Corte di Bucarest contro l’Ue: “La nostra legge viene prima”

Il motivo dell’ultima diatriba è il primato della legge dell’Unione su quella nazionale e ad aprire un nuovo terreno di scontro con la comunità europea è di nuovo uno Stato dell’est: dopo la Polonia, già sottoposta da Bruxelles a procedure d’infrazione, adesso è la Romania a voler deliberatamente ignorare le norme collettive di un’Unione di cui fa parte dal 2007. Il cavillo di Bucarest, tra leggi nazionali e internazionali: secondo un recente verdetto della Corte costituzionale rumena, non si può emettere una sentenza ai sensi della legislazione europea se prima non viene cambiata la Costituzione stessa del Paese. Il fine ultimo è, molto spesso, favorire i corrotti in una nazione dove frodi, mazzette e nepotismo dilagano. A vegliare che i criminali vengano assicurati alla giustizia, da un lato all’altro dei confini europei, c’è però proprio una figlia di Bucarest, Laura Codruta Kovesi, adesso a capo dell’Eppo, Procura europea anticorruzione, ma già procuratrice capo della Direzione nazionale anti-corruzione rumena fino al 2018.

Recentemente, un’altra Corte, quella dei Diritti umani, ha approvato da Strasburgo la decisione del tribunale distrettuale di Bucarest che si rifiutò di registrare, ormai nel 2014, il nuovo Partito comunista, che non si è mai dissociato dalla dittatura di Nicolae Ceausescu. Il programma dei nuovi comunisti risultava “contrario alla legge sui partiti politici, un reale pericolo per i valori democratici”. Secondo i giudici di Strasburgo – che hanno ricevuto il caso nel 2015 e hanno deciso di emettere la sentenza, simbolicamente, proprio adesso, nel mese dell’anniversario della rivoluzione che, 32 anni fa, mise fine ad uno dei regimi più brutali dell’est –, la scelta delle autorità rumene è supportata “dalla legislazione ed è volta a proteggere la sicurezza nazionale e i diritti e le libertà degli altri”.

Un ultimo paradosso balcanico arriva dalla Moldavia. Il ministro della Giustizia Sergiu Litvinenco ha rinnovato ieri ai rumeni la sua proposta di collaborazione: vorrebbe che Bucarest aiutasse Chisinau a riformare magistratura e giustizia inviando i suoi esperti “per creare un sistema funzionale a combattere la corruzione”.

Maxwell colpevole: adesso potrebbe vuotare il sacco

Il capofila d’una cricca di ricchi e famosi pedofili e sessuomani, Jeffrey Epstein, suicida in carcere. La sua complice, dopo essere stata la sua compagna, Ghislaine Maxwell, riconosciuta colpevole, rischia una condanna fino a 65 anni. Per una giuria federale dello Stato di New York, rimasta riunita in camera di consiglio per oltre 40 ore, Maxwell cospirò per anni insieme a Epstein per reclutare e abusare sessualmente di giovani donne e ragazze minorenni. Ma la giustizia non ha ancora finito il suo corso: nel cerchio infernale d’orge e crimini del finanziere, sul suo “Lolita Express”, nella sua villa alle Isole Vergini, c’erano, hanno viaggiato, soggiornato personaggi illustri, alcuni dei quali sono sui taccuini degli inquirenti, come il principe Andrea, ma anche gli ex presidenti Usa Bill Clinton e Donald Trump. Maxwell, 60 anni, è stata giudicata colpevole di cinque dei sei capi d’accusa, incluso quello di crimini sessuali.

È stata invece assolta dall’accusa di aver indotto una minorenne a viaggiare e ad attraversare confini statali negli Usa per motivi sessuali. Ghislaine gestiva il giro di donne intorno a Epstein, che “dovevano” fare sesso più volte al giorno: reclutava e addestrava giovani e minorenni per fare massaggi al finanziere che ne abusava sessualmente. I reati di cui si parla sono stati commessi fra il 1994 e il 2004. Nel processo apertosi il 29 novembre, decine di testimoni hanno fatto emergere il ruolo centrale della figlia dell’editore Robert Maxwell, proprietario del Daily Mirror, morto misteriosamente nel 1991. Dopo il verdetto, Maxwell non ha tradito alcuna emozione, anche se questo epilogo giudiziario tronca ogni sua speranza di tornare al suo sfarzoso stile di vita. Ghislaine ha bevuto un sorso d’acqua, ha gettato uno sguardo ai fratelli presenti e ha lasciato l’aula, senza scambiare una parola con i suoi avvocati, che hanno preannunciato appello.

