In troppi sono ancora affamati di cibo, ma tutti abbiamo fame di vita

In quel tempo, Gesù prese a parlare loro del Regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”. Gesù disse loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente”. C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: “Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa”. Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste (Luca 9,11b-17).

Il Corpus Domini è la solennità che ci riporta alla memoria il giovedì santo! È un invito a fermarsi per contemplare il mistero che alimenta la fede cristiana e la rende vivacemente presente nel mondo dei poveri, degli ultimi. L’Eucaristia è il dono di Dio fatto all’umanità mediante la via della Chiesa. Essa è chiamata a servire l’uomo nella fame di pane, nel bisogno di cure, nella ricerca della verità e di Dio stesso. L’origine di questa solennità è l’adorazione del SS.mo Sacramento a partire dal secolo XII a cui contribuì la visione della monaca agostiniana Giuliana di Liegi; Urbano IV poi, nel 1264, prescrisse la solennità a tutta la Chiesa. In questa giornata è confluita, poi, anche la festa del preziosissimo Sangue che veniva celebrata il 1° luglio introdotta, nel 1849, dal beato Pio IX.

Se il Corpo e il Sangue del Signore sono offerti a noi anzitutto come cibo e bevanda di vita, essi sono da circondare di venerazione, di riconoscenza, di adorazione a partire dal riconoscimento del mistero di amore e di condivisione che l’Eucaristia diviene nei riguardi di tutta l’umanità.

Ce lo ricorda chiarissimamente Paolo quando, con la narrazione più antica della storia (cfr. 1Cor 11,23-25), ci fa fare memoria dell’istituzione dell’Eucaristia nella notte della cena pasquale: “Il Signore Gesù… prese del pane… e disse: ‘Questo è il mio corpo, che è per voi’. Allo stesso modo… prese anche il calice: ‘è la Nuova Alleanza del mio sangue… fate questo… in memoria di me’”.

L’uomo è un essere indigente! Molti, anzi troppi sono ancora affamati di cibo, ma tutti abbiamo fame di esistenza. Questa esigenza che portiamo inscritta nel profondo del cuore, può essere soddisfatta solo da Dio. Ci soccorre, in questo senso, l’evangelista che, nel racconto del pane moltiplicato per la folla affamata e bisognosa di cure tuttavia continuava ad ascoltare Gesù. È lui che si occupa dell’emergenza e, sfidando i Dodici, prelude e prepara la figura di un altro Pane.

Questo cibo ha una caratteristica che quello usuale non possiede: tutti mangiarono a sazietà. La Parola ascoltata e il pane distribuito dai discepoli, su ordine e benedizione di Gesù, saziano la fame della folla e il desiderio di una vita buona. I Dodici consigliano al Maestro di congedare la moltitudine perché vada nei villaggi e nelle campagne… per alloggiare e trovare cibo, ma quel divino Maestro, Gesù individua e fa suo il bisogno della gente, proprio perché riconosce e sa che siamo in una zona deserta, come noi nel mondo: incapace cioè di soddisfare la nostra fame di vivere. Coinvolge, così, i discepoli in un progetto nuovo, affida la missione che trascende la loro impotenza: Voi stessi date loro da mangiare! Siate voi stessi vita condivisa e donata per la salvezza del mondo come è la mia fino alla fine.

La santissima Eucaristia, sorgente e vertice di tutta la vita cristiana, è Cristo stesso, nostra Pasqua: se impariamo a condividere ogni bene, anche il pane quotidiano basterà per tutti.

 

Un’Italia confusa e senza più senso

Un senso di spossatezza e di astensione, che non è dovuto al caldo, è calato sulla nostra vita e la condiziona, la regola. Come? Con una sorta di muta astensione, a volte offesa, a volta cercando soltanto di non esserci. Quanti di voi, lettori, parlate, giudicate e prendete posizione in una conversazione in pubblico, se il pubblico non sono pochi intimi? Ho visto un momento esemplare di televisione dei nostri giorni, giovedì 20 giugno su La7, nel programma L’aria che tira, ore 13:20. Il tema era “ragazzi aggrediti, perché indossavano la maglietta del cinema America” che, secondo i fascisti, è “antifascista”. Il conduttore stava intervistando Tomaso Montanari che ha detto tutto il suo sostegno per l’antifascismo, tutto il suo disprezzo per i fascisti. Ma ha aggiunto che se qualcuno liberamente aggredisce e picchia, è perché qualcun altro ha creato un clima autoritario (ovvero segnali forti dal potere) che incita i fascisti a rompere il setto nasale di ragazzi che non si comportano da fascisti. Per merito del cameraman dello studio, che non ha mosso la telecamera, abbiamo assistito ai vistosi segnali del conduttore, che tentava di parlare sulla voce di Montanari, di dissociarsi, di cambiare il collegamento. E poi ha detto al pubblico che le parole di disprezzo del fascismo e di richiamo alla democrazia che avevamo ascoltato, erano solo di Montanari (eppure è ovvio che un intervistato non parla a nome della tv che lo intervista).

