Stuprata dal mostro suicida. “La vittima diventa carnefice. Valentina Pitzalis insegna”

Gentile Selvaggia, leggendo il tuo articolo su Valentina Pitzalis mi è tremato il petto. Sto vivendo in questi giorni, con le dovute differenze, una situazione simile. Simile per due punti. La vittima che diventa carnefice e la morte del Mostro che mette fine alle indagini e getta nell’oblio quello che avrebbe portato un po’ di serenità nelle nostre vite: sentire la sua verità, vedere che la giustizia rimette a posto almeno qualcosa, dargli la possibilità di pentirsi del male che ha fatto. Noi non possiamo avere giustizia, a questo punto, ma vorremmo almeno avere la verità. Mi spiego meglio. Hai probabilmente letto degli abusi su alcune ragazzine da parte di una persona che si è uccisa, quel vigliacco ha scelto il male minore. Una delle ragazzine, 15 anni, è una mia parente. La cosa più atroce è che lei era innamorata e probabilmente lo è ancora. Innamorata persa, succube emotivamente, rapita dalla sua figura e dalla sua capacità di instaurare legami che sembravano speciali, unici alle sue vittime. Si parla di circa 1.200 tra mail e messaggi, molti dei quali sessualmente espliciti. Lei è molto carina ed estremamente timida, forse avrà trovato in questo professore un’attenzione che la faceva sentire speciale, chi di noi non si è innamorato del professore simpatico e popolare tra gli studenti? Se poi sei anche brava a scuola e lui ti fa sentire intelligente e dotata capisci che il gioco è fatto. Noi stiamo vivendo un incubo. Il padre, non trova pace per non essere riuscito a proteggere la sua bambina. Non troviamo pace perché la sua vita è cambiata per sempre, perché deve essere controllata a vista per il timore che si faccia del male visto che si sente in colpa. E che lui le manca. Lei lo assecondava quindi qualcuna la giudica, dice che in fondo un po’ “carnefice” lo è anche lei. Ma lui è morto, non la può difendere. Io sono giorni che mi interrogo sui segnali che fanno riconoscere un mostro, un EFEBOFILO, questo è il termine esatto (chi nutre l’interesse sessuale nei riguardi della medio–tarda adolescenza). Come si muove? Ha degli atteggiamenti socialmente riconosciuti come pericolosi? È un disagiato? Io credevo di sì, invece no. E diventa tutto più difficile, anche difendersi. Lui era un “uomo” amato e stimato da colleghi e allievi. E ti dirò. Io un po’ capisco chi continua a difenderlo, è più facile negare l’evidenza che accettare di essersi sbagliati, accettare di non aver saputo riconoscere il Mostro. Tra chi lo frequentava, stanno venendo fuori testimonianze di alcuni che conoscevano dei suoi precedenti ambigui, ma nessuno denuncia e quindi non ha senso nemmeno parlarne. E poi si tratta di denunciare un morto, chi ha voglia di andare a infilarsi in beghe legali se tanto non si potrà più chiedere il conto a nessuno? Scusami se ho scritto in maniera confusa. Ho i pensieri che si accavallano e non so cosa sarà di questa ragazzina.

Luana

Cara Luana, se i mostri fossero facilmente riconoscibili, sapremmo disinnescarli con facilità. Credo che adesso il percorso più difficile riguardi la ragazzina e non solo per quello che le è capitato, ma proprio per la morte del professore che in qualche modo rende più complicata l’elaborazione del trauma. Proteggetela da questa ingiustizia sospesa – un “amore” (per lei) reciso bruscamente, la morte – e siate amorevoli, pazienti. Guarirà.

