L’autonomia regionale va avanti: stasera vertice a Palazzo Chigi

La vittoriadella Lega alle Europee pesa eccome e pesa pure l’infortunio sul Fondo sviluppo e coesione, la cui gestione era stata sottratta al ministero del Sud e passata alle Regioni “per errore”: per riportare a Roma (cioè al dicastero di Barbara Lezzi) la competenza su quelle decine di miliardi, la scorsa settimana, i grillini hanno dovuto cedere sull’accelerazione delle autonomie regionali per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che erano bloccate da mesi da un profondo dissidio politico. Di fatto, le richieste delle Regioni sono considerate eccessive (o “incostituzionali”, vedi Tria) da molti ministeri o, meglio, da quelli non della Lega: di fatto da febbraio, quando le bozze delle tre intese arrivarono in Consiglio dei ministri non c’era stato un solo passo in avanti. I nodi sono talmente ampi (Infrastrutture, Scuola, Salute, Lavoro, Sviluppo, Tesoro…) che possono essere risolti solo da un accordo politico al massimo livello. Fino a stasera, però, non c’era mai stato un vertice politico al massimo livello sul tema: all’ora di cena a Palazzo Chigi, invece, si ritroveranno, col premier Giuseppe Conte, i due vice Di Maio e Salvini e le ministre del Sud Barbara Lezzi (M5S) e degli Affari regionali Erika Stefani (Lega).

Conti pubblici, oggi niente decisione Ue sull’infrazione

Il Tesoro continua il lavoro sulla Legge di assestamento di Bilancio per trovare un compromesso con le richieste europee scongiurando la procedura d’infrazione sui conti. Il provvedimento, che conterrà una prima parte delle misure taglia-deficit, dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri mercoledì. Oggi il collegio dei commissari europei non dovrebbe prendere decisioni, ma limitarsi a un “aggiornamento” sullo stato delle cose fornito dal titolare agli affari economici Pierre Moscovici. Potrebbe prendere decisioni martedì 2 luglio ma si aspetta di vedere le proposte dell’Italia (oggi sarà anche illustrata la lettera inviata Giuseppe Conte, che è stata redatta in lingua italiana ed è stata tradotta dai servizi della Commissione). La parola finale spetterà poi all’Ecofin dell’8 e 9 luglio. Nella legge di assestamento il governo dovrebbe mettere sul piatto una prima parte di interventi per ridurre il disavanzo. Tra questi, i 2 miliardi già “congelati” in manovra e i 3 di maggiori entrate previsti, a cui si aggiungono gli extra-dividendi della Cassa depositi e prestiti. A fine anno si punterà a usare anche i 3 miliardi risparmiati su Reddito e Quota 100. Tutto per tenere il deficit al 2,1% del Pil, contro il 1,5 stimato dall’Ue.

Addio a San Siro, l’ipotesi di demolirlo fa infuriare tutti e il sindaco dice no

Addio a San Siro? Il futuro dello storico stadio resta incerto. Da Losanna i vertici di Inter e Milan hanno rotto gli indugi annunciando di voler procedere subito alla costruzione di una struttura comune, in comproprietà. “Faremo insieme un nuovo San Siro accanto al vecchio, nella stessa area. Sarebbe bello che la cerimonia d‘apertura si facesse nel nuovo stadio”, ha spiegato il presidente rossonero, Paolo Scaroni. Anche l’ad dell’inter Alessandro Antonello ha confermato l’intenzione di procedere con il nuovo stadio. L’ipotesi di demolizione, peraltro, ha fatto scoppiare un putiferio: da FI al Pd per finire ai consiglieri leghisti è stato un coro di critiche per “la mancanza di tatto, visto il tempismo dell’annuncio”. Anche il sindaco Sala ha chiuso all’ipotesi dei giochi: “Nel nostro dossier garantiamo che San Siro lavorerà fino al 2026, se poi vorremo fare un nuovo stadio, ne decideremo il destino. Ma l’apertura delle Olimpiadi si farà lì”. “Il tema non è di nostra pertinenza, ma del comune cui appartiene la struttura”, si è affrettato a chiarire Scaroni poco dopo.