E quando Montanari ha ripreso la parola per rispondere a chi stava difendendo i picchiatori, il conduttore ha scoperto che il tempo a disposizione era sfortunatamente finito e ha chiuso il collegamento. Probabilmente quel giornalista è un leone, tradito da qualche difficoltà di trasmissione. Però è venuta in mente la paura, e sarà sufficiente rivedere la sequenza per ritrovare questa impressione, speriamo infondata. Paura di che cosa? Be’, siamo nella stessa settimana in cui il ministro dell’Interno, senza obiezioni del ministro della Giustizia, ha tolto al procuratore di Agrigento il potere che gli è proprio di intervenire su reati compiuti in tutta l’area di mare intorno a Lampedusa. Può il ministro degli Interni togliere una parte di potere giudiziario a un giudice, senza che il ministro della Giustizia abbia nulla da dire, solo perché quel giudice aveva rimandato in mare, libera da sequestro, la nave Sea Watch, disobbedendo agli ordini di un ministro che – apprendiamo adesso – può dare ordini ai giudici? Può, se tanti tacciono, se mentre c’è guerra in Libia, non viene convocato il Consiglio Supremo di Difesa, per sapere, almeno, se le navi cariche di profughi si possono lasciare in mare, se e chi può chiudere i porti italiani, e se è vero (cosa che nessuno crede al mondo) che i porti libici sono sicuri. Resta il fatto che il decreto Sicurezza bis attribuisce al ministro dell’Interno due diritti che creano un super governo a parte. Il primo è “vietare l’ingresso, transito o sosta in mare per motivi di ordine e sicurezza pubblici” con l’accordo del ministro della Difesa e delle Infrastrutture (il che vorrebbe dire la convocazione immediata e mai avvenuta del Consiglio supremo di Difesa, presieduto dal capo dello Stato). Il secondo è una multa di 50 mila euro a carico di chi osasse entrare nelle acque territoriali italiane con un carico di migranti salvati. E ancora: “Per chi si ostina ancora a proseguire nelle azioni di salvataggio, potrà scattare, per mano dei prefetti, il sequestro del natante. È naturale che si diffonda la paura a mano a mano che i cittadini sono indotti a capire che c’è un super potere sfacciato (ovvero fortemente esibito) di uno dei due vicepresidenti, a cui non dispiace tentare di far apparire il collega, teoricamente pari grado, come un signore gentile e irrilevante, che non può certo spaccare la mano di un giornalista di Repubblica.

Ma ecco che cosa ha scritto l’uomo del giorno a proposito di una donna rom arrestata per furto ma non trattenuta perché incinta (tener presente che l’uomo in questione ha appena dedicato un comizio e un rosario al “Cuore Immacolato di Maria”): “Questa maledetta ladra deve andare in carcere per trent’anni, messa in condizione di non avere più figli. I suoi poveri bimbi devono essere dati in adozione a famiglie perbene, Punto”. Pensate in che Italia diversa e civile vivremmo se io potessi scrivere, a conclusione del triste ritratto: “Per fortuna nell’affollato Parlamento italiano non si parla d’altro. Gli on. Zingaretti e Calenda, del Pd, per esempio, si sono uniti per dire di avere un solo pensiero: riportare l’Italia alla sua Costituzione democratica, alla fine del silenzio della paura, al ritorno dell’orgoglio della Resistenza che ha combattuto e vinto il fascismo”. Tutti sostengono che si deve smentire il New York Times International che il 19 giugno intitola: “Italia confusa e senza senso” (Italy rattles).

