Le ossa finte del Caravaggio

Èarrivata finalmente l’estate. E con l’estate torna, immancabile, il tormentone del mausoleo di Caravaggio, a Porto Ercole. L’ultimo atto, andato in scena in questi giorni, rischia di essere il più surreale: il monumento, infatti, è scomparso, con tutto il cosiddetto ‘parco funerario’ che lo circondava (un’aiuola, in verità). Furto di ladri necrofili? Tiro mancino degli eterni rivali di Porto Santo Stefano? Vendetta dei pittori manieristi fuori tempo massimo? La risposta è più banale, ma non meno surreale: a far sparire urna e arbusti è stata la giunta comunale di Monte Argentario. Con la determinazione 397 del 21 maggio del 2019, infatti, l’amministrazione guidata da Francesco Borghini (espressione di una lista civica e proveniente dall’area Pd) ha affidato alla Ditta Albanesi srl “i lavori di ripristino della viabilità in Via Principe Umberto e spostamento Arca Funeraria di Caravaggio nel Cimitero di Porto Ercole”. Costo per il contribuente: 25.000 euro. 800 portercolesi avevano firmato una petizione per chiedere al Comune di non turbare il piccolo e sereno cimitero del paese con tutto quell’ambaradan: ma nulla da fare, in queste ore il sarcofago di travertino con sopra la surreale versione metallica della Canestra di frutta dell’Ambrosiana è già stata parcheggiato al camposanto, in attesa di essere sistemata.

Per capire qualcosa dell’ennesima pagina di questo delizioso romanzo a puntate della provincia toscana, bisogna tornare al 18 luglio del 2010. Quel giorno, 400esimo anniversario della morte del padre dell’arte moderna (avvenuta in effetti proprio a Porto Ercole), il brigantino di Cesare Previti entrava in porto recando un’urna di plexiglas al cui interno giacevano alcune ossa. A sorreggere l’urna era il mitico Silvano Vinceti, che da anni percorre l’Italia vendendo ad amministrazioni pubbliche ignoranti e distratte le mirabolanti ‘riscoperte’ di ossa di morti celeberrimi. Manca solo la piuma dell’arcangelo Gabriele o la testa di san Giovanni Battista bambino.

Non importa che nel caso di Caravaggio la ‘ricerca’ assomigliasse a una farsa: una bracciata di ossa prese a caso, censimento dei ‘discendenti’ dell’artista fatto sull’elenco del telefono, analisi del dna che non servivano nemmeno a dimostrare che si trattasse di ossa umane. Una messinscena da piegarsi in due dal ridere se non fosse che, nel 2014, Vinceti riuscì a convincere l’allora sindaco Arturo Cerulli (ex comunista, poi Nuovo Centro Destra) ad elargirgli 65.355,63 euro per realizzare quell’incresciosa megatomba per il falso Caravaggio, nel cuore di Porto Ercole. La delibera (un capolavoro, nel suo genere) giustificava quell’emorragia di denaro pubblico con la risonanza mediatica dell’evento: “Per questo anno è prevista l’inaugurazione del Parco Funerario Monumentale dove saranno collocati i resti ossei del pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio, con la presenza della Ccn (la Cnn, si suppone, ndr) e di altre emittenti nazionali e internazionali”.

Ma il contribuente dell’Argentario non se la cavò così a buon mercato. Un’altra delibera approvò la spesa di altri 40.000 euro tondi tondi per i “lavori di sistemazione di un’area a verde per posizionamento di un’arca funeraria in memoria del pittore Michelangelo Merisi detto il Caravaggio”. E non bastava ancora. Visto che “in occasione della prossima inaugurazione del suddetto monumento si ritiene necessario dover procedere all’acquisto di alcune pubblicazioni sulla vita dell’illustre pittore da offrire in omaggio alle autorità che presenzieranno alla cerimonia”, il Comune determinò di acquistare “200 copie del volume L’Enigma Caravaggio e 200 copie del volume Porto Ercole Ultima Dimora, tutti corredati di fascetta e segnalibro, al costo complessivo di 4.400 euro”. Manco a dirlo, il libro era di Vinceti: e d’altra parte chi altri avrebbe potuto metterci la faccia, su una storia così farlocca?

Ora, a cinque anni di distanza, a quel fiume di quattrini si sommano i 25.000 euro necessari per spostare il tutto al Cimitero: una scelta francamente incomprensibile. Perché i casi sono due: o anche questa amministrazione si beveva la favola di Vinceti, e allora lasciava tutto com’era; oppure si convinceva che c’era qualcosa di poco chiaro, investiva quei soldi in una ricerca seria e terza, e poi semmai chiedeva i danni a chi di dovere. In quest’ultimo caso, le ossa (chissà di chi) avrebbero dovuto essere rimesse da dove erano prese (l’ossario del cimitero). Il monumento, invece, avrebbe potuto essere collocato in qualche area deserta del territorio comunale: cambiandogli però il titolo, e dedicandolo all’ignoranza, alla stoltezza e alla credulità umane. L’unica scelta davvero incomprensibile è quella di non voler sapere la verità e però di agire, spendendo ancora e turbando la quiete della comunità di Porto Ercole e del suo camposanto.

Nella traccia della maturità che è stata presa da un mio libro, scrivevo che “l’esperienza diretta di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico … non ci offre una tesi, una visione stabilita, una facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci mette di fronte a un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio è infatti anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte ad un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi”. Le vere ossa di Caravaggio non le troveremo mai: accettarlo significa crescere un po’. E potrebbe perfino far risparmiare il Comune di Monte Argentario.

