Il dibattito interno è una risorsa e può servire a mobilitare la base

Non c’è niente di strano in quel che fa Di Battista, anzi, va benissimo così. Semmai era sbagliata la situazione precedente, in cui mancavano voci forti di dibattito all’interno del Movimento 5 Stelle: se qualcuno ha l’autorevolezza per esprimere le proprie opinioni ben venga. Questa è la fisionomia normale di un partito o di una forza politica, non si può pensare di portare avanti per sempre una fase staliniana in cui al confronto il centralismo del Pci era all’acqua di rose.

Non vedo particolare malizia in Di Battista: quando qualcuno prende una posizione un po’ diversa da quella del proprio leader, per forza di cose emerge, ma in questo caso non credo che Di Battista ne avesse particolare bisogno, è già uno dei dioscuri del Movimento. Piuttosto, per Di Maio potrebbe essere una risorsa in una fase di grande difficoltà, così da mobilitare la base e ridefinire l’identità, mentre il vicepremier è impegnato a tentare di tenere insieme i cocci del governo.

È infantile non vedere la realtà: il M5S non è più quello del 2013

È ovvio che Di Battista abbia tutto il diritto di dire la sua sul Movimento, è più che legittimo e lo può fare lui come l’ultimo militante. Bisogna però che Di Battista si assuma anche la responsabilità di quel che dice, soprattutto in settimane decisive in cui si capirà se questo governo farà la manovra oppure se si andrà a votare. Deve sapere che nel momento in cui esprime la sua opinione ha un peso nel dibattito politico. Ho la sensazione che su questo abbia invece un’idea un po’ infantile, tanto che a volte torna indietro, minimizza, dice che con Di Maio si metterà d’accordo e così via. Deve rendersi conto che i 5Stelle, da quando sono al governo, vivono un percorso tutto nuovo. Non significa corrompersi o macchiarsi di cinismo, ma confrontarsi con i problemi veri, assumere decisioni. Di Battista forse non è ancora in sintonia con questo percorso di realismo, è per metà sospeso al Movimento che entrava in Parlamento 6 anni fa. E non è detto che le sue parole, oggi, risuonino così bene tra i colleghi come in passato.

Dibba non è un tizio qualunque: quel che dice pesa, deve saperlo

Alessandro Di Battista, come ogni cittadino o iscritto al M5S ha tutto il diritto di dire ciò che pensa sul comportamento degli esponenti di governo e sul Movimento. Ma, se come crediamo, è una persona intelligente ha anche il dovere di non stupirsi se le sue prese di posizione hanno il potere di destabilizzarlo. Di Battista non è un attivista qualunque. Gode di ampio seguito e viene considerato un custode del pensiero grillino. Sostenere che è possibile derogare alla regola dei due mandati parlamentari è certamente lecito. Ma è ovvio che in molti prendano la proposta (dirompente) per un invito a far cadere l’esecutivo. Soprattutto se Di Battista scrive che i propri colleghi al governo hanno dimezzato i consensi perché trasformati “in burocrati rinchiusi all’interno dei ministeri”. La scelta di non ricandidarsi nel 2018 restituendo però i 42 mila euro del suo Tfr da parlamentare è stata meritoria. Ma questo non basta per farne un privato cittadino. Finché i 5s esisteranno Di Battista resta un leader politico. E ogni sua parola avrà conseguenze politiche.

Viva la discussione trasparente, no alle congiure da retropalco

A Di Maio che molto si lamenta di Di Battista e del suo libro, perché “destabilizza” M5S e governo, vorremmo chiedere quale altro comportamento avrebbe, invece, preferito dal suo (ex?) amico dopo il tracollo elettorale del 26 maggio? Il mugugno del qui sta crollando tutto e del qui lo dico e qui lo nego? L’attività cospiratoria in qualche retropalco Rousseau? L’intervista anonima ma virgolettata? O un silenzio tombale? Personalmente non ho ancora capito se, oltre l’indubbio talento agitatorio, Dibba possieda un pensiero politico compiuto, e quale. Ma in Politicamente Scorretto non ho trovato nulla che non scaturisse dall’amarezza della sconfitta e dal desiderio di ritornare a vincere. Forse uno sfogo emotivo ingeneroso con i “burocrati” che si sono caricati sulle spalle le peggiori rogne di governo. Però, vivaddio, trasparente. Se i due (ex?) amici si chiariranno, fatti loro. Se però anche nei 5Stelle che proclamavano il “cambiamento” si dovesse instaurare l’antica pratica del non si disturba il manovratore (o del taci il nemico ti ascolta), sarebbero guai per tutti.

