Il giudice Sergio Santoro, che presiede la Sesta sezione del Consiglio di Stato, ieri è stato nominato presidente aggiunto del Consiglio di Stato. Nomina che sarebbe dovuta arrivare in gennaio, ma che era slittata perché, il giorno prima, era arrivata la notifica della proroga delle indagini per corruzione in atti giudiziari. “Il 4 giugno, la Procura di Roma ha richiesto l’archiviazione per l’infondatezza della notizia di reato e il 10 il gip ha emesso il decreto di archiviazione” spiega l’avvocato Pierluigi Mancuso. Una richiesta che aveva, tra le altre, la firma sia del procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo sia del pm Stefano Fava. “Ho ammirato la serenità di Santoro – spiega l’avvocato Mancuso – : dal primo momento ha ribadito di confidare nella magistratura e nella procura. Archiviazione e nomina confermano che è stata una scelta valida. Ancora non sappiamo per quali condotte sia stato indagato. Non abbiamo avuto accesso agli atti, abbiamo chiesto di essere interrogati ma, per una strategia che rispetto, il procuratore Pignatone (in pensione da inizio giugno, ndr) non ci ha però mai convocato. Chiaramente, non è un diritto dell’indagato esserlo né un dovere della procura interrogare”.
Natixis, fuga dai fondi H2O Persi 325 milioni in un giorno
Dall’allarme lanciato dal Financial Times, che ha scritto di un presunto conflitto di interesse negli investimenti della controllata di Natixis, H2o Allegro, alla decisione presa da Morningstar che l’altro ieri ha sospeso il rating del fondo da 2,26 miliardi sul timore di perdite legate a investimenti illiquidi e sollevando dubbi suoi asset, con H2o Allegro che ha registrato una diminuzione delle sue attività di 113 milioni. Nel complesso le perdite registrate da Allegro, Adagio e Multibrand, altri due prodotti di H2o, sono arrivate a 325 milioni. Si tratta del più alto calo degli asset dal lancio del fondo nel 2011. Ma nel complesso H2o ha perso 600 milioni nel secondo trimestre dell’anno, ha ammesso Natixis, senza indicare quante di queste abbiano preso il volo negli ultimi giorni. Un trend che potrebbe peggiorare. A far partire l’ondata di riscatti sono state le notizie di potenziali conflitti di interesse che coinvolgerebbero il fondatore Bruno Crastes, che ha comunque respinto le accuse, sostenendo che l’esposizione aggregata alle attività illiquide è limitata “tra il 5% e il 10%” tra i fondi Allegro, Adagio e MultiBonds. H2o è, infatti, finita sotto i riflettori per le “criticità nell’appropriatezza e liquidità della componente obbligazionaria corporate” dei fondi che hanno in portafoglio obbligazioni senza rating emesse da diverse società collegate al controverso finanziere tedesco Lars Windhorst, proprietario della Tennor Holding, nel cui comitato consultivo siede Crastes. A temere per Natixis, la banca d’affari che ha supportato Vivendi nell’acquisto delle azioni Mediaset, è anche l’Italia, dove i fondi di H2o sono stati super-gettonati negli ultimi anni. Una parte consistente dei 30 miliardi di euro gestiti dalla società affiliata al gruppo Natixis Global Am proviene dagli accordi di distribuzione che la società di gestione ha in essere con oltre 30 intermediari italiani: Azimut, Banca Generali , Bper, Bnl Bnp Paribas, Fineco, IWBank, Mediolanum e Widiba solo per citare le realtà più grandi.
Novantunomila su 3,5 milioni: gli evasori stanati dal Fisco
L’identikit dell’evasione fiscale di massa, che rende l’Italia unica nel panorama delle economie più industrializzate, è depositato in una tavola statistica della Corte dei Conti che i governi di turno non amano far vedere, anche se la conoscono bene. Per prima vengono i settori dell’edilizia e delle costruzioni, con un occhio soprattutto alle attività di intonacatura, rivestimento e tinteggiatura. Poco dietro bar, caffè e gelaterie, a un’incollatura dai servizi di ristorazione. Seguono gli installatori di impianti elettrici e idraulici, quasi appaiati al vasto mondo delle attività immobiliari, dalla locazione alla compravendita di beni immobili propri. Seguono gli studi medici e legali, gli intermediari del commercio, i professionisti che forniscono servizi contabili e di consulenza sul lavoro.