I penultimi contro gli ultimi

A Casal Bruciato, Casapound e Fratelli d’Italia hanno guidato le proteste dei residenti contro l’assegnazione, regolare, di case popolari ai rom. Il 6 maggio una famiglia bosniaca è entrata nell’appartamento di via Satta scortata dalla polizia. “Zoccola, ti stupro”, urlò un militante di destra verso la madre con la bambina in braccio. I genitori e i 12 figli non hanno ceduto: “Ci siamo barricati in casa e abbiamo paura di uscire”. La sindaca Virginia Raggi li sostiene. L’8 maggio, sfidando i fischi, è andata a Casal Bruciato per dire la sua: “Restano lì dentro perché ne hanno diritto. La legge si rispetta, chi minaccia di stupro dovrebbe farsi un’esame di coscienza”. Già l’8 aprile nel rione, in via Cipriano Facchinetti, alcuni manifestanti avevano protestato per una casa popolare assegnata ad una famiglia rom.

Ring di Ali, palestra dei miti “sfrattati” da Casal Bruciato

La leggenda vuole che Muhammad Ali abbia passato l’intero viaggio dagli Stati Uniti a Roma a testa bassa, abbracciato a un paracadute. Era terrorizzato dall’idea del volo: per convincerlo a partire gli hanno spiegato che avrebbe perso l’occasione della vita, la sua prima Olimpiade. Nel 1960 aveva 18 anni, si chiamava Cassius Clay. Salì sull’aereo, vinse la medaglia d’oro dei mediomassimi. Quel ring – il primo palco su cui ha iniziato a danzare davanti al resto del mondo, a dare forma al suo mito – è rimasto a Roma.

Tredici anni dopo, nel 1973, un funzionario del Coni telefona a un amico, che guida gli autobus del servizio pubblico, un compagno del Pci di una sezione della periferia Est. Gli dice: “Marcè, guarda che stiamo per buttare fuori il quadrato delle Olimpiadi del 60”. Marcello Stella si fionda lì, accompagnato dai fattorini della cooperativa Cestia. Smontano il ring, lo caricano sui camioncini e lo portano in un grande seminterrato in via Angeli, a Casal Bruciato.

È ancora lì. A vederlo oggi sembra un tappeto verde vecchio e liso. La palestra intorno non ha un aspetto epico. È un grande scantinato senza finestre, illuminato dalla luce artificiale, riempito dagli attrezzi, dai sacchi, dai ragazzi che si allenano. Non si direbbe mai che è un bene prezioso, uno scrigno di storie e memorie della città.

Si chiama “Polisportiva Carlo Levi”. Nasce all’alba degli anni 70. Prima al suo posto c’era un garage abbandonato. L’occupazione la fanno Stella e gli altri ragazzi della sezione del Pci che sta sulla stessa via, dedicata al partigiano Francesco Moranino. Allora Casal Bruciato era la periferia delle periferie, accoglieva gli sfrattati e i baraccati delle altre borgate romane: Prima Porta, Pietralata, San Basilio, Borghetto Prenestino. Una pentola a pressione di sottoproletari, famiglie reduci da anni di lotta per la casa, uomini e ragazzi che vivevano sul confine (e spesso sotto il confine) tra legalità e illegalità.

La Carlo Levi è diventata un vero centro sociale, nel senso più ampio del termine. “All’inizio non avevamo idea di cosa farci, volevamo solo aprire uno spazio. Abbiamo occupato il garage perché aveva una rampa, era accessibile anche per le carrozzelle”, dice Stella. Oggi ha 80 anni, i capelli bianchi e l’abbronzatura da primi giorni d’estate, il naso largo e schiacciato di chi qualche colpo l’ha preso, sopra quel ring, gli occhi sorridenti di chi qualche colpo l’ha pure restituito.

La sua memoria è un flusso: “Mi dicevano: ‘Marcè, vogliamo giocare a ping pong’. E io gli facevo: ‘prendete un tavolo, mettetelo là in fondo e giocate a ping pong’. Mi dicevano: ‘Facciamo judo?’. Io rimediavo gli attrezzi e si cominciava judo”. Dopo un po’ di tempo c’era tutto: dai giochi per i bambini alla sala da ballo per gli anziani. Un laboratorio di teatro dove venne pure Dacia Maraini a mettere in scena uno dei suoi spettacoli. Un corso di pittura e una piccola galleria: alla fine i quadri della gente del quartiere furono esposti accanto alle opere di Ennio Calabria e Ugo Attardi. Ma qui si intrecciano anche frammenti della Roma nera: tra le storie incredibili che hanno sfiorato la Carlo Levi c’è quella di Armando Lovaglio, il ragazzo di Casal Bruciato diventato l’assassino del “Nano di Termini”, il caso di cronaca che ha ispirato L’imbalsamatore di Matteo Garrone. Il padre lavorava con Stella, Armando si allenava qui. Prima del 1990, quel rapporto morboso con l’imbalsamatore Domenico Semeraro, le sopraffazioni e le violenze, l’omicidio e il carcere, anche Lovaglio era salito sul ring di Cassius Clay.

Nel frattempo la scuola di pugilato è diventata un’eccellenza nazionale. In questo ex parcheggio sono cresciuti i vincitori di campionati italiani ed europei: Gianfranco Rosi, Davide Ciarlante, Emiliano Salvini, Michele Orlando.

La palestra, soprattutto, è stata la colla che ha tenuto insieme i cocci del quartiere. “Abbiamo aperto le porte a chiunque: ai borghesi, ai tossici, ai figli di chi stava in galera. Non sa quanta gente abbiamo tirato fuori dalla strada”, dice Mauro, vecchio amico del “presidente” Stella, istruttore in sala pesi.