La Torino di Appendino tagliata fuori col fantasma del mega-buco del 2006

Alberto Cirio, neo governatore di centrodestra del Piemonte, sembra uno di quei soldati giapponesi che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, continuarono a credere che il conflitto fosse ancora in corso e vennero poi ritrovati anni dopo, in qualche giungla, con le armi in pugno. Tanto che anche ieri, dopo l’assegnazione a Milano-Cortina delle Olimpiadi invernali 2026, il samurai Cirio ha dichiarato che “il Piemonte è pronto a fare la sua parte”, offrendo piste e impianti, sebbene pochi giorni fa il sindaco meneghino Giuseppe Sala abbia definito “improbabile” l’ipotesi di un coinvolgimento di Torino. L’ex capitale d’Italia, un anno fa, nel settembre del 2018, è stata tagliata fuori con la sua proposta di candidatura ai Giochi. E la sindaca Chiara Appendino aveva dovuto prenderne atto, ricordando, assai irritata, che “senza l’appoggio e il sostegno economico del governo” Torino non avrebbe alcuna possibilità. Le cose sono andate esattamente in questo modo, nonostante il successo d’immagine delle Olimpiadi di Torino del 2006.

La città sabauda aveva cominciato a perdere ben prima del settembre 2018, però, soprattutto perché la maggioranza a 5Stelle della sindaca aveva minacciato di spaccarsi in caso di un “sì” deciso ai Giochi del 2026. I tentativi successivi di ricucire e di rilanciare, attraverso una candidatura a tre con Milano e Cortina, sono naufragati, dato che la Lega di Matteo Salvini, a livello di governo nazionale, ha privilegiato la candidatura Milano-Cortina, con il via libera dei 5Stelle. Appendino però si è in parte rifatta aggiudicandosi un evento molto meno costoso (78 milioni dal governo) e più lucroso: le Atp Finals di tennis, che non durano 15 giorni, ma 5 anni, con enorme afflusso di spettatori previsto.

Ma Torino ha veramente perso? Oppure l’esclusione dai Giochi è un bene, se si fanno due conti e se si pensa agli effetti economici delle Olimpiadi del 2006 sulla città e sul Piemonte? In occasione del decennale della manifestazione, l’esperto di diritto commerciale Alessandro De Nicola ha notato che “Torino 2006, che pure è stata organizzata bene, ha lasciato opere inutili (il solo trampolino per il salto con gli sci è costato 34 milioni, è inutilizzato e succhia un milione di manutenzione l’anno), perdite (coperte dai fondi pubblici) e debiti”.

Tutto vero, ma non solo. I giornalisti Davide Carlucci e Giuseppe Caruso hanno dedicato alle vicende subalpine un capitolo del loro libro Magna magna edito da Ponte alle Grazie. Malgrado “l’Olimpiade sia un evento privato organizzato con soldi pubblici”, hanno scritto, “non esiste un bilancio ufficiale complessivo a cui potersi rifare”, seppure il “vero problema dell’Olimpiade di Torino sembra essere il mancato scambio tra problemi e vantaggi”. Per Carlucci e Caruso, pertanto, Torino “ha un’eredità olimpica di cui non andare molto fieri”, a cominciare dal debito accumulato di 3,1 miliardi, il 225 per cento delle entrate, e proseguendo quindi con le strutture inutilizzate come l’ex villaggio olimpico, “una sorta di ghetto, dove la gente preferisce non passare quando tramonta il sole”, e con gli impianti sportivi. Quella del denaro pubblico speso con troppa facilità, concludono gli autori, “diventerà con il passare del tempo l’etichetta che rimarrà addosso alle Olimpiadi torinesi”.

E pensare che i Giochi del 2006 erano stati l’ultimo regalo di Gianni Agnelli alla sua Torino. Lui non riuscì a vederli, perché morì prima. Ma nel 2006, quando si diede avvio alle gare, in un’alata corrispondenza, per un alato giornale, un cronista non d’assalto scriveva: “E l’assenza di Agnelli non è mai stata così presente, nei giorni olimpici in cui nessuno si è dimenticato di nominare l’uomo che ha permesso questo, alzando il telefono e chiamando Samaranch e Killy, e poi contribuendo a quel complicato lavoro ai fianchi nei confronti del Cio, e degli anziani signori che con un voto decidono destini di popoli e città”.