Sono queste le categorie sulle quali si concentrano regolarmente i (pochi) controlli sostanziali dell’Agenzia delle Entrate. A giorni arriverà il rapporto della magistratura contabile sul Bilancio dello Stato del 2018, ma a quanto si apprende il peso relativo attribuito alle singole categorie rispetto al numero complessivo dei controlli effettuati non dovrebbe variare significativamente.
Messi insieme sono quasi 3 milioni e mezzo di contribuenti soggetti agli studi di settore, ma nel 2017 quelli a finire sotto il torchio degli ispettori tributari, con la sicurezza quasi assoluta di accertare centinaia di miliardi sottratti al fisco, sono stati poco più di 91 mila. In percentuale hanno subito una visita dell’Agenzia delle Entrate l’1,5% degli immobiliaristi, il 3,7% degli edili, il 2,1% di idraulici ed elettricisti, l’1,2% degli studi medici, l’1,5% degli avvocati, il 4,2% dei bar, il 3,8% dei ristoranti, il 2,3% degli intermediari commerciali e l’1,8% dei contabili e dei consulenti sul lavoro. I dati evidenziano un miglioramento del rapporto tra platea di riferimento e controllati, ma rimangono comunque nel retino dell’Agenzia solo un 1% del totale dei soggetti considerati da monitorare. Le entrate effettive dall’attività di controllo sostanziale, i famosi accertamenti, si riducono così a 7,324 miliardi, una cifra inferiore perfino alle pur tenui aspettative, per l’usanza diffusa anche in questo settore come in tutto l’universo delle dichiarazioni dei redditi, di non versare anche con una cartella esattoriale in mano.
Da questa abitudine italica è originato il gigantesco “storico” di arretrati, in gran parte ormai inesigibili, entro il quale ha provato a immergere il mestolo per far cassa anche il governo gialloverde con gli ennesimi condoni. Che però incoraggiano ulteriormente i contribuenti morosi a non pagare. In un recente convegno l’Agenzia delle Entrate riferiva che la fedeltà acquisita con i controlli dura al massimo tre anni d’imposta. Dopo si sa, per incappare in un nuovo accertamento ne passano almeno 9. Ma ci sono normative, come gli indici sintetici di affidabilità fiscale, che garantiscono a determinate condizioni praticamente l’immunità tributaria. Chi si dà ancora un gran da fare a rincorrere chi froda il fisco, con gli scarsi mezzi messi a disposizioni e nonostante le norme limitino al minimo il disturbo arrecabile ai contribuenti controllati, è la Guardia di Finanza. Che in occasione del 245esimo anniversario dalla fondazione ha redatto un rapporto sull’ultimo anno e mezzo di attività.
Gli interventi ispettivi conclusi tra il gennaio del 2018 e il maggio del 2019 in coordinamento con l’Agenzia delle Entrate sono stati 128.497. Altri 97mila sono le indagini delegate dalla magistratura. I reati perseguiti riguardano l’evasione fiscale internazionale, le indebite compensazioni di debiti tributari, i traffici illeciti dei prodotti petroliferi le frodi all’Iva meglio note come “frodi carosello”. Per queste ultime sono 3.003 i casi scoperti di società “cartiere” o “fantasma” utilizzate per emettere fatture inesistenti. Ammontano complessivamente a 5.247 gli interventi nel settore delle accise, che hanno portato al sequestro di oltre 6.200 tonnellate di carburante e l’individuazione di altre 301mila tonnellate consumate aggirando le tasse. Gli sconosciuti al fisco individuati sono stati 13.285 per un’evasione totale che tocca i 3,4 miliardi. Inoltre sono stati verbalizzati 8.032 datori di lavoro per aver impiegato 42.048 lavoratori in nero.