Bastano 40 euro al mese per allenarsi due volte a settimana, 45 per allenarsi tre volte, “ma poi i soldi chi li vede mai?”, ride Mauro, “l’altro giorno ci hanno portato due ragazzini di uno ai domiciliari… non ci pare il caso di andare a riscuotere. Ci sono interi condomini, palazzine sane, di gente ai domicilari qui”. Marcello aggiunge: “C’è tanto spaccio. Sempre di più”.

Casal Bruciato non è solo questo, non è la peggiore periferia di Roma. È un territorio complesso, “un quartiere di ampia stratificazione sociale, fino al ceto medio”, come scrive Walter Tocci, vicesindaco di Roma sotto Rutelli, uno di quelli nel Pd che ancora allungano lo sguardo oltre la Ztl.

I media vedono questi posti solo quando esplodono, è successo a inizio maggio: un pezzo del quartiere, guidato dai postfascisti, si è ribellato contro l’assegnazione di una casa popolare a una famiglia rom. Casal Bruciato, feudo comunista, oggi guarda con sospetto tutti, pure i poveracci. Sotto quel palazzo a dirigere l’assedio a due adulti e ai loro 12 figli c’era Mauro Antonini, capo di CasaPound in tutti i picchetti anti-stranieri di Roma Est.

Antonini si allenava nel quartiere, faceva kickboxing. Dove? Ovvio: alla Carlo Levi. La palestra rossa di Marcello Stella, un saggio sullo spirito, la bellezza e le folli contraddizioni di questa città: il ring di Ali e la Maraini, i campioni e gli spacciatori, compagni e camerati che boxano insieme.

Ora chiude: la struttura è fatiscente, nella ex sala da ballo piove dal tetto, il soffitto è ammuffito. Stella ha chiesto una mano al Comune, a cui paga un affitto poco più che simbolico da decenni: 1.800 euro. Come risposta, dice, gliel’hanno aumentato a 4.600. Secondo Mauro “qui l’unica traccia dello Stato è la burocrazia, implacabile. Nessuno ha provato a capire il significato di questo posto”. La Carlo Levi lascia Casal Bruciato e si sposta a Ponte Mammolo, un po’ più a est. La struttura sarà privata, la retta più alta. Il ring diverso.

La dermatologa: “I solari possono essere pericolosi”

L’allarme arriva (come sempre) dalla natura. Basta saper guardare, basta saper ascoltare; o basta almeno voler guardare o ascoltare. “Ci sono dei resort o comunque delle zone del Pacifico come le Hawaii, dove le creme solari sono proibite: inquinano dal punto di vista ormonale, alterano i coralli e li rendono ermafroditi. Pensi sull’uomo…”, denuncia la professoressa Maria Concetta Pucci Romano, dermatologa e studiosa, Presidente Skineco (Associazione Internazionale di Eco-Dermatologia).

La natura racconta.

Il link ambiente e salute è diventato importantissimo.

Cosa accade nell’uomo?

La natura chimica di queste creme solari trapassa la pelle, e arrivano nel sangue.

Addirittura.

È così, e non ce ne rendiamo conto, ma le conseguenze potrebbero essere gravi, e sarà da appurare.

Insomma, questo studio.

Sono stati effettuati controlli su 24 volontari, e nella totalità dei casi si sono trovate nel plasma sanguigno, elementi legati alle creme.

Quindi?

Il primo principio deve essere quelle della prudenza, poi della gradualità nell’esposizione…

Mentre?

Siamo diventati bravi a ingrassare queste multinazionali; la storia che “il miglior antiage è il filtro solare” è solo una trovata di marketing.

Proprio non è vero?

Le creme solari vanno utilizzate solo lo stretto necessario, l’invecchiamento della pelle è legato al modo sbagliato di esporsi al Sole.

Tutte?

Se uno legge la composizione dietro l’etichetta, scopre che gli elementi chimici utilizzati sono quasi sempre gli stessi.

Non cambia tra farmacia e grande distribuzione?

Muta solo il prezzo, il packaging, magari la profumazione o la consistenza; cambia il desiderio che ognuno di noi ha di farsi suggestionare. È identico il pericolo.

Allora meglio spendere otto euro che quaranta.

Di questo non c’è dubbio.

Alcuna differenza qualitativa?

Siamo sicuri di voler ospitare nel nostro circolo sanguigno molecole che potenzialmente possono interferire col nostro sistema endocrino? Allora meglio i filtri Fisici che quelli Chimici, in attesa di avere ulapprofondimenti scientifici.

Tutto questo da una crema.

Non dimentichiamoci poi che esiste il cosiddetto “effetto accumulo”, di sostanze chimiche, che è difficile da valutare.

Cioé?

In una giornata siamo a contatto con una quantità di molecole impensabile anche solo 50 anni fa: tra detersivi, profumi, inquinamento, fumo (per chi fuma), creme, senza parlare dell’alimentazione: l’effetto di questo bombardamento è arduo da comprendere perché dipende dalle condizioni di vita e dalle caratteristiche personali.

E torniamo al “principio di precauzione”…

Che dovrebbe prevedere un’unica soluzione: se c’è un dubbio del genere, bisogna rivedere la formulazione; però un capitolo a parte va rivolto al consumatore.

Poco attento.

Le multinazionali puntano sulla pessima comprensione dell’utente, mentre sarebbe fondamentale una forma di alfabetizzazione.

C’è un marchio più attento rispetto a queste valutazioni?

Qualche azienda si sta muovendo verso formulazioni sostenibili, a basso impatto ambientale e con meno chimica “chiacchierata”. Chi lo fa, lo segnala sulle sue confezioni.

