Lo stallo sulle nomine Ue aiuta l’Italia nel negoziato

Una notizia cattiva e una buona. Quella cattiva che esce dal Consiglio europeo finito ieri a Bruxelles è che tutte e quattro le principali nomine europee sono ancora da fare. E quindi il rischio maggiore per l’Italia è ancora presente, cioè che alla Bce vada il tedesco Jens Weidmann, l’oppositore delle politiche anti-crisi di Mario Draghi negli ultimi otto anni (ora dice di aver cambiato idea). Se uno degli incarichi di vertice fosse andato a un tedesco già nel Consiglio di ieri, il negoziato sulla Bce si sarebbe aperto senza l’opzione Weidmann. Invece resta tutto possibile. La notizia buona è che le probabilità di una procedura d’infrazione per debito contro l’Italia si riducono. Non perché qualcuno abbia creduto agli impegni (vaghi) presi dal premier Giuseppe Conte, ma perché se la decisione sulla procedura si sovrappone a quella delle nomine, l’Italia ha la possibilità di esercitare un certo potere di veto (sulle nomine, così da fermare la procedura).

L’unico risultato del negoziato di giovedì notte sembra essere la fine delle ambizioni dei tre Spitzenkandidaten, cioè i tre candidati alla Commissione indicati dai partiti durante la campagna elettorale. Ha prevalso la linea di Emmanuel Macron: il presidente francese vuole l’applicazione letterale dei trattati in base ai quali il presidente della Commissione viene scelto dal Consiglio, cioè dai governi. Ma se il socialista Frans Timmermans si è rassegnato, il popolare Manfred Weber, sostenuto dal primo partito alle elezioni, non ha perso le speranze. La sua tattica è semplice: “I Paesi del Sud Europa dovranno scegliere: o appoggiano me o si troveranno Weidmann alla Bce”, è il ragionamento che fa in queste ore. La cancelliera Angela Merkel per ora è impenetrabile: ha escluso di voler competere lei stessa per un incarico europeo, sembra pronta a sacrificare Weber, ma non è affatto chiaro se il vero obiettivo sia portare Weidmann a Francoforte.

Missione comunque difficile, visto che Macron ha già anticipato il suo veto (vuole su quella poltrona la francese Christine Lagarde, oggi al Fmi). I nomi che girano, dall’economista Kristalina Georgieva al premier croato Andrej Plenkovic che pure ha un ottimo rapporto con la Merkel, sono considerati a Bruxelles candidati troppo deboli per sopravvivere al rodeo delle nomine, nomi da bruciare in attesa di quelli veri.

Il 2 luglio c’è la seduta del Parlamento europeo che deve dare il suo voto di fiducia al presidente della Commissione scelto dal Consiglio che si riunirà il 30 giugno. A meno di ulteriori rinvii, i tempi sono quindi stretti. E questo per il governo Conte è una ottima notizia. “Le stelle sono allineate per l’Italia”, scrive in una nota della sua società LCMacro l’ex capo economista del Tesoro Lorenzo Codogno che prima dava una probabilità del 90 per cento alla procedura d’infrazione e ora non va oltre il 25.

Prima di approvare i report sulla violazione da parte dell’Italia della regola del debito (mancata correzione nel 2018), la Commissione ha voluto capire qual è il clima tra i governi. Se non propone la procedura e crede alle promesse di Roma, protesterà il fronte del rigore (Olanda in testa). Se sceglie la linea dura l’Italia, che pure è politicamente isolata, potrebbe creare parecchi problemi sulle nomine ai Paesi decisivi sul voto della procedura d’infrazione. Perché, ricorda Codogno, il 9 luglio l’Eurogruppo dovrà votare sull’eventuale proposta della Commissione di chiedere al Consiglio di avviare la procedura. Serve la maggioranza qualificata. L’Italia potrebbe costruire una minoranza di blocco con Francia e Spagna (i due Paesi al centro del risiko delle poltrone) oltre a Grecia e Cipro, per esempio. E per la Commissione sarebbe uno smacco terribile vedersi respingere la richiesta, perché significherebbe ammettere la propria sudditanza ai governi. E addio credibilità dei suoi moniti sui conti pubblici.

