Quattro su cinque delle Regioni con il tasso di occupazione più basso in Europa sono nel Sud Italia con meno della metà delle persone tra i 20 e i 64 anni che ha un lavoro a fronte del 73,1% dell’Ue. I dati Eurostat riferiti al 2018 sono impietosi con la regione peggiore in graduatoria che è la Mayotte (Regione d’oltremare francese che è in Africa vicino al Madagascar) con il 40,8% delle persone tra i 20 e i 64 anni al lavoro seguita dalla Sicilia con il 44,1%, la Campania con il 45,3%, la Calabria con il 45,6% e la Puglia con il 49,4%. L’Italia, pur avendo un tasso di occupazione complessivo medio maggiore di quello della Grecia (il 63% contro il 59,5%), ha un divario più ampio tra le singole regioni con l’Emilia Romagna al 74,4% e la provincia di Bolzano al 79%. La Spagna è già al 67% dal 59,9% del 2014 mentre l’Italia nello stesso lasso di tempo è passata dal 59,9% al 63%). Tra le regioni nelle quali lavora la più alta percentuale di persone tra i 20 e i 64 anni c’è quella di Stoccolma con l’85,7% (l’intera Svezia è all’82,6%). Il dato italiano è basso soprattutto per la scarsa partecipazione al lavoro delle donne. Nel nostro Paese tra i 20 e i 64 anni lavora il 53,1% delle donne contro il 67,4% medio in Ue.
Sull’orlo della fame: i soliti liberi professionisti e commercianti
L’ultima comunicazione ufficiale del Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia sulle attività economiche, dove si annida l’evasione fiscale più abitudinaria e consistente, risale al 2013. Quell’elenco dei soliti noti che le statistiche ci proponevano ogni anno e che risultava ormai noioso per tecnici e giornalisti. Ma era anche sempre più frustrante e motivo di rancore sociale e politico per lavoratori dipendenti e pensionati che, invece, non possono sfuggire al fisco neanche se lo volessero. Nell’epoca della grande evasione di massa concessa in gran parte a lavoratori autonomi e imprenditori e trasformata da alcuni in base elettorale, erano diventate politicamente scorrette.
Allora le cronache riferivano, attività per attività, che molti autonomi e professionisti dichiaravano di aver realizzato redditi scandalosi e poco credibili che in alcuni casi superavano di poco mille euro al mese. Gli istituti di bellezza, segnalava il Mef, dichiaravano un reddito medio di 7.200 euro l’anno, i bar 17.800 euro, i taxi 15.600 euro. I gioiellieri nel 2012 (anno di imposta 2011) asserivano di aver guadagnato in media 17.300 euro. Guadagni ridotti anche per alberghi (18.300 euro), autosaloni (10.100 euro), parrucchieri (13.200 euro), noleggiatori di auto (5.300 euro). Esistevano perfino una serie di attività economiche che non davano guadagni ma perdite: sale da ballo, night club, centri per il benessere fisico e stabilimenti termali. A sostenere la media dei redditi negli studi di settore restavano soprattutto i professionisti. Sappiamo dall’encefalogramma piatto del recupero dell’evasione e dall’incidenza della pressione tributaria relativa su dipendenti e pensionati (arrivata quasi all’85%) che il panorama dei contribuenti più affezionati e fedeli non è cambiato. Le più asettiche statistiche comunicate dal Mef quest’anno ci dicono, infatti, che i piccoli imprenditori e commercianti con partita Iva soggetti agli studi di settore, circa 3,183 milioni, dichiarano un reddito medio di 28.800 euro, contro i 20.560 euro del lavoratore dipendente. Gli imprenditori sono circa 1,6 milioni (-4,4% rispetto al 2016), di cui circa 1,5 milioni in regime di contabilità semplificata (91%) mentre oltre 139.000 adottano la contabilità ordinaria. Il 56% dei soggetti dichiara un reddito d’impresa inferiore a 15.000 euro e solo l’1% un reddito superiore a 150.000 euro. In media poco più di 16 mila euro l’anno. I lavoratori autonomi sono oltre 765.000 (-3,1% rispetto al 2016), il 38% dichiara compensi da lavoro autonomo inferiori a 25.820 euro e solo il 5% compensi superiori a 185.920 euro.
