Alle polemiche e agli insulti sulle sue rumorose inchieste ha sempre ribattuto il silenzio. Eppure da una quindicina d’anni provano a fargliela pagare. Da quando Cossiga si lega al dito l’arresto del suo ex addetto alla sicurezza implicato in una storia di tangenti e appalti, e invia un esposto al Csm in cui accusa il giovane pm di aver disposto una custodia cautelare per un reato che non lo consentiva. Assolto. Da allora, più Woodcock alza il tiro sugli intoccabili, più fioccano procedimenti disciplinari e per incompatibilità ambientale. Ne uscirà sempre intonso. Tranne in un caso, l’ultimo. Uno strascico dell’indagine Consip, che gli costa la censura per aver involontariamente violato il riserbo di una vita. Repubblica spiattella una telefonata che doveva rimanere privata e Woodcock viene punito dal Csm per non aver obbedito a un ordine del procuratore reggente. Viene però assolto dall’accusa più grave: sentire Vannoni come testimone e non come indagato fu una procedura corretta e non violò i suoi diritti.
Criticò le istituzioni ricordando Borsellino: anche lui finì al Csm
Dal palco di via D’Amelio, il 19 luglio 2012, si era rivolto a Paolo Borsellino: “Caro Paolo, stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere”, e quelle parole costarono a Roberto Scarpinato un procedimento disciplinare del Csm che mise a rischio il suo trasferimento da Pg di Caltanissetta allo stesso incarico a Palermo. In quell’occasione a sostegno di Scarpinato si schierarono 530 magistrati firmatari di una lettera appello al Consiglio Superiore, numerosi familiari di vittime di mafia (tra cui Agnese, Salvatore e Rita Borsellino) ed esponenti della società civile e il Csm alla fine archiviò l’accusa. Consapevole che il Csm non lo avrebbe nominato procuratore nazionale antimafia, egli stesso ritirò l’anno scorso la sua candidatura per dare al nuovo capo della dna, Cafiero De Raho, la “piena legittimazione” necessaria per il delicato incarico.
Indagava su denunce di “Dema”: catapultata da Salerno a Latina
Èla pm di Salerno che ha indagato sui magistrati calabresi e i politici accusati di aver complottato contro il pm di Catanzaro Luigi de Magistris per sottrargli i fascicoli Why Not e Poseidone. Dopo diverse istanze formali senza esito alla Procura generale di Catanzaro per ottenere la copia del fascicolo e verificare la fondatezza o meno degli esposti di De Magistris, Nuzzi ne ordinò il sequestro. Catanzaro reagì con un atto illegittimo e irrituale, controsequestrando le carte e indagando i pm salernitani, sui quali non avevano competenza. Il decreto di perquisizione monstre, di circa 1500 pagine, viene usato dal Csm di Napolitano e Mancino come pretesto per sanzionare Nuzzi e i colleghi, procuratore capo Apicella compreso. Lei perderà le funzioni inquirenti e finirà al Riesame di Latina. L’allora presidente Anm, Luca Palamara, commentò: “Il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi”. Ora Nuzzi lavora al Riesame di Napoli.
Non bloccò le indagini dei suoi pm: trascinato dinanzi al Csm
Lo hanno accusato di essere “debole”, di gestire la Procura “in modo non adeguato”, persino di avere contribuito con la mancata circolazione delle informazioni tra i suoi pm alla mancata cattura di Matteo Messina Denaro. A capo della Procura di Palermo durante l’inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia, Francesco Messineo è stato accusato anche di avere subìto i condizionamenti di Antonio Ingroia nella gestione dell’Ufficio. Accuse che presupponevano il trasferimento per incompatibilità ambientale, poi archiviate. In quegli anni il Csm non gli ha perdonato di avere avallato la strategia del pool Trattativa nella gestione delle intercettazioni del Quirinale, e di avere avallato l’intervista del pm Nino Di Matteo che aveva confermato l’esistenza delle conversazioni tra il ministro dell’Interno Mancino e il presidente Napolitano. Infine il Csm lo lasciò al suo posto: “Non ha perso la capacità di esercitare con piena indipendenza e imparzialità le sue funzioni”.
