“Apocalypse Now” o “Easy Rider”: il Cinema nelle piazze di Bologna

Masterclass e presentazioni a cura di Francis Ford Coppola, Jane Campion, Nicolas Winding Refn. E ancora omaggi a Jean Gabin, Eduardo De Filippo, il più grande (finora) regista arabo Youssef Chahine, ai maestri del continente sub-sahariano (Cissé, Dikongué Pipa e D. Diop Mambéty), per non parlare della retrospettiva a Henry King e quelle dedicate alle produzioni “intra-belliche” della ex Repubblica Federale Tedesca e del Sud Corea. Tra registi presenti nel corpo e quelli che vivono attraverso i loro capolavori noti, meno noti o del tutto invisibili, si è aperta ieri sera a Bologna la 33ª edizione de “Il Cinema Ritrovato” (22-30 giugno), un festival formato kolossal almeno quanto il suo schermo in Piazza Maggiore. Protagoniste assolute, infatti, sono le pellicole restaurate che fanno “ritrovare” la bellezza originaria compromessa dal trascorrere del tempo. Fra gli appuntamenti imperdibili al festival diretto da Gian Luca Farinelli e da un board internazionale, le copie restaurate proiettate nelle serate gratuite di Piazza Maggiore di Easy Rider, Miracolo a Milano, Roma di Federico Fellini, Le plaisir di Ophüls e – dulcis in fundo – di Lezioni di piano introdotto dalla stessa Campion e di una nuovissima e inedita versione di Apocalypse Now presentata da Coppola in persona.

Con almeno 400 opere sparse nei cinema bolognesi ma con il suo centro negli spazi della Cineteca (luogo principe del restauro su base mondiale con il laboratorio L’Immagine Ritrovata), “Il Cinema Ritrovato” sta diventando uno degli appuntamenti principali per gli appassionati di cinema da ogni angolo del pianeta (la presenza degli stranieri nelle sale è pari e talvolta superiore a quella degli italiani) e non solo per i cinéphile duri e puri. A raccolta sono tutte le cineteche e gli archivi che celebrano la Settima Arte in quanto tale, consapevoli dell’universalità del suo linguaggio, che supera ogni confine nel tempo e nello spazio.

Temete la “sozza fama”. Parola di Leonardo

C’è un modo diverso per scoprire Leonardo, a 500 anni dalla sua morte: attraverso i suoi appunti, i suoi pensieri, i suoi aforismi. È dal qualche settimana in libreria, per Interlinea, una raccolta – curata da Gino Ruozzi – di brevi scritti del genio, accompagnati da alcuni suoi disegni celebri. Pubblichiamo alcuni tra gli scritti divertenti o significativi.

Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.

Non mi pare che li omini grossi e di tristi costumi e di poco discorso meritino sì bello strumento, né tante varietà di macchinamenti, quanto li omini speculativi e di gran discorsi, ma solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca, ché invero altro che un transito di cibo non son da essere giudicati, perché niente mi pare che essi participino di spezie umana altro che la voce e la figura, e tutto il resto è assai manco che bestia.

L’uomo ha grande discorso, del quale la più parte è vano e falso. Li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero, e meglio è la piccola certezza che la gran bugia.

L’omo ha desiderio d’intendere se la femmina è cedibile alla dimandata lussuria, e intendendo di sì e come ell’ha desiderio dell’omo, elli la richiede e mette in opera il suo desiderio, e intender nol pò se non confessa, e confessando fotte.

Chi teme i pericoli non perisce per quegli.

Chi vole vedere come l’anima abita nel suo corpo, guardi come esso corpo usa la sua cotidiana abitazione, cioè se quella è sanza ordine e confusa, disordinato e confuso fia il corpo tenuto dalla su’ anima.

Suggetto colla forma. Muovesi l’amante per la cos’amata come il senso alla sensibile, e con seco s’unisce e fassi una cosa medesima. L’opera è la prima cosa che nasce dall’unione. Se la cosa amata è vile, l’amante si fa vile. Quando la cosa unita è conveniente al suo unitore, li seguita dilettazione e piacere e sadisfazione. Quando l’amante è giunto all’amato, lì si riposa. Quando il peso è posato, lì si riposa. La cosa cognusciuta col nostro intelletto.

Li omini e le parole son fatti. E tu, pittore, non sapiendo operare le tue figure, tu se’ come l’oratore che non sa adoperare le parole sue.

Se bene come loro non sapessi allegare gli altori, molto maggiore e più degna cosa allegherò allegando la sperienzia, maestra ai loro maestri. Costoro vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche; e le mie a me medesimo non concedano. E se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente loro, non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno essere biasimati.

Sì come il ferro s’arruginisce sanza esercizio e l’acqua si putrefà o nel freddo s’addiacia, così lo ’ngenio sanza esercizio si guasta.

Quando Fortuna vien, prendil’a man salva, dinanti dico, perché direto è calva.

Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro.

Come è più difficile a ’ntendere l’opere di natura che un libro d’un poeta.

Nessuna cosa è da temere quanto la sozza fama. Questa sozza fama è nata da vizi.

El sole non si move.

Infra ’l sole e noi è tenebre, e però l’aria pare azzurra.

