“Mio padre l’infiltrato fu ucciso da una talpa dentro lo Stato”

Luana mi ha scritto su WhatsApp qualche sera fa: “Su Rai2 la fiction di mio padre (era in onda il film La Trattativa di Sabina Guzzanti, ndr). Sono scioccata”. Luana è la figlia di Luigi Ilardo, l’unico mafioso della storia a essersi infiltrato dentro Cosa Nostra per collaborare con lo Stato. Un’operazione durata tre anni, tutti sul filo del rasoio. Ilardo, nome in codice “Oriente”, gestito dal colonnello Michele Riccio, fece arrestare decine di mafiosi, e il 31 ottobre 1995 portò i Ros a Mezzojuso, nel covo di Bernardo Provenzano. Ma il generale Mario Mori decise di non intervenire, e Provenzano restò uccel di bosco per altri dieci anni. Il 10 maggio 1996, pochi giorni prima di entrare nel programma di protezione, Ilardo fu ammazzato sotto casa, a Catania, con nove colpi di pistola. Qualcuno aveva fatto uscire la notizia che si era fatto sbirro. Solo qualche giorno prima, Ilardo è a Roma, accompagnato dal colonnello Michele Riccio, nella sede dei Ros: ad attenderli, il generale Mori e, seduti in una stanza, attorno a un tavolo, i magistrati Giovanni Tinebra, Gian Carlo Caselli e Teresa Principato. È davanti a loro che Ilardo parlerà per ore e ore.

Lo scatto: 10 maggio 1996, via Quintino Sella

Quella fotografia in bianco e nero – col padre a terra, coperto da un lenzuolo bianco, e lei accovacciata che si dispera – Luana l’ha rivista nel film La Trattativa, l’altra sera. È una di quelle foto di mafia, sporca e potente. Gli hanno sparato alle spalle a Luigi Ilardo, come si fa coi traditori. Dal lenzuolo, si intravedono i pantaloni scuri, e una camicia a quadri con una chiazza di sangue sulla schiena. Sulla camicia un giubbino, ancora sangue. Sangue che scorre, forma una pozza sull’asfalto e riflette il volto straziato di una ragazzina coi capelli corti. Luana è rannicchiata davanti a un’auto dei carabinieri, un uomo la abbraccia: ha le ginocchia imbrattate del sangue di suo padre.

“Doveva andare a cena con Cettina, sua moglie. Era la loro prima serata dopo la nascita dei gemelli. Papà aveva voluto chiamarne uno Michele, come il colonnello Riccio. Ma allora nessuno di noi aveva capito perché. Cettina era in bagno, si stava truccando. Io e mia sorella Francesca saremmo rimaste in casa a guardare i bambini, c’era anche il primo figlio di Cettina, un bimbo di 4 anni. Abbiamo sentito la macchina di papà, il bambino è corso sul balcone, poi all’improvviso tutti quei colpi di pistola. Sono scesa di corsa, urlavo, piangevo. L’ho tirato a me, l’ho stretto forte. Ho sentito sul petto il suo ultimo respiro”.

“Quel giorno la mia vita è cambiata per sempre. Al tempo non avevamo idea della scelta che aveva fatto papà. Era un personaggio importante, mi ha concepita mentre era latitante e ho vissuto con lui in clandestinità. Alto, bello, elegante, la sua Alfetta rossa, i cavalli: mi sembrava invincibile”.

Il dopo: figlia di mafioso, poi figlia di pentito

Luana e sua sorella Francesca sono sconvolte e impaurite, scappano di casa. Si rifugiano in campagna, da un’amica. Due materassi a terra, un fornellino a gas, un bagno fatiscente. Si lasciano andare: “Non volevo più vivere”. Verranno anni difficili: i beni di Ilardo all’asta, l’azienda agricola di famiglia, l’appartamento di Catania. “Una sera io e mia sorella torniamo a casa e troviamo sulla porta i sigilli e un catenaccio. L’avevano venduta. Divento una furia: il lucchetto l’ho spaccato a martellate. Poi è arrivata la Polizia: dovete andarvene, questa non è più casa vostra. Eravamo due ragazzine di 16 anni, disperate e sole. Scoppiamo in lacrime: non sappiamo dove andare. Il poliziotto ci guarda in silenzio. Poi se ne va: io non vi ho mai viste. È l’unico gesto di umanità che ricordo di quel periodo”.

