Pubblicare tutto

L’altroieri il cosiddetto ministro dell’Interno Matteo Salvini si sentiva tanto ministro della Giustizia. Partecipando a Milano al Festival del Lavoro (per farsene un’idea, si suppone), ha proposto di mettere “in galera chi fa uscire dalle procure e chi pubblica sui giornali intercettazioni senza rilevanza penale e sulla vita privata”. E l’ha detto con l’aria di chi ha fatto una pensata originale, come se centrodestra e centrosinistra non ci provassero da 25 anni. Nelle stesse ore, al Csm, Sergio Mattarella teneva il discorso più severo e drammatico mai pronunciato da un presidente della Repubblica in quell’organo costituzionale, che nell’ultimo mese ha perso per strada cinque dei suoi 16 membri togati elettivi per avere partecipato (quattro da svegli, uno nel sonno) ai conciliaboli notturni con il capo di Unicost Luca Palamara e con i deputati Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri su chi nominare procuratore capo della Capitale e come sputtanare chi intralciava quelle manovre. L’aspetto tragicomico della faccenda è che lo scandalo che ha terremotato e decimato il Csm si basa proprio su intercettazioni coperte da segreto e prive di rilevanza penale: quelle chieste dalla Procura di Perugia nell’inchiesta su presunte corruzioni di Palamara, disposte dal Gip, gestite dal Gico della Guardia di Finanza di Roma e trasmesse per la loro valenza disciplinare ad alcuni membri del Csm con l’obbligo di riservatezza, ma pubblicate parzialmente e in comode rate dai tre o quattro giornaloni ammessi al sancta sanctorum.

Trattandosi di atti segreti, chiunque ne abbia pubblicato anche un rigo ha commesso reato. Ma, diversamente che per altri scandali, non risultano indagini sui giornalisti e sulle loro fonti giudiziarie o investigative, di cui dovrebbero occuparsi le Procure di Firenze (competente su eventuali reati dei magistrati umbri) e/o di Roma (competente su eventuali reati di finanzieri romani o di membri del Csm). Noi, che appena possiamo violiamo il segreto e ci battiamo per depenalizzare di quel reato idiota sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non chiediamo certo di punire i nostri fortunati colleghi. Solo ci domandiamo perché noi siamo indagati da tre anni a Roma per aver fatto sull’inchiesta Consip molto meno di quel che stanno facendo da un mese i giornaloni sull’inchiesta Palamara-Csm. L’aspetto paradossale della vicenda è che, senza fughe di notizie sulle intercettazioni, nessuno saprebbe nulla dello scandalo Csm: assisteremmo ogni giorno alle fughe con tante scuse di membri togati, alle vibranti denunce di Mattarella e del suo vice David Ermini.

E tutti ci domanderemmo perché gli uni se ne vanno e di che parlano gli altri. Perché, in base al Codice penale, nulla di ciò che è stato pubblicato avrebbe dovuto esserlo. E, siccome i pochi fortunati giornalisti in possesso dei faldoni segreti inviati da Perugia al Csm non li divulgano integralmente, ma vi colgono ogni giorno fior da fiore secondo i loro gusti personali, nessuno conosce il quadro d’insieme. Un domani, quando sarà troppo tardi, si potrebbe scoprire che, accanto a una frase sputtanante per Tizio, ce n’era un’altra che lo riabilitava, ma è rimasta nelle penne dei depositari; o che chi oggi pare un santo è in realtà un diavolo, ma è stato graziato dagli omissis giornalistici; o viceversa. Se, sugli scandali di pubblico interesse, il divieto di pubblicazione di atti segreti viene spesso violato, è perché non viene quasi mai perseguito e comunque le pene sono molto basse: il carcere è finto, facilmente sostituibile con un’“oblazione” (una multa di poche centinaia di euro). Ora invece Salvini torna alla carica per alzare le pene e mandare in galera per davvero chi pubblica segreti “non penalmente rilevanti” e sulla “vita privata”. Ma – come quasi sempre gli accade – non sa quel che dice.
Qui di vita privata non se n’è vista l’ombra, a meno di confondere i traffici per pilotare nomine giudiziarie, anche da parte del deputato imputato Lotti, col gossip sulle relazioni sentimentali o sulla salute. Ma tutte, diconsi tutte le notizie fin qui uscite sullo scandalo Csm erano prive di rilevanza penale: infatti i togati che in base a quelle hanno lasciato il Csm non risultano indagati per quei traffici, e nemmeno i magistrati e politici loro interlocutori. L’hanno fatto per questioni di etica e di opportunità e risponderanno eventualmente in sede disciplinare, non penale. Perché, almeno nella magistratura, non basta non commettere reati: si può finire nei guai anche per condotte inopportune, conflitti d’interessi, violazioni moral-deontologiche.
Quindi – paradosso dei paradossi – Salvini usa lo scandalo del Csm, che ha appreso solo grazie alle fughe di notizie non penalmente rilevanti, per chiedere la galera per chi le ha pubblicate. “Non è civile – dice – che i giornali siano pieni di pezzi di intercettazioni senza nessuna rilevanza penale. È una cosa da quarto mondo”. Ma senza quei pezzi di intercettazioni penalmente irrilevanti né noi né lui né altri sapremmo nulla. Se c’è una lezione da trarre dallo scandalo che sta travolgendo il Csm come ai tempi della P2, è che ne sappiamo troppo poco, mentre tutti i cittadini dovrebbero sapere tutto. Per chiarire una volta per tutte chi ha fatto cosa. Il capo dello Stato, come presidente del Csm, dovrebbe chiedere la desecretazione integrale degli atti che hanno indotto i 5 consiglieri a dimettersi o ad autosospendersi e lui a pronunciare il severo discorso dell’altroieri. E metterli a disposizione di tutta la stampa. Così che nessuno sospetti l’esistenza di altri nomi e di altri comportamenti indecenti rimasti coperti. Altro che galera. Come diceva il giurista americano Louis Brandeis, “la luce del sole è sempre il migliore dei disinfettanti”.

