Tra Beppe Grillo e Mario Draghi, dicono, non c’è più lo stesso rapporto. Anche se il Garante garantì il sostegno del M5S al governo e spesso su richiesta del premier ha sminato grane, come quando in estate chiamò i ministri 5Stelle per far votare la riforma della giustizia in Cdm. Ma ora questo governo sta disorientando anche Grillo: sconcertato da molti dei nomi dati in corsa per il Quirinale. Anche da qui, spiegano fonti del M5S, nasce il post di due giorni fa sul suo blog, “Millennials: generazione socialista”. Non firmato, come a rivendicarne il contenuto. Molti hanno notato la chiosa dedicata al modello economico cinese, “capitalismo privato e capitalismo di stato sotto il ferreo controllo di un regime autocratico”. Ma il testo dice soprattutto altro: “C’è una crescente evidenza che i giovani adulti siano fortemente insoddisfatti del sistema politico ed economico”. Sillabe contro il liberismo, ergo pure un pro-memoria per l’esecutivo e il premier. Mentre alcuni dei grillini con il mal di pancia si palesano. “Non voterò mai alcuno dei nomi indecenti di cui si parla, serve un presidente espressione del primato della politica” twitta il presidente della commissione Esteri, Vito Petrocelli. E un altro senatore, il dimaiano Vincenzo Presutto, avverte: “La scelta del capo dello Stato dovrà anche garantire la prosecuzione del governo”. Sillabe diverse per lo stesso concetto: no a Draghi al Colle. “Siamo in decine pronti a votargli contro” dice un altro eletto. Chissà che ne pensa Grillo.
Inpgi, Corte Conti boccia bilancio e mancate riforme
Con un tempismo perfetto, la relazione della Corte dei Conti – varata il 30 novembre – che fa a pezzi il bilancio 2019 e le politiche dell’Inpgi, la cassa di previdenza dei giornalisti, è stata pubblicata il giorno dopo il voto di fiducia alla manovra del governo che ha sancito la confluenza nell’Inps dal prossimo primo luglio dell’Inpgi 1, la sezione della Cassa alla quale sono iscritti i giornalisti assunti nelle testate. Il bilancio 2019 di Inpgi 1 si era chiuso con un disavanzo previdenziale di 198,55 milioni, peggiorato nel 2020 a 242,16 milioni per l’aumento dei costi e un ulteriore calo delle entrate, con il patrimonio in calo da 1,4 miliardi del 2019 a 1,16. Per la Corte “l’equilibrio previdenziale” era “pesantemente compromesso non solo dalla profonda crisi del settore… ma anche dal lento adeguamento alle regole previdenziali generali” e “gli interventi adottati negli ultimi anni dall’Ente non appaiono sufficienti a conseguire condizioni di equilibrio strutturale”. Inoltre, “gli organi sociali sono composti da un numero elevato di componenti”, “non funzionale ad assicurare l’efficacia dell’azione e comporta costi elevati che incidono su una gestione in andamento costantemente negativo da anni”. Secondo la relazione “i ministeri vigilanti hanno ritenuto inadeguate e insufficienti le modifiche previdenziali apportate” dall’Inpgi 1, “tenuto conto dei requisiti pubblici più stringenti per l’accesso alla pensione e per le modalità di calcolo”. Ma sarà ormai l’Inps a farsi carico delle pensioni dei giornalisti.
Centrali nucleari Berlino ne ha ancora 6 e oggi ne spegnerà tre
Dopo 35 anni di operatività, oggi la Germania staccherà la spina di tre delle sue ultime sei centrali nucleari. Verranno disattivati i reattori di Brokdorf, Grohnde e Gundremmingen C, gestiti dalle utility E.On e Rwe. È il penultimo passo di Berlino verso il completamento del suo ritiro dall’atomo per concentrarsi sulle energie rinnovabili. Gli ultimi tre impianti – Isar 2, Emsland e Neckarwestheim II – saranno spenti entro la fine dell’anno prossimo. Secondo Bdew, l’associazione dell’industria energetica tedesca, nel 2021 le sei centrali nucleari hanno contribuito al 12% circa della produzione nazionale di elettricità, contro poco meno del 41% delle rinnovabili, il 28% del carbone e 15% del gas.