“Crediamo fermamente alla sua innocenza. E siamo ovviamente delusi dal verdetto. Abbiamo già iniziato a lavorare sull’appello”, dice il suo legale Bobbi Sternheim. Che chiede pure alla giudice Alison Nathan che la reclusa possa presto ricevere la terza dose del vaccino anti-Covid. Nathan, cui spetta ora determinare la condanna – non si sa ancora entro quando –, gli ha assicurato che il carcere la somministrerà.

Il pubblico ministero Damian Williams ha detto che “la strada è stata lunga, ma giustizia è stata fatta. Voglio ringraziare per il loro coraggio le ragazze ora donne adulte che sono uscite dall’ombra per testimoniare”. La principale accusatrice, Virginia Giuffre, chiede che il verdetto di mercoledì sera sia il primo d’una serie: “Ero affamata di giustizia da anni e oggi la giuria me l’ha data. Ho vissuto gli orrori degli abusi di Maxwell e sono vicina alle molte altre ragazze che hanno sofferto… Maxwell non agì da sola. Altri devono essere ritenuti responsabili”. Poche ore prima della sentenza, i legali del principe Andrea avevano fatto una mossa per bloccare l’azione legale avanzata da Giuffre: la causa va bloccata – è la tesi – perché l’accusatrice è domiciliata in Australia, il che solleva un problema di competenza giurisdizionale, un cavillo, che può rallentare il corso della giustizia.

I volenterosi carnefici della Cia

Nella sabbia dell’isola di Bali, ancora oggi, ricchi turisti distratti continuano a trovare ossa umane. Sono quelle delle vittime di uno degli stermini più dimenticati della storia: nel 1965 l’esercito indonesiano, supportato dalla Cia, uccide un milione di persone. All’epoca, a Giacarta, testa d’ariete dei Paesi anti-colonialisti, fioriva il più grande partito comunista del mondo fuori dai confini sovietici e cinesi. Poi Washington decise di “alterare il corso della storia” per fermare la diffusione del comunismo in chiave anti-Urss e favorire un regime allineato ai suoi interessi. Quando i fiumi indonesiani diventano rosso sangue per i cadaveri delle vittime, l’Indonesia si trasforma in un’ispirazione per i caudilli di tutto il mondo e per l’intelligence Usa stessa, dice Vincent Bevins, ex corrispondente del Washington Post in Asia e Sud America.


Cosa ha cominciato a voler dire la parola “Giacarta” dopo l’esperimento indonesiano?

Il “metodo Giacarta” è l’omicidio di massa, intenzionale, di persone di sinistra, o accusate di esserlo, per consolidare regimi capitalistici autoritari, allineati con l’Occidente durante la Guerra Fredda. L’Indonesia rappresenta l’apice di questo esperimento, dove gli Usa favoriscono lo sterminio di un milione di persone aiutando l’esercito e l’ascesa della dittatura di Suharto. Una vittoria ottenuta da Washington senza perdita di vite americane: proprio perché l’operazione ha avuto successo, è rimasta segreta per così tanto tempo. La parola “Giacarta” è stata usata come metonimia per indicare stermini di persone di sinistra sia in Brasile che in Cile, negli anni in cui il socialista Salvador Allende era al potere. Era sia un piano che una minaccia. Dietro le quinte, la dittatura militare brasiliana avrebbe parlato di “Operação Jacarta”, per spazzare via i comunisti brasiliani. In Cile la frase “Giacarta sta arrivando” veniva scritta sulle case dei comunisti. Poi, tragicamente, con Pinochet è arrivata. Secondo le mie ricerche questo metodo è stato utilizzato dagli Usa in almeno 23 paesi.

Frank Wisner, Howard Jones, Edward Lansdale. Quando gli agenti di Washington non trovavano segreti vergognosi sulle loro vittime, li creavano. Hanno diffuso la leggenda di un vampiro di sinistra alle Filippine, girato un porno con un sosia del presidente indonesiano Sukarno per screditarlo.

Erano tutti uomini dell’alta borghesia liberale, il “sangue blu” del Nord America. Formati dalle migliori università del Paese, erano degli ingenui convinti della loro superiorità morale, ossessionati dal successo, senza alcuna comprensione del mondo al di fuori del Nord Atlantico. Amavano alcol e romanzi di James Bond, e hanno ricevuto risorse enormi e totale impunità per mettere a punto i loro folli schemi. Hanno distrutto interi Paesi lungo la loro strada.

Dopo l’Indonesia, gli Usa inviano i loro funzionari in Sud America per formare squadre della morte. Hanno creato quello che lei definisce “una mostruosa rete di sterminio”, l’inferno dei rossi, morti o desaparecidos.