Mail box

 

 

In merito all’articolo pubblicato, a firma di Lucio Musolino, il 20 giugno sul sequestro disposto dal gip di Lamezia Terme nei confronti dell’imprenditore Alberto Statti, indagato per autoriciclaggio ed estorsione nei confronti dei suoi dipendenti, riceviamo la nota di quest’ultimo:

Gentile Dott. Musolino, Le allego le ordinanze del Tribunale del Riesame di Catanzaro che sono passate in giudicato a seguito del pronunciamento della Cassazione, VI Sezione Penale, procedimenti nr. 7088/2019 R.G. e 7078/2019 R.G., in data 26.03.2019. Le rappresento che il nuovo procedimento ripropone gli stessi contenuti in considerazione dei quali sono stati ritenuti la legittimità del rapporto tra l’impresa Statti e i dipendenti, la regolarità dei pagamenti, l’insussistenza di minacce o d’ingiusto profitto, la liceità del procedimento di conciliazione insomma l’insussistenza anche della sola notizia di reato. Sulla base degli stessi elementi, a seguito di una parziale duplicazione del fascicolo processuale e non sulla base di nuove indagini rispetto a quanto già contenuto nel procedimento per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio il 26 novembre dello scorso anno e su cui il Giudice si deve ancora pronunciare, è stata formulata ora una nuova richiesta di sequestro.

Alberto Statti

 

Prendiamo atto della nota dell’imprenditore Statti che ci segnala i precedenti sequestri disposti nel 2017 dal gip di Lamezia Terme e poi annullati, con sentenza passata in giudicato, dal Tribunale del Riesame di Catanzaro.

Lu. Mu.

Abbiamo letto con attenzione l’articolo “Con Volponi e Fortini 25 anni fa ‘moriva’ l’intellettuale-politico” pubblicato ieri. In particolare, la parte in cui Crocifisso Dentello scrive: “Nel 1994 l’Italia intonava canzonette nelle piazze televisive del Karaoke di Fiorello, rideva al cinema con Benigni e premiava in libreria il Cuore della Tamaro con i drammi piccolo-borghesi di una nonna. Un disimpegno più o meno generalizzato, esito inevitabile di un plagio televisivo di massa elevato a modello culturale. Se Berlusconi ora sedeva a Palazzo Chigi lo doveva anche al riflusso degli anni 80, alle sue tv del biscione scandite dall’edonismo a stelle e strisce di Dallas e dalla comicità grossolana di Drive In”. L’autore, che quando iniziò il Drive In non aveva ancora 5 anni, lo confonde probabilmente con Colpo Grosso, trasmissione sulla quale probabilmente si è formato. Ci sembra giusto allora ricordare che il rivoluzionario varietà di Antonio Ricci è andato in onda dal 1983 al 1988 e si è concluso quindi ben 6 anni prima della discesa in campo di Berlusconi. Vorremmo quindi sfatare una volta per tutte la leggenda di Drive In come modello culturale e summa ideologica del berlusconismo. Drive In era una trasmissione libera e libertaria che ha irriso e messo alla berlina protagonisti, mode e personaggi degli anni 80, senza risparmiare nessuno. Era un programma comico e satirico al quale hanno lavorato autori che certo non sono classificabili come aedi del berlusconismo: Ellekappa, Gino e Michele, Sergio Staino, Disegni e Caviglia…

Altro che comicità grossolana: Oreste Del Buono la definì “la trasmissione di satira più libera che si sia vista e sentita per ora in tv”. Opinione condivisa da molti intellettuali dell’epoca. Angelo Guglielmi, che fu anche direttore di Raitre, disse: “Ammiravo e invidiavo Italia 1. Mi ricordo che una delle trasmissioni che più spesso seguivo e non me ne lasciavo sfuggire nemmeno una puntata, è Drive In. Noi lo guardavamo con ammirazione, cercando qualche volta di sceglierlo come modello”.

Per Federico Fellini, Drive In fu “l’unico programma per cui vale la pena di avere la tv”. Umberto Eco scriveva: “Pensa a una trasmissione come Drive In, al suo ritmo, alla quantità di cose che Drive In riesce a far vedere in due minuti e paragona due minuti di Drive In a due minuti della vecchia televisione. Un salto da fantascienza, no? Eppure a quanto pare la cosa non ha provocato traumi, noi siamo passati dal ritmo di valzer a quello di rock’n’roll senza perdere nessuna memoria”.

L’ufficio stampa di Striscia la notizia (e di quel che resta del Drive In)

 

Nel mio pezzo menziono Drive In collocandolo correttamente nel riflusso degli anni 80 (i miei ricordi infantili sono stati rinverditi con rinnovata consapevolezza grazie a numerose riproposte della trasmissione in tv e in edicola). Nessuna svista temporale. È convincimento di molti analisti che il consenso politico di Berlusconi nel 1994 abbia beneficiato dell’onda lunga di quella videocrazia che egli persiste a incarnare (vogliamo dimenticare gli appelli al voto per Forza Italia di molti volti Fininvest di allora?). “La risata che doveva sommergere tutti” – per richiamare uno dei passaggi assai critici contro Drive In nel romanzo “Riportando tutto a casa” di Nicola Lagioia – è assurta a invasivo immaginario collettivo, a nuovo linguaggio del potere, e ha contribuito a consolidare quel disimpegno che ha messo in un angolo la fatica del pensiero intellettuale. Per rispetto appunto a Volponi e Fortini fatico a riconoscere una levatura alle battute del Drive In. Ma questo attiene alla libertà di opinione.