 

A lezione da Amanda Knox “Ma su Lumumba ha mentito”

Voglio parlarti di Amanda Knox. Sono un avvocato, premetto, non un forcaiolo: per me la verità processuale è sacra, perfino quando fa acqua. Nel caso Meredith non fa acqua, fa uno tsunami. Questo non vuol dire che i magistrati abbiano lavorato male, ma che sono arrivati a conclusioni obbligate per un totale caos nelle indagini; dunque, per la mancanza di prove contro i complici certi di Guede, visto che lui è stato condannato per omicidio in concorso. Questo che i complici siano stati i due ex fidanzatini o chiunque altro. Perciò invitare Amanda al Festival della giustizia pare non dico assurdo (lo sono i 4 anni di carcere preventivo che ha scontato) ma almeno inopportuno. Stonato: troppi dubbi chiedono rispetto, per la sentenza e per la vittima. Nel dubbio, si conceda un educato oblio, non la medaglia sul petto, alla Knox. Vederla sul palco a dare lezioni sull’inferno che false accuse possono innescare ai danni di vittime innocenti mi ha infastidito. La signora ha condannato al carcere Lumumba, questo dovrebbe ricordarlo: è stata condanna per calunnia, dopo aver dato la colpa a lui, un innocente, reo solo di conoscerla. Anche Lumumba ha sofferto e al contrario suo, non per un corto circuito della legge, ma per le sue balle. Per la sua scelta razionale di mentire, facendo condannare un innocente per il massacro di una giovane ragazza. Ha parlato dell’importanza della verità, la signorina. Amanda però dovrebbe domandarsi: quanto ha contribuito, lei, alla ricerca della verità? Ha sviato le indagini nei giorni fondamentali dell’inchiesta, ha detto tante bugie (ritrattate o scoperte). Noi avvocati siamo cinici. Facciamo assolvere clienti colpevoli, talvolta. Ma è giusto così: ciò garantisce a tutti, colpevoli e innocenti, di non andare in galera sulla base di qualche sospetto. Una cosa però la voglio dire, alla Knox: ci ricordiamo sempre di chi non ha avuto giustizia. Magari dopo un gin tonic, questo sì, ma mai salendo su un palco a cercare l’applauso.

Luca B.

 

Touchè, Luca B.

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Era ora: donne con gli scarpini per scardinare gli stereotipi

Come raccontare l’intensissima emozione che può provare una madre di figlio maschio nel vederlo correre per casa urlando “Barbara Bonanseaaaa”, dopo anni di calcio maschile visto su ogni possibile piattaforma e giocato su ogni possibile campo di calcetto cittadino ed extraurbano? Come spiegare la gioia profonda di una donna italiana nell’ascoltare le parole–balsamo della coltissima Sara Gama, che in un’intervista ha parlato di “nuovo immaginario” e “cambiamento culturale?”. Come descrivere il piacere estremo nel sentire la nazionale femminile commentata da uomini, com’era giusto che fosse per evitare che si creasse un nuovo ghetto di donne che parlano di donne? I mondiali femminili hanno aperto uno squarcio su un pensiero unico insopportabile, che ci è stato servito per anni come l’unica pietanza, condizionando i nostri figli e soprattutto le nostre figlie, che da questo sport liberatorio e democratico (almeno teoria) hanno finito per allontanarsi. Costrette, con tutù e nastri da ritmica, a perpetuare lo stereotipo della donna dolce e aggraziata, mentre l’altro sesso era libero di manifestare la sua aggressività (ma non la sua eventuale omosessualità: com’è noto vige silenzio tra i calciatori, non tra le calciatrici). Ma in questo campionato la figura che più spicca è quella di un’assente: la calciatrice norvegese Ada Hegerberg, pallone d’oro e 400.000 euro di stipendio. Lei non c’era perché, a sua dire, la federazione norvegese non fa abbastanza per la parità. Immaginatevi una nostra calciatrice – 30.000 euro a stagione – che chiedesse lo stesso: ci sarebbe una sollevazione maschile (e non solo, sic), perché “le donne sono meno forti”. Come se la parità volesse dire stessa quantità di muscoli. Come se il circo del calcio, i suoi miliardi e i suoi sponsor, non fosse qualcosa di culturalmente condizionato. Non a caso, le donne stanno facendo il pieno di audience. Era facile: bastava farle vedere.