Il decremento dei redditi denunciati era già influenzato dalla crescente adesione al regime forfettario. Nel 2019 con l’introduzione della flat tax per le partite Iva il gettito per lo Stato continuerà a diminuire. Rispetto all’anno precedente si assiste anche a una generale flessione dei soggetti, in particolare nelle classi fino a 25.820 euro. L’87,8% dei professionisti dichiara un’imposta netta, pari a 12,4 miliardi di euro, per un ammontare medio di 18.380 euro.
Tra i contribuenti con redditi maggiori o uguali a 100 mila euro prevalgono avvocati e medici, tra gli imprenditori quelli attivi nel settore delle costruzioni, seguiti da chi si occupa di impianti idraulici e di condizionamento e dalle tabaccherie. I dati arrivano dalle nuove statistiche diffuse dal Tesoro sulle dichiarazioni fiscali 2018 (relative ai redditi del 2017), che si concentrano sui contribuenti soggetti fino allo scorso anno agli studi di settore, oggi sostituiti dagli indici di affidabilità fiscale: liberi professionisti, lavoratori autonomi e imprese. Se non ci si accontenta e si vanno a spulciare le tabelle pubblicate dal Mef si trovano informazioni maggiormente dettagliate sui redditi dichiarati per adeguarsi ai parametri dei defunti studi di settore.
E, così, nelle professioni mediche si è dichiarato in media un reddito annuo di 53 mila euro. Studi legali e notarili si attestano a 63 mila 200 euro, i consulenti fiscali e del lavoro a 58 mila 700. Nel commercio al dettaglio di prodotti alimentari, bevande e tabacco si guadagnano imponibili da 15 mila e 500 euro, gli albergatori 34 mila 900. E poi bar e caffè 15 mila 200 euro, i riparatori di auto e moto 18 mila 800 euro, parrucchieri e servizi alla persona 15 mila 200, i 25,3 mila delle costruzioni, ai quali si aggiungono i 32,4 mila delle attività immobiliari. La conclusione è che per molte categorie la tassa “piatta” già esiste, in barba all’equità della tassazione e alla progressività imposta dalla Costituzione. Evadere “si faceva ma non si diceva”, adesso è diventato tutto legale.
Dl Crescita, Zingaretti irritato col gruppo: “Al voto finale in 30…”
Spesso nelle auleparlamentari ci si marca a vicenda: la maggioranza controlla quanti sono i presenti tra i banchi dell’opposizione e si regola di conseguenza (e viceversa). Questo per dire che il decreto Crescita al 99,99% sarebbe passato comunque. Resta la figuraccia del Pd, che al voto finale alla Camera venerdì si è presentato con soli 30 deputati in aula: “È chiaro che qualcuno dovrà spiegare cos’è accaduto”, s’è irritato Nicola Zingaretti. Per ora nessuno gli ha risposto con l’eccezione di Ivan Scalfarotto (che era presente): “Molti hanno lasciato la Camera prima del voto per non perdere l’ultimo aereo”. Come che sia, è finita con 270 voti a favore, 33 contro e 49 astenuti: 270 deputati è una cifra molto bassa (come i 288 che avevano votato la fiducia giovedì) e assai inferiore alla maggioranza assoluta di 316, ma difficilmente l’opposizione avrebbe potuto battere i gialloverdi anche se presente in massa. Il gruppo Pd, però, che sul decreto aveva fatto (almeno a parole) un’opposizione dura a Montecitorio non ne esce bene: al voto finale 30 presenti, 7 in missione tra cui il capogruppo Delrio e 73 assenti (più l’autosospeso Luca Lotti) tra cui big del partito come Gentiloni, Orlando, Boschi e altri.
Troppi assessori: a Rivoli la destra parte male
Primo passo e subito un inciampo. Non è un buon esordio quello di Andrea Tragaioli, 42 anni, neoeletto sindaco del centrodestra (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e altri) a Rivoli, per quasi quattro decenni una delle roccaforti rosse dell’hinterland.