La decisione di eliminare gradualmente la produzione di elettricità dall’atomo era stata presa dalla Germania nel 2011, dopo la fusione del reattore di Fukushima seguita al terremoto e allo tsunami che l’11 marzo di quell’anno fecero oltre ventimila tra morti e dispersi nel Giappone orientale, il peggior disastro nucleare da quello di Chernobyl del 26 aprile 1986. L’eliminazione graduale del nucleare è considerata un passo irreversibile: “L’eliminazione del nucleare è definitiva”, ha affermato Kerstin Andreae, capo del Bdew. Nikolaus Valerius, direttore tecnico della divisione elettronucleare della grande utility Rwe, ha affermato in una intervista che “il nucleare è un business economicamente morto” perché un megawattora di elettricità nucleare costa 90-100 euro contro i 45-50 dei parchi eolici offshore. I costi di smantellamento sono stimati da E.On in 1,1 miliardi a reattore. Nel 2020, E.on ha stanziato 9,4 miliardi per il decommissioning, compresa la bonifica dei siti e la gestione delle scorie. Lo smantellamento dovrebbe essere completato entro il 2040.
Entro il 2030 la Germania mira a ottenere l’80% dell’elettricità da fonti rinnovabili, puntando soprattutto su eolico e solare. La maggioranza “semaforo” socialdemocratica, verde e liberale che sostiene il nuovo governo del Cancelliere Olaf Scholz intende aumentare l’impegno per il clima e ha inserito l’eliminazione del nucleare nel suo accordo di coalizione.
Ecco la stangata: +55% per la luce e +41,8% il gas
L’annunciata maxi-stangata sulle bollette è arrivata. Il rally senza precedenti dei prezzi all’ingrosso dell’energia, e in particolare del gas, fanno schizzare dal primo gennaio le tariffe in vigore per i prossimi tre mesi nel mercato tutelato: per l’elettricità ci sarà una maggiore spesa del 55%, mentre per il gas il rincaro sarà del 41,8%. Gli aumenti comunicati dall’Autorità dell’Energia (Arera) generano un impatto devastante sulle famiglie e sulle imprese. In termini di effetti finali, queste percentuali si tradurranno per la bolletta elettrica in una spesa annua per la famiglia-tipo di circa 823 euro (+68% rispetto ai 12 mesi precedenti) corrispondente a un incremento di circa 334 euro l’anno. Mentre per la bolletta del gas serviranno 1.560 euro (+64%), pari a un aumento di 610 euro l’anno.
Il governo per evitare questa mattanza dopo due mesi di tavoli, confronti e annunci ha stanziato in manovra, a fatica, 3,8 miliardi. Una somma a cui è arrivato dopo aver pescato tra i fondi non spesi, il tesoretto fiscale e accordi raggiunti nei vari Consigli dei ministri. Nonostante il pressing dei 5 Stelle e della Lega nel richiedere più soldi per contenere il caro-bollette, a più riprese il premier Mario Draghi ha fatto intendere che non si sarebbero trovate altre risorse “perché la crisi energetica è un fenomeno strutturale e non temporaneo”. In altre parole, anche nei prossimi mesi si dovranno fare i conti con i rialzi record dei prezzi dei prodotti energetici trainati anche dalle tensioni geopolitiche. A pesare sono le incognite sui rapporti tra Russia e Ucraina e le sorti del gasdotto Nord Stream 2 dopo che la Germania ne ha bloccato il via libera.
Intanto l’impiego dei 3,8 miliardi, come più volte è stato raccontato su queste pagine, rappresenta un pannicello tiepidissimo. Tant’è che l’importo stanziato dal governo è riuscito a contenere del 30% il rincaro del gas che altrimenti sarebbe stato del +59,2% e di appena il 15% quello dell’elettricità che avrebbe segnato il +65%. Ma era abbondantemente noto che sarebbero serviti fino a 9 miliardi per frenare il record al rialzo dei prezzi dei prodotti energetici all’ingrosso (quasi raddoppiati nei mercati spot del gas naturale e dell’energia elettrica nel periodo settembre-dicembre 2021) e dei permessi di emissione di Co2. Insomma, una mazzata senza precedenti che va ad aggiungersi a quelle già registrate negli ultimi sei mesi. A fine settembre, nonostante 3,5 miliardi messi dal governo, la bolletta della luce è aumentata del 29,8%, mentre il gas del +14,4%. Nel terzo trimestre con 1,2 miliardi stanziati, una famiglia ha pagato il +9,9% per la luce e il +15,3% per il gas.