Attenti al sole.

Non va demonizzato, anzi è fondamentale: il problema è che abbiamo cambiato la modalità di esposizione, oramai l’abbronzatura va raggiunta bene, evidente e subito.

Mentre…

La pelle ha bisogno di tempo, si deve abituare, e poi sa da sola come comportarsi.

E poi?

Sono importanti le sostanze antiossidanti come quelle contenute nei pomodori, nella frutta e verdura gialla , che ovviamente è di stagione, o prendere dei carotenoidi un mese prima dell’esposizione.

E poca crema.

Quando si è finalmente abbronzati abbiamo la migliore protezione possibile, basterà idratarci.

Creme, cibi e medicine: il diselgate chimico

“Le aziende chimiche hanno disatteso la legge per anni, vendendo sostanze che potrebbero causare cancro, disturbi neurologici e altri gravi problemi di salute. Come consumatori siamo tenuti all’oscuro, senza sapere se i prodotti che usiamo tutti i giorni sono sicuri oppure no”. Manuel Fernandez è il Chemicals policy officer di Bund, una grande organizzazione ambientalista tedesca che fa parte dell’European Environmental Bureau (Eeb), il Network europeo per l’ambiente. Questa agguerrita associazione ha portato avanti negli ultimi mesi una dura battaglia contro la European Chemicals Agency (Echa), l’organo che controlla se le aziende che producono o utilizzano sostanze chimiche – tra cui produttori di cosmetici, cibo, medicine, plastica – rispettino la regolamentazione europea (Reach), che stabilisce che siano i produttori o gli importatori a raccogliere informazioni sulle proprietà delle sostanze chimiche (vendute o importate oltre le 1.000 tonnellate l’anno) e a registrarle in una banca dati presso l’Echa, dopo aver completato i test di sicurezza. In realtà, la stessa Echa, lo scorso novembre, per ammissione del suo direttore Bjorn Hansen, aveva dichiarato che più di due terzi dei prodotti registrati – e quindi dichiarati utilizzabili – infrangerebbero aspetti importanti del regolamento Reach sulla sicurezza.

Il risultato nasce dall’analisi di 2.000 dei 94.000 dossier (o fascicoli) sottomessi all’Echa per 22.257 sostanze prodotte e 14.714 aziende coinvolte. L’Echa ne ha analizzati 700 trovando appunto che il 70% violava le norme di registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche. Dopo la clamorosa ammissione dell’Echa, numerose Ong ambientaliste hanno fatto pressione – parlando di un “dieselgate dell’industria chimica” – per sapere i nomi delle sostanze e delle aziende coinvolte, ma Echa si è rifiutata di pubblicarli.

A quel punto, l’associazione Bund ha richiesto accesso agli atti di un’indagine sul livello di conformità dei dossier sulle sostanze prodotti dalle aziende fino al 2014, condotta sia dalla German Environmental Agency (Uba) che dal German Federal Institute for Risk Assessment (BfR). Già nel 2015 Uba e BfR, infatti, avevano presentato alcuni risultati preliminari della loro indagine su 1.814 fascicoli, mostrando che il 58% delle sostanze non corrispondevano ai criteri richiesti. Nel 2018 il risultato finale del progetto Reach Compliance: Data Availability in Reach Registration: 32% dei fascicoli non erano conformi ai requisiti legali, mentre il 37% era definito come “complesso”, cioè da indagare ulteriormente. Bund ha richiesto al BfR i nomi delle aziende e sempre nel 2018 il BfR ha svelato le 941 sostanze chimiche non conformi, mentre i nomi delle aziende Bund li ha ricavati trovando nei database di Echa le 6.773 aziende dietro le 941 sostanze non conformi al momento dell’inchiesta. Secondo l’Eeb, “l’esposizione giornaliera a un mix di sostanze tossiche aumenta rischi di cancro, problemi riproduttivi, disordini metabolici come diabete e obesità e danni allo sviluppo neurologico. Più di 300 sostanze chimiche industriali – ha scritto Eeb – sono state trovate negli umani, mentre non erano presenti nei loro nonni. E i neonati nascono già con tracce delle sostanze”.

Poiché Echa si rifiutava di pubblicare la natura degli aggiornamenti dei fascicoli e per evitare dunque il rischio di pubblicare sostanze i cui dati potevano essere stati aggiornati dopo il 2014 (ma attenzione, “aggiornare non vuol dire rendere conforme, si aggiorna anche cambiando indirizzo dell’azienda”, precisa il Bund), la Ong tedesca ha deciso di pubblicare solo le 42 sostanze sicuramente non a norma perché facenti parte dei fascicoli non aggiornati. Tra queste ultime, ad esempio, c’è il dibutilftalato, un plastificante utilizzato in pavimenti, mobili, giocattoli, tende, calzature, cuoio, prodotti di carta e apparecchiature elettroniche e che potrebbe causare danni ai feti e danneggiare la fertilità; l’acetato di metile, usato in adesivi e sigillanti, cosmetici e prodotti per la cura personale e la pulizia: causa infiammazioni severe agli occhi e può provocare sopore e stordimenti; infine il tricloroetilene, che può causare cancro, severe infiammazione agli occhi e alla pelle ed è sospettato di provocare difetti genetici.