“Gasparo”, e l’avo del ’700 è protagonista

Quale scrittore bibliofilo non ha desiderato almeno una volta di essere il primo a scovare un manoscritto inedito tra gli scaffali impolverati di una qualche remota biblioteca? E quanti letterati hanno bramato di vantare una genealogia degna della loro passione? Ambizioni improbabili ma non impossibili. Lo dimostra il curioso caso dell’italianista, originario di Bassano del Grappa, Beppi Chiuppani, che per amore delle lettere ha girato il mondo. Salvo poi ritrovarsi, tornato dagli Stati Uniti, nella biblioteca civica del suo paese natale. Tra le sue mani sono finiti pochi fogli della prima metà del ‘700, in cui sono raccolti i fatti salienti della vita avventurosa di un suo avo, Gasparo Chiupani. Nasce così “il romanzo di una vita barocca”, Gasparo, che la casa editrice Il Sirente ha da poco editato.

Chiuppani, autore ed erede, presta la sua penna allo stravagante antenato per dare vita a una corposa autobiografia, in cui l’esperienza individuale funge da espediente per una riflessione collettiva. È l’alba del lontano marzo 1721. Gasparo Chiupani si desta dal sogno ricorrente del Peloponneso. Ha 66 anni e una vita mirabolante da raccontare. “Non per lusingare un’ultima volta la sua vanità” – precisa. Ma per donare al lettore una storia che lo aiuti “a percepire quella straordinaria fantasmagoria che chiamiamo vita”. Inizia così un percorso a ritroso di oltre 600 pagine, attraverso cui conduce il lettore in un tempo remoto, quello dei fasti della Serenissima. Un’ampollosa e ricercata narrazione traghetta l’immaginario in un’epoca popolata di viaggi, corti e cospirazioni. Nato in una famiglia di mercanti a Bassano, sin da bambino resta ammaliato dalla presunta discendenza da gentiluomini della Repubblica di Venezia.

L’anelito a conseguire fama e prestigio lo spinge lontano. Non prima, però, di essersi congedato dalla figura materna con raffinati toni elegiaci. “Nitriti, abbracci, addii, e uno schioccare di staffile”. Da quel momento in poi Gasparo incarna l’uomo barocco, bramoso di affermarsi, abbigliato a puntino ogni giorno, pronto all’evenienza di incontrare il duca e la marchesa. Divora i sommi poeti. Impara a montare a cavallo. “La nobiltà esisteva! E dovevo arrivarci anch’io” – scrive. Ce la fa. Conquista un posto di rilievo. Accademico, ecclesiastico, segretario del duca. La vita a palazzo. Gode di serate indimenticabili. Le pagine si popolano di musica, tabacco, caffè e libertinaggio. La minaccia dei turchi. I viaggi nel Peloponneso. D’un tratto diviene assassino e fuggiasco. Le bramosie giovanili si fanno evanescenti. Troppo tempo è trascorso a piacersi e piacere. La storia si riavvolge come una matassa. Una sorta di monito per quei tratti barocchi che ancora serpeggiano nell’animo umano.

Wertmüller, è rinata una Stella

Dopo la statuetta è arrivata anche la Stella: a 91 anni, l’irresistibile Lina Wertmüller conquista i riconoscimenti più ambiti del cinema internazionale.

La regista è l’unica italiana fra gli artisti che nel 2020 riceveranno la piastrella celebrativa sulla famosa Walk of Fame, il percorso delle star lungo l’Hollywood Boulevard a Los Angeles. Insieme a lei anche nomi noti del cinema, come Spike Lee, Julia Roberts, Mahershala Ali, Chris Hemsworth, Octavia Spencer.

Una tradizione nata nel 1960: ai premiati è dedicata una Stella per celebrarne i successi e i meriti artistici, civili o filantropici. A selezionarli è la Camera di commercio di Hollywood. “Quest’anno le scelte sono particolarmente uniche – spiegano nelle motivazioni –. Abbiamo voluto riconoscere il talento di 35 artisti che hanno saputo costruire un’eredità qui a Hollywood”.