Ora l’Autorità con i fondi stanziati ha confermato con 2,3 miliardi l’annullamento transitorio degli oneri generali di sistema in bolletta e potenziato con 812 milioni il bonus sociale alle famiglie in difficoltà. L’Iva sul gas solo per il prossimo trimestre è poi stata ridotta al 5% per 29 milioni di famiglie e 6 milioni di micro-imprese. Si tratta delle stesse due misure già usate lo scorso trimestre. Per 2,5 milioni di nuclei familiari aventi diritto, in base all’Isee, ai bonus sociali per l’elettricità e per 1,4 milioni che fruiscono del bonus gas, gli incrementi tariffari sono stati sostanzialmente compensati potenziando i bonus con 200 euro a famiglia di 3-4 componenti per l’elettricità e 400 euro per il gas. Mentre a costo zero per lo Stato, c’è la possibilità per famiglie che dovessero trovarsi in condizioni di morosità di rateizzare le bollette di elettricità e gas emesse da gennaio ad aprile 2022, per un periodo massimo di 10 mesi e senza interessi. Il miliardo messo a disposizione arriva attraverso un meccanismo di anticipo della Cassa per i servizi energetici e ambientali. Per il presidente dell’Arera Stefano Besseghini, che nelle ultime settimane aveva già spiegato che in assenza di ulteriori correttivi del governo si sarebbe profilato un’ulteriore stangata, si tratta di “una situazione senza precedenti” e ora si appella a famiglie e imprese: “Come già avvenuto nel lockdown, sarà determinante l’azione responsabile dei consumatori”. Tradotto: meglio consumare di meno.
La ripresa azzoppa un’Italia ancora fossile
La tempesta perfetta, scatenata da una combinazione concomitante di fattori strutturali e congiunturali, economici e politici, globali e locali. È quella che s’è abbattuta sui mercati dell’energia, portando all’impennata senza precedenti dei prezzi del gas e dell’elettricità in Europa e, dunque, anche in Italia. Il boom della domanda di materie prime per la ripresa dopo la pandemia e il calo dell’offerta continentale di gas, le tensioni geopolitiche internazionali e le svolte interne, l’andamento meteorologico e le riforme per il clima hanno formato un intrìco il cui effetto finale porta all’ulteriore +55% della bolletta elettrica e al +41,8% di quella del metano che da domani peseranno per almeno un trimestre – dopo i rincari dei mesi scorsi – su imprese e famiglie. Un problema sul quale qualcuno, dentro e fuori la politica, si è inserito per proporre soluzioni obsolete e inadeguate, ma utili per far guadagnare pochi, interessati amici.
Secondo l’Enea, nel terzo trimestre i consumi europei di energia hanno segnato un aumento del 4% su base annua, in linea con quello dei primi nove mesi dell’anno. In Italia è stato anche maggiore: +7% su base annua nel terzo trimestre, +9% nei primi nove mesi dell’anno. A spingerla sono la crescita del Pil (+7%) e della produzione industriale (+20% quella di beni intermedi), la ripresa del traffico su strada (+9%) e aereo (+22%). Ne sono derivati gli aumenti dei consumi di gas naturale (+7%) e delle importazioni nette di energia elettrica (+66%) che hanno spinto al decollo i prezzi dell’elettricità, che in Italia si produce ancora per buona parte in centrali alimentate a metano. La richiesta di energia elettrica sulla rete nel terzo trimestre è cresciuta di oltre il 3% tendenziale, oltre i valori pre-Covid, grazie all’industria (+15% la domanda da inizio anno). La dimensione dei rialzi è senza precedenti. Al Ttf (il mercato di riferimento olandese per lo scambio del gas naturale, tra i maggiori in Europa) a inizio anno il prezzo del gas era sotto i 18 euro per megawattora, ora supera i 100. Sulle Borse europee gli aumenti sono arrivati fino al 300% nelle medie mensili a ottobre e novembre. Il rischio è che i rincari blocchino la ripresa, anche se per ora le ultime due previsioni della Commissione europea hanno rivisto al rialzo le stime di crescita dell’economia che dovrebbe essere tornata sui livelli pre-pandemici. Ma i rialzi monstre del gas nel terzo trimestre hanno portato anche alla sostituzione di parte del mix delle fonti per la produzione elettrica. L’effetto combinato, nel terzo trimestre, è stato l’aumento dei consumi di carbone (+25% circa la domanda della termoelettrica), un calo di quello di metano (-8%) e il boom delle importazioni di elettricità (+80%).