Questi numeri sono il risultato di tante piccole storie umane di ordinaria evasione che spuntano solo nelle cronache locali, come quella raccontata dalla Stampa sulla vicenda di un 73enne, commerciante di metalli ferrosi e non ferrosi della provincia di Monza. Per il cantautore Nanni Svampa erano i “rotamatt”, figure romantiche che riciclavano il ferro per poche lire. Per la Guardia di Finanza di Milano è un evasore a cinque stelle. Per l’esattezza deve 9 milioni e 800 mila euro tutti in nero e mai dichiarati al fisco dal 2000 a oggi. Si è difeso dicendo di averlo fatto per salvare la contabilità, ma a suo carico pare ci siano analoghe denunce passate in giudicato. L’imprenditore è ora accusato di evasione fiscale fraudolenta. perché emetteva fatture false per coprire operazioni inesistenti. Le Fiamme gialle gli hanno contestato il possesso di ingenti proprietà immobiliari tra la Brianza, Grosseto e Trapani, ora sotto sequestro.
La vita di Edith e quelle posizioni “da difendere”
Leggi la grande Stein e pensi a Gertrude Stein, 27 rue de Fleurus, Hemingway, Picasso, the Lost Generation, l’autobiografia di tutti, o almeno di tutti i nati nel primo Novecento. Ma c’è stata un’altra, piccola grande donna di nome Stein, nella cui esistenza si concentra non una generazione ma un intero secolo. Edith Stein: tedesca ed ebrea, ebrea e atea, atea e cattolica, cattolica e mistica. Dalla Torah alla fenomenologia di Husserl, dall’ateismo a Tommaso d’Aquino, all’Ordine delle Carmelitane Scalze. Il giro del Novecento in 52 anni, partenza da Breslavia (un tempo Prussia), arrivo a Auschwitz (oggi Polonia). In Ciò che possiamo fare (Solferino) Lella Costa racconta questo personaggio ancora troppo poco noto con deferenza, ammirazione, stupore; ma anche con commozione e confidenza, come se con Edith facesse amicizia, una di quelle presenze che incrociamo sui libri e sentiamo più vicine dei vicini di casa. La vita della Stein diventa di volta in volta il paradigma della condizione femminile, della sindrome di Jo, della sottile linea rossa che separa la ricerca della fede dal suo possesso, dalla bufera che negli anni 30 soffiò nelle ali dell’Angelo della Storia, della vocazione di un’Europa dove “ci sono delle posizioni da difendere”, come scrisse Walter Benjamin poco prima di suicidarsi in fuga dai nazisti. Tuffarsi nel profondo pozzo del passato, raccogliere i sommersi e salvarli nella memoria. Ecco ciò che possiamo fare, e che Lella Costa ha fatto con Edith Stein.
È il linguaggio la “forza oscura” di Rambo Salvini
“Il linguaggio, periscopio che affiora sul caso della storia, aiuta gli individui a orientarsi nel mare dell’esistenza, a conoscere e riconoscere gli altri e noi stessi”
(da Parola di duce di Enzo Golino Rizzoli, 1994 – pag. X)
Nell’enfasi e nella retorica della narrazione populista di Matteo Salvini, si realizza sul piano mediatico un doppio black-out che interrompe la diffusione dell’energia mentale, al pari di quanto avviene sulla rete elettrica durante un temporale o un terremoto. E ciò fa scattare il relais che impedisce la circolazione delle idee, il confronto costruttivo delle opinioni, quel contraddittorio razionale che difetta nel circuito dei social network e manca nella maggior parte dei talk show televisivi.
Il doppio effetto negativo consiste nel fatto che, in questo vortice di parole, di annunci e di slogan, Salvini finisce spesso per passare dalla parte del torto anche quando potrebbe avere un fondo di ragione. E così i suoi critici e oppositori non riescono a distinguere il bene dal male, lasciando prevalere i pregiudizi più o meno fondati nei suoi confronti. Uno scambio di “forza oscura”, come si dice in cosmologia, che rischia di mandare in tilt la comunicazione politica.