Belle, ma povere. Resisteranno alla tentazione di fama e soldi?

Domani si tifa a più non posso, naturalmente, godendosi il miracolo di un Paese sessista affratellato, anzi, assorellato da undici ragazze che giocano a calcio, muscolose ma smilze, come gli azzurri di una volta, Rivera, Cabrini, Rossi. Godiamocelo, prima che la retorica, pure quella benintenzionata del #MeToo, rovini tutto, prima che la macchina autolesionista delle mitologie femminili non trasformi le nostre undici eroine così simpatiche e empowering negli ennesimi modelli inarrivabili con cui competere per forma fisica, efficienza e sex appeal. “Test: e tu in amore sei più Giuliani o Bonansea?” “Gambe da Aurora Galli in sette giorni!” “Belle in campo e fuori: la beauty–routine delle azzurre”, eccetera. E via con sponsorizzazioni a tappeto, dallo shampoo al deodorante, comparsate nei talk show, fumetti, action–figures (la Barbie–Sara Gama c’è già…) che sono il corollario inevitabile della celebrità, ma uniformano, omologano e alla fine stufano. Eppure se intorno alle nostre calciatrici non si mette in moto il circo mediatico–economico–promozionale che ruota da sempre intorno ai maschi, non c’è speranza di colmare l’immenso pay gap che le divide da loro. Ci piacerebbero povere ma belle per sempre, vestali in calzoncini che vegliano sul sacro fuoco della purezza sportiva, ma non è possibile, non sarebbe giusto e nemmeno utile a una disciplina che ha anche bisogno di glamour e pubblicità per uscire dalla dimensione di “fenomeno” e diventare una certezza. La prossima sfida per il calcio femminile italiano non è riuscire ad appassionare sul campo (sfida già vinta), ma non ridursi a un carrozzone litigioso, venale e ipocrita come quello maschile, solo con più marchi di assorbenti. Su cui peraltro c’è sempre un’Iva maggiore di quella dei rasoi da barba: se vinciamo i Mondiali in Francia, il governo si deciderà ad abbassarla?

Il giovane gesuita Martini e la politica: “Nostra netta vittoria” nel 1948

Il cardinale Carlo Maria Martini è stata una delle figure più forti, intense e belle del cattolicesimo novecentesco e d’inizio millennio (decisivo sarebbe stato il suo ruolo di mediazione nel Conclave del 2005 che elesse il “conservatore” Ratzinger). Senza l’opera del gesuita Martini, biblista e teologo eccelso, la stessa Chiesa di Bergoglio sarebbe forse meno aperta e misericordiosa.

Eppure nonostante il peso e l’influenza martiniane, la biografia del cardinale ridotto tout court a “progressista” aveva un buco nero colmato solo adesso. Cioè la dettagliata scansione cronologica della sua formazione giovanile. Non che non si conoscessero già alcuni episodi del “Carluccio” ragazzo che scopre la vocazione dopo la terza liceo, tra le bombe e i pericoli della Seconda guerra mondiale, epperò il merito di Alberto Guasco, storico della Link Campus di Roma, è quello di considerare in uno schema unitario le prime esperienze del giovane Martini, di famiglia torinese.

Edito dal Mulino, il volume di Guasco intitolato Martini. Gli anni della formazione (1927-1962) (274 pagine, 23) individua quattro periodi decisivi: la scelta della Compagnia di Gesù e il noviziato a Cuneo; la scoperta della filosofia all’Aloisianum di Gallarate (dove poi ritornerà per morirvi il 31 agosto 2012); gli studi teologici a Chieri; infine l’arrivo a Roma nel 1954 al Pontificio istituto biblico.