Nella logica europea, nessuno tenta una prova di forza se non è sicuro di vincerla. La Commissione, quindi, potrebbe rinviare ancora una volta lo scontro frontale con l’Italia aspettando la legge di Bilancio 2020.

Ilva, Salvini si sdraia sotto ArcelorMittal: “Sì l’ambiente, ma…”

Un passo indietroquello del vicepremier Matteo Salvini che, dal palco del Festival del Lavoro a Milano, ha accennato al problema dell’ex Ilva di Taranto: “Se c’è un imprenditore che mette sul piatto centinaia di milioni di euro per riportare a norma uno stabilimento non puoi complicargli la vita, dovresti agevolarlo”. Breve promemoria: la Lega ha votato l’emendamento al decreto Crescita che revoca da settembre lo “scudo penale” concesso dal governo Renzi ai commissari governativi e poi ai futuri proprietari dell’Ilva (cioè, oggi, ad ArcelorMittal); venerdì ha votato la fiducia su quel decreto e poi l’ha approvato insieme ai grillini. Nel frattempo, però, proprio ArcelorMittal, spalleggiata da Confindustria e Federacciai, s’è lamentata della cosa: senza scudo l’Ilva non si può gestire. E così Salvini ci ha ripensato senza dirlo esplicitamente, ma buttando lì cose di questo genere: “La tutela dell’ambiente è fondamentale. Se penso all’Ilva è decisivo tutelare la salute di bimbi, mamme e lavoratori”. Tuttavia “non si scherza con 15mila posti di lavoro. Come Lega abbiamo presentato un documento, che verrà votato in Parlamento, per mettere al riparo questi posti di lavoro”.

Oggi altri 81 migranti a Lampedusa grazie al trucco degli scafisti

Ottantuno migranti sono sbarcati ieri a Lampedusa grazie a un inganno degli scafisti. La “nave madre” – una motopesca arrivata dalla Libia – è riuscita ad aggirare senza problemi i controlli, nascondendo gli uomini a bordo. Ma una volta giunta a circa 60 miglia dall’isola siciliana, lo scafo ha rallentato e iniziato a farli scendere tutti su un barchino più piccolo. Ottantuno persone escono quindi dallo scafo principale e si infilano su quello, privo di motore, che lo seguiva legato con una corda. A quel punto la motopesca ha puntato di nuovo verso la Libia, mentre i migranti sono stati lasciati sulla barca alla deriva, e quindi soccorsi. A mostrare il trucco della “nave madre”, sempre più usato dagli scafisti, è un video girato da un aereo del progetto Mas dell’Agenzia Frontex. La nave è stata comunque inseguita e poi bloccata: a bordo sono stati trovati sei egiziani e un tunisino, ora in stato di fermo per traffico di esseri umani e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il peschereccio è stato sequestrato. Gli 81 migranti che erano stati messi sul barchino arriveranno in Italia stamattina.

Caccia al nemico “utile” L’ultima sfida gialloverde

A furia di sentirselo dire, i Cinque Stelle è da un po’ che c’hanno fatto l’abitudine. “Tagli di tasse per 10 miliardi o saluto e me ne vado”, ha detto ieri Matteo Salvini, che minaccia l’addio un giorno sì e l’altro pure. E ormai in Parlamento è aperta una sorta di lotteria su quali siano i motivi che non lo fanno passare dalle parole ai fatti. Perché ci sono i suoi, i leghisti, che lo pressano, che insistono a dirgli che bisogna andare a votare, che “perdiamo l’onda”, che non riescono più a spiegare in giro che ci fanno al governo con quegli “sciamannati dei grillini”.

Il vicepremier, invece, spara missili ogni volta che può, ma poi si rimette sempre seduto a Palazzo Chigi. A non voler dar retta ai complottisti, a quelli che tirano in mezzo i 49 milioni o altri ricatti, forse si può più banalmente accreditare la tesi di chi sostiene che Matteo Salvini abbia solo imparato la lezione di Umberto Bossi: “Trova sempre qualcuno a cui dare la colpa”. E chi meglio di Luigi Di Maio e soci può interpretare questa parte in commedia? Quando gli ricapita di stare al governo col nemico in casa?