La tattica di far sparire i morti fu usata per la prima volta nel 1965 in Indonesia e in America Latina nel 1966. È molto probabile che i funzionari Usa abbiano portato l’innovazione delle “sparizioni” dall’Indonesia al Guatemala e al Venezuela. Sono eventi che contraddicono violentemente la storia che ci raccontiamo sulla Guerra Fredda e sul ruolo dell’Occidente.

Se la minaccia comunista è stata spenta, chi è il nemico adesso?

Il “terrore”, poi probabilmente la Cina. Gli Usa, in ogni momento della loro storia, sono sempre stati una potenza aggressiva ed espansionista, la Guerra Fredda è stata solo colonialismo con altri mezzi. Ma quando è finita e le entità sovietiche sono crollate, nessuna agenzia occidentale è stata messa fuori uso. Hanno compiuto le atrocità che ho descritto nel libro, ma esistono ancora, più o meno, nella stessa forma e con gli stessi obiettivi: promuovere gli interessi americani in tutto il mondo. L’egemonia Usa è diventata molto più pronunciata dopo il 1989, agiscono in modi più sottili e più efficaci di allora, dalle sanzioni economiche alle pressioni dietro le quinte.

La storia cambia, ma solo a volte: in Cile ha appena vinto alle urne presidenziali il candidato di sinistra Gabriel Boric. In Brasile invece è al potere Jair Bolsonaro.

Io vivo in Brasile, è devastante vedere cosa compie questo presidente: impersona la piena resurrezione dell’ideologia violenta che ha alimentato la dittatura brasiliana del ventesimo secolo, pensa che il regime militare non abbia ucciso abbastanza persone e, una volta, ha detto che ne avrebbe ammazzate altre 30 mila. Alimentare timori su una rivoluzione di sinistra è una tattica efficace per emarginare un gruppo politico o respingere ogni richiesta di giustizia sociale.

Nel suo libro spunta anche la parola “Italia”.

Il vostro Paese è stato uno dei primi test per la Cia durante la Guerra Fredda. Nel 1948 l’agenzia è riuscita a incidere sull’esito delle elezioni utilizzando denaro e disinformazione, un approccio sperimentato in Indonesia anni dopo. Non funzionò e fecero ricorso alla violenza. La crociata anticomunista guidata dagli Usa è stata un affare globale e la vera differenza sta nel come le battaglie sono state condotte nel Primo Mondo e nel Terzo, dove sono state dispiegate tattiche disumane difficili da immaginare per gli occidentali.

Antisemitismo, la Bbc nella “Top 10” del 2021

Sui primi duegradini del podio ci sono l’Iran e Hamas. E fin qui niente di nuovo. Ma al 3° posto della “Global Antisemitism Top Ten” pubblicata per il 2021 dal centro “Simon Wiesenthal” di Los Angeles c’è la Bbc. Al 7° posto, poi, si piazza la Germania, colpevole secondo il centro di non aver contrastato abbastanza gli attacchi antisemiti dell’ultradestra. Intervistato dal Daily Mail, il capo del Centro Wiesenthal, Marvin Hier, ha spiegato: “Noi riteniamo che la Bbc sia stata colpevole di vari incidenti legati all’antisemitismo quest’anno”. Nel citare la tv pubblica britannica, il centro fa diversi esempi di reporter che hanno raccontato fatti a loro avviso distorcendoli in chiave antisemita, o affermazioni di giornalisti giudicate anti-ebraiche.

Mail Box

Quarantena: regole da gioco dell’oca

Ho appena letto le ultime norme sulla quarantena e sul Green pass, che sembrano un po’ un moderno gioco dell’oca dove, per non tornare all’inizio, servono tre dosi che liberano da tutto. Ma ci prendono in giro?

Marco Private

Non ci capiscono più nulla neppure loro.

M. Trav.

 

Per il Quirinale nessuno nomina più Zagrebelsky

Quando leggo i nomi di coloro che potrebbero ambire a ricoprire la carica di presidente della nostra Repubblica, arrivando addirittura a prospettare una richiesta di nuovo incarico a Sergio Mattarella, provo una sensazione di gelo nelle ossa. Al momento dell’elezione dell’attuale presidente, accolsi volentieri anche la candidatura di Stefano Rodotà, che mi sembrava incarnare per davvero la figura del garante della nostra Costituzione: obiettivo che dovrebbe essere centrale, per un incarico di questo tipo. Ma non se ne fece niente: sempre così succede, in questo dannato paese. Che fine ha fatto Zagrebelsky? Perché sento solo i nomi dei peggiori e non quelli dei migliori, che per me sono quelli che hanno la nostra Costituzione come stella polare delle loro attività?