“È la nostra rivincita” Malagò e i dinosauri alleati del Carroccio

Stretti a coorte nel giubilo nazionale, petto all’infuori, l’Italia chiamò, uniti si vince, divisi si perde, mamma mia che bravi, che belli e altre amenità, una domanda birichina sovviene: quale è il colmo per un partito che ha lottato contro i grandi eventi sportivi? Conquistare e celebrare col sorriso smorzato l’assegnazione di un grande evento sportivo, le Olimpiadi invernali del 2026 di Milano e Cortina, cioè Lombardia e Veneto, del Nord leghista con striature di civismo Pd del sindaco Beppe Sala e poi assistere, dal patrio confine, all’esultanza di politici alleati o avversari, di boiardi più nemici che amici. Questo è il colmo per il M5S.

I Cinque Stelle sono trascinati per educazione istituzionale – con il solito profluvio di comunicati, e addio alle paure di sprechi, appalti, magagne – in un tripudio che non gli appartiene, in un successo olimpico che mancava da vent’anni, dal governo di Massimo D’Alema che il 19 giugno ’99 strappò a Seul i cinque cerchi per Torino 2006. Tre minuti tre dopo l’annuncio ufficiale di Thomas Bach, il capo del Comitato olimpico internazionale (Cio), ecco Salvini che cestina la nota di dolore e inoltra alle agenzie di stampa la nota di letizia per intestare a se stesso e al Carroccio il trionfo di Milano e Cortina con un secco 47 a 34 agli svedesi: “Trionfa l’Italia, il futuro e lo sport: grazie a chi ci ha creduto fin da subito, soprattutto nei Comuni e nelle Regioni, e peccato per chi ha rinunciato. Ci saranno almeno cinque miliardi di valore aggiunto, ventimila posti di lavoro, oltre a tante strade e impianti sportivi nuovi”.

Chi ha “rinunciato”, punzecchia il ministro dell’Interno: la Torino di Chiara Appendino. Ma è un falso storico: la città del 2006, con le montagne e le infrastrutture già pronte, fu esclusa proprio dal patto Lega-Pd.

Ancora una volta, Salvini è il più lesto e però le immagini di Losanna, dove il Cio s’è riunito per decretare l’Italia campione, mostrano soltanto politici leghisti accanto al sindaco milanese Sala: i governatori Luca Zaia e Attilio Fontana, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, mentre il premier Giuseppe Conte, che s’è speso con un accorato appello per la candidatura italiana, è in aeroporto per rientrare a Roma.

A rinvigorire la delegazione tricolore, in quel di Losanna c’era Mario Pescante, che di Torino fu commissario straordinario per le Olimpiadi. Assieme a Pescante, tre legislature con Forza Italia, c’erano Giovanni Malagò, il presidente del Coni in carica; Franco Carraro, il presidente emerito del Coni; Luca Cordero di Montezemolo, “ambasciatore” italiano presso i votanti olimpici. Così a Losanna i 5Stelle sono assenti e stranieri.

Una gioia tira l’altra e il pensiero dei presenti – da Malagò a Montezemolo, che fu al vertice del comitato promotore – va al progetto olimpico di Roma 2024 cassato dal sindaco del Movimento, Virginia Raggi: “È la nostra rivincita, dispiace per la Capitale”. E il premier Conte salda di qua e di là il governo sui Giochi: “Orgogliosi del risultato. Il Paese ha lavorato compatto”.

Salvini, a distanza di pochi minuti, sforna dichiarazioni sempre con il riferimento ai Giochi di Milano e Cortina, perché sono argomento di tendenza, chiaro, e il fiuto del ministro non tradisce. Coperture per il taglio delle tasse? “Serve coraggio come per le Olimpiadi”. Cade il governo? “Non ho fretta di andare a votare, voglio essere qui per le Olimpiadi”. I vostri contestatori? “Qualcuno tifava per la Svezia per indebolire il governo”.