C.D.

 

L’articolo del 14 giugno a firma di Elisabetta Reguitti ci descrive fondamentalmente come una nuova corrente scissionista della Lega facente capo ai Giovani Padani, finalizzata alla contestazione dell’attuale linea politica del suo segretario. A tal proposito specifichiamo che “Pro Lombardia Indipendenza” è nato nel 2011 per dare voce ai temi dell’indipendentismo e dell’autogoverno lombardo. È aperto a chiunque abbia a cuore le nostre tematiche a prescindere dal personale orientamento ideologico. La Lega, così come qualsiasi altro partito italiano, sono per noi articolazioni di quello Stato italiano che noi abbiamo deciso di contrastare democraticamente con fermezza.

Daniel Manzoni

 

Grazie per le precisazione di cui si sentiva la necessità.

E.R.

Prima gli insulti, poi il caffè: è la Gardaland della politica

 

“In Italia non si potrà mai fare una rivoluzione, perché ci conosciamo tutti”.

Leo Longanesi

 

Le foto dei quattro amici al bar pubblicate da “Diva e Donna” (il renziano Luca Lotti più l’ex tutto Denis Verdini con i figli Tommaso e Francesca, fidanzata di Matteo Salvini) non possono certo scandalizzare chi conosce le abitudini del gran salotto Capitale, dove le differenze che contano sono tra chi il cappuccino lo vuole freddo e chi schiumato. Quando, secoli fa, lavoravo come cronista parlamentare novellino mi stupivo di vedere alla buvette di Montecitorio discorrere tranquillamente e talvolta perfino scherzare certi deputati che poco prima dai banchi opposti si erano insultati, minacciando di passare alle vie di fatto. Non avevo ancora capito che in politica (e spesso anche nella vita) il “nemico” ti appare meno nemico dell’“amico” pronto a spararti alle spalle. All’inizio degli anni 90 tutti ricordano i primi manipoli di leghisti, autosegregati, che si muovevano in formazione per le vie di Roma ladrona, tenendosi d’occhio vicendevolmente. Qualcosa di simile è accaduto più recentemente ai neofiti grillini, anche se presto sullo spirito di Savonarola ha finito per prevalere la naturale esuberanza giovanile. Niente di male, anzi, se il contrasto politico include il niente di personale che in “Pulp Fiction”, John Travolta e Samuel L. Jackson enunciavano per la gioia di chi stavano per accoppare. La novità è semmai che presunti nemici si scambino profumi e balocchi alla luce del sole con l’immancabile bacetto sulle guance, prima e dopo: smack smack. Anche perché è sempre meglio cospirare intorno a un tavolino di piazza San Lorenzo in Lucina che farsi beccare dal trojan in qualche triste alberghetto vicino alla stazione. Il problema, semmai, riguarda il giornalismo che continua a vivere (e a sopravvivere) descrivendo la scena politica come sospesa in una permanente vigilia di Pearl Harbor. Tutto in un crescendo di “ira”, “rabbia” e “collera” a cui fanno da contrappunto i resoconti dei tg infarciti di “tensioni fortissime” o “al calor bianco”, e di scontri (verbali) sempre “duri”, anzi “durissimi”. Giorni fa, per esempio, a dominare le cronache di Forza Italia era la rottura tra Silvio Berlusconi e il governatore ligure Giovanni Toti, data per imminente con effetti che sarebbero stati, naturalmente, “devastanti”. Poi, lo stesso Berlusconi ha affidato a quello stesso Toti (e a Mara Carfagna) la guida di Forza Italia. Sembrava Dunkerque, ma era solo Gardaland.