Nel periodo di Gallarate che va dal 1946 al 1949, Martini vive da un osservatorio privilegiato la fase costituente della Repubblica e le successive elezioni del 1948, vinte dalla Dc contro i frontisti socialcomunisti. All’Aloisianum, infatti, tengono conferenze e dibattiti sulla nuova Italia sorta sulle macerie della guerra e del fascismo protagonisti della Dc come Dossetti, Lazzati, il futuro capo dello Stato Scalfaro. Ma l’istituto di Gallarate è anche la “base logistica” del microfono di Dio al centro della battaglia per le Politiche del 18 aprile 1948: padre Riccardo Lombardi.

Annota il 20 aprile Martini in una lettera alla madre: “Continuano di ora in ora ad arrivarci le cifre delle elezioni, dove pare affermarsi una netta nostra vittoria”.

Con un miliardo Mediapro sfida Sky

Alzi la mano chi non avverte già un brivido pregustando le sfide, fino a ieri impensabili, del prossimo campionato: tipo Juventus–Inter, con Antonio Conte condottiero nerazzurro a mulinare lo spadone sul campo della Real Casa, oppure Napoli–Juventus, col comandante Sarri a muovere le truppe bianconere alla conquista del San Paolo. Emozionante, non c’è che dire. E però, la partita più appassionante è quella che si sta giocando nelle stanze, nemmeno tanto segrete, del Palazzo, ed è quella dell’assegnazione dei prossimi diritti televisivi: grazie ai quali il calcio italiano campa e senza i quali tutto finirebbe a schifìo.

Che sta succedendo, vi chiederete? Sta succedendo che i presidenti di serie A, ai quali da sempre interessa una sola cosa, succhiare più soldi possibile alle tv, stanno valutando – in vista del triennio 2021-2024 – una proposta degli spagnoli di Mediapro, messi malamente alla porta due primavere fa, che a molti club pare già ora irresistibile. Per capirci. Allo stato attuale la Lega di serie A incassa da Sky e Dazn, per il triennio 2018-2021, 973,3 milioni a stagione con un incremento rispetto al triennio precedente, quello di Sky e Premium che assicuravano 945 milioni, di 28,3 milioni a stagione. Ebbene: Mediapro, il gruppo audiovisivo catalano che ha lanciato il canale beIN Sports e che in Spagna detiene i diritti di Liga, Segunda Division e Copa del Rey, è tornato all’assalto e offre – tenetevi forte! – la bellezza di 1.193 milioni con un incremento rispetto a oggi di 219,7 milioni per ognuna delle tre stagioni: un’enormità. Più precisamente Mediapro offre 1.060 come minimo garantito ai quali aggiunge 55 per l’acquisto dell’archivio–immagini e 78 per le spese di produzione del nuovo canale–tv della Lega: in tutto 1.193 milioni che potrebbero persino diventare di più. Oltre questa quota scatta infatti l’area–guadagno, di 90 milioni, di Mediapro (e siamo a 1.283), dopodichè eventuali surplus verrebbero divisi destinando il 75% ai club e il 25% all’operatore spagnolo. Nascerebbe dunque, stavolta per davvero, il tanto chiacchierato canale della Lega di serie A, attivo 7 giorni su 7 con palinsesti completi di partite in diretta e programmi di approfondimento (che potrebbero persino far scomparire il “Club di Caressa”, cosa invero meritoria), da vendere chiavi in mano a qualunque operatore di qualunque piattaforma: satellite, digitale terrestre, canali OTT (internet).

Per evitare i contenziosi innescatisi col bando precedente, quando Mediapro versò una caparra di 64 milioni e poi venne ricusato per mancata osservanza delle regole, la Lega si impegna stavolta a dare fin dall’inizio il suo okay alla creazione del canale autonomo: una commissione guidata dall’ad Luigi De Siervo è già al lavoro per vagliare la proposta Mediapro e si pronuncerà tenendo conto di quanto dice l’art. 13 della Legge Melandri, che consente alla Lega di “realizzare una propria piattaforma previo ottenimento dell’occorrente titolo abilitativo, ovvero realizzare prodotti audiovisivi e distribuirli direttamente agli utenti, attraverso i canali tematici ufficiali ovvero attraverso un proprio canale tematico”. I soldi di Mediapro sono tanti, i club scalpitano, il bando è previsto prima di Natale. E vista l’aria che tira, a Sky stanno già dissotterrando l’ascia di guerra. Concludendo: riusciranno i nostri eroi…?