Altro che Odisseo: Penelope amava Antinoo (ricambiata)

La poesia ha cantato a lungo il destino di Odisseo dopo il ritorno a Itaca. Insaziato ricercatore di terre nuove, dopo che il destino l’aveva costretto a vent’anni di peregrinazioni. Dante lo pone sì tra i consiglieri fraudolenti, ma gli attribuisce una nobiltà spirituale non giustificata né dall’Iliade né dall’Eneide. Altra cosa è l’Odissea: ove scopriamo le pieghe psicologiche sottilissime d’un aspro e crudele orditore di frodi. Il capolavoro dedicato al destino finale di Ulisse è il più monumentale dei Poemi conviviali di Pascoli, e s’intitola L’ultimo viaggio. Il re di Itaca giunge morto sulla spiaggia di Calypso, e viene pianto dalla maga che l’aveva irretito ed egli aveva abbandonata. Ella è immortale; pure commenta che il non esser nati è il bene supremo.

Ma che cosa avviene davvero nel ritorno di Ulisse a Itaca? Un ritorno di vendetta e di ripresa dello scettro usurpatogli di fatto dai Proci accampatisi nella reggia, consumanti il suo e insidianti la sposa Penelope: la quale, con intatta fedeltà, lo attende. Il racconto di Omero è minuzioso; ma persino egli sulla bellissima regina appare reticente. La sappiamo solo fedele e sdegnosa del corteggiamento; e il più possibile chiusa nel suo appartamento, donde governa la casa.

Ricordo una cosa ovvia. Nel mondo antico, e vieppiù in quello arcaico di Omero, la parola era rara. Non si chiacchierava; se non ai conviti, si discorreva, e solo fra uomini. Alle donne si addiceva il tacere. E anche per gli uomini, una parola aveva un peso quasi sacrale che noi oggi a stento comprendiamo.

Ecco la premessa per leggere una piccola meraviglia letteraria che esce in questi giorni per la Marsilio (pp. 95, euro 11): La morte di Penelope, di Maria Grazia Ciani. L’Autrice è un’insigne grecista, alla quale dobbiamo delicate insieme e dotte traduzioni dei due poemi omerici. Qui scrive una storia fatta tutta di monologi, come in un romanzo del Settecento. Sono monologi interiori: perciò la voce dell’anima può espandersi ben più che se il personaggio parlasse in pubblico. Altera e distante, Penelope in segreto ha smesso di aspettare Ulisse. Vent’anni prima, lo ha visto pochissimo, essendo egli subito partito. Lo ha atteso per anni; poi addirittura spera che sia morto. L’uomo era già da giovane per lei impenetrabile e spaventoso. Nella folla dei Proci bevitori e approfittatori c’è anche il bellissimo e nobile Antinoo. I suoi monologi lo mostrano perdutamente innamorato della Regina. La particolare, fin perversa, nobiltà spirituale dei due è un capolavoro poetico della Ciani perché non confligge col fondo arcaico dell’animo loro. Antinoo non ha mai parlato con la Regina, e non l’ha vista in faccia che una volta, ché ella si ricopre di un velo. Quando siede in trono guarda davanti a sé. Pure il loro rapporto, fatto solo di sguardi è intensissimo: più che se l’eros fosse divenuto carnale. Il polytropos Ulisse si nasconde sotto veste di mendico.

L’ultima gara è quella dell’arco del Re: solo chi riuscisse a tenderlo, cosa solo a lui concessa, potrebbe avere Penelope. Travestito, Ulisse assiste. Tutti falliscono. Penelope tende per ultimo l’arco al suo Antinoo. Egli lo posa, senza nemmeno tentare il certame. Sa che subito dopo la prima freccia sarà per lui. Il diabolico polytropos aveva già tutto intuito. “Penelope non si era mossa. Ma il velo, per l’ultima volta, era caduto, e questa volta davanti a Lei non più Antinoo, ma Ulisse la fissava con i suoi profondi, impenetrabili occhi. Lo riconobbe? Non ne ebbe il tempo. L’ultima freccia la colse in pieno petto, la violenza del colpo la piegò all’indietro, la testa abbandonata, le braccia spalancate in un turbinio di veli: per un istante sembrò che stesse per spiccare il volo. Come una rondine”.

Maria Grazia Ciani è l’emula di Pascoli.

 

“Io e Sacchi a torso nudo in mezzo agli hooligans Allegri? Soffre per la Juve”

Sul pianale posteriore della macchina la guida del 2018 dedicata a Relais e Chateaux prende il sole. È vissuta, sfogliata, non è lì per caso.

Mister, lei se la gode. “Accanto c’è pure la pubblicità delle sigarette, anche se non posso più fumare”.

Giovanni Galeone è un uomo in grado di mantenere un equilibrio raro tra goliardia e cultura, autoironia e profondità; piacere e senso del dovere; una spiccata passione per le donne, e se racconta dell’ultimo concerto di Mina, quello leggendario alla Bussola di Viareggio, non parla della performance canora, “ma delle sue gambe strepitose”; e poi non è banale neanche sui libri, non finisce sul solito Soriano, “perché amo più i francesi”; un uomo che quando entra nel ristorante preferito di Pescara (“qui da Michele vengo da 33 anni”), discute brevemente su quale vino stappare, perché il padrone di casa non si avventura in troppe repliche: “Giovà, tanto ne sai più di me, sei come un sommelier”.