Ecco che ieri, dopo aver letto sul Corriere l’ennesimo ultimatum, i Cinque Stelle non ci hanno visto più. Usano la solita modalità dell’off, un comunicato di cui nessuno si assume personalmente la responsabilità, che sembra poco gradito anche da Paola Taverna: “Se lavorassimo tutti alacremente e commentando meno sono certa si giungerebbe a soluzioni migliori e più veloci. Che fatica essere donne …”, ha scritto la vicepresidente del Senato su Facebook. A Salvini i 5 Stelle hanno fatto sapere che “se cerca una scusa per tutto e riportare in Italia un governo tecnico, lo dica chiaramente agli italiani”. Ce l’hanno con l’aut aut sulla flat tax, che la Lega considera unico modo per “rianimare l’economia” e che invece non è nell’orizzonte, almeno quello prossimo, del presidente del Consiglio, in queste ore impegnato nella trattativa con Bruxelles.

“Se la prenda con i banchieri e i burocrati”, replicano dal Movimento, “le tasse vogliamo tagliarle tutti, subito. Quindi di chi sarebbe la colpa? Chiarisca il colpevole così lo combattiamo insieme” visto che “la Lega non è all’opposizione ma al governo come noi”.

Fanno un nome, i grillini, che è quello del ministro dell’Economia Giovanni Tria, l’alibi su cui per mesi i gialloverdi hanno scaricato divisioni e liti. Ma all’indomani del trionfo alle Europee è stato proprio Salvini a presentarsi al Tesoro, alla vigilia dell’invio a Bruxelles della lettera di risposta all’Ue, “per redigere il piano sulle tasse”. Un fatto che, oltre ad aver non poco irritato Conte e Di Maio – erano i giorni in cui il vicepremier leghista si faceva pregare per un vertice a tre – ora consente, almeno negli intenti del Movimento, di depotenziare la propaganda leghista sui conti pubblici.

La logica del capro espiatorio ha le sue ragioni d’essere anche dentro i Stelle. “Noi in questo momento siamo come pugili suonati, siamo a terra, stesi sul ring. Se te ne vai, lasci l’avversario a festeggiare. Devi riprendere forza, provare a rialzarti e nel frattempo provare a indebolire lui”, teorizzano i fedelissimi di Di Maio. Convinti che “smontare” la boria del vicepremier sia il modo migliore per far capire di che pasta è fatto. E per provare a tirarsi su prima che qualcuno dichiari il knock-out.

Le regole Ue sono insensate e celano decisioni politiche

Magari non porterà a nulla, ma la contestazione delle regole fiscali Ue aperta di nuovo dall’Italia illumina almeno il potere discrezionale della Commissione europea di sanzionare i Paesi sulla base di parametri oscuri e dibattuti dai tecnici, che mascherano scelte politiche. Per capirlo, basta guardare lo scontro in atto. Bruxelles è pronta ad aprire una procedura d’infrazione perché il debito dell’Italia non è calato come dovrebbe. Non accade dal 2014, ma a far scattare l’Ue è il fatto che Roma non ha ridotto il deficit come avrebbe dovuto nel 2018 (e pure nel 2019). Il buco è di circa lo 0,5% del Pil, otto miliardi. Il premier Conte e il ministro dell’Economia Tria si arrabattano da giorni per raccattare quella cifra.

Eppure nel 2018 l’Italia ha ridotto il deficit al 2,1% Pil, dal 2,4 del 2017. Come si spiega la contestazione? Il motivo è che Bruxelles guarda al deficit “strutturale”, cioè quello depurato dal ciclo economico. Alla base di questo parametro ce n’è un altro ancora più oscuro, l’output gap, che misura la distanza di un’economia nazionale dal suo potenziale: secondo le regole della Commissione, se il gap è zero l’Italia dovrebbe convergere verso “l’obiettivo di medio termine”, che, visto il suo alto debito, è il pareggio di bilancio strutturale; se è positivo il governo dovrebbe condurre politiche restrittive; al contrario, se il Pil effettivo fosse minore di quello potenziale, il governo avrebbe un maggiore spazio fiscale, ma solo per portare la crescita al suo potenziale, oltre il quale l’economia si “surriscalda”, creando spinte inflazionistiche. Insomma, se lo scarto è dovuto per intero alla crisi economica, il pareggio strutturale è realizzato, altrimenti si deve attuare una correzione dello 0,5% del Pil.