A pochi giorni dal ballottaggio che lo ha visto vincitore sul candidato di centrosinistra per soli 160 voti (in una città di 49 mila abitanti) ha varato la giunta, ma è stato costretto ad annullare tutto. La legge impone alle città con meno di centomila abitanti una giunta con un massimo di sette assessori a cui sommare il primo cittadino. Tragaioli, senza contare se stesso, aveva nominato otto assessori di cui tre donne. Non è servita nemmeno la presenza, tra gli esterni, di Gianmarco Montanari, uomo dall’ottimo curriculum (vanta diverse lauree), ma soprattutto city manager di Torino dal 2013 al 2016 con Piero Fassino: “Non sono ancora stato nominato assessore e non mi sono ancora occupato di nessuna decisione del Comune – premette Montanari, direttore generale dell’Istituto italiano di tecnologia – Non ho neanche partecipato alla campagna elettorale e non ho messo piede in Comune”.
Insomma, non ha ancora avuto modo di portare la sua esperienza al servizio di Tragaioli che, interpellato, scarica la colpa sul segretario comunale: “Lo Statuto della città prevedeva un minimo di sei e un massimo di otto assessori. Quando ho varato la mia giunta l’ho portata dal segretario comunale che ha visto la lista e ha firmato. Quindi ho fatto arrivare tutti i consiglieri comunali che nominavo assessore e gli ho detto di dimettersi perché nei consigli comunali di città grandi come Rivoli gli assessori non possono essere anche consiglieri”. Per scrupolo ordina una nuova verifica: “Ho chiesto al segretario comunale di fare un ulteriore controllo e alle 22 di sera mi ha corretto: la giunta deve avere otto componenti nel senso di sette assessori più il sindaco, non otto più il sindaco”.
Bisognava cambiare prima che fosse tardi: “Fortunatamente due consiglieri non si erano ancora dimessi e ho dovuto chiedere a uno dei due di rinunciare all’incarico”. Per evitare sbagli sarebbe bastato ricordare cosa capitò al suo predecessore, Franco Dessì, “condannato” dal Tar Piemonte a riformare la Giunta, inizialmente composta da nove uomini (lui incluso) e una sola donna, in modo da avere maggiore parità di genere: Dessì decise di revocare l’incarico a due uomini e distribuire le deleghe, senza nominare altre donne. L’anno successivo, rieletto, il dem fece una giunta di tre donne e cinque uomini e anche qui furono polemiche perché le donne erano meno del 40%.
Tragaioli, peraltro, non è un politico di primo pelo: è stato per dieci anni sindaco di Rosta, un comune vicino, e consigliere nazionale Anci. “Quando uno ha un segretario comunale, persona di garanzia che conosce tutto, si fida”, dice. Stavolta, però, ha fatto male e si è arrabbiato così tanto che il funzionario sarà esposto al pubblico ludibrio: “Mercoledì andrò in consiglio comunale per varare la squadra ufficialmente. Ho chiesto al segretario che venga ad assumersi le responsabilità. Le ossa rotte sono le mie, non le sue”.
Spartizione alla gialloverde: Privacy a 5S, Agcom a destra
Una poltrona ciascuno: prima il metodo, poi il merito. Questa settimana in Parlamento va in scena la replica, l’ennesima, di una spartizione scientifica e sfrontata del potere con la nomina dei quattro membri – incluso il capo, il cosiddetto garante – dell’Autorità della Privacy. Ai tempi del governo gialloverde, il metodo è mutuato dal passato: i Cinque Stelle reclamano il Garante della Privacy, la Lega di Salvini prenota il vertice dell’Autorità per le Comunicazioni, in sigla Agcom. Un lascito che il ministro dell’Interno può condividere con gli alleati locali e saltuari di Forza Italia per rabbonire Silvio Berlusconi con la consueta tutela degli interessi di famiglia, cioè di Mediaset.
I commissari Agcom scadono l’11 di luglio, la Privacy è in agenda mercoledì con una doppia votazione convocata per le 9:30 al Senato e per le 16 in punto alla Camera: senatori e deputati eleggono a maggioranza due membri a testa e il collegio, appena insediato e al solito istruito dai partiti, indica il capo.
Il Parlamento ha raccolto oltre 200 candidature, tra docenti universitari, politici, avvocati, esperti a vario titolo e lì, in qualche luogo ben arieggiato, languono in attesa che si ripeta la funzione più o meno laica che rinnova le tradizioni d’aula: un messaggio dei capigruppo – già indottrinati – sui telefoni dei senatori la mattina e dei deputati il pomeriggio per svelare il nome di chi va votato. Nessuno ha proposto una selezione dei candidati, nessuno ha avvertito l’esigenza di audizioni o dibattiti, nessuno ha suggerito la formazione di una commissione tecnica per scremare la lunga lista, neanche ispirati dal governo che così ha svolto una prima valutazione oggettiva dei giudici del tribunale dell’Unione europea. Nessuno, perché? Che banalità: per lasciare assoluta discrezione e autonomia ai politici, onniscienti su temi di Privacy e di Agcom.