A 78 anni non intende più allenare, e non è una questione di età, “ma solo perché oramai non c’è alcun rapporto vero con i giocatori: oggi se ne rimproveri uno o non lo schieri tra i titolari, mica ti viene a parlare, a cercare delucidazioni. No. Manda il procuratore a rompere le palle”. Non teme l’aspetto nostalgico: “Il calcio di trent’anni fa era più bello”, e non si riferisce solo a schemi di gioco, o protagonisti, bensì a storie da raccontare, persone da crescere, altre con le quali poter condividere anche sigaretta e caffè alla fine del primo tempo. O sorridere e stupirsi come è accaduto raramente in Serie A, pochi casi, quasi tutti finiti nel mito, come il Genoa di Bagnoli, la Roma di Liedholm (“lui è il maestro”), il Parma di Sacchi (“sia ben chiaro: Arrigo è arrivato dopo”), o il suo Pescara, protagonista negli anni Ottanta di leggende e promozioni, calciatori scoperti e altri sottovalutati, oggi immortalato da Lucio Biancatelli nel libro Poveri ma belli: il Pescara di Galeone dalla polvere al sogno. In quel Pescara giocavano Massimiliano Allegri e Gian Piero Gasperini, e in carriera ha allenato Marco Giampaolo; in sostanza tre big della Serie A sono suoi figliocci o quantomeno allievi.

Viene trattato da mito.

È un po’ esagerato.

Ne è certo?

Ci sono anche altre squadre che non hanno ottenuto i successi e l’attenzione che meritavano, eppure hanno cambiato la storia del calcio.

Tipo?

Corrado Orrico ha applicato pressing e zona anni prima di Arrigo Sacchi e il Bari di Enrico Catuzzi (1982) era uno spettacolo, ma nessuno cita questo disgraziato che è pure morto.

E lei?

Ribadisco: non sono il solo e ho la fortuna di una vita divertente e vissuta nel calcio.

Da che età?

A 16 anni sono andato via di casa, e già giocavo nella Nazionale Juniores, una squadra formidabile, con dentro Enrico Albertosi, Mario Corso e Giovanni Trapattoni.

Ma i suoi erano contenti?

Non importa, sono andato e basta; poi quando mio padre veniva a Trieste per trovarmi, e giocavo già nell’Udinese, palesava sempre lo stesso cruccio: comprarmi una casa, o darmi dei soldi.

Rifiutava?

Non ne avevo bisogno e non mi sembrava giusto.

Guadagnava.

Anche mio padre stava bene: era ingegnere, dirigente all’Ilva e vivevamo a Napoli; progettava gli altiforni.

Sperava nel figlio ingegnere.

Mai nella vita, per fortuna aveva un altro maschio; comunque viaggiava molto, costruiva impianti: è in mezzo al disastro di Taranto, l’altiforno lo ha creato lui, il primo in Europa a colata continua.

Insomma, viene da una famiglia molto borghese.

Mio padre liberale, credeva in Giovanni Malagodi (segretario dal 1954 al 1972); mamma era nostalgicamente monarchica, cresciuta nei salotti partenopei, e a casa, quando avevo dieci o undici anni, si leggeva Il Borghese, o i libri di Julius Evola o Giovannino Guareschi.

Le interessavano?

La mia vita andava verso altri lidi, e nessuno mi ha inibito.

Cioè?

Preferivo stare in strada con chi aveva meno di me, e se potevo davo una mano.

Se n’è andato a 16 anni…

Sì, e quando le persone mi dicevano e dicono “come sei stato bravo”, da sempre sento un po’ di fastidio.

Perché?

Avevo il culo parato con il paracadute dei miei; quindi non ci vuole coraggio, sarei potuto tornare a casa sempre e accolto con amore.


Quindi, a Trieste.

Non vivevo in un quartiere centrale, ma a Servola, dove spesso arrivavano i profughi slavi, in particolare dall’Istria, e le scritte erano ancora bilingue.

Come si trovava?

Una meraviglia, grandi giocatori, bravi in ogni sport, gente con cultura e tradizione, allora motivate dalla fame patita; mentre quelli di città non li cagavamo.

La politica l’interessava?

Più il sociale, mi ha sempre affascinato la realtà delle persone, le loro storie; quando vivevo a Trieste, arrivavano camion pieni di carbon coke da scaricare all’Ilva, e subito si ammassavano le donne per caricarne sacchi, e accendere il fuoco.

Ciò la colpiva.

Sì, perché a casa avevo la luce elettrica e la possibilità di spendere; se non sei un cretino devi avvertire l’evidente disuguaglianza.

Si sentiva in colpa?

No, venivo da una famiglia splendida, papà mi ha rifilato solo uno schiaffo.

Per?

Forse un brutto voto a scuola, ma non ricordo bene; ma dopo il ceffone mi sono chiuso in bagno e ho spaccato lo specchio con un pugno: ero furioso con me stesso.

Quando ha scoperto i libri?

Da ragazzo leggevo molto, ne sentivo il bisogno, amavo i gialli e i francesi.


Dicono che portava Prévert in panchina…

Leggenda sbagliata lanciata da non so chi: Prévert è noioso, il mio calcio allegro.

Ha mai manifestato?

Un paio di volte, e ho preso delle randellate.

Per cosa?

Contro un comizio di Giorgio Almirante a Udine; per sfuggire mi sono rifugiato in un portone; in un’altra situazione mi hanno caricato su una camionetta della polizia.

Il suo rapporto con i calciatori.