Un tributo che giunge a poca distanza da quello più atteso: l’Oscar alla carriera, che verrà consegnato alla regista il 27 ottobre. Per vedere la Stella di Lina, invece, bisognerà attendere: la data della cerimonia verrà rivelata solo dieci giorni prima.

A diffondere la notizia è stato il giornalista e produttore Pascal Vicedomini, promotore del riconoscimento alla Wertmüller presso la Camera di Commercio hollywoodiana: “Siamo orgogliosi del grande lavoro svolto a Los Angeles dalle nostre associazioni, così come avvenne per le assegnazioni delle stelle a Bernando Bertolucci, Andrea Bocelli ed Ennio Morricone. Il nuovo grande tributo a Lina riempie di felicità il cinema italiano e conferma come l’incessante opera di promozione di Los Angeles, Italia – ponte con i festival Capri, Hollywood e Ischia Global Fest – abbia dato ancora una volta i suoi frutti”.

Con Volponi e Fortini 25 anni fa “moriva” l’intellettuale-politico

Venticinque anni fa, in quel 1994 che segnò la vittoria del centrodestra alle Politiche di marzo, ci lasciavano a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro due intellettuali simbolo della sinistra militante: Paolo Volponi (il 23 agosto) e Franco Fortini (il 28 novembre). Una fatalità tanto singolare che oggi quel doppio congedo ci appare in retrospettiva da una parte come il tramonto definitivo del mito dell’impegno e dall’altra come la liquidazione anche qui senza appello di una “età delle rivoluzioni”.

Hommes de lettres intransigenti, di quella filiazione tutta novecentesca che reputava inconcepibile separare etica e letteratura, Volponi e Fortini erano convinti che uno scrittore disimpegnato fosse un non-scrittore. Le loro biografie – che qui azzardiamo in una parabola comune – liberate dal cono d’ombra nel quale ristagnano, potrebbero restituirci un inservibile feticcio ideologico per nostalgici, ma in realtà richiamare le loro “sublimi ottusità” significa rendere giustizia a due poeti incorrotti e visionari.

Volponi nato a Urbino nel 1924 nei suoi romanzi (Memoriale, La macchina mondiale, Corporale) affrontò il tema dell’alienazione dell’uomo nella civiltà industriale. Lavorò per la Olivetti e la Fiat, fu senatore del Pci. Calcaterra ha scritto che i libri di Volponi “anche a volerli disancorare da dinamiche sociali e culturali, non perdono di forza conoscitiva. Dinanzi a una realtà sfuggente oppongono sempre lo sforzo raziocinante di una pratica letteraria promossa a mezzo di continua agnizione”. Franco Fortini nato a Firenze nel 1917, protagonista della Resistenza in Val d’Ossola, poeta di prima grandezza e traduttore di Brecht, è stato una delle coscienze inquiete del pensiero marxista (tra i suoi saggi celebri Dieci inverni e Verifica dei poteri). Berardinelli ha scritto che “nonostante fosse un iperletterato, Fortini accettava che la letteratura venisse giudicata attraverso il marxismo mentre la letteratura non poteva giudicare il marxismo”.

Alla disillusione del 1989 con la caduta del Muro di Berlino entrambi gli scrittori avevano opposto una strenua resistenza (Volponi aderendo in seguito a Rifondazione comunista e Fortini ribadendo il suo radicale anticapitalismo in un articolo sull’Unità) ma certo nulla di paragonabile all’avvento del berlusconismo, funesta cesura spartiacque con il suo idealizzato liberismo e il suo corollario di conflitti di interessi e guai giudiziari. La “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, miraggio di una sinistra pronta al cimento del potere, falliva miseramente il bersaglio al pari del rigore mancato di Baggio ai Mondiali Usa vinti dal Brasile. Nel 1994 l’Italia intonava canzonette nelle piazze televisive del Karaoke di Fiorello, rideva al cinema con Benigni e premiava in libreria il Cuore della Tamaro con i drammi piccolo-borghesi di una nonna. Un disimpegno più o meno generalizzato, esito inevitabile di un plagio televisivo di massa elevato a modello culturale.

Se Berlusconi ora sedeva a Palazzo Chigi lo doveva anche al riflusso degli anni 80, alle sue tv del biscione scandite dall’edonismo a stelle e strisce di Dallas e dalla comicità grossolana di Drive In. Non stupisce che in quel sopravvenuto deserto di ragionamenti sprecati e di passioni estinte, Volponi e Fortini abbiano fatto coincidere l’affermazione del Cavaliere con la fine delle loro esistenze. Del resto, come potevano accomodarsi in quel clima di criminalizzazione dell’antagonismo ideologico due biografie intellettuali che avevano creduto fino all’ultimo che la letteratura rappresentasse uno strumento formidabile di azione sul mondo? Mengaldo in un suo saggio famoso aveva parlato di “funzione Fortini” nella letteratura italiana e cioè di una sua integrale politicità. Sia pure con le debite differenze nell’interpretare l’utopia socialista, Volponi e Fortini – che avevano condiviso con Adriano Olivetti un’idea illuminata e democratica di industria al servizio della comunità prima ancora che del capitale – hanno illustrato fino allo sfinimento con i loro scritti che ogni relazione con gli uomini o con le cose sia sempre subordinata alla politica, a una totalità sociale e a una mediazione dialettica. Un’eredità che oggi nessuno potrebbe probabilmente raccogliere e inverare, non solo e non tanto perché non esistono più ideologie totalizzanti ma perché temiamo non esistano più coscienze intellettuali tanto integre e nemmeno spazi e strumenti per perseguire una vera profonda inconciliabilità con il mondo.