Ora, guardate il grafico sopra (a sinistra): secondo la Commissione, nel 2019 l’Italia è già sopra il suo potenziale. Insomma, dove varare politiche restrittive nonostante un’economia ferma, un Pil inferiore del 5% al picco pre-crisi del 2008, e la disoccupazione al 10%. Com’è possibile? Robin Brooks, capo economista dell’Institute of International Finance, think tank vicino alla lobby della finanza ha lanciato una campagna per contestare “l’insensatezza” dell’output gap: “Il problema di fondo è che questi numeri non catturano il potenziale” di crescita, “ma sembrano essere incentrati nel catturare i risultati realizzati nell’ultimo decennio”. Tradotto: se un Paese è andato male negli anni passati, il Pil potenziale si abbassa. Così però le stime producono “richieste di politiche pro-cicliche”: tipo applicare strette fiscali quando invece servirebbe fare il contrario per recuperare il terreno perduto.

Uno dei parametri di rilievo dell’output gap è ad esempio il “tasso di disoccupazione di equilibrio” (Naiuru), cioè quello al di sotto del quale aumenterebbe la pressione sui salari. Anche questo si basa sui dati degli anni precedenti. E infatti secondo Bruxelles il Nairu dell’Italia è al 9,8%, cioè il paese dovrebbe convivere con una disoccupazione più o meno ai livelli attuali: nel 2007, per capirci, era al 6,1%. L’Italia contesta da sempre, già dal governo Renzi, le stime di Bruxelles e con lei molti governi (Francia, Spagna e altri): secondo il Tesoro, per dire, il nostro otuput gap nel 2019 è assai negativo (-1,6%) e quindi non servono correzioni; perfino l’Ocse e il Fondo monetario internazionale stimano un output gap negativo per l’Italia…

La richiesta di rivedere le metodologie di calcolo è rimasta inascoltata, ma ormai solo Bruxelles le difende. L’economista Solt Darvas del Bruegel, think tank europeista, ha proposto in un articolo che l’Ue “si sbarazzi delle regole fiscali che si basano sulle stime del bilancio strutturale” perché si tratta, appunto, di dati solo stimati e pieni di difetti. Nel 2018, ad esempio, la differenza tra le stime dell’output gap italiano fatte da Ue, Fmi, Ocse e governo è stata dell’1,5%, un’enormità. Non solo, la media della revisione annuale del saldo strutturale fatta da Ue, Fmi e Ocse per i Paesi europei è dello 0,5%, pari alla correzione del deficit di richiesta da Bruxelles per i Paesi col debito alto.

“Trovo inaccettabile – scrive Darvas – che il quadro fiscale dell’Ue faccia riferimento a un indicatore (il saldo strutturale) per il quale la revisione di un anno della stima è pari alla correzione richiesta a un Paese”. Il commissario Ue Moscovici invece la mette così: “Le nostre regole sono intelligenti e aiutano la crescita”. Non ci crede più nessuno.

Conte le prova tutte e sulla Commissione evoca il potere di veto

Visibilmente provato dalla notte praticamente insonne, ma con il suo tipico atteggiamento rassicurante, il premier Giuseppe Conte risponde a una domanda dopo l’altra dei giornalisti, alla fine del Consiglio Ue. Obiettivi: sottolineare il ruolo storicamente centrale dell’Italia in Europa; porsi in maniera conciliante rispetto alle richieste della Ue e smussare le polemiche interne. Ma intanto vanno avanti i vertici informali a latere. Senza l’Italia. La cena di giovedì si è conclusa con una fumata nera e il tramonto del criterio degli Spitzenkandidaten, per il resto i leader navigano in alto mare. Ma il governo italiano non fa parte delle famiglie politiche che decidono e quindi Conte punta sostanzialmente alla “riduzione del danno”, sia per quel che riguarda la proceduta per debito eccessivo, che pende sul nostro Paese, sia per evitare a capo della Commissione (e della Bce) profili troppo ostili. In questo, è infaticabile. E trova tutti gli angoli per inserirsi.

