La settimana incom

Bocciati

Rincretinit*. Caterina Balivo avrebbe dovuto essere la madrina del Gay Pride milanese.
Ma, visto che in passato aveva osato addirittura fare una battuta scherzosa su Ricky Martin (“sei bono anche se sei frocio!”) è stata “revocata”. Scrivono gli organizzatori: “Rimaniamo convinti che sia importante coinvolgere personalità del mondo dello spettacolo sul palco del Pride per consentire alle nostre istanze e rivendicazioni di raggiungere quel pezzo di paese che ai Pride non ci viene e magari ha un atteggiamento ostile o indifferente rispetto alle nostre tematiche. Tuttavia riteniamo che sia ancora più importante fare in modo che si arrivi al Pride unit*. La madrina di un Pride deve essere un fattore unificante. È chiaro che la nostra scelta – di cui ci assumiamo la responsabilità – ha suscitato molte perplessità e polemiche. E poiché il Pride deve essere un momento di unità e uno spazio in cui tutti e tutte con le proprie differenze possano riconoscersi, abbiamo preso la decisione in accordo con Caterina Balivo di fare un passo indietro”.
Da gente che usa l’* per non declinare le parole, non ci si può mai aspettare ironia.

I’m a Barbie girl.

Repubblica racconta la casa di Barbara D’Urso: “Ti aspetti la tana della domatrice, sembra la stanza di un’adolescente: panda di peluche giganti, orsi con cuccioli, svariati Ken e Barbie, cornice di fiori per la foto con Matteo Renzi, ritratti dei figli e l’immagine in bianco e nero di una signora elegante, la mamma”. No no, noi ce la immaginavamo proprio così (a parte la cornice di fiori per Renzi, che manco nei sogni più perversi).

Ripeness is all.
Lory Del Santo ricorda il suo esame di maturità: “Quel giorno ero stratosferica: avevo un tacco 12, una tutina viola di lino molto leggero. Non avevo il reggiseno e nemmeno il resto dell’intimo. Tanto c’era un doppio strato di lino in quelle parti del vestito”. E quanto prese? “Il massimo dei voti: non andavo molto bene a scuola ma alla maturità sono stata la più brava della classe”. La maturità è tutto, anche se sembra più Pierino che Shakespeare.

 

Promossi

Dogman d’oro.
I premi all’eccellenza del cinema italiano sono assegnati annualmente dalla rivista di settore Ciak: Paola Cortellesi ha vinto (strameritatamente) il Super Ciak d’Oro come protagonista del 2019. Da menzionare anche Dogman di Matteo Garrone che ottiene ben sei Ciak d’Oro: Miglior film, Miglior attore non protagonista (Edoardo Pesce), Migliore sceneggiatura (Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Ugo Chiti), Miglior montaggio (Marco Spoletini) e Miglior scenografia (Dimitri Capuani). A Marcello Fonte il Ciak d’Oro come Personaggio più sorprendente dell’anno per la sua interpretazione.

La strana guerra al Vaticano. Chi odia Papa Francesco?

Marco Politi è scrittore di un tempo in cui insulto e aggressione non erano lo strumento tipico di dibattiti e di diversi punti di vista, e dove alcune istituzioni, come il Papa e la Chiesa, non sono sacre per tutti. Ma da tutti sono osservate e discusse, con l’istintivo e naturale atteggiamento di evitare l’offesa e lo strumento (abominevole, ma ormai abituale in Italia) del disprezzo. Il nuovo libro di Politi, La solitudine di Francesco (Editore Laterza) merita attenzione perché è la prima rappresentazione argomentata e organica di un tumultuoso movimento di rivolta in corso. Si tratta della lunga marcia intrapresa da due alleati–nemici divisi su tutto tranne i rancori, i Cinque Stelle e la Lega.

Entrambi dirigono i loro rancori verso chiunque abbia governato prima di loro (adesso o decenni fa), verso le istituzioni che hanno il compito di sorvegliare le regole, verso chi non aderisce subito ai loro progetti, verso chi non gradisce i confini chiusi, i porti chiusi e il passaggio di “stranieri.”

Il saggio di Marco Politi vi insegna ad aggiungere a questa lista tutta laica e politica la religione. Nel senso che un Papa misericordioso e accogliente, circondato dai vescovi che seguono il Papa, non può essere il Papa di un’Italia governata nel modo appena descritto. Occorre che sfiducia, sospetto, diffidenza, probabili colpe nei gravi problemi interni della Chiesa e inaccettabili distanze fra il governo del Paese e il Governo della Chiesa (soprattutto nella protezione dei migranti) non continuino a segnare per la prima volta una contrapposizione tra “uno Stato duro e una Chiesa molle” dove la Chiesa è un ostacolo alla nuova politica. Marco Politi racconta la guerra in atto, che comincia in tanti punti. Comincia dentro la Chiesa con la guida anti–Papa del Cardinale Viganò, attorniato da personaggi come Hans Herman Groer, cardinale di Vienna, dal fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel, e molti altri personaggi vaticani che nel libro appaiono dotati del loro curriculum e delle loro motivazioni. Politi è un autore accurato: non accusa, racconta.