C’è poi l’elenco delle aziende che utilizzerebbero le 42 sostanze a rischio: ben 692. La maggior parte in Germania (169), poi in Gran Bretagna (80), in Francia (57), in Italia (49) e Spagna (42). Quando ai nomi delle aziende, “cinque delle prime 10 società chimiche globali di vendita sono implicate”, ha scritto Eeb in una nota (documenti che il fatto ha visionato): “Basf, Dow Chemical, Sabic, Ineos, ExxonMobil. E poi 3M, Henkel, Sigma-Aldrich, Solvay, Du Pont, Clariant, Thermo Fisher. Alcune aziende sono responsabili di controversie passate, inclusi Bayer (glifosato), Dow Chemical (Bhopal) e Chemours (GenX). Altre aziende note includono Michelin, BP e Endesa”. Ci sono poi “il gigante dei cosmetici L’Oréal, la ditta di alimenti e bevande Dsm e il produttore di medicinali Merck“. Vista la portata del fenomeno, Bund ha chiesto che “Echa pubblichi immediatamente nel suo database i nomi delle sostanze chimiche con informazioni carenti e i nomi delle aziende”.

Non solo: l’organizzazione tedesca chiede che Echa incrementi l’efficienza dei controlli. “Bund ha rivelato solo la punta dell’iceberg: ora è l’Echa a doverci dire il resto. Reach è la più ambiziosa regolamentazione chimica del mondo, ma conta poco se non viene presa sul serio“, ha detto Tatiana Santos dell’Eeb. Ai governi nazionali, le organizzazioni chiedono di imporre sanzioni più severe nei confronti delle aziende che violano i principi di sicurezza. “Come al solito, il problema non è la legge, ma i controlli, che funzionano a macchia di leopardo”, commenta Gianfranco Amendola, ex magistrato e docente di Diritto dell’Ambiente all’Università La Sapienza di Roma. “L’Echa deve avviare un controllo a tappeto su tutti i prodotti chimici registrati per coprire questo gap informativo”, ha detto Mauro Albrizio, Direttore dell’ufficio europeo di Legambiente e membro del board del Eeb. Anche perché, conclude Amendola, “bisognerebbe far valere il principio di precauzione: quando c’è incertezza sul fatto che una sostanza possa essere pericolosa la si deve considerare tale”.

Altro che Love boat: omicidi stupri e sparizioni sui Titanic

La vostra idea di crociera si basa sulla melensa Love boat, la serie tv Usa andata in onda in Italia su Canale 5 dal 1980 al 1990? Siete fuori rotta: l’industria mondiale delle crociere ha un grosso problema di sicurezza a bordo delle navi e di tutela delle vittime dei reati. Inoltre, con l’eccezione degli Usa, è totalmente reticente su questi aspetti. L’ultimo caso che ha sollevato l’attenzione dei media internazionali è accaduto a bordo della nave da crociera “Msc Divina” nelle prime ore dell’11 aprile scorso, durante la traversata tra Palma di Maiorca e Valencia: una diciassettenne britannica ha accusato di violenza sessuale un diciottenne italiano. Il sospetto è stato detenuto a bordo ed è poi stato consegnato alla polizia spagnola.

Un portavoce di Msc Crociere ha detto che la compagnia ha segnalato il caso alle autorità di polizia della Spagna e che la società ha assistito gli inquirenti. Ma la “Msc Divina” batte bandiera panamense e per il diritto navale è soggetta solo alle leggi di Panama. Così il giudice ha dovuto dichiararsi incompetente perché i reati avvenuto fuori dal territorio iberico possono essere perseguiti dai magistrati spagnoli solo se coinvolgono vittime o sospetti residenti in Spagna. L’italiano è stato scarcerato.

Proprio la violenza sessuale è il reato più denunciato in crociera secondo gli unici dati disponibili, quelli degli Usa. La legge americana Cvssa del 2010 obbliga le compagnie a comunicare trimestralmente i reati denunciati a bordo al Dipartimento federale dei trasporti e all’Fbi, ma si applica solo alle navi che attraccano a porti Usa. Le vittime sono per quasi tre quarti turisti: nel 2018 sono state denunciate 82 violenze sessuali, 59 contro passeggeri e 23 su membri dello staff, a fronte di 76 nel 2017, 59 su passeggeri e 17 contro il personale. Un quinto di queste colpiscono minori. I reati totali nel 2018 sono stati 121, di cui tre omicidi e otto persone scomparse: si stima che dal 2000 nel mondo 300 persone siano sparite cadendo in mare e altre 50 siano svanite durante gli sbarchi a terra. Ma i reati a bordo sono sottostimati perché molti dipendenti non denunciano. Soprattutto non sono noti ai clienti: nel 2013 il Senato Usa ha dimostrato che su 959 reati commessi in crociera segnalati all’Fbi dal 2011 solo 31 erano stati resi noti al pubblico.

Il problema è che in crociera le vittime di solito non possono chiamare il 112. La responsabilità della sicurezza è assegnata al personale della compagnia: un aspetto non irrilevante, specie se l’accusato è un dipendente. Secondo l’Organizzazione internazionale delle vittime delle crociere (Icv) dovrebbe invece essere garantito alle vittime l’accesso immediato a un telefono privato per chiamare la polizia. Il personale della nave ha poi l’obbligo di conservare intatte le prove e la scena del crimine ma la Icv sostiene che la contaminazione delle scene del crimine e la conservazione delle prove subiscono spesso il conflitto d’interessi delle compagnie di crociera, che potrebbero essere chiamate in causa dalle vittime per danni o negligenza, condizionando spesso così fattibilità ed esiti delle indagini.

Quanto all’Italia e all’Europa, non esistono dati sul fenomeno dei reati a bordo delle navi da crociera. Nei report di Medcruise, l’associazione di categoria delle crociere del Mediterraneo, le parole “reati” e “sicurezza” sono del tutto assenti. Eurostat ha risposto al Fatto che “non abbiamo specifiche statistiche sui reati commessi a bordo di navi da crociera” e l’Istat ha ribadito che “per i dati nazionali non sono stati riscontrati indicatori specifici riguardanti il luogo dov’è avvenuto il reato”.