I Cinque Stelle hanno adocchiato presto la Privacy, e pure qui la motivazione è semplice, anzi pubblica. L’Autorità di Antonello Soro, il garante uscente, di professione dermatologo, deputato per cinque legislature coronate con un biennio da capogruppo del Pd, più volte ha contestato la gestione dei dati personali degli iscritti all’associazione Rousseau, la piattaforma di Davide Casaleggio che controlla il Movimento.
Un paio di mesi fa, l’Autorità ha sanzionato Rousseau con una multa di 50.000 euro e Casaleggio, il figlio di Gianroberto, riservato e prudente, ha parlato di “chiaro atto politico”: “Alla Privacy non ci può stare un ex capogruppo del Pd e più in generale non ci può stare un politico, deve starci un professionista”. E il ministro Luigi Di Maio, in forma più prosaica, con poco garbo per il Parlamento, ha promesso serafico: “Ci adopereremo per individuare una figura al di sopra di qualsiasi sospetto”. Il momento per “adoperarsi” è adesso. Al ministro e a Casaleggio spetta il compito di pescare il prescelto tra i candidati. Questo giro di poltrone misura anche l’influenza di Giuseppe Conte nei Cinque Stelle.
Il premier ha un suo profilo per la Privacy: Giuseppe Busia, segretario generale dell’Autorità; mancato segretario generale a Palazzo Chigi (ci andò per un informale passaggio di consegne, e poi il nulla); già consigliere giuridico per un trimestre nel gabinetto del presidente del Consiglio; al pari del premier ha frequentato il centro universitario di Villa Nazareth, altare del cattolicesimo democratico; consolidati rapporti con l’avvocato Guido Alpa, mentore di Conte.
Busia è più di una suggestione, il professore Vincenzo Zeno Zencovich all’Agcom è il desiderio neanche troppo nascosto del centrodestra e del partito Mediaset. Zeno Zencovich, però, corre anche per la Privacy.
Il manuale più aggiornato del Parlamento prevede: per la Privacy, due posti ai Cinque Stelle tra cui il Garante, uno per la Lega, uno per le opposizioni; per l’Agcom, il presidente al Carroccio o al centrodestra, un commissario sempre ai leghisti, uno ai Cinque Stelle, due per le opposizioni (probabile uno ai dem). Postilla: le chiamano Autorità indipendenti.
No Tav, No Triv e No Grandi Navi: il fronte del clima
Si sono incontrati ieri alla Sapienza per discutere delle ulteriori iniziative da mettere in campo. Sono quelli della popolosa marcia per il clima che il 23 marzo scorso hanno sfilato lungo il centro della Capitale, sulla scorta dei Friday for future benedetti dalla giovane attivista svedese Greta Thunberg.
Ora i movimenti e i comitati per la giustizia climatica consolidano un fronte comune nazionale. Si intensificano le assemblee partecipate da attivisti provenienti da tutta Italia, allo scopo di contrastare le grandi opere ritenute inutili e dannose. Meglio noti come il fronte dei “no”, ribadiscono: “Chi credeva che ci saremmo fermati alla piazza romana si sbagliava di grosso”.
Considerano la distruzione dei territori e i cambiamenti climatici due facce della stessa medaglia. Rifiutano la politica ufficiale, precisando che “i risultati delle elezioni europee non sono confortanti: nessun partito è in grado di produrre quel cambio di rotta che solo un grande movimento può innescare”. Un grande movimento di fatto è quello che da mesi stanno costruendo.