Punito e cacciato per “Why Not” riabilitato con ritardo di 10 anni
ACatanzaro sviluppa fascicoli che da prassi altri colleghi lasciavano marcire a modello 45 e poi archiviavano. Così il pm si fa un sacco di nemici. Con Why Not e Poseidone scoperchia un verminaio di intrecci tra magistrati, politici e imprenditori, che passano attraverso studi legali e società di consulenza, intorno ai finanziamenti pubblici in Calabria. Quando scopre che il procuratore capo Mariano Lombardi è amico dei suoi indagati, ne secreta le iscrizioni con atto straordinario e in cassaforte, procedura imparata quando fu uditore dei pm di Napoli Cantelmo e Quatrano, che nella Tangentopoli napoletana fecero lo stesso con l’allora presidente della Camera, Napolitano. Il resto è storia: i suoi superiori lo neutralizzano avocandogli i fascicoli, lui denuncia tutto a Salerno, il Csm lo punisce spedendolo al Riesame di Napoli. Poi viene eletto eurodeputato in Idv e si dimette dalla magistratura con una lettera durissima a Napolitano. Dal 2011 è sindaco di Napoli.
Una raffica di procedimenti perché indaga su Stato&mafia
Prima lo hanno escluso preferendogli tre colleghi più esperti in inglese e nell’uso di Skype, ritenuti più importanti dell’esperienza maturata in 17 anni di processi di mafia; poi gli hanno proposto un trasferimento “per motivi di sicurezza”, rifiutato. Infine lo hanno bocciato di nuovo, perché alla sua domanda non era stata allegata “l’attestazione sul richiesto parere attitudinale”. Titolare di indagini delicatissime sulle relazioni occulte tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, dopo 22 anni di antimafia tra Palermo e Caltanissetta il pm Nino Di Matteo ce l’ha fatta al quarto tentativo ad arrivare in Dna dopo che il Csm, nel marzo 2017, ha valutato gli stessi titoli in modo opposto. E dopo un procedimento disciplinare, concluso con un proscioglimento, per un’intervista del 2014 sulle telefonate intercettate tra Mancino e Napolitano nell’inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia. Il mese scorso, per un’altra intervista, l’hanno escluso dal pool sui mandanti esterni delle stragi.
Il Csm-scandalo dura da 10 anni: ecco i pm puniti (e dimenticati)
Il trojan installato sul cellulare del pm di Roma Luca Palamara, leader di Unicost ed ex consigliere Csm, ha svelato i segreti e le inconfessabili trattative tra le correnti giudiziarie, con il contorno delle interferenze della politica, sulle nomine dei vertici dei maggiori uffici giudiziari. Trattative che hanno ridotto a mercimonio una delle funzioni più importanti del Consiglio Superiore della Magistratura: quella di decidere i capi delle Procure e dei Tribunali. Il Csm è un organo costituzionale che, come insegnano a chiunque apra per la prima volta un manuale di Diritto pubblico, dovrebbe difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Ovvero dei pm e dei giudici che, in nome di questo principio, dovrebbero essere tutelati dalle aggressioni dei politici e dalle pressioni degli altri poteri. Invece il Csm ha finito per infliggere sanzioni o impedire promozioni ai magistrati che, proprio in nome del sacrosanto principio di indipendenza e autonomia, hanno osato ribellarsi alla logica del ‘cane non morde cane’, hanno indagato su altri magistrati collusi, hanno condotto inchieste scomode, hanno emesso provvedimenti sgraditi. Il risultato è stato devastante: le toghe che non hanno avuto paura di toccare i fili scoperti degli intrecci tra poteri che dovevano controllarsi tra loro, e invece si sono seduti alle stesse tavolate, sono stati puniti, cacciati dai loro uffici, costretti ad abbandonare inchieste che poi si sono perse nei vicoli della malagiustizia, obbligati a trasferimenti dolorosi per le loro carriere e le loro vite private, indotti a dimettersi e a intraprendere altre strade o comunque intimiditi con accuse pretestuose. Ecco le loro storie.