Dopo un’ora e mezza, con spirito olimpico parla Luigi Di Maio: “Potremo vedere da vicino i nostri campioni, ammirare la fiaccola accesa. Oggi vince lo sport. L’Italia darà il meglio di sé”.

Il collega vicepremier Salvini, più essenziale, ha la cassa e ricorda che al Nord – controllato dal Carroccio – stanno per planare centinaia di milioni di euro. E non è uno sport.

Giochi 2026 a Milano e Cortina: corsa al maxi-affare (in perdita)

Giovanni Malagò esulta in prima fila a braccia alzate, Beppe Sala urla sguaiatamente, Giancarlo Giorgetti applaude, Luca Zaia fa partire il coro, Matteo Salvini twitta a tempo di record da casa. L’Italia ce l’ha fatta, loro ce l’hanno fatta: Milano-Cortina avrà le Olimpiadi invernali 2026. Il grande evento che volevano e che porterà al Nord tanto caro alla Lega 400 milioni di investimenti, oltre un miliardo di euro da spendere per organizzare due settimane di gare, non tutte propriamente esaltanti.

Nel conclave olimpico di Losanna, l’Italia ha battuto la Svezia con margine: 47 voti a 34. I delegati del Cio non ci hanno pensato troppo: vuoi mettere le montagne del Belpaese alle cupe giornate di Aare e Stoccolma (che nemmeno aveva firmato il contratto di città ospitante)? Senza contare che il dossier italiano era più solido (lo avevano messo nero su bianco gli stessi ispettori del Cio), presentava garanzie statali e un bel pacco di soldi pubblici, ben più convincenti dei finanziamenti privati promessi dagli scandinavi. La Svezia continua a essere il più importante Paese per tradizione invernale che non ha mai ospitato le Olimpiadi invernali: è l’ottava candidatura bocciata dal 1984 a oggi.

La vera sfida però comincia adesso: far sì che le Olimpiadi invernali 2026 siano davvero un’occasione, come ripetono in coro i protagonisti, e non una sconfitta per il Paese che i Giochi dovrà organizzarli (e pagarli). Il precedente italiano non è incoraggiante. Torino 2006 viene ricordata come un’edizione di successo, ben organizzata, emozionante, ma la sua eredità è controversa: il Comune ancora oggi ne paga i debiti e svariati impianti (dal Villaggio olimpico occupato dagli immigrati alla pista da bob abbandonata) si sono rivelati vere e proprie cattedrali nel deserto.

Il recupero di quelle strutture era il punto saliente della candidatura piemontese guidata da Chiara Appendino. Torino ieri invece non c’era, esclusa dalla strana creatura Milano-Cortina, stritolata dalla manovra a tenaglia del sindaco Beppe Sala con l’aiuto del leghista Zaia, affossata dai veti interni al Movimento. Proprio i 5 stelle erano i grandi assenti della festa di Losanna: il premier Conte se n’era andato prima dell’annuncio, è rimasto solo il sottosegretario Valente. Saranno altri a godersi questi Giochi: a partire da Malagò, che finalmente ha coronato il suo sogno olimpico. Era diventato quasi un’ossessione, dopo il gran rifiuto di Virginia Raggi a Roma 2024. Lui non si è arreso, ha mollato Roma e puntato su Milano, non ha smesso di crederci nemmeno quando la politica sembrava fargli un altro sgambetto (in autunno le fibrillazioni interne al governo hanno rischiato seriamente di far saltare il progetto). Ora, annuncia, si ricandiderà al Coni: “Questo è il mio mondo e non lo lascio”. Soprattutto non lascia le Olimpiadi: Palazzo Chigi potrebbe concedergli la presidenza del Comitato organizzatore. Senza però toccare i fondi: spese e lavori saranno affidati a un amministratore delegato indicato dalla Lega (“abbiamo già in mente il nome di un top manager”, dice Giorgetti).