“Prima gli italiani” è il mantra tanto ovvio quanto efficace su cui si fonda il linguaggio elementare e popolare di Rambo Salvini, come quello dei piazzisti o dei venditori di fumo. Chiudiamo i porti e apriamo le “case chiuse”, sono i due ossimori di un discorso pubblico che contiene da una parte elementi oggettivi di verità e dall’altra contrastanti suggestioni emotive. Fino allo slogan della “difesa sempre legittima” che può corrispondere a una richiesta di maggior sicurezza, soprattutto in certe aree del Paese più esposte all’assalto della criminalità, con il pericolo di trasformarsi però in una giustizia sommaria, versione western.
Quella del leader leghista è una narrazione alimentata dall’estrema semplificazione dei temi e anche dall’eloquio torrenziale dell’ex conduttore radiofonico che, in mancanza delle immagini reali, deve “riempire” gli spazi e “coprire” i tempi con la tecnica del radiocronista tenuto a raccontare ciò che l’ascoltatore non può vedere. A differenza del telecronista che invece deve accompagnare e commentare le immagini, per aiutare lo spettatore a interpretare ciò che vede.
Quando poi il pubblico non è in grado di comprendere e di valutare, o peggio ancora pretende di parlare di economia come al Bar dello Sport, il cortocircuito minaccia di far saltare tutto l’impianto o di provocare un incendio. E allora, dalla “flat tax” ai mini-bot fino alla gaffe sulle cassette di sicurezza, diventa un festival di parole al vento in un’orgia mediatica. È giusto abbassare le tasse? Ma certo che sì, in un Paese oberato di imposte, dove il governo gialloverde non è riuscito nemmeno a eliminare o ridurre le accise sulla benzina come Salvini aveva promesso in campagna elettorale. È giusto accelerare i pagamenti della Pubblica amministrazione? Ci mancherebbe altro! Gli obiettivi possono essere entrambi giusti, ma sono gli strumenti che non risultano compatibili con le regole e i vincoli di un sistema economico al di fuori del quale staremmo peggio di come stiamo. A meno di sfidare l’Europa, e soprattutto i mercati finanziari internazionali, per dichiarare guerra a Bruxelles e “spezzare le reni” all’Unione.
C’è solo un antidoto contro lo spettacolo quotidiano di questo illusionismo populista. Ed è la controffensiva della ragione. Vale a dire l’impegno e la capacità di replicare con argomenti validi e convincenti, magari proponendo soluzioni alternative, concrete e praticabili.
CSm, è ora di sciogliere le correnti
“C’è una gigantesca questione morale che investe la magistratura. Dobbiamo ripensare alla degenerazione del correntismo e carrierismo. Ci sono magistrati che si sono costruiti appositi percorsi”. “Saremmo perduti se non ci discostiamo da quelle degenerazioni. La vicenda del Csm è aberrante. È impensabile che si sia potuto arrivare a tanto”. Sembra di leggere uno dei tanti articoli che Il Fatto ha dedicato alla degenerazione delle correnti e del Csm, o le pagine del capitolo titolato Sistema delle correnti, del libro di Riccardo Iacona Palazzo d’Ingiustizia ove ha riportato, tra le altre, l’intervista del magistrato Andrea Mirenda che ha rivolto dure accuse al Csm e alle correnti che si erano impadronite dell’organo di autogoverno. Invece sono affermazioni rispettivamente di Luca Poniz, (MD), neopresidente della Anm e di Giuliano Caputo (Unicost), segretario generale dell’associazione. Affermazioni sorprendenti ove si consideri che provengono da vertici associativi che da tempo “bazzicano” le stanze correntizie e associative ove – come esattamente dice la giovane pm catanese Alessandra Tasciotti “certamente la situazione era già nota ed era stata, invano, denunciata anche al nostro interno”. Non è senza significato che pochi giorni dopo la pubblicazione del libro, il Coordinamento Nazionale delle correnti di MD e dei Verdi ha emesso un comunicato nel quale “prende le distanze dalle parole del dr. Mirenda perché ispirate a un metodo, purtroppo diffuso, di esasperazione dei toni e di provocazione non accettabile” aggiungendo che “incentivare questa deriva in un momento come questo in cui il quadro politico è estremamente incerto e la magistratura non gode di grande favore è semplicemente suicida. Fermiamoci finché siamo in tempo”. E non è senza significato che, proprio con riferimento a tale comunicato, questo giornale aveva lanciato un appello – sul quale è calato un assordante silenzio – con cui “si consigliava ‘vivamente’ alle correnti, in vista delle prossime elezioni, di emettere ‘comunicati’ (preferibilmente congiunti) nei quali si ‘pretenda’ che gli eletti si dimentichino di far parte delle rispettive correnti che hanno contribuito a farli eleggere essendo essi oramai rappresentanti di un organo di rilevanza costituzionale e, quindi, ‘devono’, secondo il combinato disposto degli artt. 56, 97 e 98 della Costituzione: a) essere al servizio esclusivo della Nazione; b) assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione; c) svolgere le funzioni pubbliche con onore e dignità.