Ma questo suo libro è il racconto di una strana guerra al Papa che sembra di Chiesa ma non è (solo) di Chiesa, così come la deliberata scortesia del nuovo direttorio politico italiano contro la Chiesa appare politico ma evidentemente non è solo politico. Attaccare il Papa da soli e di propria iniziativa richiederebbe un coraggio che non sembra tipico di questa nuova dirigenza. Dunque una strana guerra, assai più violenta e velenosa e misteriosa di quanto si limitino a raccontarci giornali e telegiornali, è in corso, e non è detto che si conoscano, al momento, mandanti, ragioni e fini. Spetta a Marco Politi il merito di avere indirizzato racconto, indagine e riflessione sulla giusta strada. La questione è grande, grave, pericolosa.

Tempi moderni: il pudore dove va? Tutti in mutande, da Salvini in giù

Capita di ritrovarsi in mutande davanti al medico. Ma anche davanti alla forza pubblica quando fa irruzione e ci si ritrova inermi. E come ogni cosa, la mutanda – mutatis mutandis – ha il suo doppio. Nel film Il Traditore di Marco Bellocchio si vede un Giulio Andreotti in mutande. Sta provando un abito e poi però esce via dalla bottega, a gambe nude, accompagnato dalla scorta che se ne resta impassibile davanti a quella scena. L’umanità incontra il proprio doppio quando – in mutande – si guarda allo specchio.

Uno sdoppiarsi nel grottesco di quell’indumento, tutto di prossimità, che ha comunque innumerevoli altre suggestioni – come quelle delle mode dove fa d’uopo mostrare un poco per svelare anche la marca – o come quelle dell’intimità o quelle del riposino ma quando è decontestualizzata, la mutanda, volge a sbraco. Tutti abbiamo visto l’avvocato Raffaele Capasso, a Napoli, affacciarsi al balcone – così come si trovava, in mutande – per parlare nientemeno con Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio che, regolarmente vestito, si trovava in un altro finestrone dirimpetto. E senza che ci fosse Bellocchio a suggerirgli l’espressione anche lui, il presidente Conte, resta impassibile davanti a quel tipo in maschio déshabillé. E chiacchiera col collega – “anch’io sono avvocato” – in giusto contesto di un esito populista.

La modernità ci abitua a tutto, inutile dire quanto altro ci porti la contemporaneità ma quel che resta del pudore – e di certo anche dell’eleganza – è incastonato nell’altrove sentimentale. In difesa di Carlo Calenda, incredibilmente contestato per avere indossato in un video una Lacoste, c’è Costantino della Gherardesca che – da vero signore qual è – confessa di indossare solo biancheria intima Schostal, quella stessa che usava Gabriele D’Annunzio. L’altrove, appunto. Un fiero alalà, manco a dirlo. Il qui e ora della contemporaneità è invece una prateria dei segni. Uno scatto rubato a Matteo Salvini dal settimanale.

Oggi lo racconta in mutande – cogliendo il segno – in un rimando tutto priapeo. Il ministro è colto mentre innaffia le piante del terrazzo di casa e quel ritrovarsi in mutande – oltre a mostrare un modello di boxer ruspante in linea con l’archetipo del Bossi in canotta – svela un così sfacciato “disturbo” che a farla apposta, una foto così, difficilmente sarebbe riuscita. Mutatis mutandis, fatti i debiti mutamenti, il priapismo politico è pur sempre un derivato totemico.

Ed è quello che il gallo affida alla propria cresta, quella stessa verticalità di squilli e fanfare con cui le istituzioni rinnovano il patto carnale di sovranità. Niente che riguardi la destra o la sinistra, un fatto – indifferentemente – di cruda etologia cui non sfugge neppure l’Unione Europea che è la più asessuata tra le istituzioni politiche quando suona per sé l’Inno alla Gioia che, va da sé, è sempre panica. Detto ciò, resta il “disturbo”. E resta nella cronaca la volta in cui gli uomini di An arrivati al governo con Berlusconi, potendo farsi fare le braghe su misura – arrivati com’erano all’agognata cresta – dalla mutandaia che doveva pur sapere dove dare più tessuto ebbero a sentirsi chiedere: “Onorevole, lei il disturbo dove lo porta, a destra o a sinistra?”. La mutanda, si sa, ha sempre il suo doppio. Indifferentemente. A destra, e a sinistra.

Clima impazzito, a Milano l’eccellenza per fare ricerca

Ma chi l’ha detto che la riduzione delle emissioni di C02 faccia male all’economia e aumenti le tasse? E chi l’ha detto, pure, che l’Italia sia sempre fanalino di coda di tutto? La recente inaugurazione, a Milano, dell’European Institute on Economics and the Environment (Eiee) sfata, per fortuna, entrambi gli stereotipi. Ora abbiamo un istituto scientifico “transatlantico”, e di eccellenza, sul clima che unisce due centri internazionali di primo piano nell’ambito della ricerca economica e ambientale: lo statunitense Resources for the future (Rff) e il nostro Centro Euro-Mediterrano sui cambiamenti climatici (Cmcc).

L’obiettivo? Analizzare i cambiamenti climatici anche nei loro impatti sociali ed economici visto che, come ha detto il premio Nobel per l’economia William Nordhaus nell’intervento tenuto per l’inaugurazione del centro l’11 giugno scorso, l’abbattimento delle emissioni rappresenta “un beneficio per tutti i cittadini, di tutte le fasce di reddito, anzi forse ancora di più per chi è povero”.