L’ultima battaglia di Rodotà non è ancora stata vinta

Sono due anni che Stefano Rodotà ci ha lasciato. Tutti sono insostituibili sul piano umano per chi li ha amati, ma sono pochi coloro che lo sono anche su quello politico. Da questo punto di vista vale la pena di riflettere su quel fenomeno, quasi unico, di compemetrazione fra un personaggio e un intero popolo. Nella mia vita ricordo ciò per pochissimi leaders che sono stati davvero amati da tutti gi italiani per bene. Forse solo Pertini e Berlinguer prima di Stefano. Rodotà è stato uno straordinario giurista, maestro indiscusso del diritto civile, e vero protagonista intellettuale di una delle più feconde stagioni della nostra civilistica, fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, aprendoci gli occhi sulla natura ideologica del formalismo giuridico e prendendo coscienza di come il diritto fosse, nelle mani del potere, un potente strumento di sfruttamento.

Dedicando la sua attenzione alle istituzioni giuridiche fondamentali del capitalismo, proprietà, contratto, responsabilità civile, Stefano fu capace di accreditarsi in giovanissima età come indiscusso maestro, dotandosi dell’ autorevolezza indispensabile per condurre una critica, anche radicale, capace di farsi prendere sul serio. Tale critica non fu mai solo pars destruens, ma seppe trovare in una compiuta elaborazione giuridico-filosofica dei diritti una dimensione costruttiva capace di affrontare ogni trasformazione sociale con una chiave di lettura profondamente legata ai valori costituzionali. Tale visione, che oggi chiamiamo costituzionalismo dei bisogni, fu capace di fungere da stella polare anche etica per i dilemmi di quella post-modernità che dagli anni Ottanta prese le fattezze di un processo reazionario, il neo-liberismo.

Prestissimo (1972) Rodotà ci fece capire come la trasformazione tecnologica dirompente e mai neutrale, rendesse la teoria dei diritti molto più debole del previsto, spingendolo poco dopo a riflettere sul legame fra i diritti e le risorse materiali che il settore pubblico, sopratutto quello dei servizi, aveva il dovere costituzionale di dedicare alla loro soddisfazione. La consapevolezza che i diritti non possono essere scissi dalle condizioni materiali della loro soddisfazione collettiva portò Rodotà a schierarsi fra i primi politicamente e scientificamente contro l’ideologia delle privatizzazioni, che a partire negli anni Novanta iniziava a far strame dell’ impianto sociale e solidaristico della nostra Costituzione.

Il cammino culturale fu sempre accompagnato dall’ impegno politico. Conobbi Rodotà nel 1983, per una prima battaglia ambientalista, quando egli fu promotore, da parlamentare, della Legge contro il piombo nella benzina. Dopo l’ esperienza parlamentare (in cui per la presidenza della Camera ci fu il suo primo siluramento da “fuoco amico” a favore di Giorgio Napolitano) ci furono quella di primo Garante ed effettivo fondatore dell’ Autorità per la privacy (dove crebbe ancor più lo scetticismo per l’ approccio formalistico della legge) e il suo importantissimo ruolo nella scrittura della Carta di Nizza, che Rodotà considero’ sempre un compromesso accettabile nonostante il fallito tentativo di inserirvi la “funzione sociale della proprietà privata”.