Gli lasciavo tutta la libertà.

Potevano uscire la sera?

Non erano affari miei.

Se andavano a donne?

Non me ne fotteva niente. E lo dicevo pure a Luciano Gaucci: “Guarda, non sono un guardiano di mucche”.

Sesso prima della partita.

Non sono mai stato in grado di organizzare il mio, figuriamoci quello degli altri.

Donne cacciate dal ritiro?

Mai, anche perché non ci andavo. Mangiavo fuori.

Un divieto?

Mi infastidivano i telefonini, era il periodo delle scommesse, temevo ci cascassero.

L’allenatore è un guru.

Forse qualcuno, io no; non credo neanche Allegri, e poi oggi i giocatori fanno quello che vogliono, hanno un potere contrattuale esagerato, non rispettano più i ruoli, e magari come con Icardi pretendono di parlare con il presidente.

“Giampaolo è un secchione”, ha dichiarato.

È un ragazzo molto attento, e a voler essere critici, non è un talento puro per il ruolo di allenatore, però è uno che si informa, studia, cresce e legge abbastanza bene le partite.

Allegri?

Max è uno raro.

Ha un debole per lui…

(Ride) Non è così: con Gasperini mi sono scontrato più di una volta, eppure lo considero un genio, e quando mi dicono “Gasperini ha imparato da lei”, rispondo che sono io ad aver appreso da lui.

Addirittura.

Non sbagliava un movimento, giocava sempre a culo in avanti; poi s’incazza, carattere terribile, ma bravissimo.

Allenatore già in campo.

È fondamentale, solo chi gioca può capire veramente la partita, e anche in questo Allegri era il numero uno.

Collovati sostiene che il calcio è solo per uomini.

Stupidaggine, ed è una tesi di Bettega, solo che a lui nessuno ha mai osato replicare.

Non sia mai.

Era Juventus-Milan, palla al centro, pronti via, riceve Rivera, arriva Tardelli e gli rifila un’entrata terribile; a fine match domandano a Bettega un giudizio, e lui: “Il calcio non è da signorine”. Oggi sarebbe stato massacrato.

Il Mondiale femminile lo guarda?

No perché non lo conosco, non riuscirei a valutarlo.

Le dichiarazioni dei calciatori sono spesso banali…

Da vent’anni è così, da Sacchi in poi.

Stuzzica sempre Sacchi.

Non è vero, nel 1988 sono stato l’unico allenatore invitato alla sua festa scudetto.

Vi conoscete da una vita.

Insieme già al corso di allenatori; ogni tanto mi lancia qualche pugnalata, io rispondo (prende il cellulare e divertito mostra le loro discussioni).

Che vi scrivete?

Nell’ultimo esordisce con “Caro Giovanni, ti ho sempre stimato e sempre considerato un amico…”. Ho risposto: “Arrigo l’ho sempre saputo e nel peggiore dei casi sperato”.

Si diverte.

Lui si incazza, però sono stato con Arrigo nelle due finali di Coppa Campioni vinte nel 1989 e 1990 e pure sugli spalti agli Europei del 1988; anzi nel 1990 dopo la partita e post cena, siamo rimasti fino alle 6 del mattino con Berlusconi a parlare di moduli: “Arrigo, lei mi consente”.

Ne capiva?

Ogni tanto le sue formazioni erano di 12 elementi.

Insomma, agli Europei?

Andiamo da Valentini (storico dirigente Figc) e gli chiediamo due biglietti per assistere a Olanda-Inghilterra. Li trova. “Tranquilli, posti ottimi”. Macché! Entriamo allo stadio e finiamo in mezzo agli hooligan inglesi, Arrigo preoccupato: “E ora?”. Lo guardo e lo rassicuro: “Stai tranquillo, togli la maglietta e fingi”.

A torso nudo?

Tutto il tempo, e mi rompeva su un giocatore. Fissato.

Chi?

Impazziva per l’attaccante inglese Gary Lineker, lo voleva, e io: “Hai Van Basten, cosa te ne fai di questo?”.

Un suo ex attaccante, Mario Jardel, ha dichiarato la sua vecchia tossicodipendenza.

Povero. Però aveva una bella moglie.

Oltre la moglie?

Con lui in campo, spesso era come giocare in dieci.

È capitato spesso di calciatori con problemi?

Ogni tanto, uno pure bravo: arrivava la mattina al campo completamente fiacco, annebbiato. Sicuro si faceva.

Cosa non tollera?

L’ipocrisia e la menzogna.

Sarri è stato disonesto nell’accettare la Juventus?

Fa un po’ di casino, non è preparato per certe situazioni; quando l’anno scorso leggevo alcune dichiarazioni, riflettevo se fossero opportune.

Come?

Anche questa voglia di apparire di sinistra, troppo; Giampaolo non ne parla mai, eppure era bertinottiano, uno di Rifondazione, infatti ora Berlusconi gli vuole parlare (e scoppia a ridere).

Cosa si diranno?

Marco non resta zitto, non è uno che si fa scivolare le cose addosso come Max…

Pure Allegri ha carattere.

E della Juve ci è rimasto male, si è sentito tradito, dispiaciuto in particolare per Andrea Agnelli. Non ha superato l’addio; e sono anni che gli consiglio di andare via. Comunque con Ambra è contento.

Bene.

Sa stare con uno come lui, quando viene circondato dai fan non si scoccia, resta in disparte e osserva col sorriso.