Molte le linee di ricerca di questo istituto “a due teste”: la riduzione dei gas serra, ovviamente, ma anche lo studio delle tecnologie che facilitano la transizione verso un mondo senza carbonio e poi il nesso tra cambiamenti climatici e migrazioni, le implicazioni nella distribuzione delle ineguaglianze e le tecniche per incentivare e premiare comportamenti virtuosi nei cittadini. Il gruppo di lavoro è composto da 47 super-esperti (di cui la metà donne), tra cui economisti, matematici, ingegneri, climatologi, data e computer scientist che vengono da 13 nazionalità diverse. “Lo studio dei cambiamenti climatici non ammette barriere tra ambiti della scienza, richiede condivisione di competenze, di punti di vista e di esperienze provenienti da discipline e realtà diverse.

Economia, politiche, sviluppo sostenibile, tecnologie e questioni ambientali oggi sono strettamente connesse”, ha commentato il presidente del Cmcc, Antonio Navarra, mentre il collega di Rff, Richard Newell, ha sottolineato la connessione tra Usa ed Europa, visto che “i cambiamenti climatici sono problemi globali che richiedono risposte globali”. Infine, il neo direttore dell’Istituto Massimo Tavoni, esperto di cambiamento climatico e professore alla School of Management del Politecnico di Milano, ha sottolineato che la collaborazione, quella tra Rff e Cmcc, ha creato “il miglior istituto di ricerca sul clima in Italia e tra i principali in Europa”.

E poi ha aggiunto: “Sia che noi vogliamo conoscere l’impatto dei cambiamenti climatici sulla crescita delle economie globali e sulle ineguaglianze, sia che vogliamo approfondire i temi riguardanti le strategie di investimenti utili a raggiungere uno sviluppo sostenibile, sia che vogliamo conoscere i modi con cui coinvolgere cittadini e consumatori in comportamenti virtuosi dal punto di vista della crescita economica e dell’ambiente, Eiee può fornire soluzioni basate su prove scientifiche e metodi di ricerca rigorosi”. È davvero tantissimo.

Trieste non vuole D’Annunzio. E se la statua arrivasse a Pescara?

Mai e poi mai. I triestini non ce lo vogliono: il Vate se ne stia a casa sua ma lì in piazza della Borsa no, è un oltraggio bello e buono. La crociata contro Gabriele D’Annunzio è cominciata con una petizione in rete di change.org e si è poi allargata all’intellighenzia cittadina: le levate di scudi a Trieste non si contano, 2000 firme raccolte in pochi giorni e adesso il monumento realizzato dallo scultore Alessandro Verdi (e costato 20 mila euro) che ritrae il poeta guerriero seduto mentre legge in posa riflessiva, rischia di restare chiuso da qualche parte, almeno finché non si placheranno le polemiche. “D’Annunzio non c’entra niente con Trieste, veniva sbeffeggiato anche dalla popolazione quando perse l’occhio – spiega il promotore della petizione Alessandro De’ Vecchi – a suo dire in un’azione eroica volando sulla città ma in realtà l’occhio lo perse per un’infezione mal curata.

E non solo: la biografia letteraria e politica di D’Annunzio rasenta il ridicolo ed espone il buon nome dell’Italia al ludibrio mondiale, ma questo non è il motivo principale della contestazione: D’Annunzio era un alloglotto e totalmente estraneo alla città”.

Quindi le statue di Joyce, Saba e Svevo sì, ma quella del Vate proprio no. Se ne stia al Vittoriale o a Pescara, che è meglio. A Trieste ormai non si parla d’altro e De’ Vecchi insinua il dubbio che la sua collocazione in piazza della Borsa, di fronte alla Camera di commercio, sia una specie di omaggio della giunta di destra a un parlamentare dichiaratamente fascista che abita proprio lì. Omaggio o no, sta di fatto che quest’anno ricorre il centenario dell’impresa di Fiume e la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro proprio per una mostra su D’Annunzio, che verrà inaugurata a luglio, intitolata “Disobbedisco” e curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale.

E la statua pare sia stata proprio un’idea sua, nata passeggiando col sindaco Roberto Dipiazza per le vie cittadine. E in effetti il sindaco quella statua la difende a spada tratta: “Fatela finita con queste divisioni del 900. Sarà una grande opportunità dal punto di vista turistico. Ciò che conta è che Trieste assieme a Venezia sia il centro della preparazione dell’impresa di Fiume. Hemingway, Joyce, Proust riconobbero la grandezza di D’Annunzio: stiamo parlando di un grande italiano. Queste polemiche mi hanno stancato”.

Ma, particolare ancora più importante, da Trieste veniva una delle reliquie più preziose: una bandiera italiana che gli fu regalata dalla sua amante triestina. Ma alla fine probabilmente si riveleranno decisive le parole di Claudio Magris, l’unico che non spara sul Vate: “Il problema non è la statua, ma avere un giudizio chiaro e onesto su D’Annunzio che, pur avendo scritto tantissime cose illeggibili, è autore di alcuni capolavori riconosciuti da tutti” ha dichiarato al Piccolo. Chissà come finirà la fronda triestina. Nel frattempo da Pescara, città natale di Gabriele D’Annunzio, la nuova classe di governo di centrodestra reclama il monumento: se non lo apprezzano i triestini, ce lo prendiamo noi. Il Vate conteso.