Sulla concretizzazione di questa funzione lavorammo quando, dal giugno del 2007, fummo chiamati dall’ ultimo governo Prodi rispettivamente come presidente e vicepresidente della commissione ministeriale di riforma del libro terzo del Codice Civile (quella che divenne nota come Commissione Rodotà). Si trattava di mettere il Codice Civile al passo con la Costituzione, di tutelare i beni pubblici contro le privatizzazioni arbitrarie e di accogliere vent’ anni di critiche scientifiche alla nozione formalistica ed obsoleta di demanio. Iniziò li, per noi e per il Paese, la stagione dei beni comuni che in quella sede videro definirsi la loro struttura come beni: a) funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona b) produttivi di utilità che vanno tutelate rispetto all’ arbitrio del proprietario sia esso privato o pubblico c) che vanno collocati fuori mercato e amministrati nell’ interesse delle generazioni future. Fanno parte dell’ elenco esemplificativo di questo ABC dei beni comuni: acqua, aria, fauna e flora selvatiche, ghiacciai e nevi perenni, beni culturali, foreste…

È storia nota che nel 2009 il governo Berlusconi fece un tentativo generale di privatizzazione e che a quello rispondemmo con i quesiti referendari su cui nel giugno 2011, 26 milioni di italiani difersero i loro beni comuni. Quell’ ABC, già penetrato nel diritto vivente sotto forma di sentenze, regolamenti e statuti locali, divenne dal 2011 parte del vocabolario politico. Ma ancora oggi non è legge! Sull’ onda di quel risultato, Rodotà fu consacrato leader gentile del movimento per i beni comuni e proprio per questo due anni dopo il “fuoco amico” gli preferì lo strappo costituzionale della conferma di Napolitano al Quirinale.

Oggi un Comitato che porta il suo nome prova a far diventare finalmente legge, tramite un’ iniziativa popolare, questo suo prezioso lascito civile, ammirato in tutto il mondo. Di nuovo è attivo il “fuoco amico” ma lavoriamo in tanti (www.generazionifuture.org ) perché il Maestro, con il suo dolce sorriso sognante, possa donare a tutti i ragazzi un diritto che sappia difendere il loro futuro.

Parco Valentino si reinventa ancora e vede “green”

Era stata annunciata come un’edizione da record. Di fatto, una promessa che sembra aver corrisposto alla realtà: il quinto anno del Salone diffuso di Parco Valentino a Torino ha raccolto 54 brand, 10 in più rispetto a quelli dello scorso 2018, e per una rappresentanza del mercato auto mondiale del 98%. Un’esposizione en plein air di grandi gruppi e costruttori minori, e poi di centri stile e carrozzieri, altri veri protagonisti di un Salone votato al design: ma tutti con a disposizione lo stesso spazio espositivo, senza alcuna differenza. A dare, però, la vera cifra a questo raduno dall’impostazione democratica è stata la grande attenzione riservata alla mobilità integrata, oltre che elettrificata. L’edizione 2019 del Parco Valentino, che ha chiuso i battenti ieri, si era invece aperta con il taglio del nastro da parte di una Citroen E-Mehari elettrica ma soprattutto autonoma, frutto del progetto VeGA dell’azienda torinese Byologix: un concentrato di tecnologia e ricerca che rivela come Torino sia in pole position, a livello nazionale, per quanto riguarda la sperimentazione delle vetture autopilotate. Parco Valentino, nonostante la sua giovane età, appare ormai un appuntamento maturo e consolidato nelle aspettative dei circa 700 mila visitatori che quest’anno hanno riempito gli stand delle Case. E resta forse uno dei pochi eventi che, reinventandosi ogni volta e pur senza grosse pretese di novità, riesce a tenere ancora gli appassionati dei motori legati a una formula conosciuta – quella dei saloni – senza il rischio di cadere nello stantio, come negli ultimi anni è accaduto purtroppo altrove.