Giuliano Castaldo

Caro Giuliano, Gustavo Zagrebelsky sarebbe il miglior presidente: quindi temo che non verrà mai eletto.

M. Trav.

 

Il termovalorizzatore mai nato a Firenze

Nel 2015, dopo un iter di una quindicina di anni, c’era stato l’ok per un termovalorizzatore a Firenze, dove abito, e a fine anno dovevano iniziare i lavori. Nel corso del tempo prima dell’approvazione, tuttavia, sono state costruite delle abitazioni nei pressi dell’opera e, per grandissimo errore non si sa di chi, non era stato piantato un solo albero per un bosco compensativo. Un agguerrito comitato ha impugnato tutto e ha avuto ragione, sia al Tar che al Consiglio di Stato. Non vi sembra una brutta storia di fantascienza?

Guido Lolli

 

DIRITTO DI REPLICA

La replica di Marco Perduca, proponente del Referendum sulla cannabis, conferma la mia denuncia sul carattere fuorviante dei suoi quesiti. Perduca conferma che la proposta intende legalizzare anche la coltivazione del papavero da oppio e della foglia di coca, e conferma la richiesta di cancellare tutti i reati connessi alla cannabis, incluso detenzione, traffico e spaccio di grandi proporzioni.

L’argomento che confuterebbe la mia denuncia è che i proponenti ci hanno fatto il favore di non chiedere la depenalizzazione della fabbricazione e del commercio di eroina e cocaina, che restano proibiti. Tanto si sa, sostiene Perduca, che “nessuno è mai riuscito a coltivare foglie di coca al di fuori della regione andino amazzonica” e non abbiamo notizia di coltivazioni di papavero in Italia. Questa è una sciocchezza. Il papavero da oppio è una coltura pressoché universale, presente da millenni nell’intera fascia temperata del pianeta fino a che, all’inizio del Novecento, il rimorso per ciò che il libero mercato dell’oppio, in mano al narco-stato inglese, aveva fatto alle decine di milioni di fumatori cinesi non portò alla messa sotto controllo internazionale e alla proibizione delle coltivazioni.

La foglia di coca è stata coltivata in Europa e altrove per tutto l’Ottocento, in serra e anche fuori. Presente negli orti botanici delle capitali, e coltivata nella serra del medico Angelo Mariani, produttore del celebre vino a base di coca concorrente della Coca-cola. Non mi spingo oltre, per non infilare pulci nell’orecchio non solo alle mafie ma anche ai potenziali produttori legali stimolati dalla legalizzazione di fatto degli oppiacei avvenuta negli Usa a opera di Big Pharma, che ha fatto esplodere il consumo con 100mila morti di overdose nel 2021. Quanto ai miei insuccessi nelle politiche antidroga, se gli Stati Uniti non avessero invaso, nel 2001, un Afghanistan privo di oppio perché avevo obbligato i talebani a non farlo coltivare, l’obiettivo di eliminare le colture sarebbe stato raggiunto ben prima del 2008.

Pino Arlacchi

Rsa e Rsd “L’isolamento di anziani e disabili è quasi peggio del virus”