Qui lo spirito olimpico c’entra poco. Molti accademici promettono un mirabolante indotto da tre miliardi (tutti ovviamente al Nord), l’analisi costi-benefici assicura un saldo positivo di 185 milioni. Di sicuro secondo il dossier l’evento costerà 1,3 miliardi, di cui 390 milioni per gli impianti. Non è una cifra esorbitante, ma la storia è piena di budget sforati e spese pazze. Uno studio di due economisti dell’Università di Oxford ha ricostruito la spesa storica di 11 edizioni dal 1968 al 2012, riscontrando un aumento medio del 185% rispetto alle previsioni. Come a dire: la manifestazione costerà più del doppio di quanto dichiarato in partenza. Certo, i Giochi invernali sono in scala ridotta rispetto a quelli estivi: comportano meno spese, ma generano anche meno interesse. Non a caso tante candidate autorevoli, da Sion a Calgary, da Innsbruck a Graz, si sono tirate indietro da sole prima dell’assegnazione, quasi tutte per l’esito negativo di un referendum o spaventate dai costi. Era rimasta solo l’Italia, oltre alla povera Svezia.

Milano-Cortina vincono, il Paese chissà: i Giochi varranno la candela a patto di rispettare il budget e contenere i costi. Messa su questo piano si può dire che la sfida è persa in partenza: per placare le proteste del M5S e dare il via libera alla candidatura, in autunno la Lega aveva giurato e spergiurato che l’evento sarebbe stato a costo zero per lo Stato. In primavera, al momento di firmare la lettera di garanzia governativa, il premier Conte si è impegnato a pagare gli oneri per la sicurezza. Così rispetto al costo zero iniziale siamo già a quota 400 milioni, mentre il sottosegretario Giorgetti ha aperto a finanziare “progetti specifici sul territorio”. E alle Olimpiadi mancano ancora sette anni.

Dibba, Giggino e i fuorilegge

Molti ci chiedono un’opinione sulla pubblica lite fra Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Per quel che vale, è questa: hanno ragione e torto tutti e due. Dipende dal punto di vista. Di Maio e Di Battista sono due persone perbene che credono in quello che fanno (giusto o sbagliato che sia), in un mondo politico infestato da ipocriti e malfattori. Di Maio è il vicepresidente del Consiglio, il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, nonché il capo politico dei 5Stelle, eletto nell’autunno 2017 dagli iscritti per cinque anni e appena riconfermato: e, a 32 anni, sta imparando rapidamente i quattro nuovi mestieri. Di Battista è un privato cittadino, ex parlamentare per una legislatura, che ha deciso di prendersi una pausa per dedicarsi alla famiglia e alla passione dei reportage dal Terzo mondo, seguitando a fare politica dall’esterno, anche col libro Politicamente scorretto. Di Maio è uno dei due politici più potenti del momento. E deve confrontarsi ogni giorno con i doveri istituzionali, con gli equilibri del Movimento e con un alleato abile, debordante e scorretto – la Lega di Salvini – che in quest’anno di coabitazione forzata ha in parte cannibalizzato e in parte sputtanato i 5Stelle.

Eppure, al prezzo di molti errori, defatiganti mediazioni fin sull’orlo della rotturae compromessi al ribasso come il salva-Salvini dal processo Diciotti, è riuscito con gli altri ministri a portare a casa una serie di misure che appartengono al Dna stellato, ma sono del tutto estranei a quello leghista: il dl Dignità, l’Anticorruzione con blocca-prescrizione, gli stop al bavaglio alle intercettazioni e alla svuotacarceri, il reddito di cittadinanza, l’abolizione dei vitalizi, il taglio delle pensioni d’oro, la cancellazione dell’immunità ai vertici Ilva, il congelamento provvisorio del Tav Torino-Lione, le riforme costituzionali (ancora in itinere) sul taglio di un terzo dei parlamentari, il referendum propositivo e la riduzione del quorum. Ha bloccato i propositi leghisti su mega-condoni fiscali e depenalizzazioni dell’abuso d’ufficio e del peculato, sulle trivelle petrolifere e gli inceneritori, ha stoppato una prima versione devastante delle autonomie regionali differenziate, si batte per il salario minimo e i tagli allo stipendio dei parlamentari. Ha dovuto rinfoderare le promesse irrealizzabili su Tap e Ilva, pagandone duramente le conseguenze. E ancora nulla si sa di altre promesse: manette agli evasori, diritti dei rider, no definitivo al Tav, riforma della Rai, conflitto d’interessi, revoca della concessione ad Autostrade.