Il tempo per la verità non è ancora arrivato

I giornali cominciano a scrivere che Ilardo lavorava per lo Stato. Luana non ci crede. Poi sente la voce registrata nei nastri: “Mi chiamo Luigi Ilardo e ho deciso di collaborare con la giustizia. Cosa Nostra è diventata solo una macchina di morte. L’unica cosa che mi spinge è la ricerca della normalità della mia vita e di quella dei miei figli, perché sono stati i loro sacrifici, i loro dolori, a farmi capire i veri valori della vita che non ho mai trascurato…”.

Si apre un capitolo nuovo, ma per Luana è un’altra tragedia. “Non ero più solo la figlia di un mafioso. Ero anche la figlia di un pentito. Adesso so che lo ha fatto per noi. E ha scelto di passare dalla parte dello Stato dopo aver scontato interamente la sua pena. Ha fatto bene? Sì. Lo ha fatto nel modo giusto? No. Si è fidato delle persone sbagliate. Mio fratello Michele porta il nome del colonnello Riccio. Quando ha capito che papà era in pericolo Riccio non avrebbe dovuto lasciarlo solo neppure un istante. E invece lo ha abbandonato al suo destino. In 23 anni non mi ha mandato neppure un telegramma di condoglianze. Né lui, né Mori, né nessun altro. Tutti spariti”.

Luana oggi ha quasi quarant’anni e una bambina. “I lavori che trovo durano 48 ore, poi con scuse risibili mi mandano a casa. Sono sempre la figlia del mafioso, la figlia del pentito. Era mio padre, mi manca ogni giorno che Dio manda in terra, ma a volte mi incazzo con lui. Io vivo a Catania e tanti mi dicono: chi te lo fa fare? Ma io sono orgogliosa di mio padre. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è siciliano: vorrei chiedergli se lo Stato è riconoscente per quello che Luigi Ilardo ha fatto. Ha lavorato per lo Stato, si è giocato la vita per questo. I mafiosi lo hanno ammazzato, ma sono le mele marce dello Stato che gliel’hanno consegnato. Questa è la cosa che mi fa più rabbia da figlia, da donna, da cittadina che vuole, nonostante tutto, credere ancora nelle istituzioni. Chi lo ha mandato al macello se ne deve assumere la responsabilità”.

C’è vita su Marte: “Rilevate grandi quantità di metano”

C’è vita su marte. A scriverlo è il New York Times, anticipando che in una misurazione effettuata mercoledì, il rover Curiosity della Nasa ha rilevato grandi quantità di metano nell’aria del pianeta rosso. Il metano è un gas che sulla Terra è solitamente prodotto da organismi viventi, anche se i dati sono giunti sulla Terra giovedì e gli scienziati della missione ne stanno discutendo le implicazioni prima di darne notizia ufficiale. “Visto questo sorprendente risultato, abbiamo riorganizzato il weekend per eseguire un ulteriore esperimento”, ha scritto comunque Ashwin R. Vasavada, responsabile del team scientifico in una email visionata dal quotidiano Usa. Il controllo missione sulla Terra ha inviato nuove istruzioni al rover, per eseguire delle letture aggiuntive i cui risultati dovrebbero giungere sulla Terra lunedì. Di certo, la presenza del metano nella rarefatta atmosfera marziana è significativa, perché la luce solare e le reazioni chimiche ne distruggerebbero le molecole nel giro di pochi secoli. Il che significa che deve essere stato rilasciato recentemente. Ma è anche possibile che il metano sia di origine antica, intrappolato nel pianeta per milioni di anni e rilasciato attraverso le crepe del terreno.

Alla ricerca di Adan il “quarto uomo” che ideò il sequestro

A Nairobi sulla difficile vicenda di Silvia Romano, rapita in Kenya il 20 novembre, la polizia è in evidente difficoltà. A parlare con diversi investigatori si ha l’impressione che tutti sappiano chi sono i rapitori, ma che pochi siano a conoscenza dei mandanti.