Donne, neri, Lgbt: che flop le “quote minoranze”

Donne travestite da uomini per interpretare donne. Succedeva ai tempi di Shakespeare quando a calcare il palcoscenico erano solo gli attori maschi. Vero è che il mondo si sia evoluto, ma non così tanto a dirla tutta, visto che dietro a locuzioni seducenti quanto misteriose atte a garantire “pari opportunità” alle “diversità discriminate” si celi l’horror vacui. L’espressione sotto lente è inclusion rider, qualcosa di sconosciuto persino ai madrelingua inglese ignari di linguaggio giuridico o contrattuale. Questo finché luce hollywoodiana fu fatta da Frances McDormand, quando la esclamò in mondovisione ricevendo l’Oscar nel 2018 per Tre manifesti a Ebbing, Missouri: “Ho due parole con cui lasciarvi stasera, signore e signori: inclusion rider”, aveva proclamato l’attrice paladina dei diritti, siglando mediaticamente un’alleanza fra questa clausola contrattuale e il movimento del #MeToo.

McDormand, in pratica, stava dando vita a una formula magica in grado – su base teorica – di metter fine a ogni modello discriminante nei confronti delle professioniste dello show biz ma anche di proteggerne l’incolumità da violenze psicofisiche. Si ricorda che inclusion rider divenne istantaneamente l’espressione più cercata sul web nelle ore che seguirono la cerimonia degli Academy Awards, e l’industria cinematografica e dello spettacolo americana sembrava messa al muro. Ma prima di rivelare il finale desolante della faccenda – come acutamente ha riportato Cara Buckley (co-vincitrice del Pulitzer nel 2018 per un reportage sugli abusi sessuali in ambiente professionale) sul New York Times pochi giorni fa –, è necessario fare un passo indietro e capire cosa sia e donde provenga l’inclusion rider.

Letteralmente significa “clausola addizionale di inclusione” e fu formulata nel 2010 nel mondo del teatro, cinema, televisione e spettacolo in generale, da inserire nei contratti per obbligare a includere soggetti affetti da “diversità di diverso tipo e livello”. All’origine, comunque, risiede il concetto di inclusione, che è da tempo norma di legge contrattuale su base federale negli States presso diverse istituzioni, per esempio nell’accesso alle università, ed è leggibile semplicemente scaricando i formulari d’iscrizione.

Ma chi erano e chi sono oggi i “diversi” da includere? Se alla nascita la clausola voleva tutelare essenzialmente i diritti degli African-american quale sorta di “categoria protetta” quasi fosse una disablità (ovviamente varie disabilità rientrano nel rider), nel tempo ha incluso Lgbt e le donne come “diversità di genere”. E qui ritorna il “mini-comizio” di McDormand, che collegando la clausola al #MeToo sembrava aver scatenato una vera rivoluzione. Il suo invito voleva che l’intera filiera dello spettacolo inserisse nei contratti l’inclusion rider: alcuni produttori – ma anche star del calibro di Ben Affleck e Matt Damon – si sono adoperati per la causa applicandola per primi laddove erano messi o mettevano altri sotto contratto.

A 15 mesi da quella serata, però, l’inclusion rider sembra esser caduto nell’oblio, anzi inabissato in un nulla imbarazzante. E questo, come rivela acutamente il Nyt, nonostante continui a comparire nero su bianco nei contratti. A parte alcune meteore come il film indie Hala, presentato al Sundance, la cui regista e sceneggiatrice Minhal Baig ha impugnato il rider per scritturare tutti i reparti produttivi (alla fine erano tutte donne). E – a quanto si legge sempre sul quotidiano newyorchese – pare che la stessa Frances McDormand non abbia ancora adottato l’inclusion rider nei suoi contratti da produttrice benché abbia “l’intenzione di farlo”. La reticenza a parlarne è diffusa tanto nei corridoi delle major quanto in quelli degli studi legali: a regnare è appunto il vuoto, dovuto a caos interpretativo o peggio ancora superficiale indifferenza. In ogni caso, chi ne fa reale utilizzo al momento sono le stesse categorie da “includere”: come in Hala appunto, donne che ingaggiano donne. Un paradosso.