La Juve non la sopporta.

Dal 1958.

Un sentimento recente…

Giocavo a Coverciano contro la Nazionale A, noi ragazzi rispettosi dei grandi, emozionati evitavamo ogni contatto, eppure Giampiero Boniperti alzava continuamente il braccio e chiamava “fallo”.

Ahi.

Prepotenza da padroni.

Lei alla Juventus?

Non mi avrebbero mai chiamato, mentre mi sarebbe piaciuto andare alla Roma di Dino Viola o al Napoli di Maradona, invece ho perso sia l’una che l’altra; il Napoli per colpa di Moggi e Ferlaino.

Ha avuto presidenti particolari, come Gaucci.

Mai visto uno così generoso, impressionante, elargiva soldi a tutti, in particolare ai giocatori. E non mi ha mai chiesto una formazione.

Lei e le donne.

Sono solo favole.

Sicuro?

Come per Max, solo favole. Anzi, lui non sa neanche cosa sono le discoteche, ed è un’impresa dargli il secondo bicchiere di vino.

Cosa sognava da ragazzo.

Ancora oggi sogno di giocare a calcio; mai da allenatore.

Il suo mito?

Luisito Suarez.

Un amico?

Gianni Mura. Usciamo e beviamo le nostre bottiglie di vino, poi scattano le gare mnemoniche, anche con altri; uno fortissimo era Giorgio Faletti, sapeva tutto. Ah, secondo Gianni non capisco nulla di portieri e Amarone.

Ha ragione?

Sì. Mi piaceva solo Angelo Peruzzi. La prima volta che l’ho visto in allenamento era un ragazzino, con quattro o cinque “senatori” della Roma che gli tiravano delle bordate (pallonate). Lui niente. Li sfidava. Gli andava sotto e con modi spavaldi li invitava a continuare.

Tra Messi e Ronaldo?

Messi tutta la vita.

In Italia?

Ho amato Totti, ma chi mi ha impressionato è Cassano: eccezionale, in allenamento spiazzava tutti, uno spreco, e poi è ruffiano, quando incontra qualcuno sono baci e abbracci.

Tabù: i gay nel calcio.

Ci sono, oggi più di ieri.

Altro tabù: il doping.

Quando giocavo ci rifilavano di tutto, ed era normale.

Un rimpianto?

Io? (Sorride con occhi e labbra, e i suoi occhi e le sua labbra hanno l’età dei sogni, quando giocava a pallone). Mi sono divertito…

Twitter: @A_Ferrucci

“Io, sindaco zingaro e rumeno contro l’Afd”

Una cittadina tedesca al confine con la Polonia ha tenuto con il fiato sospeso per due settimane l’intera Germania: Goerlitz. Appena 50 mila abitanti, set di numerose produzioni hollywoodiane come Inglorious Bastard o Gran Budapest Hotel, qui il partito di estrema destra Alternative für Deutschland ha avuto un exploit al primo turno delle Comunali del 26 maggio, raggiungendo il 36 per cento dei consensi e diventando un caso: ha rischiato di essere la prima città tedesca in mano dall’Afd. Al secondo turno del 16 giugno invece il colpo di scena. Il candidato originario di Bucarest, Octavian Ursu, 51 anni, del partito conservatore Cdu, ha ribaltato il risultato, raggiungendo il 55,2 per cento dei consensi con una larghissima alleanza diventando il nuovo sindaco.

Come mai l’Afd è così forte all’Est e a Goerlitz?

Nei Laender dell’Est c’è delusione per come sono andate le cose in questi ultimi 30 anni. Non c’è stata la necessaria accelerazione, ad esempio progetti infrastrutturali importanti come la connessione ferroviaria veloce per Dresda e per Berlino che ci sono ancora. Poi ci sono le paure sul futuro, per esempio c’è la discussione sull’uscita dall’economia basata sul carbone. A Goerlitz se ne sono andate in questi anni 30 mila persone, soprattutto giovani, per via della deindustrializzazione che ha colpito il territorio.

Come è riuscito nell’impresa di mettere insieme partiti diversi, dalla sinistra della Linke ai liberali, dai conservatori ai socialdemocratici?

Conoscevo tante persone di quei partiti perché sono già da dieci anni consigliere comunale qui a Goerlitz e abbiamo avuto modo di lavorare insieme. Dopo la prima tornata elettorale ho avuto colloqui con tutti: verdi, Linke, liberali, Freie Waehler. Ho preso il programma e ho detto: ‘qui dentro ci uniscono più cose di quelle che ci dividono’. E alla fine si sono convinti.

Qual è la sfida più grande?

Per prima cosa voglio riconquistare quelli che non mi hanno votato e convincerli che io sono davvero il candidato giusto e lo voglio fare con i fatti, con i buoni progetti. Riunire tutti è la sfida più grande.

Goerlitz può essere un esempio per l’Est della Germania?

Non posso dire una cosa del genere, ma certo per noi era importante che le elezioni andassero nella direzione in cui sono poi andate, e non per me, ma perché alla fine era in gioco la reputazione di Goerlitz come città europea. Noi abbiamo da 20 anni una cooperazione con la parte polacca ed era importante continuare a mantenere la percezione di una città che sta in Europa e non vive in isolamento.

Quanto ha inciso la sua provenienza straniera sulle elezioni?