Giovedì all’Amigo (l’albergo che condivide con gli altri grandi) fa nottata davanti a una birra con Merkel, Macron e il premier lussemburghese, Xavier Bettel. Ma è la stessa Cancelliera a dichiarare: “Non si è parlato della procedura”. Non un segnale proprio positivo per il premier, che però dice la sua sulle nomine. Appena arrivato in albergo Conte mette sul tavolo il potere di veto dell’Italia. “Bastano tre Paesi per bloccare la nomina: la Gran Bretagna si astiene, se noi diciamo no, ne serve un altro”. In realtà, sono quattro. Il metodo di voto standard del Consiglio, la maggioranza qualificata, prevede la minoranza di blocco: una decisione può essere bocciata da quattro Paesi che rappresentino almeno il 35% della popolazione. L’astensione vale no, quindi – oltre alla Gran Bretagna e all’Italia (due dei Paesi principali) – ne servirebbero altri due: fuori dalle famiglie europee di maggioranza ci sono i governi di Polonia e Ungheria. Ma non bastano: insieme alla Polonia, servirebbe un Paese medio. Lo scenario è estremo, ma per Conte è un modo per fare pressione.

La mattina dopo, in conferenza stampa, il premier torna a parlare della procedura: il governo italiano dimostrerà che i numeri sono diversi da quello che dice la Commissione, l’argomentazione più forte. E poi, smussa le polemiche di Salvini sulle tasse, con il quale pure deve mediare anche per rispondere all’Europa. Il negoziato è non solo tecnico, ma politico. Nel frattempo, ai piani alti della politica italiana si riflette sul fatto che solo una volta evitata la procedura può cadere il governo: come potrebbe Salvini portare il Paese alle urne a settembre, in mezzo a quell’eventuale scenario? Conte poi torna sul concetto che le nomine devono essere un “pacchetto”: “Jens Weidemann alla Bce? Non partecipo al totonomi, ma bisogna tener conto degli equilibri complessivi”. Il premier si fa forte delle rassicurazioni di Donald Tusk (che gli ha promesso di evitare all’Italia un presidente della Commissione sfavorevole) e della Cancelliera, che gli ha garantito di tenerlo informato.

Nella partita, ancora non è entrato il Commissario italiano. Il nome più quotato è Giancarlo Giorgetti (per un portafoglio tra Commercio, Concorrenza, Mercato interno). Da notare che ad accompagnare Conte al Consiglio c’è il ministro degli Esteri, Enzo Moavero. Presenza irrituale, vista l’assenza di un ruolo. E visto quanto lo stesso punti a un posto nel governo europeo. Intanto, c’è un’altra posizione vacante: il ministro degli Affari europei (le deleghe sono nelle mani del premier). “Ora negoziato sui conti, ma serve presto”, dice lui. Tradotto: prima si affronta la questione procedura, poi se ne parla. Con buona pace di Salvini. E a proposito di trattative.

Facebook blocca il figlio di Bolsonaro per una settimana

La famiglia Bolsonaro ha un rapporto non sempre eccellente con i social network. Qualche tempo fa il padre Jair, presidente del Brasile, fu protagonista della pubblicazione di una golden shower (una pratica sessuale feticista) su Twitter. Ieri è toccato al figlio Carlos, consigliere comunale di Rio de Janeiro. Facebook ha bloccato la pagina ufficiale di Bolsonaro jr dopo che questi aveva pubblicato contenuti non conformi “agli standard della community”, il codice di comportamento previsto per gli utenti del social network. Il politico – rende noto il quotidiano O Globo – aveva condiviso le immagini di un uomo armato. Per il social di Mark Zuckerberg, evidentemente, una forma di istigazione alla violenza. Per questo è stato bloccato per i prossimi sette giorni. Su Twitter, piattaforma sulla quale per ora conserva completa libertà d’azione, Carlos Bolsonaro ha criticato la sospensione impostagli da Facebook, sostenendo di esser stato ingiustamente punito per il solo fatto di “aver mostrato un malvivente che terrorizza la popolazione brasiliana”.