La scritta rimossa dai sindaci: “Verità per Giulio Regeni”
Sassuolo ieri è stata l’ultima. In principio fu Trieste – 8 ottobre 2016 – dove il sindaco Di Piazza aveva dichiarato di “essersi tolto un dente” rimuovendo lo striscione con la scritta “Verità per Giulio Regeni” dalla facciata del palazzo comunale. Lo stesso ha fatto il suo omologo leghista nella cittadina modenese ieri, preceduto di un solo giorno nuovamente dalla città dell’alabarda: liberata la facciata del palazzo della Regione Fvg per scelta del governatore Fedriga. Grandi striscioni che richiamano l’attenzione di chiunque passi davanti alle Istituzioni, un tentativo per impedire che cali l’oblio sulla vicenda. Cosa dà fastidio? La scelta cromatica? Il nome di un giovane ricercatore rapito, seviziato e ucciso al Cairo? O la parola “verità”? La rimozione della scritta è avvenuta: a Molfetta (gennaio 2017), Ravenna (il 31 gennaio 2018 esponente di FI usò le parole “la pagliacciata dello striscione”), Firenze (maggio 2018 rimozione temporanea per il G7da Palazzo Vecchio), Trino in provincia di Vercelli ( 4 agosto dello stesso anno) un mese dopo a Pisa dal terrazzo del Comune, Castagneto Po in provincia di Torino il 13 giugno anticipando Trieste e Sassuolo. Per ora.
“Prima salvavamo gli altri, ora noi stessi”
Quando gli è arrivata la notizia del sequestro della “sua” nave, la Iuventa, era appena tornato a casa per festeggiare il matrimonio di suo fratello in Portogallo. Era il 2 agosto di due anni fa, all’inizio della polemica – oggi diventata crociata – contro le ong impegnate a salvare vite nel Mediterraneo. Oggi Miguel Duarte, 26enne, dottorando in Matematica a Lisbona, è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dalla procura di Trapani. L’altroieri sera a Bruxelles, il primo ministro portoghese Antonio Costa nel corso di un incontro bilaterale ha chiesto al premier Giuseppe Conte come sia possibile che in Italia quel ragazzo rischi vent’anni di carcere. “Non posso farci nulla, la magistratura è indipendente”, ha risposto il nostro presidente del Consiglio. Eppure, a Lisbona sperano che “le autorità italiane capiscano che si tratta di un processo politico”.
Il governo portoghese ha portato il suo caso sul tavolo del Consiglio europeo. Che effetto le ha fatto?
C’è una grossa mobilitazione nell’opinione pubblica del mio Paese, da quando insieme all’associazione di cui faccio parte, Humans before borders, abbiamo messo on line un video, per sostenere la raccolta fondi per le spese legali, che è diventato virale. Molti non sapevano quello che è accaduto: scoprire che rischio vent’anni di carcere per aver salvato vite umane ha provocato una fortissima indignazione. Non ci si riesce a capacitare di una sproporzione simile.
Come è nata la sua esperienza in mare?
Ho partecipato ad alcune missioni tra l’autunno del 2016 e l’estate 2017. Leggevo delle sofferenze dei migranti e dei rifugiati e sentivo che qualcosa andava fatto. Avevo una domanda fissa in testa: perché non io? Basta un giorno in mare per capire che quelle persone affrontano quel viaggio perchè non hanno altra scelta: nessuna madre metterebbe suo figlio in mare sapendo di avere così poche possibilità di sopravvivere. Criminalizzare il lavoro dei volontari umanitari è una ingiustizia enorme.
Cosa pensa di quello che sta facendo il governo italiano sull’immigrazione?
Io credo che non debba essere l’Italia a rispondere da sola di una crisi che riguarda tutti i Paesi europei. Ma penso anche che la soluzione che avete trovato – processare chi salva vite umane – significhi lasciar morire le persone. Una cosa intollerabile per l’Unione europea che si riconosce nella Dichiarazione universale dei diritti umani.
Tornerebbe a bordo della Iuventa?
Gli avvocati ci hanno sconsigliato di partecipare a qualsiasi missione fino a che non sarà chiaro l’esito del processo. Quello che trovo assurdo è che prima avevamo volontari concentrati a salvare gli altri, adesso devono impiegare le energie per difendere loro stessi.