Sono arrivato a Goerlitz trent’anni fa da Bucarest nel 1990 per suonare nell’orchestra del teatro della città come trombettista solista e sono rimasto. Da 25 anni sono felicemente sposato qui. In campagna elettorale ci sono state dichiarazioni pesanti sulla mia provenienza e anche insulti da parte dei miei oppositori. Prima hanno volutamente messo da parte la mia esperienza decennale come consigliere comunale e poi di consigliere regionale da 5, poi mi hanno dato del trombettista rumeno. Sui social mi hanno dato dello zingaro rumeno che si candida contro il poliziotto di Goerlitz (ndr: il candidato dell’Afd era un poliziotto). Certamente con lo slogan ‘Goerlitz a uno di Goerlitz’, volevano dire implicitamente che non sono della città. Ma nella politica è ritornato un po’ questo atteggiamento, no? Non per questo bisogna accettarlo, ma va sempre ribadito che l’insulto non è accettabile.

Star del cinema di Hollywood hanno firmato un appello perché la città non scegliesse un sindaco Afd. Vi ha aiutato?

Non si sa mai quanto possa essere d’aiuto un appoggio dall’esterno. Ma Hollywood non è stata la sola a essere intervenuta. C’è stato un grande endorsement da parte del mondo dell’economia, non direttamente in mio favore ma per ‘una società aperta’.

I duri e puri dei Gilet gialli tornano sulle autostrade

I Gilet gialli sono tornati al loro primo amore: i caselli autostradali e le rotatorie. Per il 32° sabato consecutivo della contestazione – 11.800 presenze secondo il ministero dell’Interno, di cui 1.100 a Parigi – ieri, quel gruppo di manifestanti che dopo sette mesi di lotta sociale non si arrende, è tornato a bloccare le strade periferiche e le autostrade o a confluire a sorpresa nei centri urbani, proprio come facevano all’inizio della protesta, nel novembre 2018. I Gilet hanno risposto a un appello lanciato due giorni fa da Eric Drouet, una delle figure “storiche” del movimento, che in un video girato nella cabina del suo camion e postato su Facebook ha detto: “Se vogliamo farci ascoltare, le manifestazioni e le marce dichiarate non servono a nulla”.

Per Drouet bisogna insomma tornare a “dare fastidio” e insieme a Jérôme Rodrigues, il gilet che ha perso un occhio in uno scontro con la polizia, è andato a bloccare il casello di Senlis, nella regione parigina. Il ritorno alla vecchia tattica basterà per rilanciare il movimento? Settimana dopo settimana, il “rito” si ripete e i Gilet tornano con le loro rivendicazioni e gli slogan anti-Macron, ma sono sempre meno numerosi. Tanti francesi non giustificano più la protesta da quando il governo ha fatto delle concessioni alle classi più in difficoltà e ai pensionati. Per l’atto 31, sabato 15 giugno, solo 7.000 manifestanti erano stati contati in tutta la Francia. I Gilet avevano tentato di fare di Tolosa la loro “capitale”, senza riuscirci: il corteo, con alcune centinaia di persone, era stato disperso dalle forze dell’ordine pochi minuti dopo essere partito. Ieri invece, a Tolosa, i Gilet sono andati a bloccare il casello della A62, alle porte della città, e l’ingresso di un centro commerciale a Blagnac, vicino all’aeroporto. A Saint-Malo è stato bloccato il porto e l’imbarco dei traghetti per l’Inghilterra. A Disneyland Paris sono state organizzate operazioni “parcheggi gratis”. A Belfort i gilet si sono riuniti davanti alla fabbrica della General Electric per protestare contro il piano di licenziamenti. Tra loro, con addosso il gilet fluorescente, c’era anche il leader della sinistra radicale, Jean-Luc Mélanchon. Per rilanciarsi i Gilet tentano ora un’altra mossa.

In un “manifesto” pubblicato sul profilo Facebook di Rodrigues, e firmato anche da Priscillia Ludosky e Maxime Nicolle, si annuncia la creazione di un “potente organo di contestazione collettivo che non potrà essere ignorato e che difenderà gli interessi dei cittadini e i beni comuni”. I Gilet, che hanno sempre rifiutato leader e etichette, e che vogliono restare apolitici, intendono dunque rinnovarsi e affermarsi come “contro-potere”. Lanceranno, è scritto sul testo, i propri “organi di controllo cittadini”, i propri “media, circuiti di approvvigionamento agroalimentare e istituti di risparmi etico”. Si elencano inoltre le prossime iniziative fino a novembre. Ma finora tutti i tentativi di organizzarsi sono andati a finire male. Il mini partito di Jacline Mouraud è fallito. Ingrid Levavasseur ha dovuto ritirare la candidatura alle Europee di maggio sotto le minacce. E la lista “gialla” del cantante Francis Lalanne, boicottata dagli stessi Gilet, aveva finito per raccogliere nello scrutinio per il Parlamento Ue solo lo 0,1% dei voti.