Dall’inclusion rider discendono naturalmente ragionamenti che toccano da vicino anche i nostri lidi, ovvero i festival cinematografici, ove la clausola del 50+50 entro il 2020 co-firmata dalle principali kermesse internazionali non soffre certo di ambiguità: un sacrosanto paritario numero di donne e uomini fra selezionatori, selezionati e nell’intero staff operativo. E questo non fa che sollevare un tema delicato e non poco equivoco, nel senso di intendere la “inclusività femminile” quale “categoria da proteggere”, proprio come dichiarava con preoccupazione Valeria Golino sulle pagine di questo giornale alcuni giorni fa. Se è dunque vero che “da qualche parte si deve pur cominciare”, è altrettanto rischioso che la faccenda possa sortire un clamoroso effetto boomerang.

Caso Marco Carta, la Procura impugna il mancato arresto

Il pm di Milano Nicola Rossato ha firmato il ricorso in Cassazione contro la mancata convalida dell’arresto da parte del giudice Stefano Caramellino nei confronti di Marco Carta. Il cantante cagliaritano fu bloccato dalla polizia locale mentre usciva con un’amica, l’infermiera 53enne Fabiana Muscas, dalla Rinascente di Milano il 31 maggio, per un furto di sei magliette dal valore complessivo di 1.200 euro alle quali erano stati staccati i dispositivi antitaccheggio.

Dopo una notte ai domiciliari, il giudice aveva deciso di non convalidare l’arresto del cantante, perché i capi d’abbigliamento erano in possesso della sua accompagnatrice, che li aveva riposti in una busta di carta dov’è stato trovato anche un cacciavite, probabilmente usato per staccare i presidi antifurto.

Mentre il cantante e la sua accompagnatrice sono in attesa del processo per direttissima, fissato per settembre, nei giorni scorsi è finito sui tavoli della Cassazione il ricorso con cui il pm Nicola Rossato insiste per la convalida dell’arresto. Difficile prevedere come finirà.

Il vero esame di terza media è quello che fanno i genitori

Si discute molto e con la giusta empatia delle estati difficili di chi non va in vacanza perché non ha soldi. Delle estati di chi non va in vacanza perché ha un anziano a cui badare, perché ha del lavoro da svolgere, perché è a letto con una gamba rotta. Si discute perfino, con la giusta empatia, della prova costume di Luigi Di Maio in vacanza in Sardegna. Nessuno però mostra un minimo di vicinanza, di affetto, di solidale comprensione nei confronti di quei genitori con i figli che devono dare gli esami, soprattutto quelli di terza media.

Perché, parliamoci chiaramente: la maturità è una prova per ragazzi adulti e maggiorenni che hanno già dato esami delle medie o per la patente, che se vengono sorpresi con la versione di greco già tradotta e appallottolata sotto la lingua sono responsabili delle loro maldestre azioni. I ragazzini che danno l’esame di terza media hanno 14 anni, odiano tutto e tutti – dai genitori al pesce rosso nella bolla di vetro – e si ritrovano alle prese col primo esame della loro vita, la cui esistenza naturalmente non è colpa dello Stato, del ministero dell’Istruzione, dell’istituto scolastico, no. È colpa dei genitori. Quest’anno è toccato a me.

Premetto che dopo una tanto splendente quanto illusoria carriera scolastica durata sei anni circa, dalla seconda media in poi mio figlio e lo studio sono diventati due rette parallele che non si incontreranno mai e nel caso in cui dovessero incontrarsi è probabile che scoppi una rissa. Mi dicono che sia l’effetto dell’ingresso nell’adolescenza, fatto sta che alcuni suoi compagni hanno fatto il loro ingresso nell’adolescenza con la media del 10, mio figlio con una media che sembra la stima di crescita del Pil italiano nel 2020. L’esame di terza media dunque mi ha causato un notevole stato d’ansia, parzialmente mitigato dal fatto che gli esami sarebbero durati due settimane e come sempre avrebbero estratto la lettera e la sezione destinati a dare gli esami per primi.

Considerato che le medie di mio figlio comprendevano 5 sezioni e dunque circa 130 studenti, mi sono detta: be’, se lo estraggono per ultimo o giù di lì, in due settimane gli sto addosso in modalità cerbero e gli faccio recuperare tutto il programma. Attendevamo l’estrazione come il sorteggio per i Mondiali dell’82. L’estrazione è andata così: primo estratto, il primo giorno d’esame. Una sfiga così neppure quella che si sposa sulla riva del mare il giorno dell’unica tromba marina della storia a Ladispoli. Abbiamo dunque un totale di sei giorni di studio a disposizione, gli dico.

Onde evitare distrazioni di sorta, sequestro tutti i dispositivi elettrici ed elettronici presenti in casa, dalla Switch al cellulare al tostapane alla piastra arricciacapelli. Tutti i giorni, più volte al giorno, entro nella camera in cui studia a sorpresa, silenziosamente, strisciando fino alla porta in modalità sbarco in Normandia. Ogni volta che spalanco la porta mio figlio fa un salto come se l’avessi sorpreso a tagliare eroina con il bicarbonato. In realtà ha nascosto il cellulare nel libro di storia e sta giocando via chat a “obbligo e verità” con un’amica, dunque gli sequestro anche il cellulare.