E allora, se veramente si vuole porre fine a queste perverse degenerazioni che hanno travolto il (poco superiore) Csm – i vertici associativi non si limitino a un tardivo e sterile grido di dolore ma diano un segnale forte, concreto, significativo: convochino subito l’assemblea dei soci e si proponga lo scioglimento delle correnti che hanno, da tempo, esaurito la loro funzione che negli anni 1960-1980 conferì maggiore democrazia a una magistratura conservatrice. Ciò non significa affatto vietare ai magistrati il diritto di associarsi, ché è loro costituzionalmente riconosciuto dall’art. 18 della Carta, perché il loro diritto di associarsi – e costituire un’associazione di categoria – viene assicurato e, di fatto, esercitato con l’iscrizione alla Anm per poter liberamente discutere, all’interno di essa, dei loro problemi nel confronto delle diverse opinioni. È evidente che la costituzione all’interno dell’associazione di gruppi di soci non ha nulla a che vedere con il già esercitato diritto di associarsi, ma finisce per risolversi nella creazione di centri di potere o di pressione ove può anche accadere che chi “comanda” nel gruppo, e si trovi a essere indagato, possa rivolgersi per chiedere indebitamente aiuto al pg della Cassazione e a membri del Csm appartenenti al suo gruppo o, di converso, possa complottare per “colpire” e “togliersi dai coglioni” magistrati integerrimi.
Nessuno ferma le opere inutili
La normativa italiana sull’uso delle (scarse) risorse pubbliche è catastrofica, e contribuisce a spiegare l’enorme debito pubblico che ci affligge. In altri tempi, i Padri costituenti hanno forse assunto che tutti i politici sarebbero stati onesti e lungimiranti difensori dell’interesse pubblico come lo erano loro, scrivendo la nostra Costituzione. Ma certo il peso di ideologie collettivistiche era forte, e si sposò bene con quelle di una Dc ormai lontana dalle idee di Don Sturzo,
I costituenti non posero praticamente nessun “paletto” al possibile uso distorto o forsennato dei soldi pubblici. Le uniche norme che esistono sono del tutto irrilevanti a questo fine: l’articolo 3 dice che i cittadini sono uguali di fronte alla legge (e questo dal punto di vista economico significa che le tasse non possono colpire arbitrariamente, discriminando tra cittadini). Poi si legge che le tasse devono essere (art. 53) progressive, cioè far pagare di più ai più ricchi, non solo in modo proporzionale. Infine, istituisce la Corte dei Conti, per verificare i danni erariali, ma è un organo che non può incidere sugli sprechi. Se un politico vende un immobile a un milione di euro quando ne vale due, è perseguibile per danno erariale, ma se per comprarsi il consenso elettorale costruisce un’opera pubblica inutile da un miliardo o fa pagare senza altre ragioni tariffe risibili per dei servizi di trasporto mandandoli in bancarotta, non è perseguibile. L’“arbitrio del principe” nell’uso dei nostri soldi è sancito per legge.