Nel corso dell’assemblea di ieri, sono state presentate le campagne “Per il mare, fuori dal fossile” (tra Puglia e Friuli), “Acqua bene comune” e il “Climat Camp” che si svolgerà dal 4 all’8 settembre a Venezia con il coinvolgimento di alcuni movimenti nordeuropei e la partecipazione del comitato No Grandi Navi. Durante l’estate, oltre al festival Alta felicità dei No Tav in Val Susa, si sono dati appuntamento per il “Campeggio No Snam” in Abruzzo, dove è in corso una battaglia istituzionale e della società civile per impedire la costruzione del gasdotto e della centrale di gas a pochi metri da una delle più temute faglie sismiche. Si tratta della prosecuzione del gasdotto Tap. Una prima campagna è già stata lanciata il 5 giugno durante la Giornata mondiale per l’ambiente. Si chiama “Giudizio universale” e consiste nella prima causa civile contro lo Stato italiano, che verrà depositata in autunno presso il Tribunale di Roma, per la violazione del diritto umano al clima.
La Sibilla Giorgetti e quella “giusta causa” per finirla col M5S
Giancarlo Giorgetti ha 52 anni, una poltrona da sottosegretario alla presidenza del Consiglio e l’aria di chi passa di lì per caso. Ma nulla è casuale nelle frasi del numero due della Lega, carnefice abituale dei Cinque Stelle, che ieri sul Corriere della Sera ha fissato una data sul calendario: “Tra una settimana si capirà tutto”. Ossia se il governo supererà l’estate, schivando il voto a settembre, oppure se il banco salterà come sperano lui e altri leghisti di peso. Consapevoli che “serve una giusta causa per sciogliere” il contratto tra i gialloverdi.
Nell’attesa di trovarla, c’è il M5S che risponde con rabbia gelida: “Probabilmente è un segnale a Matteo Salvini, Giorgetti vuole farsi nominare commissario europeo”. La contraerea per il primo nemico, il sottosegretario che sembra una Sibilla (o una Cassandra) in giacca e cravatta. L’oracolo che da mesi ripete la profezia di sventura: “Così il governo non va lontano”. E ogni volta il Movimento insorge e accusa: “Vuole farci cadere, ma non va mica d’accordo con Salvini”. Però somiglia più a un auspicio che a una verità. Perché i due capi vogliono la stessa cosa, far impazzire i 5Stelle. Poi per la sopravvivenza del governo si vedrà. Anche se su tutto pesa sempre l’avviso ai naviganti del premier Giuseppe Conte, pronto a salutare “perché io un lavoro ce l’ho”.
La manina. Già a luglio, un mese dopo la nascita del governo, sul palco di Pontida Giorgetti fa il misterioso: “Vediamo se l’asse tra Lega e M5S dura, magari ci saranno evoluzioni, magari andrà avanti”. Ma il primo affondo davvero importante lo piazza in ottobre quando Luigi Di Maio a Porta a Porta urla che qualcuno, “non so se una manina politica o una tecnica”, ha manipolato il decreto fiscale appena recapitato al Colle, ampliando le maglie del condono fiscale. E dai 5Stelle in tanti puntano il dito contro Giorgetti. Così il sottosegretario su Repubblica va di mazza ferrata: “Sono una persona per bene, non consento a nessuno di alludere a complotti e trame. Se si continua ad attaccare chi prova a tenere in piedi la baracca, il governo non andrà molto lontano”. Ed eccolo, il mantra.
Contro il reddito.
A metà dicembre Giorgetti si ritrova a un convegno su “Sovranismo contro populismo” e alla sua destra trova Giorgia Meloni, mancata alleata di governo. Nessuno se lo aspetta, ma il sottosegretario mira al cuore del M5S, cioè al reddito di cittadinanza: “Al Sud ha vinto perché gli elettori vogliono il reddito di cittadinanza, ma il pericolo è che questa misura alimenti il lavoro nero”. Poi va oltre, con un sorrisetto mal celato: “Magari piace all’Italia che non ci piace ma con cui dobbiamo confrontarci e governare”. Abbastanza per far infuriare Di Maio: “A me l’Italia piace tutta, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta”. E il capogruppo in Senato Stefano Patuanelli parla di “offesa a milioni di cittadini”. In generale, nel M5S si convincono che Giorgetti voglia far saltare tutto prima delle Europee.
Grillini discoli. Il sottosegretario prende l’abitudine di farsi sentire a cadenza regolare sul Corriere della Sera. Ed è sul quotidiano che in aprile torna a mordere gli alleati: “I 5Stelle sono ciò che noi della Lega siamo stati, fanno gli errori che facemmo noi quando arrivammo al governo. E noi andammo a sbattere”. Era il 1994, ai tempi del primo esecutivo a guida Berlusconi. Moltissimo tempo dopo, Giorgetti declassa i grillini a carneadi: “Ogni volta che tenti di spiegare certe cose, loro reagiscono attaccandoti. Sarà che ognuno vuole sbagliare per conto proprio…”.