La scrittrice: “The Donald mi stuprò”

Si chiama E. Jean Carroll, 75 anni, famosa negli anni 90 per una rubrica in stile “posta del cuore” su Elle ed autrice di diversi libri, l’ultima accusatrice del presidente Donald Trump: Carroll sostiene di aver subito molestie sessuali. L’aggressione sarebbe avvenuta nel 1995, quando Carroll incontrò Trump, allora un famoso immobiliarista, nei magazzini Bergdorf Goodman, sulla sulla Fifth Avenue. Secondo la sua versione Trump la riconobbe e, facendo riferimento alla sua rubrica sul magazine, le chiese un consiglio per un regalo da fare a una amica, e finirono nel reparto di lingerie. Quando i due arrivarono vicino ai camerini, Trump divenne violento e le mise le mani addosso: Carroll a chi le ha chiesto perchè abbia aspettato più di venti anni per denunciare, ha detto che aveva paura dell’umiliazione pubblica. Nonostante già una decina di donne nel tempo abbiano accusato Trump di molestie o abusi, la giornalista ha affermato di non essere uscita allo scoperto “per paura di ricevere minacce di morte, di essere portata via da casa sua, di essere licenziata, di essere infangata” .Per il presidente si tratta di “fiction”: “Non ho mai incontrato questa persona nella mia vita. Sta cercando di vendere un nuovo libro, agisce così solo per questo”. Il presidente inoltre insinua che si possa trattare di una mossa politica e che la donna, che ha rivelato i contenuti del suo ultimo libro sul New York Magazine, possa agire per conto del Partito Democratico: “Chiunque abbia informazioni di questo tipo ci informi subito”, afferma il tycoon.

Altro che Pentagono. Usa-Iran, Trump si fida solo del “Tucker show”

L’uomo che ha sventato in extremis una rappresaglia anti-iraniana e, forse, almeno per il momento, una guerra nel Medio Oriente è un giornalista: Tucker Carlson, conduttore di talk show e opinionista conservatore, elemento di riferimento della Fox, che è la tv di riferimento del presidente Donald Trump.

Sposato, quattro figli, 50 anni, Tucker Swanson McNear Carlson ha sempre pensato e sostenuto che gli Stati Uniti debbano pensarci due volte prima di intervenire militarmente all’estero; e non è certo che l’Iran sia responsabile dei recenti attacchi contro petroliere nello stretto di Hormuz e nel Golfo di Oman.

Trump lo ascolta e lo segue. Giovedì pomeriggio, mentre il presidente Trump riceveva i giornalisti nello Studio Ovale, insieme al premier canadese Justin Trudeau, Carlson sarebbe apparentemente riuscito a instillargli un dubbio sull’opportunità della ritorsione. Esordiente a The Weekly Standard, Carlson è stato alla Cnn dal 2000 al 2005, come ‘voce di destra’ del programma Crossfire, e quindi alla MsNbc. Dal 2009 è analista politico della Fox e dal 2016 conduce un suo talk show serale.

La ricostruzione di quanto sia avvenuto e di che cosa, o di chi, abbia davvero convinto il presidente a sospendere la ritorsione dopo l’abbattimento di un drone 10 minuti prima dell’ora X, è controversa. Secondo Daily Beast, il parere di Carlson è stato determinante, nonostante Trump si sia circondato di ‘falchi’ che predicano la guerra all’Iran, come il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton o il segretario di Stato Mike Pompeo.

Il presidente ha più volte affermato di non volere la guerra all’Iran, anche se l’escalation innescata dalla sua Amministrazione, con la denuncia dell’accordo sul nucleare e il ripristino e l’inasprimento delle sanzioni, rischia di condurre la regione a un punto di rottura. La stampa americana prova a spiegare le ripetute contraddizioni di Trump sull’Iran, fino al cambio di decisione repentino di giovedì. Karen von Hippel, una ex consulente del Dipartimento di Stato, sentita dai media, ritiene “ovvio che qualcuno gli abbia parlato”: “Difficile dire se sia stato Carlson o il premier Trudeau”, la cui influenza su Trump s’è però rivelata in passato modesta. L’episodio accende una luce su una ‘gara d’influenza’ sul magnate in atto alla Fox tra Carlson e Sean Hannity. Giovedì, Hannity, amico di Trump da molto tempo, invitava gli Stati Uniti “a scatenare un inferno di bombe in Iran”: “Bisogna mandare un messaggio forte che chi se la prende con gli Stati Uniti d’America paga un prezzo pesante. La pace si ottiene con la forza”. Invece Carlson, lunedì scorso, aveva dedicato un segmento del suo show a contestare le fragili prove date dall’intelligence statunitense sulle responsabilità dell’Iran nell’attacco a due petroliere nel Golfo d’Oman: aveva criticato “le malriposte certezze” di Pompeo e fatto un paragone con l’invasione dell’Iraq nel 2003 basata su false asserzioni. “Ne stiamo ancora pagando il prezzo”, aveva ricordato. Ieri, Trump ha preannunciato un ulteriore inasprimento delle sanzioni contro l’Iran e ha avvertito che “l’opzione militare resta sul tavolo”. Per il presidente, “le sanzioni colpiscono e colpiranno l’Iran duramente: sono in una situazione economica disastrosa. L’Iran – aggiunge – non avrà mai la bomba atomica … Quando saranno d’accordo su questo, diventerò il loro migliore amico”. Il paradosso è che, nel 2015, Teheran firmò un accordo in tal senso, che ha finora rispettato, ma che è stato denunciato proprio da Trump, che ora dice: “Facciamo una nuova intesa, Let’s make Iran great again … Se rinunciano all’atomica, saranno di nuovo un Paese grande e prospero”.