Caro “Fatto”, in giorni in cui forte, per le vie delle città, rimbalza l’eco del Natale e del Capodanno, stride sicuramente il silenzio anomalo di chi – per il secondo anno consecutivo – si vede negata la possibilità di vivere questi momenti di serenità e gioia con le persone più care: vuoi familiari anziani ospitati in Rsa, vuoi persone più giovani e disabili che “vivono” all’interno delle stesse Rsa e/o in Rsd. Si legge sempre più spesso di immotivati rifiuti delle Direzioni socio-sanitarie delle strutture, che hanno chiuso alla possibilità di brevi rientri in famiglia, persino in occasione del solo Natale, oltre che interdetto ai familiari l’opportunità di incontri in loco. Tutto ciò mentre fuori dilagano, con la massima tolleranza, assembramenti e inosservanza delle più elementari norme di tutela dal contagio. Questo gioco perverso, che non si fa scrupolo di scaricare sui più deboli il prezzo di contraddizioni incomprensibili e intollerabili, è reso possibile dalle ambiguità di un sistema che brilla solo per la sua incapacità di assumere responsabilmente decisioni che davvero tutelino tutti i cittadini… A pochi ormai interessano l’abbandono e la solitudine di migliaia di persone che hanno persino dimenticato come si fa a sorridere o come dare e ricevere una carezza… I rientri in famiglia (e a maggior ragione gli incontri che avvengono limitatamente all’interno di Rsa e Rsd) devono essere mantenuti nel rispetto di un preciso protocollo, valido in Piemonte come in Abruzzo, in Val d’Aosta come in Sicilia. Dappertutto. L’importante è uscire dal pantano di un deleterio sistema che a oggi privilegia il primato dell’ambiguità e dell’anarchia più assolute. Un esempio è l’indeterminatezza della durata del periodo di “chiusura” della struttura. C’è da chiedersi perché alle restrizioni messe in campo con tanta solerzia dalle direzioni di Rsa e Rsd non si accompagni, da parte di queste ultime, lo stesso tempismo nell’affrontare tutte le altre complesse problematiche che vivono ogni giorno le persone ospitate, comprese le esigenze riabilitative che certo non vanno in vacanza per effetto della pandemia. Parlo non necessariamente solo di autistici (sono il padre di un uomo autistico di quarant’anni) ma di disabili in senso lato e anziani che stanno sacrificando un elevatissimo costo umano sull’altare del Covid. E, quel che più conta, lo fanno in silenzio, a differenza di chi, magari autoproclamandosi patriota e impugnando una bandiera di partito, non rispetta le regole, assale le sedi sindacali e per completare l’opera blatera di libertà, senza capire che è proprio grazie ad essa (chissà se attraverso un suo uso distorto…) che può permettersi autentiche scorribande e sceneggiate, in spregio della salute di tanti. Dobbiamo imparare a essere buoni non solo il giorno di Natale ma, dimostrando altruismo e solidarietà verso gli Ultimi, ricordarci di farlo soprattutto nei restanti 364 giorni dell’anno!

Gianfranco Vitale

I Nordisti dell’anno da Letizia-Quirinale all’Orietta “naziskin”

Ea fine 2021 incoroniamo dunque i “Nordisti dell’anno”, i personaggi che hanno meglio (o peggio?) rappresentato quella che è considerata l’area più ricca e propulsiva del Paese.

Letizia Moratti. Dopo essere stata sindaco di Milano, ministra, presidente della Rai, è riemersa come vicepresidente della Regione Lombardia e assessore al Welfare, chiamata per far dimenticare i disastri di quel buontempone di Giulio Gallera. Ha varato una riformetta della sanità regionale che non risolve alcuno dei problemi messi in evidenza dalla pandemia. E adesso è candidata a tutto: a succedere ad Attilio Fontana come presidente della Regione, ma anche a Mattarella come presidente della Repubblica: l’ha lanciata per primo Luigi Bisignani, dall’alto delle sue condanne e del curriculum P2. Non l’aiuta l’inchiesta in corso sul petrolio “sporco” della famiglia Moratti (con soldi finiti perfino all’Isis) e il brutto conflitto d’interessi di quand’era presidente Ubi e finanziava l’azienda del marito.

Attilio Fontana. Il presidente della Lombardia ha finanziato invece l’azienda della moglie e del cognato: è la brutta vicenda dei camici e altro materiale di protezione anti-Covid in cui Fontana si è incartato, prima trasformando un acquisto in donazione e poi pagando con soldi suoi: ma arrivati da conti milionari all’estero che nessuno conosceva e che il tapino ha così rivelato al mondo.

Giuseppe Sala. Rieletto sindaco di Milano al primo turno. Ma, a ben guardare le cifre, con la più bassa partecipazione elettorale mai vista in città. Ora è alle prese con la grana San Siro: la vicenda dello stadio Meazza, da abbattere per permettere a un fondo Usa e una società cinese di salvarsi dal fallimento con una mega-speculazione immobiliare su terreni pubblici. Come finirà?

Massimiliano Fedriga. A Roma era “il leghista gentile”. Poi è tornato a Trieste a fare il presidente del Friuli Venezia Giulia. Fedriga non ha mai cercato di assomigliare al capo del suo partito, Matteo Salvini, ha sempre preferito i toni pacati e la sua autonomia, in politica e nello stile di comunicazione. Nella Trieste diventata capitale dei no vax, si è più volte dichiarato favorevole alla vaccinazione anti-Covid e all’adozione del Green pass rafforzato. Risultato: minacce, lettere minatorie, scritte ostili sui muri. Così ora è costretto a vivere sotto scorta. In campagna elettorale aveva fatto un paio di promesse (“Due disastri a cui dovremo porre rimedio”) che aspettano di essere mantenute: aumentare i posti letto e l’assistenza sanitaria sul territorio; e azzerare la riforma degli enti locali che aveva trasformato quattro province in 18 Uti, Unioni territoriali intercomunali, accrocchi politici non elettivi.

