista dimostra come certe dinamiche si riproducano fatalmente anche nelle forze politiche che si definiscono nuove. Nei partiti della Prima Repubblica la pluralità di idee era una risorsa – si pensi alla Democrazia cristiana, che andava da Donat Cattin a Fanfani – perché erano partiti fondati sulla mediazione. Nei partiti carismatici di oggi, fondati sul credere-obbedire-combattere, la diversità è quasi sempre un handicap perché si è incapaci di gestirla e portarla a capitale. Personalmente non trovo nulla di scandaloso nelle uscite di Di Battista, anche quando radicalmente differenti alla linea del leader dei Cinque Stelle: la sua posizione è nota da tempo. Trovo anche che non abbia senso accusare Di Battista di destabilizzare il governo: le sorti dell’alleanza saranno decise da Salvini e non saranno certo le discussioni interne del Movimento a determinare se si andrà a elezioni anticipate oppure no.