Ora, non per il destino cinico e baro ma per sua scelta, Di Maio porta sulle spalle un macigno di responsabilità e problemi che schiaccerebbe una mandria di bufali: specialmente dopo la disfatta alle Europee, con 6 milioni di voti persi su 11 in un anno. Di Battista, per sua scelta, non ha responsabilità. E, dall’esterno, tende a vedere il bicchiere mezzo vuoto, mentre chi l’ha riempito a metà lo vede mezzo pieno. La sua posizione è molto più comoda di chi sta al vertice del M5S e del governo. E, visto il peso politico che s’è conquistato in questi anni a prescindere dalle cariche (che non ha), ogni sua critica, anche costruttiva, suona come una sconfessione dell’attuale gruppo dirigente. Viene letta come un’autocandidatura a prenderne il posto. E Di Maio la ritiene “destabilizzante” per il Movimento e il governo, proprio mentre chi ci sta dentro tenta di salvare non solo l’esecutivo, ma anche i 5Stelle dalle elezioni anticipate. Che porterebbero Salvini a Palazzo Chigi e il M5S al rischio di estinzione o comunque di irrilevanza. Di Battista ribatte che: la leadership di Di Maio non è in discussione; chi destabilizza governo e M5S non è lui, ma Salvini con le continue invasioni di campo nei ministeri pentastellati; il governo deve durare, ma con pari dignità dei due contraenti; il M5S deve rispondere colpo su colpo alle provocazioni salviniane e pretendere il rispetto degli impegni presi, dal no definitivo al Tav al ritiro delle truppe dall’Afghanistan alla revoca della concessione ad Autostrade; le sue uscite da battitore libero possono rianimare la parte della base più scontenta, cioè i 4,5 milioni di ex elettori che alle Europee si sono astenuti e attendono segnali più “radicali”; la sua apertura al terzo mandato in caso di voto subito libera parlamentari M5S, allarmati dalla non-rielezione, dal ricatto leghista (anche se chi è al primo mandato rischia di non essere rieletto, se il M5S ricandiderà chi è al secondo e non ripeterà l’exploit del 2018).

Ma ormai il problema va ben oltre quel che ciascuno dei due dice. E anche delle letture ora scorrette, ora malevoli, ora infondate dei media che – com’è naturale – sguazzano nei dualismi politici e li alimentano. Soprattutto se il dualismo scoppia in un Movimento finora monolitico, che espelleva o emarginava i dissenzienti. Ma i 5Stelle sono molto cambiati nell’ultimo biennio, fino a governare con chi avevano sempre riempito di insulti (ampiamente ricambiati). Dunque non c’è nulla di male se due leader parlano anche pubblicamente lingue diverse: la democrazia e il pluralismo sono conquiste, non peccati mortali. L’importante è che si abituino anche loro all’idea della dialettica interna. Ed evitino il vizio che attanaglia tutti i politici quando si barricano con i loro staff di yesmen e iniziano a vedere nemici e complotti dappertutto. L’unica via d’uscita è ascoltarsi, valutare ciascuno il punto di vista dell’altro e le conseguenze delle proprie parole. Chiarirsi a quattr’occhi le idee, senza per questo cambiarle o tornare a lavare i panni sporchi in famiglia, aumma aumma. Soprattutto se, fondamentalmente, si vuole la stessa cosa.