Rai Grandi Eventi: 500 mila euro per lo show dei palinsesti a Milano

Giusto qualche giorno fa la Lega, in Vigilanza, ha presentato una mozione che invita la Rai a ridurre i mega-stipendi e gli appalti esterni. In Viale Mazzini, però, si continua ad appaltare fuori che è una meraviglia. Quest’anno andrà così anche per la presentazione dei palinsesti. L’evento andrà in scena a Milano, il 9 luglio, al Portello, ovvero gli hangar della vecchia Fiera, vicino a City Life. Almeno da 7 anni questo evento era organizzato in casa. L’anno scorso, per esempio, c’era stata una doppia presentazione: a Milano, negli studi Rai di via Mecenate, e a Roma, negli studi della Dear. Così Mamma Rai non ha sborsato quasi nulla, con spese solo per il catering. Quest’anno, invece, è stata chiamata una società esterna, la Micromegas Comunicazione, gruppo multimediale specializzato nell’organizzazione di eventi, il cui patron è Erminio Fragassa. Società che ha già lavorato per la tv pubblica e anche per altre emittenti. Una scelta che costerà alla Rai almeno 500 mila euro. A Milano i lavori per l’evento stanno andando di corsa perché si è partiti in ritardo e finora le spese ammontano a circa 400 mila euro. Facile, dunque, che alla fine si arrivi o si superi il mezzo milione. Una cifra per cui si sarebbe dovuto effettuare un bando: la Rai, infatti, per appalti sopra i 200 mila euro ha l’obbligo di indire una gara europea. Ma l’escamotage è stato trovato affidando la pratica a Rai Pubblicità, che non è soggetta agli stretti vincoli di Viale Mazzini. Ci si è limitati ad analizzare alcuni progetti di diverse società per poi scegliere Micromegas. Il tutto, naturalmente, con il coordinamento di Rai Pubblicità, che aprirà il portafogli (amministratore delegato è Gian Paolo Tagliavia) e della direzione creativa (guidata da Massimo Maritan). Tutto regolare naturalmente. Ma non si comprende perché mamma Rai, con l’ad Fabrizio Salini, abbia deciso di appaltare fuori quello che da anni veniva fatto in casa. In realtà, precisa l’azienda “solo una piccola parte viene data in esterno da Rai Pubblicità ed è legata a un aspetto particolare della presentazione che necessitava di competenze specifiche”.

Nel frattempo continuano a spuntare come funghi nuove direzioni. Nelle pieghe del piano industriale, infatti, se ne contano diverse nuove di zecca. Per esempio, quella di Pubblica utilità, dove è stato nominato Giuseppe Sangiovanni, con la carica però di vicedirettore. O quella delle Infrastrutture immobiliari e sedi locali, affidata ad Alessandro Zucca. O la direzione Tecnologie, che vede al timone Ubaldo Toni. Tra le ultime novità, poi, c’è il capo staff dell’amministratore delegato, con la nomina di Roberto Ferrara. Cariche che vanno ad aggiungersi alle altre direzioni in più rispetto al passato: le relazioni internazionali (Simona Martorelli), le relazioni istituzionali (Stefano Luppi), l’ufficio studi (Andrea Montanari), il transformation office (Pietro Gaffuri) e il riesumato direttore generale (Alberto Matassino). E i dirigenti in Rai sono talmente tanti che non entrano più nemmeno nel loro parcheggio in via Antonio Cantore, a due passi da Viale Mazzini: nonostante i 35 posti auto, ogni giorno molti restano fuori e sono costretti a parcheggiare altrove. Vibranti proteste sulla questione sono già arrivate al settimo piano.

Casellati, niente trasparenza sugli atti: il Senato è cosa sua

Si fa presto a dire trasparenza. Il presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, non è di manica larga e pretende che nulla sfugga al suo controllo. Nonostante le piacerebbe, eccome, vedersi riconosciuto il merito di aver fatto diventare Palazzo Madama una casa di vetro. Ma evidentemente sull’augusta magione che guida da un anno con mano ferma (e feroce, almeno per gli sventurati che fin qui si sono avvicendati nel ruolo di portavoce senza mai soddisfarla fino in fondo), deve essere piovuta sabbia.

Perché le nuove regole sull’accesso agli atti che, secondo quanto annunciato ai quattro venti attraverso i canali ufficiali, allargheranno moltissimo la possibilità di acquisire i documenti dell’Amministrazione, sono ancora chiuse a tripla mandata nei suoi regali cassetti. Che però, fortunatamente non sono del tutto inviolabili.