L’Ue a Italia e Francia: “Sul Tav dovete decidere entro luglio”

Qualche giorno fala commissaria Ue ai Trasporti, Violeta Bulc, ha telefonato al ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli: secondo l’Ansa la conversazione ha riguardato il Tav Torino-Lione e, in sostanza, la richiesta di Bruxelles a Italia e Francia di chiarire se e come intendono portare avanti il progetto del tunnel. La minaccia, sempre a stare all’Ansa, è la solita: la perdita dei fondi a disposizione e la restituzione di quelli già ricevuti. In realtà, la situazione non è così drammatica: Roma e Parigi potrebbero chiedere di prolungare il cosiddetto Grant agreement (che può essere esteso fino a due anni) visto che, comunque, i lavori sono in ritardo. Va ricordato poi che la società italo-francese Telt ha raccolto un mese fa le manifestazioni di interesse a costruire l’opera, da cui dovrà estrarre la platea delle imprese che parteciperanno alla gara vera e propria: il momento di decidere si avvicina e dopo le Europee e le Regionali in Piemonte l’aria pare cambiata. Non per il grillino Alberto Airola, senatore e militante No Tav: “Nessuna Tav leggera: sarebbe un modo ancora più vigliacco di imbrogliare i valligiani. Io non tradirò la Val di Susa”. Parole rivolte alle recenti aperture della viceministra torinese Laura Castelli.

Ilva, le promesse a Taranto e lo spettro chiusura

Come previsto, ieri mezzo governo – quello targato 5 Stelle – è tornato a Taranto: contenuti definiti da comunicare pochi, promesse molte nel tentativo di recuperare un rapporto con una città che aveva puntato forte sul Movimento alle Politiche. Luigi Di Maio e gli altri cinque ministri sono stati accolti dalle contestazioni delle associazioni ambientaliste e civiche (che non hanno voluto incontrare) in un clima reso più difficile dalla richiesta di ArcelorMittal di mettere in cassa integrazione altri 1.400 operai dell’ex Ilva e dalle minacce di chiusura arrivate dopo la decisione di abolire lo “scudo penale” per i nuovi gestori dell’Ilva col dl Crescita, in via di approvazione in Senato. Di Maio, a oggi, non cambia idea: contrariamente a quanto sostenuto dalla società, ha detto ieri, “l’esimente penale non era nel contratto che abbiamo firmato, né era legata all’addendum. ArcelorMittal, se mantiene gli impegni, non ha nulla da temere”.

Sul tema, peraltro, pende un ricorso davanti alla Consulta che potrebbe anche decidere di esprimersi nonostante la modifica della legge (l’immunità resta, infatti, ai commissari di governo per realizzare il Piano ambientale).

Arcelor, che pure era stata informata in anticipo dal governo, sostiene che, senza scudo, si porrà il problema delle denunce per “omissione” degli impegni ambientali. Il problema, più in generale, pare invece un altro: l’acciaieria di Taranto – che continua a inquinare – non è redditizia. Oggi produce meno di 5 milioni di tonnellate l’anno e ha un tetto massimo a 6 milioni, che – completato il Piano ambientale – potrebbe essere elevato a 8 milioni, la soglia minima dalla quale ArcelorMittal avrebbe interesse a tenerla aperta.

Difficile – con questa tecnologia e questo piano ambientale – che ottenga di farlo: chiudere Ilva, a quel punto, potrebbe essere la scelta più redditizia visto che l’Europa è già comunque in sovracapacità produttiva e la multinazionale avrebbe comunque assorbito i clienti Ilva e impedito ai suoi concorrenti di mettere le mani sull’acciaieria più grande d’Europa.

Parlando dei tetti alla produzione, veniamo al grosso di quel che ha annunciato ieri il governo a Taranto. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha illustrato l’apertura dell’iter per la nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia), basata su un esposto del sindaco di Taranto per danno sanitario, e un decreto ministeriale – scritto con la collega della Salute Giulia Grillo – che rendono “per la prima volta” la Valutazione del danno sanitario “di tipo predittivo per capire cosa presumibilmente potrà accadere in base al livello di produzione dello stabilimento”. Insomma, cosa succede ai tarantini producendo 6 milioni di tonnellate l’anno e cosa salendo a otto milioni.