Il primo giorno ripassa Storia. A parte alcune dichiarazioni quali “gli americani sono arrivati in Normandia coi barconi”, il livello di preparazione pare accettabile. Il secondo giorno passiamo a Scienze, deve studiare il Dna. Gli dico – ovviamente dopo che l’ho imparato da Wikipedia – che l’acido desossiribonucleico o deossiribonucleico è un acido nucleico che contiene le informazioni genetiche necessarie alla biosintesi di Rna e proteine, molecole indispensabili per lo sviluppo e il corretto funzionamento della maggior parte degli organismi viventi. Lui mi dice che non lo capisce. Poi che è troppo difficile. Poi che non serve a niente impararlo, che tanto non vuole fare il medico o lo scienziato. Allora semplifico: il Dna è quello stronzo di un polimero che anziché trasmetterti la mia voglia di studiare in adolescenza, ti ha trasmesso la mia voglia di polemizzare in età adulta.

Il terzo giorno è il ripasso di Matematica e Geometria. Io porto una giustificazione in cui dico che purtroppo è morta mia nonna e non posso studiare con lui. Il quarto giorno si passa all’Italiano. Con mia grande sorpresa mi dice che gli piacciono molto i poeti futuristi. Gli chiedo perché. “Perché volevano dare fuoco ai musei e alla biblioteche”. Il quinto giorno ripassiamo Inglese. Per fortuna l’inglese lo sa abbastanza bene grazie al master ottenuto in due anni di studio intenso anche di notte e nei weekend: quello in Fortnite.

Il sesto e ultimo giorno, alla vigilia dell’esame, dopo un ripasso generale in varie materie, alle sei di sera mio figlio inizia a raccogliere il materiale da consegnare all’esame e mi comunica la ferale notizia: ha perso il circuito elettrico che aveva costruito durante le ore di tecnologia. Mi arrabbio. Il mio fidanzato interviene proprio mentre do dimostrazione di saper gestire la rabbia da persona adulta con mio figlio. Gli sfila la testa dal decoder Sky e si fa spiegare come fosse fatto questo circuito. Io capisco solo che alla fine, se l’hai costruito bene, si deve accendere una lampadina. Propongo di portare il mio specchio da trucco. I due maschi mi chiedono di farmi da parte, escono di casa e dopo un po’ tornano con fili, interruttori, tavolette di legno e generatore, roba che quelli di Bricofer li hanno sicuramente segnalati all’antiterrorismo. Alla fine costruiscono insieme il circuito.

Mio figlio dà l’esame, se la cava, gli chiedono il Giappone e il Dna; lui quando esce dice che si sente come se l’avessero investito del ruolo di adulto, io come se mi avesse investito un cingolato.

Ucraina torna alle urne per “rinnovare” la Camera

La Corte costituzionale ucraina ha emesso l’atteso verdetto: il decreto del neo presidente Vladimir Zelensky in cui viene sciolto anzitempo il parlamento è conforme alla Carta costituzionale. Tradotto: il 21 luglio il Paese tornerà alle urne anticipatamente per eleggere i nuovi deputati. Questo nel giorno in cui a Kiev arriva la notizia che Vadim Komarov, il giornalista noto per le sue inchieste sulla corruzione, è morto in ospedale a Cerkasy sei settimane dopo essere stato aggredito da uno sconosciuto.

Sull’onda della clamorosa vittoria con il 70 per cento dei voti al ballottaggio dello scorso 21 aprile contro l’allora presidente Petro Poroshenko, l’ex produttore e attore satirico quarantenne – sostenuto dall’oligarca e tycoon televisivo Igor Kolomoisky indagato per corruzione e riciclaggio – spera con questa mossa di conquistare anche la maggioranza in parlamento dove il suo partito non è ancora presente. La formazione si chiama Sluha Narodu, che significa Servitore del popolo ed è stato mutuato dall’omonima serie tv (andata in onda per la prima volta nel 2015) in cui l’attuale presidente metteva in scena un capo di Stato onesto capace di superare in astuzia antagonisti e detrattori. Grazie al successo della serie, nel marzo 2018 fu creato il partito politico da parte dello staff di Kvartal 95, società produttrice della serie. “Vittoria! Il decreto di Zelensky sulla dissoluzione del parlamento è stato riconosciuto come costituzionale”, ha scritto Yuliya Mendel, portavoce del presidente, sulla sua pagina Facebook, cancellandolo subito dopo. Nel testo si enfatizzava che “le persone sono l’unica porta della sovranità e l’unica fonte di democrazia”. Come a dire che la sua vittoria ha mostrato la volontà del popolo di avere rappresentanti in parlamento in linea con il nuovo presidente. Visione che tende, per usare un eufemismo, a sovrapporre e confondere, non a caso, i poteri dello Stato. Zelensky è partito all’attacco della vecchia maggioranza fin dal suo discorso di insediamento, lo scorso 20 maggio, facendo entrare in vigore il relativo decreto dopo soli tre giorni.