“Il rialzo dei prezzi dell’energia si inserisce in un contesto globale di rincari delle commodities causato dall’incapacità dell’offerta di soddisfare l’aumento dei consumi”, spiega Gianclaudio Torlizzi, fondatore e direttore generale di T-Commodity, società di ricerche di mercato sulle materie prime. Questi sono in forte accelerazione per ragioni di finanza pubblica: è dal secondo Dopoguerra che l’economia globale non beneficia di spinta fiscale come quella dell’ultimo anno e mezzo, ma anche perché la pandemia li ha spostati verso i beni durevoli. Sul mercato dell’energia – prosegue – si sono poi inseriti fattori politici che aggravano questa dinamica. L’adozione zelante di politiche ambientali ha ulteriormente ridotto l’offerta di gas dei produttori europei perché i Paesi Ue perseguono obiettivi climatici sempre più stringenti. Inoltre lo stallo in Germania della certificazione del nuovo gasdotto Nord Stream 2 tra Russia ed Europa è andata ad aggravare il bilanciamento del mercato del gas Ue. Un problema da porre in relazione anche a fattori politici interni perché i Verdi, ora parte del nuovo governo di Berlino, da sempre contrari alle fonti fossili e al nucleare, contrastano l’avvio del nuovo gasdotto anche se l’opera è già stata completata. Tra i fattori influenzati dalla politica c’è poi lo spegnimento delle centrali nucleari in Germania che mette ulteriormente sotto stress il mercato elettrico. Resta il problema di riequilibrare le politiche green che disincentivano il fossile ma che richiedono un backup delle fonti rinnovabili, per loro natura instabili, e delle decisioni di alcuni Stati Ue che possono inficiare il bilanciamento del mercato interno europeo, che resta molto teso”, conclude Torlizzi.
Su queste dinamiche si sono inserite le voci di chi, come il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, reclama il raddoppio dell’estrazione di metano dai giacimenti nazionali “per calmierare i prezzi” e di chi, come il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, chiede addirittura di “riaprire” al nucleare. “Sciocchezze”, le definisce entrambe Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club: “Il possibile impatto di un piano per raddoppiare l’estrazione di gas o petrolio dai giacimenti nazionali non è immaginabile nel breve periodo, data la necessità di avviare sistemi e impianti. Inoltre, anche se avvenisse, non è detto comporterebbe ribassi dei prezzi, che sono determinati a livello europeo”. Sono altre, spiega Silvestrini, le soluzioni a cui guardare: “Come dimostrano i dati di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, nei primi 11 mesi di quest’anno la quota di elettricità prodotta da fonti rinnovabili è stata pari al 36,8% del totale. Nel 2014 eravamo al 39,1%, l’anno scorso al 39. Da 8 anni ormai siamo fermi al 36-37%. L’Italia deve dunque recuperare rapidamente terreno sul fronte della quota di produzione delle energie rinnovabili per affrontare le tensioni sul mercato dell’elettricità e puntare a raggiungere l’obiettivo nazionale del 70% entro il 2030 . Questo ridurrebbe la domanda di gas e diminuirebbe l’impatto del rincaro del metano sulle bollette”. Servono anche altre mosse: “Sul lungo periodo, un piano per l’energia non può prescindere dal miglioramento dell’efficienza energetica, specie nelle abitazioni. Per quanto criticato, il superbonus consente di ridurre la domanda di gas sostituendola con altre fonti di riscaldamento come il fotovoltaico”. Quanto all’“ipotesi di reintrodurre il nucleare, abbiamo visto che in Francia e in Finlandia la costruzione di nuovi impianti ha enormi problemi di aumenti dei costi e tempi biblici. Chi parla di piccoli reattori ipotizza che le ricerche in corso portino a ridurre costi e rischi, ma servirebbero lustri. Se l’Italia arrivasse al 72% di rinnovabili entro il 2030, non servirebbero poi i mini impianti nucleari”, conclude Silvestrini.
“Trattati senza rispetto dal governo, ma adesso la nostra pazienza è finita”
“Mi ero illuso, come tanti artisti, di poter lavorare a Capodanno: stavo chiudendo una trattativa. Invece il 23 dicembre la doccia gelata del governo, con una modalità che la fa sembrare punitiva, incomprensibile”. Tommaso Zanello, in arte Piotta, tra i “rapper” storici della musica italiana, non si dà pace: “Non mi permetto di entrare in discorsi sanitari, ma non c’è stato rispetto per la musica e la cultura”.
Piotta, il circuito della musica indipendente rischia di andare gambe all’aria?
È in grande difficoltà, siamo “senza volume” da due anni. Quelli più piccoli sono alla canna del gas, ma il “piccolo” è un concetto relativo perché ora i medi sono diventati piccoli. Poi ci sono i turnisti, i fonici… il settore è massacrato, siamo oltre la disperazione: chi è più fortunato ha trovato un altro lavoro, gli altri sono disoccupati.
Lamenta soprattutto la mancanza di rispetto, giusto?
Certo. Per il Capodanno sono stati prenotati locali, sottoscritti contratti, pagati anticipi, si è investito in pubblicità… e ora? Mi sarei aspettato una conferenza stampa in cui, dopo aver detto che tutto veniva fatto saltare e non permesso fino al 31 gennaio, fossero annunciati anche i “ristori”. C’era anche l’occasione della legge di bilancio. Avrebbero dovuto solo decidere la cifra. È un atteggiamento punitivo.