Sull’arbitro Conte. La campagna elettorale per le Europee che è tutta una rissa si trascina verso il finale, quando Giorgetti alza il tiro. Così il 20 maggio punta dritto Conte: “Non è una persona di garanzia. È espressione dei 5 Stelle ed è chiamato alla coerenza di appartenenza”. Di seguito, un’ammissione che evoca il fine corsa: “Il governo è fermo, non riusciamo a fare neanche gli ordini del giorno”. E l’obiettivo è stanare il premier, per indebolirlo. Così Conte risponde, con una nota che sa già di ultimatum: “Se si mette in dubbio l’imparzialità del presidente del Consiglio si mette in discussione anche l’azione di governo e le sedi ufficiali per farlo sono il Consiglio dei ministro e in prospettiva il Parlamento”. Tradotto, se volete la crisi, fatevi avanti. Ma Giorgetti non arretra, e due giorni dopo insiste: “Senza affiatamento non si va avanti”.
Tenersi pronti. Le Europee vanno come noto, con la Lega che stravince e il M5S che straperde. E ora Giorgetti può invocare il bottone rosso quando gli pare. “Voto a settembre? Bisogne sempre tenersi pronti” scandisce il 13 giugno a margine di un evento, e fatica a non sorridere. I 5Stelle stanno sulla graticola. E rosolarli è il suo primo piacere.
Ora il Ministro di Tutto convoca pure i sindacati
Un tempo c’era, tra le sue molte maschere, il presidente operaio, ché la bulimia esistenziale di Silvio Berlusconi lo portava a ingoiarsi l’intero mondo esterno. Matteo Salvini a suo modo è più sobrio e s’accontenta di fare il ministro di tutto.
Se va negli Stati Uniti, ad esempio, vende tutta la bancarella Italia alla Casa Bianca senza neanche ricordarsi chi sono il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri (quest’ultimo, effettivamente, lo ricordano in pochi). Se bisogna scrivere una risposta alla Commissione Ue sui conti pubblici si presenta coi tecnici leghisti al ministero dell’Economia. Se bisogna chiudere i porti parla anche per il ministero delle Infrastrutture. Della Difesa si sente il capo per diritto. Ieri, e concludiamo questo incompleto regesto, s’è fatto pure ministro del Lavoro e – evidentemente è un vizio – dell’Economia: “Entro luglio inviterò i sindacati al Viminale, con altri rappresentanti del lavoro, del commercio, dell’impresa e dell’agricoltura per confrontarci e ragionare insieme sulla prossima manovra economica”.
In sostanza, par di capire che il segretario della Lega voglia fare un convegnone al ministero dell’Interno tipo quello dei consulenti del lavoro che si è tenuto in questi giorni a Milano. A meno che la variopinta compagine di cui vuole ascoltare il parere non sia una sua personale rivisitazione del Cnel o, absit iniuria verbis, della Camera delle Corporazioni.
Come che sia, ma solo dopo aver fatto il ministro dello Sviluppo economico sull’ex Ilva, il titolare del Lavoro Salvini s’è anche vantato dei risultati raggiunti: “Sono sicuro che in un anno questo governo abbia fatto di più rispetto ai governi di sinistra che ci hanno preceduto per lavoratori e precari. Con la flat tax per famiglie, lavoratori e imprese faremo ancora di più”. E non ci metterà poi tanto: “La Lega vuole anticipare la manovra economica all’estate, non c’è tempo da perdere”.
In attesa di scrivere la manovra, però, il leader leghista ha pensato di annettersi per alcuni secondi anche le competenze per gli Affari regionali: “A Landini che ha criticato le autonomie manderò una copia della proposta, che evidentemente non conosce: l’autonomia finalmente porterà merito e responsabilità anche ai politici del Sud”. Forse il testo potrebbe consegnarlo al segretario della Cgil direttamente a mano a luglio, quando da ministro del Lavoro e pure dell’Economia convocherà le parti sociali al ministero dell’Interno. Siccome come quando uno si mette a fare Zelig non si sa mai come finisce, ha avuto buon gioco il Pd a ricordare al nuovo ministro del Lavoro che, se quella è la sua area di interesse, potrebbe iniziare da casa sua: i sindacati di polizia aspettano il rinnovo del contratto delle forze dell’ordine, scaduto quasi sei mesi fa. Con tutte le cose che ha da fare, Salvini se ne sarà dimenticato.