Fiat 500E, speriamo non balli da sola

Luglio, per Fiat, significa Cinquecento. Il giorno 2 di quel mese, nel 1957, venne presentata la Nuova 500, destinata poi a motorizzare l’Italia. Il 4 luglio del 2007 arrivò l’ultimo Cinquino, quello che tutt’oggi vediamo e guidiamo sulle nostre strade. Dodici anni, troppi, in attesa di un nuovo capitolo, che tuttavia sta per arrivare. La prossima generazione è in rampa di lancio: la vedremo ai primi di marzo 2020 al salone di Ginevra. Nel frattempo, comunque, luglio continua a essere cerchiato di rosso sui calendari del Lingotto: il mese prossimo, come annunciato al salone di Parco Valentino dal responsabile Fca Emea Pietro Gorlier, verranno inaugurate a Mirafiori le linee produttive della prossima 500 in variante elettrica (quella coi motori endotermici continueranno a produrla in Polonia, a Tychy), già in allestimento.

Un modo originale per festeggiare gli 80 anni dello stabilimento, accogliendo l’inevitabile futuro a elettroni con un’icona del genere. A patto che poi seguano altri modelli a batteria: quel che vedremo a Mirafiori, infatti, pare sia un adeguamento più che una piattaforma modulare dove far nascere intere famiglie di veicoli elettrificati. Strada costosa, ma battuta ad esempio dal gruppo Vw, da quello Psa o dalla stessa Renault-Nissan, tanto per rimanere sull’attualità di una trattativa che pare morta, ma forse non lo è. L’auspicio è che questo luglio porti iniziative simili anche per Fca, sia essa in compagnia o continui a ballare da sola.

Renault flirta con Fca. Giappone contrario alla fusione

Stallo messicano. La politica e la finanza dell’auto finite in una sceneggiatura alla Quentin Tarantino. Ormai in troppi nell’affare Renault-Fca si tengono sotto tiro a vicenda, e nessuno cede, anche se il campanile promette il primo sonoro rintocco domani 25 giugno, l’ultimo forse il 31 luglio. Renault flirta con Fca lontano dai riflettori, mentre il governo francese impone un profilo basso con l’alleato giapponese Nissan. Che invece subisce pressioni perché si arrivi un cambiamento al vertice, magari a un nuovo amministratore delegato più disposto a far confluire l’azienda nella grande fusione. Proprio ciò che l’esecutivo di Tokyo avrebbe osteggiato con tutte le sue forze.

A poche ore dall’appuntamento con l’assemblea generale dei soci Nissan di domani, proprio quest’ultima è la rivelazione con cui l’agenzia Bloomberg disegna uno scenario di contrapposizioni se possibile ancora più aspre del previsto. Il governo giapponese avrebbe giocato un ruolo attivo e preciso nel far fallire la trattativa di fusione tra Renault e Fca, facendo pesare la preoccupazione che il nuovo assetto indebolisse Nissan.

Almeno quanto le dinamiche industriali, stanno ancora oggi pesando le delicate dinamiche di politica internazionale. Tocca, infatti, al ministro dell’economia francese Bruno Le Maire la massima attenzione a non stravolgere gli equilibri con il governo guidato da Shinzo Abe: “La volontà dello stato non è quella di indebolire in nessun modo l’alleanza tra Renault e Nissan, ma casomai consolidarla”.

Le Maire però mantiene fermi gli occhi sul bersaglio: “Non mi crea nessun problema il fatto che il numero uno di Fca abbia passato del tempo a Parigi”. Cioè, quel viaggio raccontato e mai confermato di Mike Manley presso il quartier generale di Renault. Perché oltre le smentite di prassi, il lavoro continua, forse con ragionevole fretta.