L’astro Stewart troppo bravo per sostituire la grigia May

A Londra, un conservatore si è opposto ai discorsi populisti sulla Brexit e ha tentato di mettere un freno all’ascesa dell’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, strafavorito alla successione di Theresa May nella leadership del partito conservatore: Rory Stewart, che incarna un’altra visione del Tory, è rimasto escluso dalla sfida finale che si giocherà il 22 luglio tra Johnson e l’attuale ministro degli Esteri, Jeremy Hunt.

Spesso e volentieri, in Francia, negli ultimi mesi, si tende a far rimare Macron e “con” (“stronzo”): “una rima povera”, mugugnava l’ex presidente François Mitterrand quando sentiva dire Mitterrand fous le camp! (“Mitterrand vattene via!”).

Quel sorriso smarrito alla Mick Jagger

In questa Francia che non ce la fa più sarebbe forse complicato interessarsi a una faccia da schiaffi come Rory Stewart, conservatore britannico, classe 1973, uscito dallo stampino delle scuole più prestigiose (Eton e Oxford), con lo sguardo febbrile di un Lawrence d’Arabia e il sorriso smarrito alla Mick Jagger. Rory Stewart è uno che riflette ad alta voce sulla metafisica delle frontiere, sul concetto di identità, sul significato profondo della Brexit, sull’onore in politica, la fedeltà agli ideali, le modalità e gli strumenti di affrontare e risolvere le contraddizioni, il tutto tenendo in mente il concetto fecondo e creatore del logos secondo Eraclito di Efeso, maestro dell’armonia dei contrari e dell’unità degli opposti. L’uscita dall’Ue ha avuto i suoi mediocri cantori oltre Manica. No al club capitalista macina-proletariato, ha brontolato il laburista anchilosato Jeremy Corbyn. No all’impero burocratico continentale che soffoca il genio britannico, sbraitava il nazionalista arrabbiato Nigel Farage, a cui ha fatto eco poco dopo il conservatore opportunista e agitatore Boris Johnson. Ed ecco che in mezzo a questo caos miserabile di voci è emerso un principe della dialettica, un asso della retorica guidato dalla logica eraclitea: Roderick (detto Rory) Stewart. E scusate se è poco: in questo periodo la tendenza non è forse più a sputare l’anima che a lustrarne la quintessenza? Eppure il Regno Unito, impantanato così come era da tre anni in un concorso di insanabile nullità politica, è sembrato autostupirsi per aver accordato un po’ d’attenzione, e forse persino di rilievo, a un certo Rory Steward, un’aquila tra gli avvoltoi, un Pericle dei nostri tempi che difende la dittatura dell’intelligenza, arrivato in sordina per tentare di scombinare la corsa alla leadership del partito conservatore – e quindi di primo ministro di Sua Maestà – al posto della mediocre e ormai esangue Theresa May.

La competizione ha opposto solo uomini, tutti passati per Oxford, tranne Sajid Javid, figlio di immigrati pachistani. Dalla battaglia televisiva di domenica 16 giugno su Channel 4, Rory Stewart era uscito meglio di tutti, soprattutto quando si è fatto beffa dei suoi concorrenti, Michael Gove e Dominic Raab, che si sfidavano con i soliti modi da gorilla degli uomini politici: “È un campionato di machismo”, aveva commentato l’outsider con un tocco di crudeltà. Il risultato è stato che, martedì 18, al secondo voto dei 313 deputati conservatori per scegliere i loro candidati, Rory Stewart, arrivato sesto e ultimo con 19 suffragi al primo voto, aveva recuperato il ritardo e, come un purosangue sull’ippodromo di Ascot, era arrivato in quarta posizione, ben determinato a restare nella corsa. Due giorni dopo, il 20, scrutinio dopo scrutinio, sarebbero stati scelti i nomi dei due pretendenti ai suffragi dei 150.000 membri del partito Tory (da quel voto Stewart è poi rimasto escluso e sono usciti vittoriosi Boris Johnson e Jeremy Hunt, ndt).

Stewart aveva fatto la scommessa di affrontare Johnson e di batterlo: in questo modo la ragione avrebbe vinto sulla passione all’interno della più antica democrazia rappresentativa dell’Occidente. Favorevole, all’inizio, alla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea, Stewart ha preso atto del voto popolare al referendum del giugno 2016. Ha quindi sostenuto l’uscita dall’Ue negoziata da Theresa May. È stato il solo a respingere l’idea di lasciare l’Unione senza accordo, come promesso tra una fanfaronata e l’altra da Boris Johnson, con il quale Stewart rifiuta da sempre di allearsi, indipendentemente dal posto ministeriale che gli potrà essere proposto per adescarlo o ricompensarlo.

Nel corso dei suoi numerosi incontri sulle piazze di tutto il paese, parlando arabo con gli uni e dari con gli altri, Rory Stewart durante tutta la campagna si è filmato sui social, esponendosi a schiaffi e sputi. Non ha ricevuto né gli uni né gli altri, catturando invece l’attenzione, talvolta il rispetto. I suoi pari in Parlamento hanno scoperto che era possibile presentarsi come procacciatore di verità nel paese dei procacciatori d’affari. E se invece di scimmiottare i populisti, i Tories tornassero conservatori come li aveva voluti “papà” Harold Macmillian che, 60 anni fa, nel 1959, aveva proclamato: You’ve never had it so good (“Non avete mai vissuto così bene”)? Stewart, che incarna una destra civilizzata in opposizione alle frenesie fascistizzanti dei suoi colleghi disorientati che per riflesso pavloviano si allineano dietro Nigel Farage, ha preferito impegnarsi per ottenere un accordo con una fazione moderata di laburisti eurofili perché i Comuni accettino una Brexit democratica, adeguata e di concerto con Bruxelles, piuttosto che privilegiare una fuga in avanti fondata su promesse elettorali incongruenti, con la conseguenza di far pesare ancora di più sulla popolazione la deregolamentazione.