Questo modello previsivo finirà nella nuova Aia e, anche se il processo è solo all’inizio, si dà quasi per scontato che comporterà ulteriori e più stringenti tetti alla produzione. La ministra Grillo, per dire, ieri ha rivelato un trend in aumento “per le leucemie infantili tra 2014 e 2017”, anni in cui l’Ilva peraltro funzionava a metà.

Per il resto, ieri Di Maio, accompagnato anche dalla ministra della Difesa Elisabetta Trenta, voleva spiegare ai tarantini quanti soldi spenderà in città il governo per la “riconversione economica” cara al M5S: “Un piano decennale, con risultati anche nel breve-medio periodo”, ha detto il vicepremier parlando dei progetti per il centro storico (90 milioni), l’Arsenale militare (30 milioni), i comuni limitrofi (12 milioni) e il quartiere Tamburi. In tutto ci sono – c’erano già – 700 milioni mobilitati. Problema: dopo anni le bonifiche stanno ancora a zero, fidarsi è bene, non fidarsi…

L’identità dei 5 Stelle a rischio. Ora Fico teme l’implosione

E poi ci sarebbe Roberto Fico. Il templare a Cinque Stelle, quello che c’è sempre stato: prima dell’Alessandro Di Battista che ha seminato dubbi in un libro, e del Luigi Di Maio che ha reagito di pura furia. Il presidente della Camera, che adesso ha paura del buio, teme lo strapiombo. “Qui sono in gioco l’identità e la sopravvivenza del Movimento”.

Lo ha detto sostanzialmente così Fico, nel martedì sera dopo Waterloo, ossia nell’assemblea congiunta del 28 maggio in cui Di Maio e i parlamentari avevano provato a dirsi qualche verità dopo le Europee del 17 per cento. E lo ha ripetuto nei conciliaboli privati in questi giorni di mare in tempesta, così forte che qualche ora fa dalla nave del M5S è scesa Paola Nugnes, senatrice a lui vicinissima. Ostile, al capo politico che per tenere i gruppi aveva promesso una riorganizzazione, cioè nuove norme (via il vincolo del doppio mandato, almeno per consiglieri comunali e municipali) una struttura con posti e incarichi, perfino con una segreteria. E i big, Fico compreso, si erano posti in attesa. Ma i tempi della riforma si solo dilatati, rallentati dalla guerra con la Lega e dalla voglia di Di Maio di gestire anche la transizione come sempre, cioè da solo.

Così pare evaporato il comitato dei saggi che avrebbe dovuto ripensare regole e meccanismi. Dentro avrebbe dovuto esserci innanzitutto Di Battista, e fa sorridere leggendo il mare di fiele che gli stanno riversando contro (“Si cerchi un lavoro” lo esorta deputato Davide Galantino, dicendo in chiaro quanto tanti eletti digrignano fuori taccuino). E una casella era stata ventilata anche a Fico: che non ha mai rifiutato. Piuttosto, ha chiesto di capire meglio funzioni e perimetro: se non del comitato quanto meno della segreteria che arriverà non prima di settembre, cioè dopo che Di Maio avrà completato il suo giro di “ascolto” degli iscritti sui territori nei fine settimana da qui a inizio agosto. “E comunque il problema non sono tanto i ruoli o gli incarichi, perché ci siamo passati anche attraverso il Direttorio – ripete Fico nei ragionamenti privati –. Il punto è quello che vogliamo fare e vogliamo essere”.

E allora si può ricordare quanto aveva scritto dopo l’assemblea, su Facebook: “Dobbiamo dirci con forza e chiarezza a quali valori e principi aderiamo. Quindi chi siamo, perché l’identità è ciò che ti permette di non perdere mai la rotta anche se attraversi una tempesta”. Ed è la parola chiave, identità. Talvolta smarrita, di certo diluita per pragmatismo, calcolo o semplice sfinimento. Così ecco che il Movimento è pronto a deporre le armi sul Tav “perché ormai anche in Val Susa vincono i sì”: e non è un caso che siano riprese le voci su un Danilo Toninelli in bilico al ministero delle Infrastrutture (ma lui resiste, raccontano). Però c’è bisogna fare i conti anche con lui, con il Fico ortodosso degli ortodossi, che non si è mai rassegnato alla Torino-Lione. E che lo ha ripetuto: “Quanto avevo detto in assemblea vale più che mai”. In linea con il fondatore, Beppe Grillo, che un big descrive così: “Beppe è scazzatissimo”.