A cosa lo imputa tutto ciò?
La nostra è una categoria che in questi due anni ha fatto sacrifici, è stata attenta, collaborativa, precisa e ordinata. Forse, a questo punto, mi sento di dire che abbiamo sbagliato. Dovevamo urlare di più. Siamo stati pazienti ma ora la pazienza si è esaurita. Nel 2021 abbiamo registrato il successo dei Maneskin, di cui parla tutto il mondo. Se le realtà indipendenti chiudono bottega non ci saranno altri Maneskin, resteranno solo macerie. I club dove i Maneskin magari hanno suonato non ci saranno più. Stanno creando un deserto culturale che fa spavento.
Adesso cosa servirebbe?
Un piano Marshall per la musica. Anche perché la ripartenza, se mai ci sarà, non potrà essere immediata e salvifica per tutti. Saremo tantissimi a voler suonare e la quantità di locali a disposizione sarà invece ridotta al lumicino, se va bene.
Eppure dalle parti dei palazzi governativi non pare un tema all’ordine del giorno: nessun sostegno in vista…
E non servirebbe solo un sostegno economico a questo punto, ma anche morale e psicologico. Le cicatrici resteranno per anni sulla nostra pelle.
Ha pensato a una forma di protesta, cosa le piacerebbe fare?
La nostra è ovviamente una categoria fatta di individualismi e molto frammentata. Ma credo che la risposta per noi non possa che essere sempre nella musica stessa.
Scriverà una canzone?
Mi piacerebbe magari realizzare un lavoro condiviso con altri artisti, con stili diversi, chissà. Intanto riponiamo gli strumenti nelle custodie per trovare serenità in questi giorni festivi negli affetti e in famiglia, pur con questa grande rabbia dentro.
Finisce la Cassa Covid: lavoratori in ginocchio
La sensazione di questi giorni è di un déjà-vu, un qualcosa di già visto nella primavera 2020, quando nei primissimi momenti di pandemia i turisti italiani e stranieri si affrettavano a cancellare le prenotazioni per alberghi, ristoranti ed eventi. Nel frattempo, i lavoratori privati e pubblici reclamavano la possibilità di operare da remoto per ridurre i rischi di infezione. Il governo Conte II si apprestava allora a concedere, tra l’altro, la cassa integrazione gratuita a tutte le imprese e a disporre lo smart working come metodo principale di lavoro. Oggi il governo Draghi, che pure ha imposto nuove restrizioni, fa l’opposto: da domani gli ammortizzatori sociali per emergenza Covid non saranno più disponibili, malgrado alcuni settori di nuovo affossati dalla crescita dei contagi, e il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha ribadito che i dipendenti pubblici resteranno in ufficio, senza aprire a un ritorno dello smart working.
I contagi giornalieri sono a livelli mai visti prima e in molti stanno evitando di partire per le vacanze. Questo sta colpendo inevitabilmente le imprese e i lavoratori di turismo e spettacolo, che tra l’altro ancora non hanno recuperato dalla botta subita dello scorso anno. I sindacati Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UilTucs hanno lanciato l’allarme perché “senza Cig è a rischio l’occupazione e il reddito per oltre due milioni di lavoratrici e lavoratori del turismo, del terziario e degli appalti di servizi, ancora interessati dalla crisi”. La Fipe Confcommercio spiega che già le prenotazioni dei cenoni erano inferiori a quelle del 2019, ma ora aspettano disdette tra il 25 e il 35%. L’Unione dei Comuni montani, tipiche mete invernali, parlano di annullamenti pari al 60%. Condizioni critiche per i lavoratori stagionali che riescono a trovare impieghi solo durante il picco delle stagioni turistiche. Anche a novembre 2021, alberghi e ristoranti – insieme al commercio – risultavano i principali utilizzatori di ammortizzatori sociali con causale emergenza sanitaria. Quasi 9 milioni di ore mensili autorizzate nel commercio, più 8,5 milioni per le attività di alloggio e ristorazione. Pur lontani i tempi del coprifuoco, le difficoltà permangono ma la cassa Covid non sarà prorogata. Ieri la Camera ha approvato una mozione che al massimo impegna il governo a introdurre, con i prossimi decreti, misure di sostegno agli stagionali del turismo.