Il presidente-comico ha giustificato la sua decisione motivandola con la grande richiesta di tale misura da parte della società. In realtà si tratta di un preciso calcolo politico per cavalcare l’onda del successo. Secondo i sondaggi, il partito Servitore del popolo è sostenuto da circa il 50 per cento degli ucraini. Una cifra che, se confermata, creerebbe un abisso con tutti gli altri partiti. Insomma, il giovane attore oltre a svolgere la funzione di capo dello Stato, si confermerebbe leader di un partito che entrerebbe in parlamento con un voto plebiscitario. Il giorno dopo l’entrata in vigore del decreto presidenziale, i deputati del partito Narodnyi (Fronte popolare) dell’ex premier Arseniy Yatseniuk avevano presentato ricorso alla Corte perchè ritenevano la decisione illegittima sulla base della Costituzione vigente. A parere dei 62 deputati, non era legittimo affossare il parlamento.

Georgia, sfida in Parlamento: il deputato parla cirillico

Un uomo si siede nel posto sbagliato e comincia a parlare in una lingua nemica: il russo. Sorride pallido e sornione. Ha 53 anni, una faccia obliabile, occhiali rettangolari, una cravatta viola. Si chiama Serghei Gavril l’avvocato comunista che sogna Putin, Mosca e l’indipendenza delle due repubbliche al confine georgiano: Ossezia del Sud e Abcasia. Appollaiato sulla sedia presidenziale durante l’incontro dei legislatori dell’Assemblea interparlamentare ortodossa, Gavril decide di esprimersi in cirillico: la lingua di Mosca risuona nell’aula, è una mossa che si rivela subito spregiudicata, un oltraggio insopportabile al simbolo dell’indipendenza del Paese.

Vanno a fuoco subito gli animi georgiani, indignati e furenti. La reazione è vertiginosa e fulminea. È questione di minuti e una folla sanguinosa che si riversa per le strade della città. Un cordone umano di 10 mila persone circonda il Parlamento nel buio, è caos a Tbilisi, Georgia, ex repubblica sovietica, schiacciata dall’ultima guerra contro Mosca nel 2008.

Il primo lacrimogeno illumina la notte come una cometa. Poi scie liquide a raffica dei cannoni ad acqua. È sangue e ghiaccio tra proiettili di gomma, idranti e manganelli contro la folla che sfida gli scudi dei poliziotti che proteggono l’ingresso al palazzo del potere. Braccia spezzate, rivoli dalle labbra rosse, teste rotte, in due rimangono ciechi come la rabbia che rimane a ribollire tra i giovani della Capitale che fanno sventolare la bandiera a 5 croci, bianca e rossa. La memoria torna a galla subito e la guerra fredda si scongela in maniera inaspettata nel cuore della notte. Urlano: “Stop Russia”, “Mosca fuori dalla politica del Paese”, che aspira a diventare a pieno membro Nato. Di memoria in memoria, di generazione in generazione, il sentimento anti-russo e anti-sovietico viene tramandato e si è rafforzato 11 anni fa, quando i paesi hanno interrotto i contatti diplomatici e bilaterali dopo il conflitto. I manifestanti non si sono allontanati prima di un bilancio nero: 240 feriti, 160 civili e 80 poliziotti. Per la crisi in corso si dimette il presidente del Parlamento Irakli Kobakidze. Il sogno georgiano, partito al governo, è alla crisi del risveglio. Nel bilancio di una notte insonne e infuocata ci sono anche 305 fermati.

La questione iniqua del confine occupato delle due repubbliche de facto, Ossezia del sud e Abcasia, ha risuonato fin dentro il cuore del paese, nell’epicentro della Capitale, nel suo Parlamento. Le due repubbliche non riconosciute sono una cicatrice cucita da anni sulla mappa georgiana, dove ogni scintilla può essere preludio di un nuovo conflitto. È in atto “uno schiaffo in faccia alla storia” dice dagli scranni dell’opposizione Elena Khoshtarla. La storia fa il suo giro e poi si ferma molto lontano, nel posto in cui non dovrebbe. Una questione che l’Ucraina conosce bene. Si tratta ancora una volta di Russia, confine e Putin. L’ex presidente georgiano Mikhail Sakashvili intona il canto della piazza di Tbilisi da Kiev: “rimuovete il regime dell’oligarca Ivanisvili”, leader del partito sogno georgiano.

Quello che è successo è “un crimine che danneggia la dignità del Paese” ha detto la presidente Salome Zurabishvili in visita a Minsk, che ha anticipato il suo rientro dalla Bielorussia per la crisi scatenatasi a causa della potenza “nemica ed occupante”, la Russia. Tornerà per ringhiare anche contro i manifestanti della “protesta artefatta per far cadere il governo”. L’opposizione adesso chiede altre dimissioni e manifestazioni a oltranza.