Nonostante il suo pesante impatto ambientale, il settore è in forte crescita. Secondo i dati della Cruise Lines International Association (Clia), l’associazione di categoria che raccoglie oltre 50 società che gestiscono 272 navi e oltre 15mila agenzie di viaggio che rappresentano il 95% del settore globale, nel mondo i passeggeri sono stati oltre 28,5 milioni nel 2017 (+15,4% su base annua) e nel 2018 dovrebbero aver raggiunto i 30 milioni.

Secondo la Clia le crociere nel 2017 hanno occupato 1,1 milioni di addetti (+8,6% sul 2016), pagato stipendi per 45,6 miliardi di dollari (+10,9%) e fatturato 134 miliardi di dollari, in crescita del 6,4% dai 126 del 2016. I mari più solcati sono quelli dei Caraibi, dov’è dislocato il 34,4% del tonnellaggio mondiale, il Mediterraneo (17,3%) e il resto dell’Europa (11,1%). I principali crocieristi sono i nordamericani, con 14,2 milioni di passeggeri nel 2017 (+15,4%) e gli europei con 7,2 milioni (+23,6%), dei quali 800mila italiani, due milioni di tedeschi e 1,9 milioni di inglesi. La lobby delle crociere punta adesso allo sviluppo di programmi per attirare le turiste e in particolar modo le single: di sicuro dovrebbe offrire loro anche più sicurezza.

Grandi navi: stop a giugno, anzi no. Occorrono 5 anni

Danilo Toninelli è stato perentorio, all’indomani dello scampato disastro di Venezia: “Stop alle grandi Navi entro fine giugno”, aveva tuonato. Oggi i tempi sono un filo più lunghi: 5 anni, per aprire un nuovo varco. Nell’attesa, proseguirà l’inchino dei giganti all’ombra della Laguna. Riavvolgiamo il nastro: alle 8:30 di domenica 2 giugno, mentre l’Italia festeggia la nascita della Repubblica, 65mila tonnellate rischiano di schiantarsi sul Canale della Giudecca. La nave da crociera Opera, 275 metri targati Msc, urta il battello River Countess ormeggiato al molo di San Basilio, con 130 turisti a bordo. Il gigante, col motore in avaria, era trainato da due rimorchiatori quando un cavo d’acciaio s’è spezzato, lasciandola alla deriva. Bilancio: 5 feriti lievi, un gran sospiro di sollievo, e un esposto alla procura del Comitato No Grandi Navi. Felice Casson, ex consigliere comunale ed ex magistrato, è con loro: “La magistratura non dovrebbe limitarsi all’inchiesta sull’incidente. Le situazioni di pericolo conclamate sono dei delitti su cui indagare”. Jane Da Mosto, ricercatrice ambientale ed attivista, si chiede: “Perché sindaco e prefetto non fermano subito le navi in nome della sicurezza pubblica?”. A Luigi Brugnaro, a dire il vero, l’inchino non dispiace. Il 31 gennaio il Ministero dei Beni Culturali ha posto il vincolo paesaggistico su Canal Grande, Bacino di San Marco e Canale della Giudecca: un passo verso lo stop. I ministri pentastellati Toninelli (Infrastrutture) e Costa (Ambiente) sono d’accordo. Ma il primo cittadino si è appellato al Tar, per mandare il messaggio: sulle grandi navi decidiamo noi, mica il governo.

Lo stop nel 2012. Già 7 anni fa, all’indomani dell’inchino all’isola del Giglio di capitan Schettino, il governo Monti sbarrò Venezia alle imbarcazioni da oltre 40mila tonnellate, grazie al decreto Passera–Clini. Ma pose una condizione, e un compito per l’Autorità marittima (l’ente che gestisce il porto): “Individuare vie di navigazione alternative”. Niente da fare, e le navi continuarono a solcare la laguna. Il 13 settembre 2013 Adriano Celentano comprò una pagina del Corriere della Sera, per denunciare l’andazzo. Due mesi dopo, sull’onda delle proteste, il governo Letta fissò la scadenza: soluzione entro il 1 novembre 2014; poi, stop ai giganti. Ma il Tar lo sconfessa e dà ragione alle compagnie da crociera, nel 2015, spianando la strada alle grandi navi, anche sopra le 96mila tonnellate. Lo stop, ammonisce il giudice amministrativo, “può arrivare solo dal momento di effettiva disponibilità di una via alternativa”.

La grana Unesco. Il ministero delle Infrastrutture valuta più di un progetto. Salvini, il governatore della regione Luca Zaia (leghista) e Luigi Brugnaro vorrebbero chiudere il bacino di San marco alle navi sopra le 40mila tonnellate, per farle attraccare alla Stazione Marittima passando dal canale di Malamocco. Così, il business delle crociere è salvo. Le navi sopra le 96mila tonnellate orgmeggerebbero al porto commerciale di Marghera, vicino alle raffinerie: il progetto prevede 800 metri di banchina. Lungo la via dei petroli, occorre aprire un canale lungo 4,5 chilometri, largo 100 metri e profondo 10,5. Era l’idea dei ministri Andrea Orlando e Maurizio Lupi nel 2013, governo Letta.