Al Sud sempre meno posti e ancora tante crisi
Dopo una lenta ripresa, è dalla seconda metà del 2018 che i posti di lavoro al Sud sono tornati a diminuire. Il calo sta riguardando sia i precari sia i contratti a tempo indeterminato, nonostante nel frattempo sia arrivato il decreto Dignità che al Nord sta invece funzionando bene. Più di metà dei 2,7 milioni di disoccupati italiani vive nelle regioni meridionali, dove chi ha la “fortuna” di avere un impiego è part time, involontario nel 14,3% dei casi, ma la percentuale sale di nove punti se consideriamo solo le donne. Quelli impegnati nelle grandi industrie, da Whirlpool a Fiat Chrysler, stanno lottando per mantenere il posto o – nel migliore dei casi – stanno aspettando con ansia la scadenza della cassa integrazione per conoscere il proprio destino.
La fotografia sul mercato del lavoro nel Mezzogiorno, così come emerge dai dati Istat, dimostra una cosa: i sindacati in piazza dovrebbero andarci tutti i giorni per chiedere alla Lega di mettere da parte i progetti di autonomia e affrontare l’emergenza di un Paese spaccato in due. A partire dai risultati del decreto Dignità: a novembre 2018 sono entrate in vigore le nuove norme di contrasto al precariato, ovvero l’obbligo di causale per i rapporti superiori a dodici mesi, il limite di 24 mesi (non più 36) e di quattro rinnovi (non più cinque). L’obiettivo del ministro Luigi Di Maio era accelerare le stabilizzazioni dei contratti a termine, e in effetti è proprio quello che è successo. Non ovunque, però, perché a beneficiarne è stato soprattutto il Nord.
I posti stabili nelle aree settentrionali erano 7 milioni e 972 mila nel terzo trimestre del 2018; poi è arrivata la stretta voluta dal governo e nel trimestre successivo sono saliti a 7 milioni e 995 mila e sono passati a 8 milioni e 126 mila nel periodo tra gennaio e marzo 2019. Tre trimestri di crescita costante e, anche se la parallela caduta dei contratti a termine, in totale il numero di occupati dipendenti ha segnato un saldo positivo: i posti di lavoro sono aumentati nonostante l’Italia abbia affrontato la recessione tecnica. Al Sud la situazione è molto diversa: nel terzo trimestre 2018 erano 3 milioni e 610 mila quelli con un posto “fisso”, ma nel trimestre successivo sono diventati 3 milioni e 591 mila per poi scendere fino a 3 milioni e 571 mila nel primo trimestre dell’anno in corso. Tre trimestri con il segno meno; nel Mezzogiorno il decreto Dignità ha colpito i rapporti a scadenza, ma non sono saliti quelli permanenti: abbiamo quindi meno posti di lavoro, precari o tutelati che siano.
Il tasso di disoccupazione del Sud, cioè la quota di individui che cerca con insistenza un impiego, resta al 18,3%. L’impresa è talmente da ingrossare il tasso di inattività fino al 45,7%. In pratica, il Meridione ha 13,6 milioni di persone in età lavorativa: 6,1 milioni con un lavoro, 1,4 milioni disoccupate e 6,1 milioni inattive. Una situazione che fa delle donne le vittime preferite: il 31,2% delle occupate ha un part time, involontario per il 23,7%. Mentre al Nord il 64,8% delle madri con bambini più piccoli di due anni ha un lavoro, al Sud questo “privilegio” spetta solo al 35,6%.