È nato a Hong Kong, la Scozia la sua patria

Per instillare un po’ di buon senso nel calderone della Brexit, la classe politica britannica ha tirato fuori dal cappello un personaggio che è come un ossimoro personificato: Stewart è profondamente radicato nel territorio (la Scozia è la sua Heimat), pur restando legato agli orizzonti più vasti (è nato a Hong Kong e ha trascorso l’infanzia in Malaysia). Anche se viene dall’establishment, nel senso più stretto del termine, il nostro uomo è un eccentrico convinto. Una qualità (poiché non è un difetto uscire dal mucchio) che ha ereditato dal padre, Brian Stewart (1922-2015), ex spia in Asia, che prima aveva combattuto i nazisti con un coraggio tipicamente britannico. In lui la trasmissione prendeva un aspetto un po’ folle da far pensare al padre di Montaigne e al suo modo di tramandare l’educazione, con dei risvegli mattutini brutali ma esaltanti: l’avidità di conoscere non può aspettare.

Rory Stewart ha conservato quella passione per la conoscenza ed i libri che fanno di lui un essere a parte. Collabora regolarmente con la London Review of Books e la New York Review of Books. In una magnifica testimonianza, pubblicata in Francia tre anni fa in una collezione diretta da Gilles Kepel per Gallimard, Les Marches. Aux frontières de l’identité britannique, Stewart ritrovava il genitore di 89 anni per passeggiare con lui lungo il Vallo di Adriano – costruito nel 120, nel nord dell’Inghilterra, per bloccare le incursioni dei barbari. È un piacere leggere mentre riflette sugli imperi (romano e britannico, ma non solo), i loro miti, la loro caduta e le tracce che lasciano nella memoria degli essere umani attraverso i secoli.

Contrariamente a Jacob Rees-Mogg, che incarna a oltranza la camera mortuaria delle élite britanniche che proteggono i loro interessi fingendo di avere a cuore altro, Rory Stewart sembra difendere gli interessi della sua classe avendo di fatto a cuore la totalità dell’universo. Professore ad Harvard, errabondo in Afghanistan, precettore, il tempo di un’estate, dei principi William e Harry, vice governatore in Iraq dopo l’invasione americano-britannica del 2003 (che si è pentito di aver sostenuto), rappresentante di Sua Maestà in Montenegro a 26 anni, Stewart è portato per le lingue, è anche un po’ spia (attività di per sé inconfessabile e negata nei giorni scorsi), ed è sposato a un’americana: questo prodigio d’uomo dalle nove vite risveglia la curiosità. Non è mai dove te lo aspetti – lo abbiamo trovato per esempio nel partito laburista in gioventù. Ed è uno che, alla Camera dei Comuni, è capace di lanciarsi in un’incredibile disputa con Jacob Rees-Mogg sulla questione dei diritti umani.

Il suo simbolo, lo scoiattolo, il motto: “Quo non ascendet?”

Deputato dal 2010, Rory Stewart, che può far leva su una memoria prodigiosa, ha tenuto, nel 2015, un discorso d’antologia sul riccio (hedgehog) attraverso i secoli: una cosa da rendere verdi di invidia tutti gli ecologisti della Terra! Come per Nicolas Fouquet, che finì per pagarlo a caro prezzo nella Francia dell’Ancien Régime, lo stemma di Rory Stewart potrebbe essere lo scoiattolo e il suo motto Quo non ascendet? (“Dove non salirà?”). Ma dopo tutto, le democrazie minacciate di scomparire riserbano talvolta una chance a personalità che in tempo normali sarebbero rimaste in disparte. Da una parte all’altra della Manica, si è verificato per Winston Churchill e Charles de Gaulle quasi 80 anni fa. E, più di recente, su questa sponda del Channel, per Dominique de Villepin, che aveva l’ambizione di appartenere a quella specie di letterati avventurieri che, con l’urlo e il furore, intendono stravolgere i piani già tracciati. Che ne sarà, in terra d’Albione, della fiammella Rory Stewart diventata incendio nell’impossibile Brexit? La Storia, che va di corsa, lo dirà molto presto.

 

Etiopia, sventato il golpe contro il premier Ahmed

Un’atmosfera politica giudicata tossica dagli osservatori, crescenti tensioni etniche e una chiara opposizione di parte dei militari al potere del premier Abiy Ahmed, eletto ad aprile dell’anno scorso e già sfuggito a un attentato con una granata: questo contesto il governo dell’Etiopia ha annunciato di avere sventato un colpo di Stato nel nord del Paese. Il capo di Stato maggiore dell’esercito, Seare Mekonnen, un secondo generale che si trovava con lui, il governatore della regione di Amhara, Ambachew Mekonnen, e un suo assistente sono stati uccisi nel tentato golpe. I due militari sarebbero morti – per mano di una guardia del corpo – perché stavano tentando di disinnescare l’azione eversiva: una squadra di killer aveva fatto irruzione in una riunione nella capitale regionale Bahir Dar, uccidendo il presidente dello Stato di Amhara e il suo principale consigliere. Molti dei responsabili coinvolti nel tentativo di colpo di Stato, tra cui diversi ufficiali dell’esercito, sono stati arrestati e sono in corso operazioni per catturare gli altri, ha annunciato il premier. La mente dell’attacco sarebbe il generale di brigata Asaminew Tsige, responsabile della sicurezza regionale di Amhara. Non è chiaro se sia già stato arrestato.