Secondo notizie raccolte nella capitale keniota, in carcere ci sarebbero – come già anticipato nell’inchiesta esclusiva pubblicata sul Fatto venerdì scorso – tre persone (il condizionale è d’obbligo da queste parti): Ibrahim, un somalo che ha ottenuto la cittadinanza e il passaporto kenioti illegalmente; Gababa, un keniota di etnia orma e Moses Luari Chende, un giriama, l’etnia che sta sulla costa, che abita nel villaggio di Kwamwanza.

Moses Luari Chende non è più in cella. “È accusato di aver partecipato alla logistica del sequestro”, spiega a me e a Hillary Duens, una collega americana che mi accompagna, un giovane funzionario. “Ha aiutato i banditi. Nei giorni immediatamente successivi al 20 novembre, il giorno in cui Silvia venne rapita, ha portato cibo e altri generi di prima necessità a quelli che avevano prelevato la giovane volontaria italiana”, continua a raccontare.

Anche la moglie di Moses Luari Chende, Elizabeth, è stata liberata su cauzione: “La donna era finita in manette perché dal suo telefono sono partite chiamate ai numeri dei rapitori”. Avevano fissato l’ammontare della cauzione a 50mila scellini (più o meno 500 euro), ma poi l’importo è sceso a 30mila (300 euro). A Chakama una famiglia vive per un mese con 2mila scellini, cioè una ventina di euro. Cinquecento o anche 300 euro sono una cifra abbastanza consistente. Anche Moses è uscito dalla galera dopo aver pagato una cauzione. Nessuno ha saputo dirci la cifra, ma secondo alcune informazioni, che io e Hillary non siamo però stati in grado di verificare, sarebbe stato aiutato da alcuni amici. Moses infatti graviterebbe nel mondo del bracconaggio e i suoi “colleghi” non se la sarebbero sentita di abbandonarlo nelle mani della polizia.

Soprattutto l’arresto di Elizabeth ha destato parecchio stupore tra lo staff di Africa Milele, l’organizzazione per cui Silvia lavorava. Elizabeth, con la sua famiglia, ha beneficiato dei progetti della onlus e aveva con Silvia un rapporto quotidiano: la ragazza italiana infatti andava a mangiare ogni giorno al Chakama Cafe dove Elizabeth lavorava.

Notizie su Moses sono invece più difficili da reperire, chi ha fornito la sua foto e ha cercato di avere maggiori dettagli teme qualche ritorsione, ma è certo che anche se la polizia kenyana riferisce del loro stato di arresto attuale, i due giovani sono invece liberi e rientrati nell’area di Chakama.

Un altro ispettore della polizia keniota racconta: “Con le nostre indagini abbiamo accertato che i tre ubbidivano agli ordini di un capo, un certo Adan, l’uomo che ha pianificato il sequestro: Adan è stato per ben tre volte a Chakama e ha dormito nella guest house Togo, di fronte a quella dove abitava Silvia. Testimoni ci hanno raccontato che non aveva molto da fare e ci siamo convinti che fosse andato lì per controllare la situazione. Abbiamo messo assieme i dati dei tre con quelli di Adan e abbiamo visto che c’erano evidenti connessioni. Adan è ricercato, ma è sparito”.

Anche l’attacco, racconta l’ispettore, è stato anomalo: “Non sono stati usati mitra kalashnikov o armi lunghe, ma solo pistole e una granata lanciata a terra. Le persone sono state ferite per le schegge. Per questo abbiamo subito escluso il terrorismo internazionale di matrice somala”.

Le indagini degli investigatori del Kenya non si concentrano però nell’entroterra di Malindi, Chakama e i villaggi vicini.

Sotto osservazione anche il lavoro che Silvia aveva fatto all’orfanotrofio di Likoni di Davide Ciarrapica e del suo socio Rama Hamisi Bindo, l’Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre. È una delle tre ipotesi di cui Il Fatto ha dato conto, e su cui la polizia di Nairobi sta lavorando. Racconta un’amica di Silvia: “Durante il suo primo viaggio in Kenya, Silvia era stata nel villaggio di Davide e all’inizio era contenta. Poi i loro rapporti si erano guastati. Silvia mi telefonava la sera molto costernata perché lui la trattava male e la insultava. Urlava come un pazzo, ed era attaccato ai soldi. Le aveva anche chiesto di pagare di tasca sua un viaggio che era stato organizzato per i ragazzi del centro. Quando Silvia è stata portata in ospedale per una piccola operazione alla spalla, lui non l’ha neanche accompagnata. E lei c’è rimasta male. La trattava con un certo disprezzo. L’ultima volta, il 5 novembre, Silvia è tornata nel centro solo per salutare i bambini e i suoi amici”. Ma era stata accolta con freddezza e disappunto.