Chiusura cantiere, nel 2023. Costo, secondo il Sole24Ore: 120 milioni di euro. L’idea piace all’ex sindaco Massimo Cacciari e pure all’Unesco, l’organizzazione internazione dei beni culturali. Ma il ministro Toninelli la boccia per la vicinanza con le petroliere: “Inaccettabile il rischio di collisione”. Nell’attesa, Venezia è nel mirino: l’agenzia dell’Onu minaccia di inserirla nella lista dei patrimoni dell’umanità “a rischio”. L’istruttoria è aperta dal 2017, per via delle grandi navi, del turismo di massa e della fuga dei residenti. Entro febbraio 2020, l’Italia dovrà fornire un piano per Venezia. Lino Banfi, il delegato italiano dell’Unesco, s’intende d’altro.

Il piano. Il Comitato No Grandi Navi è d’accordo con Toninelli su un punto: crociere e petroliere, meglio distanti. Del resto, il progetto della Lega e Brugnaro, non avrebbe evitato l’incidente del 2 giugno: la crociera Opera (per via delle 65 mila tonnellate) continuerebbe ad attraccare alla Stazione Marittima, a nemmeno 2 chiliometri da San Basilio, dove è avvenuto l’urto con il battello. Gli ambientalisti vorrebbero fermare la navi a Bocca di Lido, lontane da San Marco: la soluzione, proposta da Duferco Sviluppo e DP Consulting, al ministero piace ma è difficile da realizzare. Il dubbio di Toninelli è se far arrivare le grandi navi a Chioggia o a Lido San Nicolò: la scelta, entro fine giugno, coinvolgendo cittadini e addetti ai lavori. San Nicolò è in vantaggio: ma servono 5 anni, per realizzare il piano. Intanto, le navi entreranno in laguna, ma a velocità ridotta e con un rimorchiatore in più a trainarle. Tommaso Cacciari, attivista No Grandi Navi, è pessimista: “Prima fermiamo le crociere, poi troviamo vie alternative: e se Venezia non fosse compatibile con i giganti? La politica rifiuta di valutare quest’ipotesi”. Si capisce: il turismo da crociera vale 280 milioni di euro l’anno, per Il Sole24Ore. Ma i costi ambientali pareggiano i benefici, secondo lo studioso Giuseppe Tattara. Nel 2018 sono arrivati in laguna 1,5 milioni di passeggeri. E i veneziani fuggono.

Astensionisti intermittenti: quei 7,8 milioni di fantasmi

C’è un fantasma che da qualche tempo si aggira nelle urne: l’astensionista intermittente. Infatti, è ampiamente accertato che il declino della partecipazione elettorale in Italia a partire dagli anni Ottanta sia attribuibile, in aggiunta agli effetti dell’aumento del distacco tra cittadini e politica, al fenomeno in costante crescita dell’astensionismo intermittente. Nel corpo elettorale si è andata progressivamente superando la semplice dicotomia votante–non votante, sostituita da una tripartizione: “Elettori assidui”, “astensionisti cronici” e “astensionisti intermittenti” che, a loro volta, si suddividono in “selettivi” (elettori che si recano ai seggi solamente in occasione delle politiche) e “fluttuanti” (la decisione di voto non segue un criterio preciso).

Il tema del declino della partecipazione elettorale, trova spazio nei commenti post voto soltanto nell’immediatezza della chiusura dei seggi, quando non sono ancora disponibili i risultati e, in ogni caso, l’astensionismo è spesso derubricato a fattore fisiologico e strutturale delle democrazie contemporanee. Seguendo questa errata impostazione, è così passato subito nel dimenticatoio il dato di affluenza delle elezioni europee 2019 (56,1% in calo rispetto al 58,7% del 2014) che rappresenta il risultato più basso della storia repubblicana per una consultazione generale (politiche e europee). Nelle prime elezioni per il Parlamento europeo nel 1979 i votanti erano stati l’85,7%: in quarant’anni la partecipazione elettorale degli italiani è calata di quasi trenta punti percentuali (29,6%). Da segnalare, inoltre, che quest’anno negli altri stati europei vi è stata una inversione di tendenza molto diffusa che ha portato la media della partecipazione al voto nell’Unione Europea dal 43,1% del 2014 al 50,9% del 2019. Mentre cinque anni fa c’erano solamente tre stati con un’affluenza maggiore dell’Italia, adesso sono stati nove, tra cui la Germania passata in cinque anni dal 47,9% al 61,4% di votanti.

Quanti sono gli astensionisti indecisi? Per comprendere meglio i caratteri dell’area di voto intermittente è utile raffrontare i dati delle europee 2019 con le politiche 2018 (ricordando che gli italiani residenti all’Estero, nelle politiche, a differenza delle europee, sono elettori della Circoscrizione Estero). Secondo le analisi dell’istituto Cattaneo, in un anno la percentuale di votanti è calata di ben 16,8 punti, con punte di maggior astensionismo nelle regioni del Sud (-21,6), del Centro (-21,7) e del Nord Est (-15,4) e minori nel Nord Ovest e nella cosiddetta Zona Rossa (entrambe -15,4). In termini assoluti, rispetto alle politiche 2018 sono dunque mancate nelle urne le schede di 6,3 milioni di elettori. Per semplificare, 6,3 milioni di cittadini che lo scorso anno avevano votato e quest’anno hanno consapevolmente rinunciato a esercitare il loro diritto al voto.