Antonio Padellaro

Visco: “Lo spread sale se si alimenta la paura di addio all’Ue”

“Se si alimenta la paura, che molti di noi possono avere, che alla fine la politica sia quella di distaccarci dall’Europa, i mercati la ascoltano e si assicurano contro questo rischio. Così sono vari punti base di tassi di interesse più alti che vengono richiesti”. Lo ha detto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. “Va ridotta la sfiducia – ha aggiunto – non inseguendo obiettivi dannosi, e va enfatizzata la capacità di crescita dell’economia attraverso investimenti pubblico-privati”. “Sicuramente c’è una preoccupazione sulla crescita con tassi di interesse così alti. Se l’emissione di titoli pubblici vede 2,5 punti in più rispetto alla Germania e più di uno rispetto alla Spagna, questo si trasferirà piano piano in tutti i meccanismi che concedono credito a livello privato e questo trasferimento alla fine rallenta la capacità di crescere dell’economia con effetti sugli investimenti”, ha detto il governatore. “Le Banche centrali studiano da tempo la moneta digitale, è qualcosa di complementare che può essere controllato”, ha detto, rilevando che i bitcoin sono un’altra cosa. “I problemi della moneta elettronica sono la sicurezza digitale e la privacy. La sorveglianza c’è già e se ne occupa la Bce”, ha detto.

Battisti mette Moretti giù dal treno

Dopo la sentenza di condanna a 7 anni in appello per la strage di Viareggio (33 morti), ora Mauro Moretti – che per un decennio (dal 2006 al 2014) è stato il signore incontrastato delle Ferrovie – dovrà lasciare anche fisicamente l’azienda dove ha lavorato per una vita. Già prima di essere stato costretto a rinunciare all’incarico di ad del gruppo Fs, anche a causa delle polemiche collegate alla tragedia del treno, Moretti si era assegnato pure il ruolo di amministratore della Fondazione Fs, un incarico di livello minore (organizza treni-gita del weekend, coltiva la storia ferroviaria etc..).

Ma che gli aveva consentito di poter disporre di un ufficio tutto per sé al piano terra del suo ex regno, nella sede della società a Villa Patrizi, proprio dopo l’ingresso principale. Soprattutto negli ultimi tempi Moretti, che nel frattempo aveva dovuto lasciare pure il ruolo di amministratore e direttore di Leonardo (l’ex Finmeccanica), è stato un assiduo frequentatore di quelle stanze delle Fs dove poteva contare sull’assistenza di una segretaria e dove spesso riceveva manager e dirigenti della vecchia guardia che non hanno mai troncato i rapporti con lui e che, anzi, hanno continuato a ritenerlo un punto di riferimento. I successori di Moretti, prima Michele Mario Elia e poi il renzianissimo Renato Mazzoncini, si facevano addirittura vanto di appartenere al club dei morettiani con un atteggiamento deferente, come se lo ritenessero ancora il vero padre-padrone dell’azienda costretto a farsi un po’ di lato non per demeriti, ma per una avversità in cui le sue responsabilità erano tutte da provare. Ora che anche in secondo grado i giudici hanno ribadito che le colpe di Moretti nella tragedia sono evidenti e gravi proprio perché era lui il capo indiscusso e incontrastato, il nuovo amministratore Gianfranco Battisti ha una carta in più per accentuare lo sganciamento della sua gestione dal morettismo dilagante.

Formalmente Moretti continua a conservare l’incarico, ma tutti sanno che lo dovrà lasciare presto e con esso pure l’ufficio. Dal punto di vista dell’etichetta societaria Moretti è in prorogatio, cioè la sua funzione è rimasta come congelata nel momento in cui è stata convocata ad aprile l’assemblea di bilancio in attesa del verdetto sulla strage di Viareggio. Battisti con Moretti era stato chiaro: se la sentenza fosse stata di assoluzione, Moretti avrebbe potuto conservare l’incarico alla Fondazione. In caso contrario avrebbe dovuto lasciare l’incarico.

Non è del tutto chiaro che succederà invece con la Carta di libera circolazione perpetua che poco più di un anno fa l’ex Mazzoncini consegnò a Moretti nel corso di una celebrazione in cui lo stesso Moretti fu applaudito a scena aperta da molti dirigenti di prima linea convocati per l’evento. Quella carta dà diritto a Moretti, come agli altri dirigenti ferroviari andati in pensione, di circolare gratis su tutte le linee, su tutti i treni compresi i Frecciarossa per i quali è però richiesto un 15% di contributo sull’importo del ticket. Dalle Fs fanno notare che quella carta equivale al cavalierato, cioè è a vita. A Silvio Berlusconi il titolo di Cavaliere fu però tolto dopo la condanna definitiva.