Non sono considerazioni teoriche. Basta guardare al nostro debito pubblico e agli infiniti casi pratici di spreco che ognuno di noi può verificare nel settore dei trasporti. Il professor Ugo Arrigo aveva calcolato, certo esagerando, che le sole ferrovie avevano contribuito a circa 350 miliardi del debito nazionale. A chi scrive però risultava che nei 15 anni del programma Apollo della Nasa i sussidi alle ferrovie italiane erano stati circa dello stesso importo dei costi di quel progetto, che sviluppò tecnologie delle cui ricadute godiamo ancora adesso. Ma in fondo a chi interessava mandare italiani sulla luna, è un satellite disabitato…
Ora, se le cose stanno così dal punto di vista delle norme, fare i conti per motivare le spese prima, e rifarli poi per rendere conto ai cittadini dei risultati, diventa un’esigenza democratica. L’arbitrio presuppone un principe benevolo e onnisciente, ma questo principe, semmai è esistito, oggi sembra sparito. I conti bisogna farli meglio che si può, non farli sarebbe immorale. Servono al dibattito democratico e ad aiutare le scelte del decisore aumentandone la consapevolezza e l’accountability (non a imporre decisioni in modo meccanico).
Il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli (M5S) ci ha provato, ma il combinato disposto degli interessi settoriali (potentissimi, anche perché il settore non è molto aperto alla competizione per ragioni tecniche) e partitici, sta facendo fallire il tentativo. Nessun “No” potrà essere detto in base ai conti, e nessun cantiere di grande opera fermato, neanche la più inutile. E, si badi, questo aumenterà nel tempo l’impossibilità di fermare opere inutili: saranno andate troppo avanti. È indegno mandare in televisione gli operai che rischiano di perdere il posto di lavoro se si interrompe un’opera inutile. Perché non mostrare invece le copiose lacrime di chi perderebbe un lucroso appalto magari ottenuto senza gara? E perché non accennare ai posti di lavoro distrutti nel settore privato a causa di un sempre maggiore prelievo fiscale? O a quelli che non si creeranno nel settore pubblico in settori a più alta intensità di lavoro?
Il Terzo valico si farà, anche se i conti hanno stabilito chiaramente che è uno spreco. Lo stesso probabilmente sembra ormai certo per la Brescia-Padova, senza nemmeno che ai contribuenti che la pagheranno siano stati fatti vedere i conti. E infine anche il Tav Torino-Lione è probabile che sia destinato a essere realizzato tale e quale come previsto dal precedente esecutivo. La Gronda di Genova è scomparsa dai radar, chissà quando verrà pubblicata l’analisi.
E poi? Poi basta, molte opere al Sud, destinate a rimanere deserte, non si analizzeranno nemmeno. Altro che dibattito trasparente, quello che conta è la pioggia di soldi pubblici dove ci sono voti da raccogliere. La politica chiede discrezionalità, non fastidiosi conti, prima come ora.
Quanto al dibattito democratico da fare prima delle scelte: il ministero avrebbe dovuto promuoverlo prima, e organizzarlo poi con mezzi adeguati, se ci credeva. Invece non si registra nemmeno una traccia di iniziative in tal senso: dunque nemmeno il dibattito ci sarà. Solo stentoree dichiarazioni su qualunque opera: “Si farà!”.
La Lega avanza nei consensi con questa antica tecnica, la promessa di soldi a tutti? Nessuno degli altri partiti vuole essere da meno.
Mail box
Evasione, il modello Usa piacerà davvero al Capitano?
Il ministro dell’Interno Salvini ha dichiarato che sul fisco gli Stati Uniti dovranno essere il nostro modello. Ma gliel’avranno detto che in America gli evasori li mettono in galera e buttano le chiavi?
Antonio Perrone
DIRITTO DI REPLICA
Egregio direttore, nell’articolo apparso il 19 giugno su Il Fatto Quotidiano, cartaceo e online, a firma di Thomas Mackinson sono riportate alcune affermazioni della dottoressa Luisa Todini che debbono essere smentite, in quanto gravemente lesive della reputazione personale e professionale del mio assistito, il dottor Giuseppe Ciaccheri.
1. Il giudice civile ha affermato inequivocabilmente come la dottoressa Clementi “anche a seguito di tale iniziativa… abbia ben collocato i suoi averi, al riparo da rischi”, esprimendo una inequivoca valutazione positiva sul Trust, che smentisce le affermazioni della Todini.
2. L’atto istitutivo del Trust è un atto pubblico, stipulato davanti a un notaio che ha ritenuto la Clementi pienamente capace di intendere e volere.
3. Alle medesime conclusioni è giunto lo stesso giudice civile, che ha respinto la domanda della Todini, dopo aver ascoltato personalmente la Dott.ssa Clementi, ritenendola pienamente capace di intendere e volere.