Parte il Tour dedicato a Merckx: la maglia gialla compie 100 anni

Il semplice sapore di una madeleine, scriveva Antoine Blondin, cantore del Tour e cultore di Proust, ti può ammaliare, ed immergere in un’intrigante associazione di sensazioni, di immagini, di sentimenti: preludio di formidabili fughe della memoria, come di fughe omeriche in bicicletta, fondamenta mitiche di uno sport tanto bello quanto crudele. Si corre ormai alla ricerca delle pedalate perdute: il ciclismo di oggi insegue disperatamente il ciclismo epico di ieri.
La madeleine, servita il prossimo 6 luglio a Bruxelles, grande partenza del Tour 2019, è la celebrazione della prima maglia gialla, simbolo del migliore corridore del Tour.
Creata giusto cent’anni fa, l’anno dopo la fine della Grande Guerra. E si festeggia Eddy Merckx, 74 anni: la maglia gialla, infatti, l’ha indossata 114 volte, record assoluto. Probabilmente mai più nessuno riuscirà a fare meglio di lui. Bernard Hinault, che vinse cinque Tour come Eddy, lo segue lontano, con 79 giorni in maglia gialla. Poi, Miguel Indurain (60) e Jacques Anquetil (51).

Se vogliamo credere al castello dei destini incrociati, si narra che il 2 luglio 1949 irrompessero nell’esistenza del piccolo Eddy i fuoriclasse del momento, gli italiani Coppi e Bartali, e con loro lo sciame colorato del Tour de France che fa tappa a Bruxelles. Quel Tour era seguito da Gianni Brera che si stupì per la passione ciclistica della città, dove 40mila tifosi inneggiavano al campione del mondo Brik Schotte, “uomo antico, proprio come Vanhouwaert. Un contadino che a 18 anni non era mai salito in treno o in autobus, che parla neerlandese e che solo grazie alla bici ha scoperto il mare. L’esemplare di una specie in via di estinzione”.

A Bruxelles sfreccia primo il belga Roger Lambrecht, un fiammingo scappato in Bretagna per sfuggire nel 1940 all’avanzata dei nazisti. Conquista la maglia gialla: “Un bagliore effimero. In quel momento Coppi compare come un puntino di un quadro di Seurat nella nuvola variopinta del gruppo. Presto splenderà sopra la corsa come una supernova…”. Il piccolo Eddy dirà a papà Jules: “Un giorno vincerò anch’io una tappa al Tour”. Ne vincerà 40 (e 25 al Giro).

Se il Tour del 1949 a Bruxelles fu una festa, quello del 1919 battezzato Tour de la reprise (Tour della ripresa) fu invece un incubo. I corridori furono costretti ad affrontare il Nord e l’Est della Francia seguendo la linea del fronte, in regioni deformate dai crateri degli obici, lungo lande spettrali: 700mila case e 20 mila fabbriche distrutte, 50mila chilometri di binari divelti, tre milioni di ettari di campagne rese sterili dalle bombe e dai gas. E tanta penuria: persino i costruttori di bici si consorziarono per poterle dare ai 68 partecipanti: li attendevano 5.560 chilometri infernali.

Gli stessi corridori, poveracci, erano reduci di guerra. La maggior parte si presentò al via del 28 giugno in precarie condizioni fisiche, per non parlare di quelle psicologiche. I francesi avevano perso tre vincitori del Tour (François Faber, Octave Lapize e Lucien Petit-Breton), e decine di altri famosi ciclisti. Qualcuno polemizzò: non era ancora il tempo giusto per disputare il Tour in una Francia traumatizzata, col maresciallo Foch che disponeva un’armata di 150mila uomini lungo gli argini del Reno. Una Francia sconvolta da un’ondata di sordidi episodi criminali, come il clamoroso caso Landru, turbata da scandali politici, alcuni infamanti. Ma il Tour cominciò lo stesso, quasi nell’indifferenza. Già alla prima tappa si ritirarono in 26, tra cui il belga Philippe Thys che aveva vinto le edizioni del 1913 e del 1914. Arriveranno solo in undici al Parco Dei Principi, la domenica del 27 luglio. Vinse il belga Firmin Lambot. La media resterà la più bassa di sempre: “Un Tour per cavalli da soma” fu il lapidario giudizio.

E tuttavia, il lungo, tormentato e mediocre Tour della Ripresa entrò lo stesso nella storia del ciclismo. Perché Henri Desgranges, direttore del giornale sportivo l’Auto che patrocinava il Tour, ebbe l’idea di dare al primo della classifica una maglia diversa da tutte le altre. Gialla, “come il sole”. Simbolo ideale in un momento ideale, come a dare un ordine gerarchico emblematico nel gruppo, metafora della Francia allora disorientata e priva di certezze. Successe che all’undicesima tappa – la Grenoble-Ginevra di 325 km – la prima maglia gialla venisse indossata dal parigino Eugène Christophe detto “Cri-cri”, il leader della classifica.