Essere Uma per danzare con John

Perché la sequenza di per sé, nella sua semplicità, è un piccolo capolavoro! L’espressione seria e assorta dei due ballerini, i movimenti sicuri della coreografia e ovviamente non posso non pensare a Grease o alla Febbre del sabato sera mentre lo vedo ballare. È oltre Tony Manero e al di là di Danny Zuko. Sono passati 17 anni e qui in Pulp Fiction John Travolta, il mio mito, si rimette in pista con Uma Thurman, ed è inarrivabile. Ero convinta che fosse finito come attore e invece Tarantino lo ha ripescato e gli ha regalato una seconda giovinezza artistica. Si certo, Samuel L. Jackson è molto fico, con i suoi sermoni pre omicidi e quei riccioli vigorosi; per non parlare di Harvey Keitel, Wolf, che oltre a risolvere problemi, li aggiusta fino allo sberleffo. Si, ma la genialata di Tarantino è far morire John sul water, mentre fa la cacca, coi pantaloni arrotolati e una rivista in mano, sparato da un portentoso Bruce Willis. No vabbè. Il film è un caleidoscopio di elegante brutalità, di violento umorismo da restare nella memoria per giorni e giorni e ti da un sacco di materiale per far sogni psichedelici per diverse notti. Ci sono dei film talmente potenti, che te li ripeti nella testa fino a farteli sembrare tuoi, ti senti quel personaggio. Vorrei essere Uma Thurman, ma solo per essere portata sulla pista del ristorante davanti all’idolo flessuoso delle teenager anni 70, delle quali ero se non la prima, di sicuro la più devota. John Travolta con i capelli raccolti in un codino e il viso ormai tondeggiante, diventa ai miei occhi bellissimo, nel più piccolo movimento o gesto, aggiunge distacco e indifferenza, come se il sotto testo fosse: “Ma devo proprio tornare a ballare dopo tutto questo tempo? Non ne ho più voglia”. Eppure quella danza vale tutto il film.

 

Galba l’imperatore tradito, è la prova di latino: ricorda …

La prova di latino della maturità classica ‘gialloverde’ ha impegnato gli studenti nella traduzione di un brano tratto dalle Historiae di Tacito – storiografo dal calamus difficile – dedicato all’imperatore Servio Sulpicio Galba, uno dei 4 imperatori che si susseguirono rapidamente nel medesimo anno: il 69 d.C. La biografia di Galba è tra le più sfortunate, perché dopo un brillante cursus honorum, percorso sino al consolato, e proseguito con gli incarichi di governatore di diverse province (Germania superiore, Africa proconsolare e Spagna Tarraconense), sostenne la congiura di Giulio Vindice contro Nerone e a questo, suicidatosi, infine successe sul trono imperiale. Ma la buona sorte durò poco. Debole e senza il consenso degli ambienti che avevano abbandonato Nerone, Galba restò solo, salvo liberti e cortigiani interessati, facile bersaglio di congiure. La situazione politica era, poi, incandescente per la crisi economica e il pessimo stato finanziario delle casse. Così, buona parte del popolo lo abbandonò, rimpiangendo Nerone, mentre alcuni ambienti militari tumultuavano perché senato e popolo designassero un nuovo princeps. L’incipiente stato di congiura esplose con unilaterali investiture militari di Vitellio e Vespasiano, mentre il senato si orientava verso Otone: comunque era troppo tardi perché Galba si salvasse dopo meno di un anno di governo. Ora, con i dovuti distinguo e al netto (per fortuna) dei tragici eventi di sangue, mi pare che la vicenda di Galba presenti forti analogie con l’attuale situazione che si respira in Italia. Mi chiedo, un po’ divertito, se sia solo una coincidenza, chi sia Galba. E, soprattutto, di chi sia la ‘manina’ che ha scelto il brano tacitiano.

Generazione antimafia. La comunità morale cresce con la memoria

Lo so, dei temi della maturità ho già scritto. Ma c’è una piccola perla di cronaca che vorrei offrire in più ai lettori del Fatto. E riguarda una speciale combriccola di candidati, fatta di tre ragazzi che hanno tra loro un legame affettivo particolare. Sono uno studente, Nicola Hasan, e due studentesse, Francesca Fiore e Valentina Corrao. Cognomi e città diverse. Il primo si è presentato al liceo scientifico “Fardella” di Trapani. Le ragazze, invece, rispettivamente al liceo scientifico internazionale “Capponi-Machiavelli di Firenze” e al liceo classico “Don Bosco-Ranchibile” di Palermo. Che cosa li lega, dunque? Una parentela impegnativa: sono tutti e tre nipoti di Paolo Borsellino. Tutti e tre appartenenti a quella grande nidiata di giovanissimi allevata nel nome del giudice, discendenti di Rita o di Adele, le sorelle. Quando mercoledì scorso ho ricevuto da Chiara Corrao, la nipote maggiore di Rita, il messaggio che “tutti i maturandi della famiglia Borsellino hanno fatto il tema sul tuo papà” ho riavvertito d’improvviso la forza dei fili magici che si sono formati nel tempo a costituire una grande comunità morale che attraversa le generazioni.