Nel 2014 in confronto alle politiche 2013 il numero di votanti fu inferiore di 6,4 milioni (- 16,5%), mentre tra europee 2009 e politiche 2008 vi era stato un calo in valore assoluto di 5,3 milioni (-14%). È, dunque, possibile stimare l’area del voto intermittente tra i 6 e i 9 milioni di elettori, ovvero tra il 13 e il 19% circa del totale degli aventi diritto. Per dare un’idea della dimensione di quest’area, la Lega di Salvini, la grande vincitrice delle europee 2019, ha ottenuto 9,153 milioni di voti, il Pd zingarettiano 6,050 milioni e il M5S 4,552 milioni su di un totale di 26,663 voti validi. Come venne giustamente notato lo scorso anno, una componente assai significativa del successo del Movimento 5 Stelle nel 2018 fu rappresentata proprio dalla ri-mobilitazione di elettori precedentemente astensionisti, con particolare riferimento alle regioni meridionali e alle isole. Proprio il vistoso calo nella partecipazione in queste zone del paese nel 2019, ha contribuito ad accentuare la smobilitazione selettiva dell’elettorato pentastellato e a penalizzare fortemente il movimento capeggiato da Luigi Di Maio che in soli dodici mesi passa da 10,743 a 4,552 milioni di voti, con un calo di 6,2 milioni di voti.

Lo stesso M5S tra le europee 2014 e le politiche 2018 era cresciuto di 4,951 milioni di consensi, nel quadro di un aumento complessivo tra queste due consultazioni di 5,087 milioni di votanti. Dal canto suo, il grande vincitore, Salvini in un anno cresce di 3,452 milioni di voti, mentre il PD in valore assoluto sostanzialmente pareggia (meno 96.600 voti). Facendoci aiutare dall’analisi dei flussi dei voti elaborati da Swg, sui 6,3 milioni di elettori che hanno disertato le urne rispetto alle politiche 2018, circa 4,1 milioni aveva votato M5S e 1,250 Forza Italia. La Lega, invece, riporta ai seggi circa 900.000 astensionisti del 2018 e la lista unitaria del Pd 600.000, per un totale di circa 1,5 milioni.

Questi dati empirici delle elezioni europee 2019 confermano in pieno, con circa 7,8 milioni di “astensionisti intermittenti” tra 2018 e quest’anno, la stima elaborata sulla base della sola analisi dei voti assoluti. La partita delle prossime elezioni politiche, indipendentemente da quando si svolgeranno, si giocherà dunque su due piani. Vincerà chi riuscirà a mobilitare in misura maggiore il proprio elettorato tradizionale e saprà nel contempo attrarre il maggior numero di “astensionisti intermittenti”. Se, ad esempio, l’offerta politica della Lega dovesse limitarsi a convincere gli elettori che hanno votato il Carroccio alle europee, il partito di Salvini potrebbe fermarsi alle politiche ben al di sotto della quota del 30%, mentre quasi tutte le chance di recupero di Di Maio sono legate alla capacità di riconquistare la fiducia della maggioranza degli “astensionisti intermittenti”, che avevano largamente premiato il M5S nelle politiche 2018. Infine, la costruzione dell’alternativa alla destra a trazione salviniana passa, in larga misura, proprio dalla riconquista della fiducia di questo segmento astensionista: un “partito fantasma” che riapparendo nelle urne potrebbe sovvertire i pronostici della vigilia.

Il Tfr in pancia all’Inps, non c’è

Tutto comincia con una furbata del governo Prodi a fine 2006, in vista del famigerato semestre di silenzio-assenso, studiato per spingere più persone possibile nei fondi pensione. Il timore era il prevedibile ostruzionismo da parte dei datori di lavoro, danneggiati dal trasferimento del Tfr alla previdenza integrativa. Ciò li privava, infatti, di una forma di finanziamento con un costo contenuto.

Per questo la legge Finanziaria 2007 tolse manu militari alle aziende con almeno 50 dipendenti il Tfr che maturava di mese in mese, obbligandole a trasferirlo a un apposito fondo di tesoreria dello Stato presso l’Inps. Così per esse il nuovo Tfr era comunque perso: o finiva in un fondo pensione o andava versato all’Inps. Veniva meno quindi ogni motivo per ostacolare l’adesione dei propri dipendenti alla previdenza integrativa.

Risulta che nel periodo 2007-2017 siano stati versati quasi 35 miliardi nel fondo di tesoreria. Soldi inizialmente finalizzati a finanziarie infrastrutture, utilizzati invece più spesso per altri fini. Al riguardo, tirando l’acqua al mulino dei fondi pensione, Cesare Damiano in un’intervista al Fatto Quotidiano dello scorso 10 giugno, parla addirittura di un “tesoretto che doveva servire per integrare le pensioni”. Ma quando mai? Nessuna legge destinava il fondo di tesoreria alla previdenza complementare, coi rischi, conflitti d’interesse e mancanza di trasparenza che l’affliggono. Al contrario esso salvaguarda tutte le garanzie e sicurezze previste per il Tfr.

Indipendentemente dalle critiche agli utilizzi anomali delle somme versate, per il lavoratore il Tfr all’Inps non presenta aspetti negativi né tanto meno preoccupanti. È lo Stato stesso che ne garantisce la disponibilità, le rivalutazioni, ecc. secondo l’articolo 2120 del codice civile, cioè esattamente come per il Tfr in azienda.

Infuria però un’intensa attività di disinformazione, anche in Rete, per spingere i lavoratori a trasferire il loro Tfr a un fondo pensione, facendogli credere che all’Inps sarebbe a rischio, quando vale invece l’esatto contrario. Componente di tale strategia è un’opera di denigrazione sistematica dell’Inps stesso, presentato come ente decotto, inutile, costoso, inaffidabile ecc. Invece, per restare in argomento, è recente la notizia che proprio l’Inps è venuto in aiuto a chi ha perso il posto col fallimento di Mercatone Uno, mettendo subito a disposizione il Tfr spettantegli. Per il Tfr opera infatti la garanzia dell’ente di previdenza, per la previdenza integrativa no.