Natixis, i fondi annegano in un bicchiere di H2O

Uno psicodramma va in scena nel mondo dei fondi comuni di investimento. Una società di gestione minore molto nota per le sue “aggressive” strategie di investimento, H2O, è sotto accusa per possibili problemi legati alla concentrazione di strumenti finanziari “rischiosi” e a potenziali conflitti di interessi del suo fondatore e amministratore, il francese Bruno Crastes. Il risultato è stato il panic selling, la vendita massiccia di quote dei fondi H2O. L’ondata è scattata proprio in Italia dove sono state piazzate quote di questi fondi per 10 miliardi di euro sui 30 amministrati dalla società. Si tratta di strumenti con strategia absolute return, cioè “a rendimento assoluto”: cercano di ottenere un ritorno indipendentemente dai rialzi o dai ribassi dei mercati finanziari. Ma come Salvatore Gaziano di SoldiExpert aveva spiegato già il 27 giugno dell’anno scorso, “i fondi absolute return raramente sono stati all’altezza delle promesse”. Tra i migliori c’era proprio il fondo H2O Multistrategies. “Ma se il suo rendimento è stato straordinario – avvertiva Gaziano – l’altra faccia della medaglia era una volatilità molto elevata (-28%) che lo sconsiglia ai deboli di cuore se non si è disponibili a sopportare ampie fluttuazioni” del valore delle sue quote.

Secondo il Financial Times, mentre nel 2018 le masse gestite dai fondi europei absolute return erano diminuite del 23% a 86 miliardi di euro con grossi deflussi per molti dei fondi maggiori, i sei fondi della londinese H2O, collegata al gruppo francese Natixis Global Am, erano stati tra i migliori d’Europa: il fondo MultiBonds di Crastes aveva avuto un rendimento del 32,9% netto annuo.

Così H2O, fondata all’inizio del decennio, è cresciuta rapidamente: da 3 miliardi di masse in gestione nel 2013 fino ai 30 dell’anno scorso. Molti italiani hanno sottoscritto i fondi di H2O spinti anche dagli accordi di distribuzione che la società ha stretto con oltre 30 intermediari nazionali, comprese molte delle reti maggiori.

Ma il Financial Times martedì scorso ha lanciato l’allarme: i sei fondi di H2O hanno investito 1,4 miliardi di euro in titoli illiquidi e molto rischiosi emessi da società riconducibili al tedesco Lars Windhorst, un finanziere che ha alle spalle il default di due società e una bancarotta personale. H2O è il maggior detentore dei bond del gruppo tedesco, addirittura con il 77% di un singolo titolo. Una concentrazione del rischio che potrebbe aver violato i limiti imposti dalle normative. Oltretutto nelle scorse settimane Crastes ha accettato un posto nel cda di una società del gruppo di Windhorst.

Dopo l’articolo del Financial Times, alcune reti di distribuzione italiane hanno invitato i sottoscrittori a uscire dai fondi H2O. Questo ha scatenato le vendite, assorbite senza problemi dai fondi, ma ha anche fatto crollare le azioni della società controllante Natixis alla Borsa di Parigi.

Secondo Giuseppe D’Orta, responsabile per la tutela del risparmio dell’associazione di risparmiatori Aduc, “il rischio sta nelle possibili posizioni a leva, che consentono di moltiplicare le variazioni di prezzo al rialzo o al ribasso, assunte dai fondi H2O su strumenti illiquidi emessi da emittenti collegati. Uno strumento è illiquido quando non viene scambiato e non fa prezzo. Se il gestore del fondo punta su uno strumento illiquido usando la leva può deciderne il prezzo lui stesso in funzione della leva utilizzata: maggiore è la leva, maggiore è il rialzo o IL ribasso del titolo. Il rendimento del fondo potrebbe essere manipolato con un gioco di questo genere”. Ma di chi sono essere le responsabilità di eventuali danni ai sottoscrittori, se emergessero scorrettezze? “Della H2O – continua D’Orta – se non ha dichiarato correttamente gli investimenti in strumenti illiquidi e in derivati. Se però H2O avesse sforato i tetti sulla concentrazione, sarebbe responsabile pure la banca depositaria dei fondi che non avrebbe vigilato. Poi potrebbero esserlo anche le reti dei collocatori, che in base alle norme devono dimostrare di aver spiegato ai clienti prima della sottoscrizione i rischi particolari del fondo e di averli considerati nel valutare l’adeguatezza e l’appropriatezza rispetto al profilo del cliente”.

I 10 miliardi di euro di fondi H2O però sono meno dello 0,5% dei 2.172 miliardi di fondi in tasca ai 7,2 milioni di risparmiatori italiani, secondo gli ultimi dati di aprile di Assogestioni, l’associazione delle Sgr, e una goccia nel mare dei 40mila 800 miliardi di valore mondiale dei fondi a fine 2018. Di questi, gli europei ne detenevano 14.300 miliardi, il 35%. Il 12% degli italiani investe nei fondi: ma mentre il 10% dei sottoscrittori più ricchi possiede quasi metà di quei 2.172 miliardi, metà dei sottoscrittori invece vi ha investito meno di 13 mila euro a testa.