Casaleggio media e apre alla deroga al doppio mandato
La deroga al limite dei due mandati non è più un tabù nemmeno per Davide Casaleggio: un’apertura che potrebbe portare a una svolta storica per il Movimento 5 Stelle e che pure era stata seccamente smentita solo prima delle Europee. “È un tema di cui stiamo parlando, come su altri, da diversi mesi. Continuiamo a verificare se le nostre regole siano attuali”, ha detto l’erede di Gianroberto, ieri sera a Catania per il Rousseau City Lab, l’evento targato Cinque Stelle sul tema lavoro, che si è concluso alle 23 con un’intervista-chiacchierata tra lo stesso Casaleggio e Alessandro Di Battista.
Proprio lui che sul nodo deroga ai mandati ha aperto il confronto interno al Movimento, suggerendo l’ipotesi che – se si dovesse andare a elezioni anticipate in settembre – la legislatura in corso non dovrebbe essere conteggiata ai fini delle candidature. Casaleggio sembra dunque seguire il ragionamento dell’ex deputato, secondo cui togliere dal banco della discussione la paura dei parlamentari di non essere rieletti possa essere un modo efficace per togliere a Matteo Salvini un’arma di pressione sui compagni di governo.
Ma c’è anche altro. Come noto, nel suo ultimo libro, Politicamente scorretto edito da PaperFirst, Di Battista ha accusato i colleghi del Movimento di essersi chiusi nei ministeri e di essersi trasformati in dei “burocrati”. Troppo lavoro e poco contatto con gli elettori: così sarebbero precipitati al 17 per cento del tracollo alle Europee. Un tema che da giorni anima la discussione interna ai 5 Stelle. Al punto che venerdì sera, durante un confronto con gli attivisti a Terni, Luigi Di Maio si è lasciato andare: “Quando ho letto dei burocrati chiusi nei ministeri mi sono incazzato”, è la frase intercettata dai microfoni de ilfattoquotidiano.it. Di Battista risponde da Catania: “Domani chiamo Di Maio – dice appena arrivato in piazza – e sarà tutto a posto. Non rispondo a polemiche montate ad arte”.
In realtà in tanti, tra attivisti e parlamentari stanno ragionando su cosa non abbia funzionato durante le ultime elezioni. “Salvini ci ha fregati. Noi portiamo avanti le riforme e lui ottiene consensi parlando di migranti e baciando crocifissi davanti alle telecamere”, si lamenta un attivista di lungo corso.
Sul punto Casaleggio non sembra sbilanciarsi troppo. La linea del lavoro, alla lunga, è convinto che premierà, spiega mettendosi questa volta nei panni di Di Maio: “Le persone che nel M5S hanno partecipato attivamente alla politica hanno lavorato molto in questi mesi – spiega davanti ai giornalisti –. Non a caso nove delle undici riforme che sono state fatte nel giro di un anno sono targate M5s”. Questo però non sembra pagare nei sondaggi: “Non li guardo”, taglia corto Casaleggio.
Dentro il Movimento nessuno sembra volere fare la guerra. Almeno per il momento. Tra parlamentari e senatori il confronto Di Battista-Di Maio non è certamente passato sotto traccia. “Io stimo molto Alessandro. Lui è una risorsa incredibile – spiega il senatore Mario Giarrusso –. Fare un’analisi interna è giusto e lui ci ha invitati a fare meno negli uffici e più nelle piazze. Adesso però dobbiamo ragionare su come riuscirci perché si tratta comunque di una fatica”. A rilanciare il tema dei difetti nella comunicazione sono anche Dino Giarrusso, appena eletto in Europa: “Non si può ridurre il libro a una sola frase – replica l’eurodeputato – Dobbiamo essere uniti e compatti ma non dobbiamo confondere il risultato elettorale come un qualcosa che sia utile a capire se abbiamo lavorato bene o male. Ci siamo scontrati con un sistema elettorale vergognoso ma è anche vero che, probabilmente, a livello di comunicazione dovevamo fare meglio”. Stessa linea per il parlamentare Eugenio Saitta: “I risultati delle urne ci dicono che dobbiamo comunicare meglio quello che facciamo. Sicuramente c’è stato un problema. La ricetta è testa bassa e più lavoro”. Altro che burocrati.