Anonimo No-Tav. Dopo che il Frecciarossa ha iniziato a competere con il Tgv francese per unire Milano e Parigi ad alta velocità sulla linea già esistente, qualcuno ci spiega a che cosa serve il tunnel che vorrebbero scavare in Val di Susa?

Orietta Berti. Non ho mai capito se ci è o ci fa, ma l’Oriettona merita un posto in questa classifica. Dopo un’onorata carriera al suono di Fin che la barca va, ha lampi di genio quando chiama “Naziskin” i Måneskin e “Baby Gay” Baby K. Tutt’altro stile, l’Orietta, rispetto a un’altra collega emiliana, quella Iva Zanicchi che dopo aver fatto la pasionaria berlusconiana è riuscita a tornare in tv e a stonare in maniera clamorosa “Prendi questa mano, zingara…”. Orietta riesce invece a dare ancora il meglio di sé in trio con il Fedez e l’Achille Lauro, cantando una canzoncina (Mille) che piace tanto ai bambini ma a ben ascoltare è un inno gioioso e trasgressivo alla droga e al sesso (fluido, com’è di moda oggi).

 

Presidenzialismo, la tentazione di molti italiani (male informati)

Secondo recenti sondaggi, un’elevata maggioranza è favorevole alla riforma presidenzialista della Costituzione. Non c’è da stupirsi: l’elezione del capo dello Stato è argomento sensibile da almeno un biennio e il deprimente spettacolo di partiti e aspiranti in questo frangente non migliora la percezione dei cittadini.

La questione devia energie e condiziona l’agire politico a scapito di problemi di maggior interesse per la comunità che, per reazione, manifesta l’intento di gestire direttamente la scelta. Finora l’istanza è allo stato fluido, ma potrebbe coagulare verso regimi caratterizzati da democratura. Del modello strutturale, proprio di grandi democrazie (Usa e Francia), si tende, infatti, a sottolineare il perverso uso improprio in stati paratotalitari. Non esistono, tuttavia, moduli di regime ottimali per ogni Paese e momento storico. La scelta presidenzialista incide ovviamente sulla disciplina costituzionale e sulla vita ordinaria dei cittadini, convogliando una pluralità di istanze non sempre coerenti e conformando la legislazione ordinaria ai nuovi principi. In tale logica, s’impone un calibrato sistema di contrappesi rispetto al potere presidenziale. Il primo è costituito da una legge elettorale maggioritaria. Soccorrono due buone ragioni: a) si connette all’identità di metodo la comune rappresentanza della maggioranza della popolazione a livello nazionale e di singolo territorio, conferendo così al parlamentare una titolarità pro quota rispetto a quella presidenziale e rafforzandone l’autorevolezza; b) il metodo proporzionale, selezionando solo i più graditi alle segreterie dei partiti, si rivela inevitabilmente funzionale al trasformismo e al compromesso, mentre il metodo maggioritario consente la selezione di soggetti legati al territorio. Una rappresentanza meno soggetta ai capibastone di partito può garantire migliore qualità normativa e tenuta democratica delle istituzioni sia quando maggioranza parlamentare e presidente convergono politicamente, sia, a maggior ragione, quando ciò non avvenga.

Il discorso si estende alla tutela delle minoranze, comprimibili se manca l’afflato democratico garantito dalla maggiore autonomia dei parlamentari (non è un caso che le riforme costituzionali 2006 e 2016 fossero, al riguardo, profondamente deficitarie). Dal nuovo sistema discende poi la diversa modulazione dei poteri di rappresentanza dei cittadini nei riguardi degli organi parlamentari e della presidenza, che comporta un’evidente ricaduta sulla nozione di circuito democratico del quale il Presidente diventa necessariamente perno e condizionatore, in quanto titolare di potestà in duplice declinazione (governativa e normativa): la sua azione può avere forte impatto sul complesso dei rapporti giuridici, meno esposti nel regime parlamentare. Ciò determinerà uno sforzo di fantasia per configurare sia nuovi istituti di riequilibrio in senso garantista, quali strumenti avanzati anche rispetto alle attuali magistrature, sia lo specifico contrappeso di una rimodulazione federale dello Stato con meditata riorganizzazione delle autonomie territoriali.

Seri problemi insorgono poi sulle relazioni esterne, poco mediate, a questa stregua, dall’apparato ministeriale, con interventi da brivido in stile Trump. Un regime presidenziale assicurerebbe probabilmente decisioni più rapide e meno compromissorie, quanto meno agli inizi del mandato. Prima cioè che l’ansia di rielezione spinga il presidente a maneggiare certi problemi con attenzione. Senza dimenticare che la riforma presidenziale sarebbe aggravata, nel nostro Paese, dalla scarsa sensibilità per l’eleganza e la dignità delle istituzioni.