4. Dall’atto pubblico istitutivo del Trust risulta chiaramente che questo non ha sede alle Isole Coock, bensì a Roma.
5. Non vi è stato, dopo la costituzione del Trust, alcun trasferimento di somme di denaro in Svizzera; al contrario, la Clementi ha conferito al Trust somme che colà erano regolarmente depositate.
6. I compensi dei Trustee sono stati attribuiti dalla Clementi e risultano indicati regolarmente nel medesimo atto pubblico.
7. L’amministrazione del Trust spetta a entrambi i Trustee, che debbono operare con firma congiunta per le operazioni di straordinaria amministrazione.
8. Il Trust è stato istituito dalla Clementi con la specifica finalità conservativa del suo patrimonio. I beneficiari sono entrambi i fratelli Todini in parti eguali.
Sarebbe bastato interpellare Ciaccheri, che è uno dei due Trustee, per acquisire tali incontestabili circostanze, che smentiscono le gravi affermazioni della Todini, rispetto alle quali ci si riserva di agire nelle opportune sedi.
Avvocato Tommaso Pietrocarlo
In merito alla rettifica, dalla documentazione esaminata risulta che: 1. È stata la stessa signora Clementi, ascoltata dalla Procura di Roma il 23 ottobre 2018, a dichiarare di “essere stata ingannata e raggirata da Sammarco e Ciaccheri che con il Trust sono entrati in possesso dei miei beni”. 2. Il riferimento ai fondi trasferiti a Lugano è contenuto nelle conclusioni degli atti di indagine della Procura di Roma, dove si dice che tali operazioni sono state effettuate con lo scopo di sottrarre liquidità alla gestione di un eventuale amministratore di sostegno. 3. È vero che il procedimento dinanzi al Giudice Tutelare si è concluso con il rigetto della domanda svolta dalla signora Todini; ma dalle carte in mio possesso risulta che il giudice abbia fondato il proprio convincimento sul suo stato di salute all’esito di un’audizione avuta con la stessa, nel corso di un’udienza, senza poter disporre, successivamente, degli esiti della CTU medico legale che pure aveva disposto sulla sua persona, perché la signora Clementi vi è stata sottratta. 4. La Procura di Roma, all’esito della perizia medico legale, ha affermato che la signora Clementi risulta affetta da una “condizione di deficitarietà… tale da renderla incapace di provvedere autonomamente e consapevolmente ai propri interessi” ma che tale condizione è stata riscontrata solo grazie “alle risultanze dell’approfondimento psicodiagnostico richiesto” che “ha accertato che la pur sussistente condizione di deficitarietà della signora non risulta riconoscibile da terzi non specialisti della materia”. 5. La signora Clementi non è tra i beneficiari del Trust. A questo proposito, colgo l’occasione per evidenziare come nelle pur numerose conversazioni avute con l’avvocato Sammarco, co-amministratore con lei del Trust che ha interessato della vicenda il giornale, non ha mai menzionato di essere tra gli amministratori di quello stesso Trust (con relativo compenso) che pure era oggetto dell’azione giudiziale da lui attivata nei confronti della Todini. Alla richiesta di spiegazioni la risposta è stata: “non era un’informazione essenziale”. Pertanto le dichiarazioni da me riportate sono, quindi, conformi alle risultanze contenute negli atti giudiziari”.
Thomas Mackinson
Ogni volta che il Messaggero prende una posizione si cerca di coinvolgere il suo editore escludendo che il giornale ed il suo direttore possano avere una propria autonomia. Una delle caratteristiche fondamentali del Messaggero in questi anni è stata quella di essere spesso fuori dal coro. Si capisce che nell’Italia di oggi è difficile immaginare che si possa essere non schierati ma critici sui singoli fatti, ora a favore ora contro qualunque parte politica, giudicando sulle cose e non sulle idee. D’altronde, se ci fossero interessi particolari su Roma, che non ci sono, la giusta scelta sarebbe, come diceva l’Avvocato Agnelli, di essere sempre governativi e mai all’opposizione. Questo per dovere di cronaca. Molto cordialmente.