Chi invece non ha strappato neppure una promessa è il lavoro pubblico, costretto a restare in presenza per l’intransigenza del ministro Brunetta. “Il 15 ottobre abbiamo detto addio alla sperimentazione di massa dello smart working emergenziale”, ha detto ieri al Messaggero. “Basterebbe una mia circolare per invitare le amministrazioni a fare le scelte opportune – ha aggiunto – alcune avranno bisogno del lavoro agile, altre no”. Oggi il lavoro da remoto per gli statali è normato dalle linee guida approvate poche settimane fa. Sottoscritte da Cgil, Cisl e Uil che non hanno osteggiato granché il protocollo che ha riportato in sede milioni di “fannulloni”, come li chiamerebbe Brunetta, mentre nel frattempo hanno ottenuto la pre-intesa sul rinnovo contrattuale del comparto delle Funzioni centrali e il silenzio-assenso sul fondo pensione complementare. Ieri però la Cgil ha timidamente chiesto una retromarcia: “Il governo, le amministrazioni pubbliche e le aziende devono favorire l’utilizzo dello smart working laddove possibile, evitando elementi di rigidità che in questa fase potrebbero peggiorare l’andamento dei contagi soprattutto negli spostamenti casa-lavoro”. Chi invece insiste da giorni sono i sindacati del comparto Giustizia, per i quali bisogna “adottare delle misure più idonee a tutelare la sicurezza nei luoghi di lavoro, a partire dallo smart working”: rottura di un tabù che ora imbarazza Palazzo Chigi, dove dal tavolo delle possibili misure il possibile ritorno al lavoro agile nel pubblico impiego ha il veto, come detto, del ministro Brunetta.
Restando alla Giustizia, per esempio, il livello di criticità è elevato. Senza numeri ufficiali, gli habitué dei tribunali e gli stessi delegati sindacali raccontano che “i contagi sono enormi” perché negli uffici entrano persone né vaccinati né tamponate. Per l’accesso, contrariamente a quanto previsto per i magistrati e per tutto il personale dipendente, la legge esonera gli utenti, ma anche gli avvocati non hanno l’obbligo di esibire la certificazione verde. Un afflusso quotidiano di persone che affollano le strutture penitenziarie, anche minorili, come pure gli archivi notarili, tali da aumentare il numero dei dipendenti contagiati. Secondo Marco Carlomagno, segretario della Federazione Lavoratori Pubblici, il 10% dei reparti della Pa è oggi bloccato da contagi e quarantene, perciò ripristinare il lavoro agile “è una necessità per la sicurezza dei lavoratori pubblici ma anche per tutto il Paese, al fine di evitare un aumento dei contagi”, chiede Carlomagno. Intanto il Consiglio di Stato consentirà dal 3 gennaio a tutti i suoi dipendenti di ricorrere allo smart working tre volte al settimana. Altri segnali arrivano dall’estero. La Germania ha fatto tornare lo smart working una pratica ordinaria, la Francia l’ha imposto per tre giorni. Da noi resiste il diktat di Brunetta, convinto che ne risentirebbe il Pil.
Milano, a Pavone la guida del board sull’innovazione
Una nomina che porta con sé anche un messaggio politico: la voglia di Pd e M5S di allearsi in vista delle regionali in Lombardia del 2023. Quello che non è successo in occasione delle ultime Amministrative a Milano. Così il sindaco del capoluogo lombardo Beppe Sala ha nominato Layla Pavone, ex consigliera d’amministrazione del Fatto e candidata del M5S a sindaco di Milano, per coordinare il board per l’innovazione tecnologica e la trasformazione digitale del Comune. La manager esperta di internet sarà chiamata a coordinare un gruppo di esperti per rendere l’amministrazione sempre più digitale ed efficiente nell’erogazione dei servizi “in coerenza con le linee guida sulla trasformazione digitale contenute nel Pnrr”. Pavone prenderà il posto di Roberta Cocco, assessore nella prima giunta Sala e oggi al ministero dell’Innovazione. “Pavone ha un curriculum di tutto rispetto e la scelta dipende da quello – dice a Fanpage.it Massimo De Rosa, capogruppo M5S in Comune – ma il dialogo con il Pd per le Regionali è aperto”.
Parlamento, negato il 2Xmille ai 5 Stelle “Non sono iscritti al Registro dei partiti”
Per il 2022 non se ne parla, in futuro chissà: la richiesta del M5S di accedere al 2 per mille è stata bocciata dalla Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo sui rendiconti dei partiti. Che il 23 dicembre ha notificato ai vertici pentastellati il sonoro verdetto. Per beneficiare della quota Irpef delle dichiarazioni dei redditi degli italiani e delle eventuali erogazioni liberali in denaro fiscalmente agevolate alla creatura di Giuseppe Conte manca il requisito fondamentale: uno statuto interno allineato ai requisiti di democrazia interna richiesti dalla normativa in materia oltre che dalla Costituzione, condizione indispensabile per ottenere l’iscrizione al Registro dei partiti. Iscrizione che è a sua volta condizione per accedere all’agognato 2 per mille.