 

Draghi-Macron: accordi finti su Europa e migranti

A un mese di distanza dal Trattato del Quirinale per una “cooperazione bilaterale rafforzata”, Draghi e Macron tornano a proporre Italia e Francia come promotrici (coinvolgendo soprattutto la Germania di Scholz) delle politiche europee. Con un articolo sul Financial Times, il nostro premier (il giorno dopo la sua autocandidatura al Quirinale stesso) e il presidente transalpino (anche lui atteso da un’imminente competizione elettorale) dettano la linea sul nuovo Patto di Stabilità che la Ue è chiamata a darsi nel 2022: una riforma che non dovrà “fermare la crescita” e che dovrà essere accompagnata da grandi investimenti in ricerca, infrastrutture, digitalizzazione e difesa. Ma Italia e Francia meritano di autoassegnarsi questa leadership continentale?

In primo luogo, qualcosa scricchiola ai loro stessi confini, malgrado nel Trattato si ponga fra i principali obiettivi la “collaborazione transfrontaliera”. È uno dei punti dolenti nel grande e drammatico quadro della migrazione: fin dal 2015 (e cioè già prima dell’elezione di Macron, 2017) la Francia ha chiuso la frontiera a coloro che arrivano stremati in Italia dal Sudan e dall’Eritrea, che intenderebbero proseguire il viaggio attraversando il confine fra Ventimiglia e Mentone oppure attraverso la Val di Susa e le Alpi: i respingimenti sono spesso brutali. Nel Trattato si parla di “politica migratoria e d’asilo europea”, e lo stesso Macron in passato appariva favorevole all’accoglienza, ma ora è lui a richiedere all’Europa l’autorizzazione a respingere coloro che dallo Stato di primo approdo (l’Italia) mirano a raggiungerne un altro per stabilirvisi (la Francia). La situazione in Liguria e in Piemonte rimane critica: ai migranti che sono partiti da Paesi dove neppure si sa che cosa sia la neve non resta che sperare – nel gelo alpino – in interventi come quello della Fondazione de il Fatto, che Cinzia Monteverdi ha illustrato su questo stesso giornale l’11 dicembre scorso. Altro che “collaborazione bilaterale rafforzata”.

In compenso, sembra che gli estensori del Trattato del Quirinale si rendano conto che il problema dei migranti si risolve solo se in Asia e in Africa si interviene per modificare nel profondo le situazioni attuali. Nell’art. 1 comma 4, per esempio, si parla di iniziative comuni “per promuovere la democrazia, lo sviluppo sostenibile, la stabilità e la sicurezza nel continente africano”. Non si può non concordare, ma su un piano concreto che intendono fare gli Stati contraenti? Fondamentale dovrebbe essere il ruolo della Libia, dove però la situazione non è del tutto sotto controllo, tanto che sono state sospese le elezioni, che lo stesso Macron (dopo la Conferenza internazionale di Parigi di metà novembre) aveva annunciato per il 24 dicembre; e in tantissime altre aree di quel continente il processo di democratizzazione stenta a decollare, e anzi continuano a susseguirsi i colpi di Stato: Mali, Guinea, Ciad, Sudan.

Ci vorrebbe un grandioso sforzo, ma in Asia e in Africa proprio Italia e Francia non sembrano intraprenderlo davvero. Anzi, impegnate (come si legge nel Trattato) a “rafforzare la cooperazione fra le rispettive industrie di difesa e di sicurezza”, in realtà sembrano impegnarsi in operazioni non funzionali alla distensione. Legatissimo all’Egitto di al-Sisi, Macron un anno fa ha promosso la fornitura a quel paese, da parte della Francia, di 30 jet per miliardi di dollari. Ottimi anche i rapporti con le non-democrazie del Golfo: visita di Stato in Arabia Saudita; fornitura agli Emirati Arabi di 80 jet per 17 miliardi di euro.

Neanche l’Italia si fa pregare: all’Egitto ha venduto due maxi-fregate. La decisione è del giugno 2020 (epoca del Conte 2) malgrado il caso Regeni, la consegna (alla chetichella) è del dicembre 2020 e del marzo 2021. Oltretutto con un maxi-sconto (il Fatto, 22.03): prezzo reale 1 miliardo e 262 milioni di euro, prezzo per al-Sisi 990 milioni.