Invece Di Battista cerca di ripararsi dal fuoco, più o meno amico. Nelle chat dei 5Stelle c’è chi ha chiesto addirittura un Daspo per tenerlo lontano dalla Camera “perché non lo vogliamo nelle riunioni”: e in questo caso l’urgenza di mostrarsi leali a Di Maio si mescola all’ostilità verso l’ex deputato, “che ci critica standosene fuori”. Però Di Battista prova a tirare dritto. A chi lo ha sentito nelle ultime ore, ha assicurato di “voler vedere Luigi per ricucire” e di “puntare a dare nuovo slancio al Movimento con nuove proposte, con idee innovative”. Perché la sua linea resta quella, “al M5S serve un’agenda con venti punti”. Ma per Di Maio la ferita è di quelle gravi. Così dal Movimento negano contatti nelle ultime ore con Di Battista, che pure vuole un chiarimento. Difficile, perché il capo è ancora furibondo con l’ex collega: quello che fino a qualche giorno fa chiamava amico.

La direzione dell’Agi a Mario Sechi. Per Luna incarico Eni

Mario Sechi, attuale direttore di World Energy, trimestrale del gruppo Eni sulle energie rinnovabili, sarà il nuovo direttore dell’Agi al posto di Riccardo Luna. Giornalista di lungo corso, Sechi assumerà la guida dell’Agenzia del colosso petrolifero a partire dal 1° luglio, mantenendo la direzione di World Energy e del mensile Orizzonti sui temi della presenza Eni in Basilicata. Assieme a Luna lascia anche il condirettore Marco Pratellesi. Luna e Pratellesi avranno nuovi incarichi in Eni legati all’innovazione digitale. Sechi nella sua carriera, iniziata all’Indipendente nel 1992, ha lavorato in numerose redazioni: dopo l’esperienza al Giornale ha diretto l’Unione Sarda nel 2001 per poi tornare al Giornale come vicedirettore e capo della redazione romana. Ha lavorato a Panorama, sempre come vicedirettore e capo della redazione romana; nel 2009 viene nominato vicedirettore di Libero e nel 2010 direttore del Tempo. Al quotidiano romano resta fino al gennaio del 2013, quando lascia per tentare l’avventura politica alle elezioni, candidandosi con Scelta Civica, il movimento politico di Mario Monti. Sechi tuttavia non ce la fa in quanto il movimento di Monti in Sardegna non supera la soglia di sbarramento.

“Giochi in perdita nel 95-97% dei casi”

Milano e Cortina si sono aggiudicate le Olimpiadi invernali 2026, esultano (quasi) tutti. “Ma c’è poco da festeggiare”, attacca Gustavo Rinaldi, docente di Economia all’Università di Torino, da sempre critico nei confronti dei grandi eventi e in particolare dei Cinque Cerchi.

Professore, la vittoria di Milano-Cortina non è una buona notizia?

Purtroppo mi devo ripetere. Esiste una letteratura, gli studi scientifici non mentono: gli eventi olimpici storicamente comportano perdite per il Paese organizzatore. Direi nel 95-97% dei casi. Mi sembra difficile pensare che proprio noi rientreremo nel 3% di fortunati.

Il governo però assicura che saranno a costo zero per lo Stato.

Le promesse se le porta via il vento, non è mai stato così: tra preventivo e consuntivo ci sono scostamenti significativi, a volte enormi.

E gli studi che garantiscono un indotto miliardario?

Le analisi ex post sono affidabili, quelli ex ante molto meno: è chiaro che i conti si sballano se il budget iniziale non viene rispettato. E non è mai stato così.

Si parla di un costo totale di 1,3 miliardi, 400 milioni di investimenti, la maggior parte privati. Soldi buttati?

Non dico questo, è raro che esista un progetto completamente inutile. Solo, con i fondi pubblici che saranno spesi si poteva fare altro e forse meglio. Le Olimpiadi sono un grande evento costoso, un lusso. L’Italia se lo può permettere in questo momento? È solo questa la domanda.