Ufficio Stampa Gruppo Caltagirone
Prendiamo atto che la difesa della linea editoriale e dell’autonomia del Messaggero dal suo editore viene fatta dall’editore stesso.
FQ
Il patrimonio culturale dovrebbe essere aperto (gratis) a tutti
Gentile professor Montanari,mi ha fatto molto piacere leggere la sua frase sul senso del tempo: sul nostro essere relativi e non assoluti. “Custodi e non padroni”. È un aforisma che vorrei appendere in alcuni monumenti divenuti patrimonio del Fai. Nello specifico, è il caso di Castel Grumello nei dintorni di Sondrio, dove abito, e nel quale ritengo che questa associazione abbia perpetrato (nel completo disinteresse di politica e opinione pubblica) tanti e tali di quei soprusi architettonici e storici da lasciare senza parole. Recintare (e rendere visitabile a ore come un negozio) un rudere medievale isolato su un meraviglioso poggio rappresenta già, secondo me, uno sgarbo paesistico e storico. Trasformare poi la torre principale in un magazzino per attrezzi agricoli direi che è da denuncia, far pagare un ticket d’ingresso è semplicemente “da manicomio”. Intanto i signori del Fai non si curano nemmeno di fare la dovuta manutenzione esterna, lasciando il tutto preda di edera e rovi. In compenso sono riusciti a organizzare un bel torneo medievale da luna park all’interno: ovviamente a pagamento!
Caro Colombera, non ho mai visitato, purtroppo, quel monumento: e dunque non saprei confermare o smentire i suoi giudizi. Nel caso specifico, il Fai ha ricevuto il Castello da un proprietario privato, e probabilmente le alternative avrebbero potuto essere o un letale abbandono o un uso privato: è dunque possibile che la situazione che lei descrive sia il male minore. D’altra parte, non le nascondo tutti i miei dubbi sull’operato del Fai. Giorgio Bassani diceva che Italia Nostra doveva operare perché un giorno non ci fosse più bisogno di Italia Nostra. Perché, cioè, una diffusa presa di coscienza dell’importanza strategica del patrimonio culturale inducesse i cittadini italiani a pretendere che lo Stato facesse finalmente la sua parte nella tutela e nella apertura dei nostri monumenti. Il mio giudizio è che invece il Fai operi, più o meno consciamente, perché un giorno non ci sia più bisogno dello Stato. Una posizione espressa in numerose occasioni dai suoi vertici, che hanno teorizzato la necessità di importare in Italia il modello del National Trust inglese. Io credo invece che il patrimonio culturale dovrebbe essere aperto a tutti gratuitamente e dovrebbe produrre conoscenza attraverso la ricerca di specialisti assunti a tempo pieno: un obiettivo difficile per lo Stato stesso. Ma impossibile per qualunque privato: il Fai incluso.
Rocca di Papa (Roma), dopo 10 giorni è morto anche il sindaco
È morto giovedì sera nell’ospedale Sant’Eugenio a Roma il sindaco di Rocca di Papa Emanuele Crestini rimasto gravemente ferito nell’esplosione del palazzo comunale avvenuta il 10 giugno. È la seconda vittima delle fiamme: domenica era morto il delegato del primo cittadino, Vincenzo Eleuteri. Nelle ultime ore le condizioni di Crestini si erano aggravate a causa di una crisi respiratoria e dal quadro derivante dalle infezioni delle lesioni riportate dovute alla lunga permanenza nel luogo dell’incendio. Il primo cittadino aveva riportato ustioni sul 35% del corpo, in particolare al volto e alle mani. Era stato l’ultimo a lasciare l’edificio dopo l’incidente, preoccupandosi prima di aver fatto evacuare dipendenti, consiglieri e cittadini. Vincenzo Eleuteri, anche lui rimasto troppo a contatto con i gas tossici del fumo, è stato ucciso dalle particelle solide dell’incendio che avevano determinato un grave danno alle vie respiratorie. Sono intanto accusati anche di omicidio colposo, oltre che di disastro colposo e lesioni, i tre indagati per l’esplosione. La decisione dei pm della Procura di Velletri è scattata in seguito alla morte dei due feriti.