In verità, il giallo è soprattutto il colore del giornale che Desgranges dirige. Christophe è un veterano dei pedali. Ha 35 anni. Prima della guerra, aveva perso il Tour del 1913, cadendo nella discesa del Tourmalet, per colpa di una forcella che si era rotta. Sei anni dopo si ritrova a un passo dalla gloria. Il 19 luglio del 1919 è lui il primo corridore della storia che la indossa. Purtroppo, durante la penultima tappa da Metz a Dunkerque, nelle zone delle grandi battaglie, Christophe rimase vittima del nemico di sempre dei corridori: le buche e i sassi. La forcella lo tradisce di nuovo. Riesce a concludere la tappa. Ma perde maglia, Tour e i 20mila franchi del primo premio. Non lo consola il terzo posto. L’Auto promuove una sottoscrizione per “lo sfortunato” Christophe. Che consolida la fama di sfigato. Nel Tour del 1922 è recidivo: terza forcella rotta. Si piazzerà ottavo. Per la gente, resterà le champion de la poisse. Il campione della scarogna.

Istanbul boccia Erdogan: il sindaco all’opposizione

Ekrem Imamoglu è sindaco di Istanbul. L’Alleanza Nazionale, formata dal Chp, il partito popolare repubblicano erede del kemalismo, e dal Buon Partito (l’Iyi) dei nazional-conservatori ha “rivinto” le elezioni nella città turca battendo, ed è sempre una sorpresa, Binali Yildirim, il candidato di Recep Erdogan e dell’Akp, il partito nato nel solco dell’Islam politico al governo del Paese dal 2002.

Aveva già vinto il 31 marzo scorso Imamoglu, in una tornata amministrativa che, con la sconfitta anche nella capitale Ankara, aveva visto scricchiolare il trono del Sultano Erdogan. Aveva vinto per 23 mila voti Imamoglu (diventati 13.729 mila dopo il riconteggio ufficiale). Aveva vinto in una città di 16 milioni di abitanti dove vive un quinto dei turchi e si produce un terzo della ricchezza nazionale. Eppure non era bastato. Si era insediato sindaco il 17 aprile, prima che, su pressione del partito del Presidente, le elezioni venissero considerate falsate e riconvocate per il 23 giugno, ieri. Questa volta non c’è stata storia.

Imamoglu ha vinto con il 54 per cento delle preferenze. Lo sconfitto Yildirim ha subito ammesso l’insuccesso e questa volta addirittura Erdogan si è, a suo modo, congratulato: “Mi congratulo con Imamoglu, che ha vinto secondo risultati ufficiosi. La volontà della nazione si è manifestata oggi ancora una volta”.

La vittoria delle opposizioni laiche lascia una speranza in vista delle presidenziali previste, non proprio vicine, nel 2023. E la speranza è proprio questo sindaco quarantanovenne (anche Erdogan fu sindaco di Istanbul dal 1994 al 1998, prima di cominciare la sua ascesa politica), che nella sua carriera è stato presidente della municipalità di Beylikdüzü, nella parte europea della città più importante della Turchia.

Imamoglu, del resto, è il primo in 25 anni ad aver sconfitto Erdogan e il suo partito (nato questo solo nel 2001). Nativo di Trebisonda, un passato nell’impresa di costruzioni di famiglia, una vita in politica, nel Chp, storico partito laico (la fondazione data al 1923 ad opera di Kemal Ataturk, generale e politico, eroe nazionale e padre della Turchia moderna), dirigente del Trabzonspor (la squadra di calcio di Trebisonda). I quasi 800 mila voti di vantaggio certificano un successo che non si può più discutere, dopo il testa a testa della scorsa tornata.

Nonostante la stagione, l’affluenza si è confermata alta, sfiorando l’85%. In tanti sono tornati dalle spiagge per votare. A nulla è valso neppure il tentativo di Erdogan di blandire i curdi, rispolverando il leader del Pkk in carcere Abdullah Ocalan e facendogli mandare a poche ore dal voto un appello a essere “neutrali” e seguire la “terza via”. La manovra è fallita anche perché vi si è opposto Selahattin Demirtas, leader carismatico del filo-curdo Hdp, in carcere da quasi tre anni. E che Imamoglu ha chiesto di liberare. “Oggi abbiamo chiuso una vecchia pagina e ne abbiamo aperto una nuova. Lavorerò senza escludere nessuno”, ha promesso il nuovo sindaco di Istanbul.

Fiat, altro che casa Agnelli: fu fondata dal “conte rosso”

A ricordarlo con convegni, spettacoli e mostre, a 150 anni dalla nascita, è soltanto il comune di Fubine Monferrato, in provincia di Alessandria, dove è sepolto nella cappella di famiglia. Nessun altro, a cominciare da Torino, lo rammenta. Eppure il conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, nato a Torino il 25 agosto del 1869 e morto in circostanze oscure (forse un suicidio, oppure, come pure si ipotizza, addirittura un omicidio) ad Agliè (Torino) il 10 ottobre del 1904, dovrebbe essere celebrato come uno dei grandi pionieri dell’automobile. E fu soprattutto il vero fondatore della Fiat. Nel 1899 “era stato Bricherasio”, scrive Valerio Castronovo nella biografia di Giovanni Agnelli, “ad avanzare l’idea in febbraio di un moderno complesso industriale in grado di integrare le lavorazioni meccaniche a quelle di carrozzeria. Il futuro senatore Agnelli, il nonno dell’Avvocato, si era associato alla combinazione due mesi dopo”.