Tbilisi incoraggia “provocazioni anti-russe” è la scontata reazione del Cremlino, che fa eco a Gavrilov: “agiscono contro la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi”. Dal confine dell’Ossezia del Sud e Abcasia fino a Tblisi intanto in piazza continua a soffiare un vento di guerra. Fredda e calda insieme, come la notte georgiana.

Usa-Iran, 10 minuti dalla guerra

Forse, la guerra non ci sarà. Anzi, crediamo che non ci sarà. Ma, se dovesse esserci, non sarà una guerra per errore, ma una guerra cercata, provocata, innescata dagli Stati Uniti, a freddo, senza alcun credibile pretesto di sicurezza nazionale, ma perseguendo gli interessi di sicurezza – percepiti – israeliani e d’egemonia sauditi; e per mostrare agli americani che Donald Trump mantiene le promesse fatte in campagna elettorale.

Quanto da un mese sta accadendo nel Golfo è un’escalation non fortuita, ma voluta. Dopo l’abbattimento, mercoledì, di un drone Usa da parte dei Guardiani della Rivoluzione iraniana, la Casa Bianca e tutta l’Amministrazione Usa recitano scene di indignazione, ma sciorinano anche divisioni e contraddizioni. Se uno invia un drone a spiare l’Iran, mette in conto che possa essere abbattuto. Del resto, che cosa avverrebbe se l’Iran spedisse un drone a spiare gli Usa? Molto di quel che accade, da una parte e dall’altra, pare fatto apposta per creare un “casus belli”. Difficile però capire se il tutto fa parte di una strategia di logoramento dell’Iran rischiosa, da parte degli Stati Uniti, o se siamo davvero alle prove generali d’un intervento armato. C’è pure il rischio che la situazione sfugga di mano ai “comandanti in capo” dei due campi, il magnate presidente, esposto ai suggerimenti di consiglieri guerrafondai e, per fortuna, di militari meno sconsiderati, e, per partire iraniana, il presidente Hassan Rohani o l’ayatollah Ali Khameney. Basti pensare alla confusione creatasi nella serata di giovedì a Washington. Trump, per sua stessa ammissione, era pronto a ordinare un’azione di ritorsione dopo l’abbattimento del drone, che – sostengono gli americani – sorvolava acque internazionali: tre i siti presi di mira. Ma quando Trump chiede ai generali “Quante vittime ci saranno?”, si sente rispondere “150”. Allora, il presidente blocca la rappresaglia, dieci minuti prima del suo inizio. Finora, i due attacchi missilistici ordinati dal magnate, entrambi sulla Siria, per punire il regime per il ricorso ad armi chimiche, hanno sempre avuto un impatto limitato in termini di vite umane, in base alle informazioni disponibili.

Rientrata, per ora, la minaccia di ritorsione, resta il rischio che gli iraniani ripetano i loro attacchi. Ciò ha indotto grandi compagnie aeree mondiali a modificare le proprie rotte: British Airways, Lufthansa, Klm e Qantas hanno deciso che i loro aerei non sorvolino più né lo stretto di Hormuz né il Golfo dell’Oman. È troppo recente il dramma del volo di linea della Malaysian Airlines abbattuto sul Donbass nel 2014 da un missile russo sparato dai separatisti ucraini filo-russi per accettare il rischio. L’Iran pubblica un video dell’abbattimento dell’aereo telecomandato e fa sapere di avere cercato d’indurre il drone ad allontanarsi. Sia Teheran che Washington si rivolgono all’Onu e sollecitano una riunione del Consiglio di Sicurezza.

Il New York Times ricostruisce quanto avvenuto giovedì sera a Washington: ore convulse e drammatiche. Trump aveva approvato attacchi militari mirati, ma ha poi cambiato idea. Alle 19 di giovedì ora locale (l’una di notte di venerdì in Italia) funzionari, militari e diplomatici attendevano l’ordine di attacco dopo un serrato dibattito alla Casa Bianca. L’operazione era già nella fasi iniziali, con aerei in volo e navi in posizione, quando è arrivato il contrordine. “Non è chiaro se Trump abbia solo cambiato idea o se l’Amministrazione abbia rivisto il piano per problemi logistici. E non è neanche chiaro se gli attacchi siano solo posticipati”, scrive il Nyt. L’attacco doveva avvenire di venerdì in Iran – giornata festiva – per minimizzare il rischio per i civili.

Nella ricostruzione del giornale, l’Amministrazione di sarebbe spaccata: il segretario di Stato, Mike Pompeo, il consigliere alla Sicurezza nazionale, John Bolton, e il direttore della Cia, Gene Haspel, erano a favore di un attacco. Scettici, invece, i responsabili del Pentagono, convinti che un’azione avrebbe causato un’escalation mettendo a rischio le forze statunitensi nell’area. I leader del Congresso erano stati informati dei piani dell’Amministrazione, durante una riunione svoltasi giovedì pomeriggio nella Situation Room della Casa Bianca. Le esitazioni di Trump sull’Iran hanno una ragione: sa che una guerra avrebbe ben altre dimensioni e conseguenze rispetto alla pur catastrofica invasione dell’Iraq nel 2003.