Operazione certo non edificante, ma quasi una quisquilia rispetto a quanto avvenuto durante il governo Renzi (2014-2016). Regeni fu ucciso nel 2016: prima, l’Italia aveva venduto all’Egitto 30.000 pistole e 3185 fucili d’assalto; dopo, nell’aprile dello stesso anno, altre 1.030 pistole.

Quello stesso governo estese la sua attività anche ad altri Paesi africani: Angola, Mozambico. Ma soprattutto curò un saldo legame con i sauditi, fornendo 19.676 bombe aeree. L’Arabia Saudita era impegnata in Yemen in raid già condannati dall’Onu: quelle armi non erano quindi finalizzate a rinforzare le difese, ma ad assalire un paese vicino e a bombardare anche i civili.

Insomma, Francia e Italia nel testo del Trattato predicano bene, ma ora e in passato razzolano e hanno razzolato piuttosto male. Non un rassicurante biglietto da visita per chi aspira a ruoli di altissima responsabilità.

 

Tremonti all’ippodromo, il cane da McDonald’s e Leopardi col pannolino

E ora, per la serie “Il giorno dopo la notte prima”, la posta della settimana.

Caro Daniele, ho 45 anni e dopo un orgasmo mi ci vogliono almeno 20 minuti prima di avere una seconda erezione. Da adolescente mi bastavano due minuti. Che fare? (Fabrizio La Placa, Bari). C’è sempre il vecchio trucco descritto da Leopardi nelle “Operette morali”: l’erezione da pisciata. Si tratta di bere tre bicchieri d’acqua un’ora prima del coito. Una volta venuti, si va a pisciare, si torna a letto, e si è già pronti per la nuova erezione. Lo so che sembra una stronzata, ma Leopardi era uno che, quando studiava i classici greci, per evitare di essere distratto dal corporeo indossava un sacco di iuta chiuso in vita, dove defecava e urinava in libertà. Voglio dire, qui abbiamo a che fare con un vero maiale, quindi fidati. Recenti ricerche condotte dal prof. Myron Luftmensch, autore del celebre “Pannolini ripieni”, non solo hanno confermato le scoperte leopardiane, ma hanno evidenziato altresì che il periodo di latenza fra due erezioni successive, o periodo refrattario, risulta drasticamente ridotto nell’adulto che sta avendo una relazione extraconiugale. La moglie del prof. Luftmensch se la bevve. Fallo anche tu: voluttuoso, trabocca insaziabilmente. Il tuo ambiente sia la selva primitiva corsa da galoppi di animali innamorati, quando non c’erano ancora creature intellettive, ma grossolani centauri e villosi egipani.

Quali cose ti danno piacere, nella vita? (Luigi Soviero, Milano). Mi piacciono le lunghe camminate, specie se fatte dagli scocciatori.

Da piccolo eri un bambino sveglio? (Federica Varzi, Ferrara). Non molto. Leggevo fumetti porno senza fare niente.

Sei un bravo cuoco? (Paola Capriotti, Firenze). Lo credevo. Poi un giorno ho visto il mio cane che mangiava da McDonald’s.

Perché non ti pettini i capelli con la riga esattamente nel mezzo? (Gianni Pintucci, Roma). Perché è impossibile: sono dispari.

Non riesco a credere che qualcuno voglia Berlusconi come prossimo presidente della Repubblica. Va bene che è un incantatore di serpenti, ma davvero abbiamo la memoria così corta? Andò al governo promettendo che avrebbe diminuito le tasse, aumentato le pensioni, tagliato le spese, rilanciato la competitività delle imprese, ridotto il deficit annuale e accelerato la discesa del debito. Dopo appena un anno, il suo governo aveva già mancato tutti gli obiettivi economici, la produzione industriale era ferma, i conti pubblici peggiori, i debiti della sanità in crescita, le tasse non calavano e fare la spesa costava di più. In compenso ci diede una sanità per ricchi, leggi razziste contro gli immigrati, l’erosione dei diritti dei lavoratori, la schedatura di chi scioperava, il maccartismo contro i magistrati, la Rai infiltrata da agenti Mediaset, un deficit spaventoso, e una politica estera guerrafondaia che ci mise nel mirino di Al Qaeda (Andrea Galletti, Bologna). Era l’Italia di Berlusconi: elitaria, razzista, fascista, reazionaria, antidemocratica, bugiarda, pacchiana, mafiosa, impunita, sbruffona, xenofoba e piduista. E questi erano i suoi lati migliori! Non va dimenticato il suo ministro delle Finanze, Tremonti: era spesso all’ippodromo, sala scommesse, a cercar di far quadrare i conti dello Stato.