Le convergenze Cgil-industriali e altre cose a cui ci si può abituare

Noi, che siamo sempre stati fedeli alla linea, facciamo fatica ad abituarci: e, con questo, s’intende a ritrovare sempre la Cgil di Maurizio Landini, quello che avrebbe rifatto rosso il sindacatone, insieme a Confindustria. E passi per l’appello congiunto al voto “europeista” alle Europee. E passi pure che il sindacato di Corso d’Italia sia contrario al salario minimo da 9 euro lordi all’ora perché – dice – meglio garantire a tutti la copertura di un contratto nazionale (“in Italia c’è una questione salariale grossa come una casa”, sostiene Landini, e non si capisce come sia potuto accadere sotto la vigilanza così occhiuta della Cgil). Ieri, però, abbiamo scoperto che pure sull’ex Ilva – e in particolare sullo “scudo penale” per i nuovi proprietari, abolito a partire da settembre nel decreto Crescita – Landini sta con Confindustria: “Gli accordi che si fanno vanno rispettati e questa era una delle clausole convenute per la vendita dell’Ilva”. Secondo il segretario, insomma, ArcelorMittal “potrà avere la responsabilità di quello che fa nel momento in cui gli impianti li avrà messi a norma, cioè dal 2023”. E mica si fa così, che ritieni penalmente responsabile per quel che fa – non per il passato, che non gli può essere imputato – uno che mette i soldi. Come dice Salvini, a un investitore estero “dovresti agevolarlo e devi dirgli grazie”. E se muore qualcuno, dentro o fuori l’acciaieria, pazienza: non si può avere tutto, solo lo scudo penale. E vabbè, vorrà dire che, dopo il ministro, ci abitueremo anche ad avere il sindacato dello zio Tom.

Disfatta a Taranto per grandi giuristi, industriali e politici

La storia dell’immunità penale per i manager dell’Ilva di Taranto, introdotta dal governo Renzi e adesso eliminata dal governo Conte, è l’ennesima prova della bancarotta culturale di tutta la classe dirigente. La politica derapa sulle polveri dell’acciaieria dai tempi del governo Monti, ma Confindustria, sindacati, alti burocrati e grandi giuristi da sette anni si mettono in posa per un’inquietante foto di gruppo in cui ciascuno mette il broncetto per sembrare vittima offesa, mentre la vicenda dimostra la vigliaccheria e l’inadeguatezza di tutti. Se usciamo dai pizzini in codice e dalle tirate demagogiche vediamo la semplice e drammatica realtà. A Taranto c’è la più grande acciaieria d’Europa che da sempre inquina. Da 40 (quaranta) anni i magistrati che si sono succeduti tra Mar Grande e Mar Piccolo fanno il loro dovere aprendo fascicoli penali per il reato di inquinamento. Nel 2012 hanno messo sotto sequestro gli impianti. I più gentili li hanno chiamati talebani, ma i giudici non potevano fare altro: da decenni il reato veniva reiterato a dispetto di più condanne specifiche definitive.

Per sette anni i governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte ci hanno girato intorno. Perché l’Ilva smetta di inquinare servono anni di ristrutturazione degli impianti, durante i quali fermare l’acciaieria significa ucciderla. Ci sono due possibilità: chiudere l’Ilva; oppure consentirle di inquinare ancora mentre si completa la cosiddetta ambientalizzazione. Si è scelta la seconda strada, consapevoli che produrre acciaio spargendo veleni su Taranto continua a essere un reato. Legge alla mano, il dovere dei manager sarebbe di fermare la produzione che inquina.

Il governo Renzi ha così inventato nel 2015 l’immunità penale. Alcuni dirigenti dell’Ilva l’hanno opposta al Tribunale di Taranto che ha in piedi tre procedimenti per inquinamento da diossina, Pm10 e benzene. Il gip Benedetto Ruberto ha rimesso il quesito alla Corte costituzionale: è legittimo che il governo autorizzi qualcuno a commettere reati stabilendo a priori che le sue condotte, qualora prese in esame, “costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale”? A occhio e croce la Consulta dovrà rispondere che secondo l’articolo 3 della legge fondamentale “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”. I Padri costituenti hanno infatti pretermesso l’esimente siderurgica, che avrebbe dispiegato la sua grande utilità economica e sociale di lì a soli 70 anni.

Perciò siamo daccapo. La mossa del subgoverno M5S di abolire l’immunità penale è l’ennesimo trucco propagandistico per rinviare il problema. Ancora peggio l’incredibile mozione di controbilanciamento con cui il subgoverno Lega si impegna a “verificare la coerenza” della norma con le “prospettive di crescita aziendale e di mantenimento dell’attuale livello occupazionale”. Infatti il colosso ArcelorMittal manifesta costernazione: è con questo governo bicefalo che ha fatto gli accordi per salvare l’Ilva di Taranto con l’implicita autorizzazione a continuare a inquinare fino al 2023, quando l’ambientalizzazione dovrebbe essere completata.

In tutto questo casino una cosa colpisce più di tutte. In sette anni non c’è stato professore di diritto, giudice costituzionale, consigliere di Stato, magistrato, capo di gabinetto, capo del legislativo, segretario generale di questo e quest’altro che abbia lavorato a una decente soluzione giuridica per un problema oggettivamente complesso. Evidentemente erano tutti impegnati, nel loro ripugnante mercato, a scambiare sentenze con carriere, tutt’al più a studiare nuove norme contro le intercettazioni.