Nel luglio del 1899, in ogni caso, proprio nel torinese Palazzo Bricherasio il conte Emanuele e altri otto soci, tra i quali Agnelli, fondarono la Fiat. Conscio dell’importanza del momento, come racconta Donatella Biffignandi, del Centro di documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino, in un suo bello scritto sul nobiluomo, Bricherasio “commissiona al pittore Lorenzo Delleani il compito di rappresentare quell’istante, eternando i volti dei nove padri fondatori”. Gli “otto si stringono intorno alla figura centrale del Bricherasio, l’unico in posizione dominante sugli altri, l’unico ad essere vestito di bianco, mentre tutti gli altri sono in grigio o in scuro, l’unico ad essere ripreso proprio all’atto della firma. C’è chi guarda Bricherasio, come Biscaretti, c’è chi fissa lo spettatore; il più impassibile di tutti è Agnelli, che non guarda in faccia nessuno e che, seppure messo da Delleani in seconda fila e seduto, spicca per avere lo stesso atteggiamento eretto e il volto alla stessa altezza del conte Emanuele”. D’altronde, narra Castronovo, fin dall’inizio Agnelli “si era posto in luce per un certo impaziente dinamismo e per la rapidità con la quale affermava la sostanza delle questioni”.

Il conte Cacherano, rampollo di un antico casato sabaudo e amministratore di un cospicuo patrimonio fondiario, e il borghese Agnelli, figlio di un possidente agricolo di Villar Perosa, sono agli antipodi. Appassionato non solo di automobili, ma di sociologia e di scienze politiche, Bricherasio crede in altre cose: nel progresso sociale, per esempio, nell’amicizia, nei valori rappresentati dall’Arma di Cavalleria. Non nasconde nemmeno la sua simpatia per le idee socialiste, tanto che verrà chiamato il “conte rosso”. Agnelli obbedisce solamente al dio del profitto; e la posta in palio agli inizi del nuovo secolo, ossia il controllo dell’azienda, se la prende tutta, quasi subito, lui, destinato a diventare il capostipite della famiglia regnante dell’auto.

Il nobiluomo sognatore incassa, intanto, la prima delusione. Si tratta, poco dopo la costituzione della Fiat, di nominare i membri del consiglio d”amministrazione e di procedere all’assegnazione delle cariche sociali. Per queste ultime, su proposta di Roberto Biscaretti di Ruffia, la presidenza è data a Lodovico Scarfiotti, e non al conte. La “delusione di Bricherasio”, osserva la Biffignandi, “deve essere enorme. Scarfiotti non è un ingegnere, non è un tecnico, nè si è messo in una luce particolare per qualcosa. È un avvocato, e questo la dice lunga sull’impostazione che la società appena costituita intende darsi: appare prioritaria la volontà di muoversi con sicurezza in campo legale, finanziario, borsistico”. Il contrasto si acuisce quando Agnelli decide di sbarazzarsi dell’ingegnere Aristide Faccioli. Un “genio della progettazione e della sperimentazione”, che tuttavia, per Agnelli, non è in grado di guidare la produzione industriale. Bricherasio, rievoca Donatella Biffignandi, “si oppone (‘ritiene che non si possa fare a meno dell’ing. Faccioli’) ma ormai è in minoranza”.

La crescita di potere di Agnelli “non può non riflettersi in un progressivo indebolimento dei restanti consiglieri. In particolare Bricherasio, che conserva la carica di vice presidente, si limita ad interventi sporadici e poco significativi, in genere in linea con le opinioni della maggioranza; non mantiene nemmeno la stessa continuità di presenza alle riunioni. D’altra parte Agnelli fa tutto e pensa a tutto”. Siamo al tragico epilogo. Nell’ottobre del 1904, alla vigilia di un Consiglio di amministrazione della Fiat in cui Cacherano di Bricherasio aveva annunciato di voler “vedere tutte le carte”, nel castello di Agliè, ospite del duca Tommaso di Savoia-Genova, cugino del re, secondo la versione ufficiale il conte si uccide con un colpo di pistola in testa. Giorgio Caponetti ricostruirà nel romanzo Quando l’automobile uccise la cavalleria, uscito qualche anno fa, lo scenario di quella morte: una breve notizia sui giornali; e nessuna autopsia, nessuna inchiesta. Il campione di equitazione Federigo Caprilli, il solo a vedere il corpo dell’amico prima del funerale, dirà che il viso e le tempie sono intatti. Però Caprilli, agli inizi del dicembre 1907, muore a sua volta senza testimoni per una caduta da cavallo, di notte, in una via di Torino. Nell’ ottobre 1904, conclude la Biffignandi, Scarfiotti “commemora con nobili ed elevate parole il vice presidente conte Bricherasio, così improvvisamente rapito alla stima della Società, all’affetto della famiglia e degli amici. La Fabbrica e l’Automobile Club perdono un amministratore zelante e un Presidente modello”. Ma quello “zelante” è “un aggettivo forse attribuibile più ad un onesto e diligente impiegato che non a qualcuno che ha lasciato traccia significativa della sua opera”.