Il gruppo Fca nei cinque mesi 2019 ha venduto 450.138 auto, con un calo dell’8,6% sul 2018, mentre i conti del primo trimestre segnavano addirittura un utile netto arretrato del 47%. Logico voler portare a segno a tutti i costi una trattativa che garantirebbe almeno un punto di vista costruttivo sui conti della semestrale 2019, attesi il 31 luglio prossimo. Per accelerare, ora serve aggirare l’ostacolo. L’assemblea generale dei soci Nissan dovrà votare la nascita di tre comitati interni di controllo per voltare pagina rispetto all’accentramento dei poteri dell’era Ghosn. Renault ha prima minacciato l’astensione paralizzandone l’approvazione, poi ha ottenuto “con soddisfazione” da Nissan la nomina dell’amministratore delegato di Renault, Thierry Bollorè e del presidente Jean-Dominique Senard all’interno dei comitati. Un gesto di buona volontà, e diplomatico. Capiremo se l’ultimo.

Facce di casta

 

Bocciati

CI SEDEMMO DALLA PARTE DELLA RAGIONE PERCHÉ DA QUELLA DEL TORTO C’ERANO I RADICAL CHIC. Beatrix Von Storch, vicepresidente di Alternative fur Deutschland, ha proposto Matteo Salvini come candidato al Nobel per la pace: “Propongo Matteo Salvini per il premio Nobel per la pace perché ha attuato una politica di successo per la stabilità dell’Europa e per il salvataggio di migliaia di vite umane, un esempio che tutti dovrebbero seguire. Nessuno dovrà più affogare nel Mediterraneo se l’industria dei rifugiati e le sue barche non avranno più la possibilità di continuare il loro sporco traffico e di arrivare in Europa”. Questa proposta, che arriva da un partito alleato della Lega nell’Europarlamento, ha tanto il sapore di una provocazione: ai sovranisti non basta optare per politiche drastiche che proteggano i confini dei loro stati nazionali dall’arrivo dei migranti, arrivando quasi allo scontro con il rispetto dei diritti umani, ma ambiscono addirittura ad essere magnificati come filantropi che hanno a cuore il bene dell’umanità. È proprio vero che l’uomo non si accontenta mai.

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Promossi

NON TUTTE LE VACCHE NEL CORRIDOIO SONO GRIGIE.

Dopo aver ascoltato troppe parole giustificazioniste o pseudo tali su quanto accaduto nella questione delle nomine in ambito giudiziario, ancora incerti su cosa pensare di fronte a tutte queste bizzarre apologie di un’ingerenza politica smaccata e strumentale liquidata con la formula “ha sempre funzionato così”, arrivano come una boccata d’aria fresca le parole di Pierluigi Bersani: “Sento che qualcuno nel Pd dice che le nomine si sono sempre fatte così: devo essermi perso qualcosa, perché io certe cene non le ho mai fatte né ne ho mai avuto notizia”. Riuscire ad operare dei distinguo nella notte della politica in cui tutte le vacche, anche quelle nel corridoio, sono grigie, aiuta a non essere sopraffatti: perché una cosa è dire che la politica ha sempre partecipato alle nomine del Csm e che probabilmente è giunto il tempo di sviluppare una seria riflessione sulla questione; altra cosa è fingere di non accorgersi che un politico indagato che di notte, in una stanza d’albergo, con quel linguaggio, pretende di dettare legge su chi vada piazzato dove, costituisca un’anomalia indigeribile per uno Stato che voglia potersi guardare allo specchio senza inorridire. Ci sono volte, e sono più frequenti di quanto si possa pensare, in cui la forma è sostanza.

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SINISTRA A CHI?
“Salvini ha ben poco da temere, se l’opposizione di ‘sinistra’ è Renzi che attacca il reddito di cittadinanza da destra, parlando a nome dei proprietari degli stabilimenti balneari”: che il punto di vista di Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista o l’ultimo dei comunisti come lo chiama qualcuno, sia indubbiamente e orgogliosamente di parte non ci piove, ma che di fronte alle ennesime ironie di Matteo Renzi sul reddito di cittadinanza che avrebbe fatto sparire i lavoratori stagionali dalle spiagge, sia doveroso chiedersi quanto ci metterà la sinistra a ritrovare la propria ragione sociale è quantomeno evidente.

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