 

Perugia, si separa e il marito si fidanza con la giudice

Due coniugi perugini si separano e il marito si fidanza con la giudice civile che ha emesso la sentenza: la vicenda è finita a Palazzo dei Marescialli, poiché l’ex moglie ha presentato un esposto al Csm chiedendo di fare chiarezza sull’accaduto e, in particolare, sul fatto che la giudice in questione abbia rispettato i necessari requisiti di imparzialità e terzietà. La separazione risale al 2018, ma solo nelle scorse settimane il Csm ha ricevuto l’esposto. I due hanno presentato una richiesta di separazione giudiziale al tribunale di Perugia e dopo l’udienza presidenziale di rito per i provvedimenti urgenti, la causa è stata assegnata a uno dei giudici della sezione famiglia. In udienza si arriva a una soluzione condivisa sulla proprietà dell’abitazione e la separazione è consensuale. Dopo 20 giorni, nel novembre 2018, viene depositata la sentenza. A dicembre sarebbe stato il marito a comunicare, secondo quanto segnalato al Csm dalla ex moglie, di avere una relazione con la giudice che si era occupata della loro separazione. I dubbi della donna riguardano le tempistiche e l’imparzialità del magistrato. Da qui, la decisione di rivolgere l’esposto al Csm, che dovrà svolgere accertamenti.

“Il ministro Bonafede riparta dalla mia proposta di riforma”

I tempi sono maturi. “Quando ero ministro della Giustizia avevo già preparato un’ipotesi di riforma del Csm che poi non è andata avanti, che è depositata ancora al ministero: se Bonafede vuole partire da lì, siamo a disposizione per discutere. Se invece si vuole provare a usare questa vicenda per toccare in qualche modo l’autonomia della magistratura, allora diremo no”. Così, a margine del Festival del lavoro a Milano, il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, interviene sulla vicenda Csm. “Salvini dice che chi fa politica non può tornare a fare il magistrato? Io sono meno drastico, ma se ci sono proposte più stringenti se ne può discutere”.

Non è la prima volta che in questi giorni l’ex Guardasigilli sottolinea i “molti ostacoli che trovai, anche da parte della magistratura, per una riforma del Csm. Ci sono ambiti di discrezionalità eccessiva nella scelta dei capi degli uffici”, aveva detto.
“Oggi invece mi paiono in tanti disponibili ad affrontare il tema: bisogna cogliere al volo la disponibilità e procedere con una riforma”.

Si difese dagli insulti per il caso Ruby: punita (e poi scagionata)

Ci volle una sentenza della Cassazione per annullare una sanzione del Csm e sancire che il pm del Tribunale dei minori di Milano aveva il diritto di difendersi da una diffamazione. E così Annamaria Fiorillo, punita per “violazione del riserbo”, ottenne giustizia. Sullo sfondo, uno dei casi più bollenti del decennio: l’affaire Ruby e la telefonata in Questura di Silvio Berlusconi per la “nipote di Mubarak”. Fiorillo rilasciò interviste affermando che il ministro Roberto Maroni aveva mentito. Il leghista disse che la procedura della Questura di Milano, che affidò la marocchina minorenne al consigliere regionale Nicole Minetti, era regolare e fu compiuta con l’avallo del magistrato. Non era vero. Il pm Fiorillo aveva ordinato l’accompagnamento in comunità. “La tutela dei magistrati contro denigrazioni diffamatorie è, oltre che compito del Consiglio Superiore, un diritto per ciascun magistrato”, scrisse la Cassazione. Il Csm avrebbe dovuto difenderla, non sanzionarla.