Una comunità senza vincoli di sangue, salvo quello versato da centinaia e centinaia di persone in nome della democrazia italiana. E allora ho voluto sapere. E ho chiesto. Nicola ha intitolato il suo tema “La memoria che cambia il mondo”, Francesca “Antimafia: una memoria operante”, Valentina “Un passato presente”. Tutti e tre hanno messo al centro la memoria e il suo rapporto con la contemporaneità, la sua forza propulsiva per costruire un mondo più giusto. E questo nella società senza memoria, in cui i nomi trionfano e scompaiono, in cui si dissolvono i disastri dell’uomo e le sue sofferenze, in cui si è incapaci di trarre lezioni dal passato, come guerre, genocidi e dittature insegnano, non è banale affatto. È anzi il contrario di quel conformismo che Ernesto Galli della Loggia ha evocato a proposito delle tracce di italiano sul Corriere. I ragazzi non dovevano parlar bene dei protagonisti dei temi civili assegnati loro, ma trarre dalle loro storie insegnamenti per il presente. Spiega Nicola, per esempio, che “il solo ricordo non basta per portare avanti la loro battaglia, occorre una memoria che ci porti a far nostre le loro idee. Si faccia memoria, dunque: se ne parli in famiglia, la si insegni nelle scuole”, ovvero si costruisca esattamente quel “sapere” che Galli della Loggia giustamente reclama per le scuole, anche se su certi temi, chissà perché, il sapere è poi sempre un minus, perdita di tempo, divagazione un po’ cialtrona.

E proprio l’importanza del sapere è stata sottolineata da Francesca, che perciò ha scelto di iniziare il suo tema con una breve storia della mafia. Per poi spiegare che i caduti per la democrazia non devono essere acriticamente considerati degli “eroi”, ma che occorre piuttosto interrogarsi sui loro valori e sui nostri doveri; tra cui quello, richiamato anche da Nicola, di fare “camminare le loro idee sulle nostre gambe”, secondo la celebre frase diFalcone. Nel tema di Francesca si trovano peraltro diversi passaggi sui problemi più acuti dell’oggi. Il suo essere siciliana antimafiosa in Toscana, ad esempio, con l’obbligo di contrastare i pregiudizi sui siciliani “mafiosi” quasi per definizione. E la domanda urgente, urgentissima, se “davvero si può scherzare su tutto?”. Valentina, invece, ha chiamato in causa la virtus stoica di Seneca e Lucano, l’apatheia da intendersi come controllo della paura, in un tentativo di leggere il generale dalla Chiesa alla luce della letteratura e della filosofia latina e greca.

È tutto questo al di fuori della sfera del “sapere”? È pura ideologia? Di più: la cultura classica si mescola nel suo tema con il riferimento alle proprie letture sulla vita del generale (anche questo è un sapere…) e al tenero passaggio sulla nonna Rita (di cui non ha scritto di essere parente), ovvero la guida di cui sentirebbe ancora il bisogno, collegamento ideale – nella sua esperienza – tra il passato e il presente. Ecco, questo hanno scritto i nipoti di Borsellino, di questo hanno scelto di parlare all’insaputa l’uno dell’altra. Non per conformismo, ma anzi finalmente liberi dal conformismo di una scuola che di queste cose (vitali per loro tre, ma anche per un pezzo di nazione) non parla sui libri di storia. P. S: A Milano, ho poi saputo, il tema sul generale è stato svolto, tra gli altri, anche da un ragazzo di nome Stefano Mattacchini. Curiosità: è il nipote di Giorgio Ambrosoli…