Come previsto, ieri mezzo governo – quello targato 5 Stelle – è tornato a Taranto: contenuti definiti da comunicare pochi, promesse molte nel tentativo di recuperare un rapporto con una città che aveva puntato forte sul Movimento alle Politiche. Luigi Di Maio e gli altri cinque ministri sono stati accolti dalle contestazioni delle associazioni ambientaliste e civiche (che non hanno voluto incontrare) in un clima reso più difficile dalla richiesta di ArcelorMittal di mettere in cassa integrazione altri 1.400 operai dell’ex Ilva e dalle minacce di chiusura arrivate dopo la decisione di abolire lo “scudo penale” per i nuovi gestori dell’Ilva col dl Crescita, in via di approvazione in Senato. Di Maio, a oggi, non cambia idea: contrariamente a quanto sostenuto dalla società, ha detto ieri, “l’esimente penale non era nel contratto che abbiamo firmato, né era legata all’addendum. ArcelorMittal, se mantiene gli impegni, non ha nulla da temere”.
Sul tema, peraltro, pende un ricorso davanti alla Consulta che potrebbe anche decidere di esprimersi nonostante la modifica della legge (l’immunità resta, infatti, ai commissari di governo per realizzare il Piano ambientale).
Arcelor, che pure era stata informata in anticipo dal governo, sostiene che, senza scudo, si porrà il problema delle denunce per “omissione” degli impegni ambientali. Il problema, più in generale, pare invece un altro: l’acciaieria di Taranto – che continua a inquinare – non è redditizia. Oggi produce meno di 5 milioni di tonnellate l’anno e ha un tetto massimo a 6 milioni, che – completato il Piano ambientale – potrebbe essere elevato a 8 milioni, la soglia minima dalla quale ArcelorMittal avrebbe interesse a tenerla aperta.
Difficile – con questa tecnologia e questo piano ambientale – che ottenga di farlo: chiudere Ilva, a quel punto, potrebbe essere la scelta più redditizia visto che l’Europa è già comunque in sovracapacità produttiva e la multinazionale avrebbe comunque assorbito i clienti Ilva e impedito ai suoi concorrenti di mettere le mani sull’acciaieria più grande d’Europa.
Parlando dei tetti alla produzione, veniamo al grosso di quel che ha annunciato ieri il governo a Taranto. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha illustrato l’apertura dell’iter per la nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia), basata su un esposto del sindaco di Taranto per danno sanitario, e un decreto ministeriale – scritto con la collega della Salute Giulia Grillo – che rendono “per la prima volta” la Valutazione del danno sanitario “di tipo predittivo per capire cosa presumibilmente potrà accadere in base al livello di produzione dello stabilimento”. Insomma, cosa succede ai tarantini producendo 6 milioni di tonnellate l’anno e cosa salendo a otto milioni.
Questo modello previsivo finirà nella nuova Aia e, anche se il processo è solo all’inizio, si dà quasi per scontato che comporterà ulteriori e più stringenti tetti alla produzione. La ministra Grillo, per dire, ieri ha rivelato un trend in aumento “per le leucemie infantili tra 2014 e 2017”, anni in cui l’Ilva peraltro funzionava a metà.
Per il resto, ieri Di Maio, accompagnato anche dalla ministra della Difesa Elisabetta Trenta, voleva spiegare ai tarantini quanti soldi spenderà in città il governo per la “riconversione economica” cara al M5S: “Un piano decennale, con risultati anche nel breve-medio periodo”, ha detto il vicepremier parlando dei progetti per il centro storico (90 milioni), l’Arsenale militare (30 milioni), i comuni limitrofi (12 milioni) e il quartiere Tamburi. In tutto ci sono – c’erano già – 700 milioni mobilitati. Problema: dopo anni le bonifiche stanno ancora a zero, fidarsi è bene, non fidarsi…