A dire il vero il Movimento 5 Stelle è in buona compagnia: sono state anche bocciate le richieste di “Alternativa”, formazione nata per iniziativa dei parlamentari pentastellati dissidenti, espulsi o fuoriusciti, così come è stata respinta la domanda di “Coraggio Italia” del sindaco di Venezia Brugnaro e dell’altra formazione “Europeisti”. Ma a fare scalpore è ovviamente il caso del M5S e non solo perché si tratta della principale forza politica presente in Parlamento. Sulla questione del 2 per mille i 5 Stelle avevano infatti indetto anche un referendum interno preceduto e seguito da non poche polemiche soprattutto da parte di attivisti e parlamentari che nella svolta hanno ravvisato un mezzo tradimento di uno dei loro principi più cari, quello della rinuncia a ogni forma di finanziamento pubblico. Consultazione conclusasi con un plebiscito a favore dell’accesso ai benefici di legge proprio a ridosso del 30 novembre, data entro la quale però era necessario essere già iscritti al Registro dei partiti per poter chiedere il 2 per mille. Inevitabile, dunque, la bocciatura della richiesta. Ma c’è di più: la Commissione ha avuto da ridire sulle regole interne statutarie indicando anche una serie di criticità e modifiche necessarie per accogliere la domanda d’iscrizione. E anche un termine di 45 giorni entro il quale adeguarsi alla normativa per ottenere il suo visto. Operazione non facile, conoscendo le procedure necessarie ai pentastellati per modificare gli assetti interni statutari, frutto già del difficile compromesso raggiunto la scorsa estate in sede di revisione e riscrittura tra Giuseppe Conte e il fondatore Beppe Grillo.
Lo spread, l’auto-lettera Bce, le euro-risate e Monti: the end
2011, luglio. Il crollo reputazionale del Cavaliere per i sexy-scandali si salda con quello finanziario: la Borsa tracolla, lo spread sfonda quota 400, gli speculatori scommettono contro l’Italia. Il governo è paralizzato dagli scontri fra Berlusconi&Brunetta (ministro della Pa), che annunciano una mega-riduzione fiscale, Tremonti che la ritiene impossibile e Bossi che si oppone alla riforma delle pensioni. Risultato: nessuna reazione credibile al panico finanziario. Il Consiglio dei ministri vara una manovra finanziaria estiva firmata da Tremonti, ma subito svuotata dai partiti della maggioranza, che la riscrive tre volte in tre settimane. Nemmeno la quarta versione però soddisfa la Commissione Ue e la Bce. Napolitano lavora sottotraccia, d’intesa con le cancellerie europee, per un governo tecnico guidato da Mario Monti. Berlusconi, pur di restare in sella e comprare altro tempo, si fa commissariare da una lettera della Bce, firmata dal presidente Jean-Claude Trichet e dal successore designato Mario Draghi, all’insaputa del Parlamento e dell’opinione pubblica. Alla missiva hanno collaborato varie manine italiane. Tremonti sospetterà di Brunetta, che negherà. Di certo c’è il contributo di Daniele Franco, alto dirigente di Bankitalia e futuro ministro dell’Economia del governo Draghi. Il documento impone all’Italia una serie di riforme giugulatorie rateizzate nel tempo e l’anticipo al 2013 del pareggio di bilancio (già fissato per il 2014). In cambio la Bce comprerà titoli di Stato italiani sul mercato, facendone scendere i rendimenti e dunque lo spread. Una scelta – quella del pareggio anticipato – che si rivelerà catastrofica per l’Italia: nell’estate successiva, quella del 2012, basterà la promessa di Draghi di intervenire (“whatever it takes”) con acquisti illimitati di debito pubblico dei Paesi che ne faranno richiesta, per placare i mercati e lo spread, rimasto fino ad allora altissimo anche con Monti. Insomma, senza quella lettera gli italiani si sarebbero risparmiati sacrifici per decine di miliardi.
5 agosto. Firmata la lettera della Bce, Berlusconi ne rende nota l’esistenza, ma non il contenuto (top secret per altri due mesi) e addossa agli eurobanchieri la colpa della manovra estiva. Tremonti, ministro dell’Economia, è stato tenuto all’oscuro di tutto per il suo astio verso Draghi e l’asse Bankitalia-Bce: ora paragona la missiva alle “lettere di minacce delle Br”. Sarà Brunetta, da ora, a gestire i rapporti con Francoforte. Così instaura un ottimo rapporto con Draghi, con cui 10 anni dopo tornerà ministro. Il premier, come se nulla fosse, parte per le ferie in Costa Smeralda: non si farà vedere a Roma per 23 giorni e non avvierà nessuna delle riforme promesse alla Bce.