Quel che resta di Expo: amici, arresti e un buco da 1,5 miliardi

Dopo la legittima soddisfazione per l’assegnazione dei Giochi, è utile far seguire all’entusiasmo qualche considerazione razionale sull’evento assegnato a Milano e Cortina. Considerazioni che mostrano come in Italia dei grandi eventi beneficiano soprattutto alcune grandi imprese di costruzioni, spesso in combutta con un sottobosco di amministratori corrotti e affaristi corruttori. Stimare i benefici economici di un grande evento è quasi impossibile, anche perché è difficile la stima di quelli indiretti, sia in termini di indotto, sia in termini di immagine per il Paese, che ne dovrebbe guadagnare come meta turistica.

Promesse e realtà. Il problema è che se si fa un bilancio dei mega eventi in cui da una parte ci sono i costi di gestione e dall’altra i ricavi da biglietti, sponsorizzazioni e servizi in concessione, è facile che alla fine esca un profitto. Le cose cambiano se si calcolano tutti i costi propri dell’evento, che comprendono gli investimenti pubblici. Dopo le Olimpiadi di Torino del 2006 un altro mega evento in Italia è stato celebrato dai media come un successo: l’Expo 2015, trampolino per la carriera politica di quello che era il suo commissario straordinario, Beppe Sala, aprendogli le porte dell’ufficio di sindaco di Milano. La realtà dei conti mostra però che Expo è stato un grande circo di appalti dati senza gara, soldi sprecati, infiltrazioni mafiose e corruzione, con decine di arresti e condanne. Gli strascichi giudiziari sono ancora in corso, tra i principali: quello a Milano in cui Sala è imputato per falso (la retrodatazione di un atto, in relazione all’acquisto degli alberi, pagati tre volte il prezzo di mercato), e un processo per turbativa d’asta a Como, che riguarda l’appalto principale, quello della “piastra”, opera da 272 milioni di euro, che ha come imputati Piergiorgio Baita, ex presidente e ad della Mantovani spa, Franco Morbiolo, ex presidente di Coveco, e Dario Comini, ex dipendente di Metropolitana milanese. Alla fine la kermesse sul cibo è costata oltre 2 miliardi di euro di soldi pubblici: 1,3 miliardi per la costruzione del sito e 850 milioni per la gestione dell’evento. I ricavi da biglietti e sponsorizzazioni sono stati circa 700 milioni. Una perdita da quasi un miliardo mezzo. L’esposizione ha probabilmente avuto un effetto come volano turistico per Milano, ma per una valutazione corretta bisognerebbe valutare l’ effetto che avrebbe avuto un utilizzo alternativo (e legale) di quella massa di denaro. Quello che resta di Expo 2015 è invece un terreno da un milione di metri quadrati, strapagato alla Fiera di Milano, in cui ora si cerca di attirare investitori con la promessa di un polo tecnologico d’avanguardia, cui dovrebbe fare da traino il trasferimento coatto delle facoltà scientifiche dell’Università di Milano.

Costi e ricavi. I costi di gestione della manifestazione milanese si sarebbero dovuti pareggiare, secondo le dichiarazioni di Sala, con i ricavi da biglietti più quelli da sponsorizzazioni, royalties e via dicendo. Il pareggio si sarebbe raggiunto vendendo 20 milioni di biglietti a 19 euro di costo medio; il resto lo avrebbero fatto i ricavi diversi. Già così, si sarebbe chiuso con un deficit di gestione da 200 milioni di euro. Per arrivare ai 20 milioni di ingressi promessi, con annessi titoloni di giornali, gli amministratori dell’Expo misero in campo una politica di omaggi e prezzi stracciati. Biglietti in saldo alle scolaresche, ai dipendenti delle aziende sponsor, alle parrocchie, alle coop, tagliandi super scontati la sera… Nelle ultime settimane, prezzo medio ribassato del 70% per tutti. Sul risultato economico dell’evento Sala si è sempre trincerato dietro alla voce “patrimonio netto”, che sarebbe risultato positivo per 14 milioni. Una cifra che è stata in seguito (dopo le uscite per smantellamento sito e contenziosi) smentita, evidenziando invece una perdita di 44 milioni. Ma se anche il bilancio avesse registrato l’attivo inizialmente dichiarato, si sarebbe trattato di un conto poco significativo. Il patrimonio dice infatti solo una parte della storia. Per fare un’analogia, è come dire che se un tizio dà a suo figlio 2 mila euro per aprire un’attività e quello torna dopo un anno e come rendiconto mostra che in tutto avanzano 14 euro, è un successo.