In un contesto così complicato non mancano le crisi industriali che tengono con il fiato sospeso decine di migliaia di operai. La decisione della Whirlpool di cedere lo stabilimento di Napoli ha gettato scompiglio tra i 430 dipendenti, timorosi di una dismissione da parte della multinazionale. Alla Fiat Chrysler di Pomigliano d’Arco in 2.300 sono in cassa integrazione che scadrà a settembre, e si attendono notizie sul destino del Lingotto per comprendere meglio le prospettive. A Termini Imerese, in Sicilia, non è mai partito il rilancio dell’ex Fiat da parte della Blutec, vicenda poi finita al vaglio della magistratura penale, e i 691 lavoratori sono coperti dagli ammortizzatori sociali fino a dicembre. Per poter dormire sogni tranquilli, in 2 mila aspettano che si completi il progetto di riconversione della fabbrica Bosch di Bari, dato che l’azienda ha appena parlato di “150 mila posti a rischio nel settore diesel”. Il disagio lavorativo parla soprattutto con l’accetto “di giù”.
I sindacati vanno al Sud e scelgono l’opposizione
“Basta campagne elettorali. Questo governo non va da nessuna parte, ci porta tutti quanti a sbattere. Un Paese come il nostro non lo cambi perché è arrivato il fenomeno di turno che pensa di essere Goldrake. Non abbiamo bisogno né di Goldrake né di Superman”. Per Maurizio Landini, gli aspiranti supereroi sono il ministro dell’Interno Matteo Salvini, il premier Giuseppe Conte e il suo vice Luigi Di Maio.
Sotto il palco, ieri a Reggio Calabria, c’erano oltre 25 mila persone ad ascoltare il leader della Cgil. Dopo quelli dei segretari di Cisl e Uil, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo, è stato il suo l’intervento che ha chiuso la manifestazione nazionale dei confederali.
“Ripartiamo dal Sud per unire il Paese”: un lungo corteo rosso, verde e blu che ha riempito piazza Duomo dopo aver attraversato il corso Garibaldi. Un fiume di lavoratori, pensionati, precari e migranti provenienti da quasi tutte le regioni d’Italia. Come nel 1972 quando con i “treni per Reggio Calabria” gli operai del Nord hanno invaso la città dello Stretto, devastata dai moti, minacciata dalle bombe e militarizzata per la “Conferenza sul Mezzogiorno”.
Ieri come oggi tiene banco lo scollamento del mondo del lavoro dalle scelte politiche del governo. È Annamaria Furlan a puntare per prima il dito contro l’esecutivo gialloverde: “Altro che inventarsi una cosa al giorno: i mini-bot servono a giocare al Monòpoli. Se poi qualcuno ha pensato di risolvere tutto con il reddito di cittadinanza, ha sbagliato. Basta vedere il concorso per i navigator. Sono 54 mila i candidati in cerca di un posto di lavoro, ancora una volta precario”. “Il lavoro – aggiunge Furlan – va creato e noi siamo a crescita zero. L’unica percentuale che aumenta è quella dei poveri”.
Su questo, il segretario Landini ricorda quando “Di Maio dal balcone annunciò che il governo aveva cancellato la povertà. Gli dovremmo far vedere che, non i sindacati, ma l’Istat nei giorni scorsi ha certificato che la povertà purtroppo è aumentata” (in realtà il dato Istat è riferito al 2018 e gli sgraziati festeggiamenti di Di Maio si riferivano alla possibilità di far partire il reddito di cittadinanza nel 2019).
“Se il governo non ci convoca, sarà lui a farci andare avanti nella lotta”. Barbagallo non ha dubbi: “Avanti con gli scioperi, non ci fermeranno”. È della stessa idea Landini (“qui non finisce la mobilitazione, da qui riparte”). Il segretario della Cgil prima attacca l’autonomia differenziata (“è una bugia”) e la flat tax (“bisogna combattere l’evasione fiscale”) e poi elenca le promesse del premier Conte: “Disse che il 2019 sarebbe stato un anno bellissimo. Forse per lui. Non se n’è accorto nessuno. Nelle politiche del governo, il Mezzogiorno è totalmente sparito”.
“Vorremmo dare un consiglio al presidente Conte – aggiunge il segretario della Cgil – Non usi gli utili della Cassa Depositi e Prestiti o della Banca d’Italia per far quadrare i conti. Quei soldi debbono servire per creare lavoro. E lo diciamo anche a Salvini che ha raccontato per mesi che si cambiava il Paese chiudendo i porti. Li hanno chiusi ma sono i giovani del Sud che continuano ad andare fuori dall’Italia. Capisco che è un ragionamento complesso, ma qualcuno glielo dovrebbe spiegare”.