Rai, “nessuno spreco per la presentazione dei palinsesti”

L’eventosarà il 9 luglio e – come abbiamo raccontato ieri – costerà la considerevole cifra di 500 mila euro. Ma sulla presentazione dei palinsesti la Rai tiene a specificare che “la decisione di organizzarla a Portello è stata presa perché si tratta della location che ha offerto le migliori condizioni economiche e logistiche. Nella stessa location la Rai ha realizzato nei mesi scorsi, con il Centro di produzione di Milano, il programma di Roberto Bolle”. Secondo Viale Mazzini non si tratta di un appalto esterno, perché “la Rai è protagonista dell’ideazione e della costruzione insieme a Rai Pubblicità” bensì di “una consulenza esterna per rafforzare le modalità di coinvolgimento del mercato con una nuova comunicazione pubblicitaria in forte discontinuità con il passato”. Infine, “la Rai ricorda che negli anni precedenti diverse presentazioni sono state realizzate in location esterne (per es. Conservatorio e Statale Milano, Nuvola di Fuksas)” e aggiunge che “negli anni scorsi la presentazione dei palinsesti è stata spesso doppia, organizzata a Roma e Milano, mentre, proprio per una miglior razionalizzazione dei costi, quest’anno la Rai ha deciso di organizzare una sola presentazione”.

La sintassi secondo i supereroi dell’Ama

È umano perdere il conto dei cambi al vertice dell’Ama, l’azienda cui i romani debbono la pulizia delle strade, l’efficiente servizio di raccolta differenziata e la civile amministrazione dei servizi cimiteriali. L’ultimo presidente e ad, per dire, era quel Bagnacani che registrava la sindaca mentre pronunciava “frasi choc” (Raggi si rifiutava di firmare un bilancio già bocciato dai revisori dei conti e dalla Ragioneria del Comune, motivo più che sufficiente, secondo Ama e i giornali boccaloni, per mandarla in galera), dopo le ere del Cecato, di Alemanno e del Mondo di mezzo (se la grandezza di Roma si vede dalle sue rovine, basta guardarsi intorno per evincere la perizia dei vari management-Attila).

A far sperare in un cambio di rotta anche culturale (l’ambiente è spirito e facies, apparenza e sostanza di una città e del suo popolo) concorre lo sbarazzino comunicato del nuovo CdA nominato da Raggi – Presidente l’avvocato Luisa Melara, ad il commercialista Paolo Longoni e consulente il geologo Massimo Ranieri, i quali si deve supporre lo rivendichino, avendolo firmato. A metà tra uno spot della Conad e l’Instagram di un’influencer, il comunicato sembra rivolto a dei bambini di 8 anni invece che “alle Lavoratrici e ai Lavoratori” e indirettamente a una cittadinanza sfibrata: “È con grandissima emozione che oggi noi del nuovo Cda vi diamo il buongiorno per la prima volta”. Segue una poesiola emozionata piena di puntini di sospensione in serie di quattro (dev’essere gente che ha letto Céline): “Se per noi intendessimo le 7527 PERSONE (sic) che Vi rappresentano nei Sindacati e tutti i Cittadini di Roma…. allora saremmo una inarrestabile potenza”, nientemeno; dunque eccoci a “restituire al Nostro Paese l’orgoglio di vivere nella Città Capitale più bella del mondo”. A rigor di sintassi, c’è un intero Paese che vive nella Capitale, il che rende plausibile che i Supereroi si diano all’elegia classica, quando basterebbe ritirassero la spazzatura.

Banche, industria e stampa: dove siedono i Caltagirone

Quest’anno Acea verserà al suo socio Francesco Gaetano Caltagirone 7,5 milioni di euro di dividendi. Per la società multiutility romana dell’acqua e dell’energia, controllata al 51% dal Comune di Roma, e di cui Caltagirone è socio al 5%, quello del 2018 è stato il miglior bilancio di sempre: più 8% i ricavi, arrivati a 3 miliardi di euro, e più 50% il risultato netto, nonostante la sindaca di Roma, Virginia Raggi, due anni fa abbia bloccato il previsto aumento delle bollette dell’acqua. L’andamento di Acea sembra smentire almeno in parte le affermazioni contenute nel duro attacco che Il Messaggero, di proprietà di Caltagirone, mercoledì scorso ha sferrato alla Raggi, con richiesta di dimissioni anticipate: un editoriale dal titolo “Raggi incapace, Roma muore”, in cui si afferma che “il dissesto delle aziende partecipate, accanto al debito record che pesa sulle spalle dei romani, è l’emblema dell’incapacità amministrativa”. Da notare, peraltro, che riguardo al debito, con l’attuale amministrazione è diminuito.