5 settembre. Napolitano, interpretando la costernazione di Draghi e Trichet dinanzi al governo che s’è già rimangiato gli impegni, commissaria il governo commissariato dalla Bce e gli intima di riscrivere la manovra per la quinta volta. Tremonti tenta ancora di convincere Bossi a tagliare le pensioni, ma invano. Berlusconi si riappalesa a Roma e impapocchia un testo che più o meno ricalca i precedenti già bocciati dall’Europa e dal Colle.
19 ottobre. Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, Trichet e Draghi si incontrano alla cerimonia di benvenuto per il banchiere italiano, in procinto di assumere la guida della Bce. I quattro – scriverà a fine anno il Wall Street Journal – discutono del caso Italia e l’indomani la Merkel chiama Napolitano per chiedergli “con modi diplomatici di sostituire il capo del governo, se Berlusconi non si dimostra in grado di cambiare l’Italia” con “riforme più incisive”. A quel punto “Napolitano inizia a sondare i partiti sull’appoggio a un nuovo governo”.
20 ottobre. Viene assassinato il dittatore libico Muammar Gheddafi durante la guerra civile che impazza da otto mesi, sotto i bombardamenti occidentali a cui il governo Berlusconi ha aderito il 25 aprile. È trascorso appena un anno dal baciamano del premier a Gheddafi durante il summit della Lega Araba a Sirte.
23 ottobre. Al vertice europeo di Bruxelles, la Merkel e Sarkozy incontrano Berlusconi. Poi, in conferenza stampa, una giornalista domanda loro: “Il premier italiano vi ha rassicurati?”. I due si scambiano un’occhiata densa di ilarità e trattengono a stento le risate. Il video fa il giro del mondo: la pietra tombale sul Cavaliere.
3-4 novembre. Al G20 di Cannes, Berlusconi non rivolge la parola a Tremonti e viceversa. I due si presentano con un pugno di mosche, senza le misure aggiuntive necessarie al promesso pareggio di bilancio. Lo spread supera quota 500. È la fine. Dai gruppi del centrodestra inizia il fuggi-fuggi, in perfetta coordinazione con le manovre di Napolitano per il governo Monti.
8 novembre. La Camera vota sul Rendiconto dello Stato: il governo ottiene appena 308 voti, 8 in meno della soglia minima di maggioranza (316). Il testo passa solo perché le opposizioni abbandonano l’aula per evitare il disastro. Lo spread balza a 574 punti. Bossi invita Berlusconi a fare “un passo di lato”. Confindustria e Vaticano lo scaricano. Ma lui resiste. Poi il tracollo in Borsa del gruppo Mediaset e le pressioni dei figli, di Confalonieri e del socio storico Ennio Doris di Mediolanum lo inducono a mollare, per salvare almeno gli affari.
9 novembre. Napolitano nomina Monti senatore a vita. Un mese prima, il prof ha definito sul Corriere l’Italia “un ‘protettorato’ tedesco-francese e della Bce”.
12 novembre. Berlusconi sale al Quirinale per dimettersi. E se ne va da un’uscita secondaria per sfuggire alla folla che festeggia la sua fine politica.
13 novembre. Napolitano incarica Mario Monti, presidente della Bocconi, già consigliere di amministrazione della Fiat, già consulente di Goldman Sachs, già commissario europeo, habitué del Gruppo Bilderberg ed editorialista del Corriere. Il suo è un “governissimo” tecnico appoggiato da tutti i gruppi di destra, di centro e di sinistra, tranne la Lega Nord (che presto sarà raggiunta all’opposizione dall’Idv di Di Pietro). Una maggioranza bulgara, mai vista prima, che sfiora il 90%: 281 seggi su 315 al Senato e 556 su 630 alla Camera. Quel che serve per attuare pedissequamente il drastico piano di austerità voluto da Bce, Ue e Germania. Monti vara subito una manovra finanziaria da 30 miliardi che aumenta le tasse e colpisce i ceti più deboli, dai pensionati ai lavoratori, anziché tagliare i privilegi della casta e delle lobby. Risultato: salgono il debito pubblico e la disoccupazione, cala la produzione industriale. Ancor più recessione di prima. Il paradosso è che è il leader del Pd Pierluigi Bersani ad apparire il principale sponsor di Monti. Berlusconi invece è abilissimo a stare al governo fingendosi all’opposizione. Una scena destinata a ripetersi nel 2021, con Mattarella al posto di Napolitano, Draghi al posto di Monti, Salvini in aggiunta a Berlusconi, la Meloni al posto di Bossi.
(24 – continua)