Si occupava di Expo, ma il capo non voleva: trasferito a Torino

Atrasferirlo a Torino tre anni fa fu una decisione del Csm redatta da Luca Palamara, dopo una lettera del presidente Napolitano che ricordava gli ampi poteri per i capi degli uffici dopo la riforma del 2006. Protagonista dello scontro con il procuratore di Milano Bruti Liberati, l’aggiunto Alfredo Robledo, titolare di delicate inchieste, dai fondi distratti dalla Lega all’Expo 2015, ha lasciato sei mesi fa la toga dopo l’ultimo ‘schiaffo’ del Csm, l’estate scorsa: la mancata conferma nelle funzioni semidirettive contro cui ha fatto ricorso al Tar e alla Corte europea dei Diritti dell’uomo. “Bruti Liberati? Mi disse che avrei dovuto seguire le sue indicazioni perché la mia nomina a procuratore aggiunto era stata resa possibile dal voto di differenza di un consigliere di Md – ha detto nei giorni scorsi – aggiungendo che lui avrebbe potuto far uscire dall’aula al momento del voto quel consigliere della sua corrente dicendogli di andare a fare la pipì e io non sarei stato nominato”.

Indagavano a Salerno su colleghi calabresi: uno a casa, l’altro fuori

Apicella guida la Procura di Salerno ed è vicino alla pensione quando viene travolto dal ciclone della ‘guerra tra Procure’, come fu erroneamente definita (anche da Giorgio Napolitano) l’aggressione dei magistrati di Catanzaro al suo ufficio. Il Csm lo sospese dalle funzioni e dallo stipendio mettendolo fuori ruolo, punendo anche i suoi sostituti: la Nuzzi scaraventata al Riesame di Latina e Dionigio Verasani al Riesame di Cassino. In base a una ricostruzione dei fatti che il gip di Perugia riterrà infondata, archiviando il procedimento penale sui magistrati salernitani: i loro provvedimenti erano corretti, la richiesta di atti a Catanzaro si fondava “su basi normative plausibili”, il sequestro dei fascicoli fu compiuto “per realizzare un fine di giustizia” e non certo, come insinuato dal Csm, per fare un favore a De Magistris e ostacolare i suoi nemici. Nel luglio 2009, Apicella decise di dimettersi dalla magistratura “per una sanzione che incrina la mia fiducia nella giustizia”.

Su Bancopoli voleva processare anche i Ds: espulsa da Milano

Nel 2008 il Csm del vicepresidente Nicola Mancino la sanzionò con il trasferimento per incompatibilità ambientale al Tribunale di Cremona, punendola per alcune dichiarazioni ad Annozero e a Oggi sui “poteri forti” che avrebbero concorso alla scalata Unipol-Bnl, di cui si era occupata come Gip di Milano, inviando alla Camera le intercettazioni di Fassino, Latorre e D’Alema per l’ok a indagarli. “Sarà stato un caso, ma prima di quelle inchieste sono sempre stata considerata un ottimo magistrato – disse –, ma tutto è cambiato dopo la decisione di trascrivere telefonate imbarazzanti”. Il suo fu il primo trasferimento per incompatibilità ambientale deciso dal Csm dopo la riforma Mastella dell’ordinamento giudiziario, che ha inasprito questo istituto. I ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato le hanno dato ragione e nel 2011 Forleo è tornata a Milano. Ora è Gip a Roma: sul suo tavolo le richieste di rinvio a giudizio di Lotti, Scafarto, Del Sette&C. per Consip.

Tanti guai per i processi su mafia e politica fino all’“esilio” ad Aosta

Ha lasciato la toga nel 2013 dopo che il Csm lo aveva trasferito ad Aosta: “Sarei rimasto in magistratura – ha detto l’avvocato Antonio Ingroia – se mi fosse stata data la possibilità di mettere a frutto la mia esperienza ventennale di pm antimafia in Sicilia. Ma c’è chi non vuole, Csm in testa”. Protagonista negli anni di un lungo braccio di ferro con il Consiglio Superiore il ‘padre’ della Trattativa ha collezionato numerosi procedimenti disciplinari, archiviati, per avere espresso più volte il suo pensiero. Per poi avere riconosciuto, una volta smessa la toga, che durante l’esercizio della giurisdizione “ha tenuto un comportamento irreprensibile, svolgendo le funzioni in maniera equilibrata e credibile”. Oggi lo scandalo non lo ha sorpreso: “A capo dell’Anm fino a qualche anno fa, Palamara non ha mai sollevato un dito a difesa dei pm della ‘Trattativa’ diffamati da ogni parte politica, ed era considerato magistrato ‘equilibrato’ con ‘grande senso delle istituzioni”’.