Interessi capitali. Si può tranquillamente considerare la campagna anti-Raggi del primo quotidiano romano e del suo proprietario una legittima critica all’andamento dell’amministrazione se non si conosce la vastità e il peso degli interessi di Caltagirone nella Capitale. Si tratta di un gruppo da un miliardo e mezzo di euro di ricavi, che controlla un’ottantina di società, concentrate principalmente nel business storico degli appalti, cemento e costruzioni, un settore in cui i rapporti con le amministrazioni contano parecchio, e con una moltitudine di partecipazioni di peso che comprendono l’energia, i trasporti, le assicurazioni (Caltagirone è uno dei principali azionisti delle Generali), le banche e, appunto, l’editoria.

Francesco Gaetano, noto come Franco, è presidente e consigliere della capogruppo Caltagirone spa, nel cui consiglio di amministrazione siedono anche i tre figli Azzurra, Francesco junior e Alessandro. La holding controlla Cementir, Vianini e Caltagirone editore, tutte società in cui il costruttore siede insieme al resto della famiglia nei consigli di amministrazione mantenendo salda la presa sulla proprietà. Se, infatti, una quota del 30% della holding è del fratello Edoardo, i tre figli non hanno quote societarie nel gruppo, nelle controllate nelle partecipate.

Giornali in sofferenza. Gli affari del gruppo romano vanno a gonfie vele, tranne il comparto editoria che però, come si sa, può avere una sua utilità anche se è in perdita. Nel primo semestre di quest’anno il gruppo ha registrato ricavi per 750 milioni di euro e 100 milioni di risultato netto, in crescita del 135% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Cementir ha realizzato ricavi per 605 milioni, con un risultato operativo di 58 milioni, in crescita del 14%; Vianini lavori, attiva tra l’altro nella realizzazione della Metro C di Roma e con interessi negli immobili delle Ferrovie dello Stato (con una partecipazione in Grandi Stazioni Immobiliare), ha realizzato ricavi per 68 milioni di euro e un risultato netto di 4,7 milioni di euro; mentre il gruppo Caltagirone editore, che pubblica, oltre al Messaggero, Il Mattino di Napoli, Il Corriere Adriatico di Ancona, Il Gazzettino di Venezia, il Nuovo Quotidiano di Puglia, pubblicato a Lecce, e il quotidiano nazionale gratuito Leggo, ha realizzato 70 milioni di euro di ricavi ma con una perdita di 4 milioni di euro nel semestre.

Politica e affari. La storia del rapporto di Caltagirone con Acea e l’amministrazione romana è emblematica. Quando la Raggi si insediò al Campidoglio nel 2016, con un programma che comprendeva un impegno sull’acqua pubblica, il costruttore, allora secondo azionista con il 15,8%, decise di vendere parte delle sue quote, per scendere al 5%. Le consegnò al terzo azionista, il gruppo francese Suez, che diventava così il secondo socio della multiutility romana col 23%. Caltagirone in cambio entrava nel capitale di Suez, al 3,5%, partecipazione che lo rende il terzo azionista del gruppo transalpino. Un passo indietro che quindi non allentava di molto, tra influenza diretta (il figlio Alessandro è comunque nel consiglio di amministrazione di Acea) e indiretta, la presa sulla società. Uno dei temi più caldi, all’interno del cda di Acea, è diventato, ultimamente, quello dei rifiuti, perenne emergenza della Capitale. Nel piani industriale approvato ad aprile la società ha stanziato 300 milioni di euro per “il rafforzamento del ciclo del trattamento dei rifiuti, in coerenza con gli obiettivi di sviluppo un’economia circolare, in particolare permettendo al Gruppo di entrare come operatore di rilievo e nel trattamento e nel riciclo della carta e della plastica”. Un indirizzo di gestione che punta dunque sul riciclo e non prevede termovalorizzatori (inceneritori), business che interessa invece Suez e Caltagirone.

Non è forse casuale che all’attacco di Caltagirone a Raggi abbia fatto seguito quello, simile, di Matteo Salvini, che sulla Lega al governo del Campidoglio punta molto. Un partner, il Carroccio, che sulle grandi opere, inceneritori compresi, ha tutt’altro atteggiamento.