Le nuove regole contengono limiti assai stringenti per l’esercizio del diritto di accesso che ricalcano quelle adottate da altri Palazzi della politica che però se ne erano dotati già anni fa, come ad esempio alla Camera. Dove da allora però ci si è nel frattempo dotati di altri strumenti di trasparenza come il registro dei portatori di interesse. E al Senato? Di regole per i lobbisti nemmeno a parlarne, almeno per il momento. E quanto all’accesso ai documenti, il nuovo regolamento nasce già stantio, per non dire peggio. Ma qualcosa andava pur fatto perché nei mesi scorsi ad alcuni senatori che ne avevano fatto richiesta è stato negato di consultare atti ritenuti utili a conoscere i processi decisionali della loro stessa Camera di appartenenza. E la cosa ha mandato la Casellati in fibrillazione.

Che dunque ha deciso di correre ai ripari, mettendo almeno per iscritto i criteri su cui verrà decisa l’istanza di accesso agli atti. Stando alle nuove regole il diritto “è riconosciuto solo a chi abbia un interesse diretto concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento” del quale si chiedesse visione. E questo diritto non esiste praticamente per nessuno specie per quel che riguarda le decisioni degli organi di giurisdizione interna di Palazzo Madama: inutile chiedere ad esempio perché e in base a quali criteri sia stato negato o riconosciuto un vitalizio. Come ad esempio quello ottenuto dalla stessa Casellati dalla amministrazione che oggi presiede per i quattro anni in cui è stata al Consiglio superiore della magistratura. Che oltre all’assegno mensile ai membri laici corrisponde pure una speciale indennità di fine mandato. In primo grado il Senato le ha risposto picche, mentre in appello quando era già sullo scranno più alto di Palazzo Madama, il suo ricorso è stato accettato. Un mistero.

Ma anche ottenere altri documenti non pare facile, con buona pace delle nuove regole: non basta una richiesta scritta, sostenuta da un titolo che dà diritto ad accedervi. Perché serve pure indicare gli estremi del documento che si chiede. E soprattutto è necessario azzeccare il responsabile del procedimento a cui va rivolta l’istanza. Ossia “il Consigliere parlamentare direttore di servizio o capo dell’ufficio alle dirette dipendenze del segretario generale o su designazione di questo, altro dipendente addetto al servizio o ufficio competente”. Insomma capire a che porta bussare pare impresa degna di una caccia all’uomo che fiaccherebbe chiunque. Ed è pure peggio se il documento che si cerca di ottenere è stato adottato non da un organo amministrativo, ma da un organo politico del Senato: stando a quanto delineato dal regolamento di prossima emanazione, in questo caso le maglie sono addirittura più strette. E si dovrà attendere che al responsabile del procedimento di accesso (sempre che si abbia la determinazione che serve per individuarlo) sia dato semaforo verde dall’organo politico che va informato “tempestivamente” della richiesta “per le conseguenti determinazioni”.

Non è finita qui. Perché con decreto del presidente Casellati “possono essere individuate categorie di documenti formati dall’Amministrazione o comunque rientranti nella sua disponibilità sottratti all’accesso”. Che sono equiparati agli atti coperti da segreto di Stato o a quelli esclusi dall’accesso per salvaguardare la sicurezza “delle persone, delle sedi, degli impianti che abbiano riferimento diretto o indiretto all’esercizio delle funzioni parlamentari”, oltreché alla riservatezza di terzi. Insomma al Senato la trasparenza è ancora all’anno zero. O quasi.

E così Di Maio si scoprì sarrista

La purezza dell’ideologia grillina, se non altro, si potrebbe applicare sul campo di pallone. Parola di Luigi Di Maio: “Dovrebbe esistere il vincolo di mandato, per cui se entri con uno non puoi passare a un’altra squadra, forse dovremmo cominciare a farlo anche nel calcio”. Quella del vicepremier è una teoria un po’ astrusa ma in fondo una licenza ironica: la cornice infatti era la trasmissione comica di Radio Uno Un giorno da pecora. Qualcuno però l’ha preso assai sul serio. Tra i tifosi del Napoli (di cui Di Maio fa parte) queste parole hanno fatto abbastanza rumore. Con la sua uscita il ministro è stato incasellato nelle file del “sarrismo”, il gruppo dei sostenitori (traditi) dell’ex allenatore azzurro Sarri, appena passato alla Juventus. Giggino – il ragionamento – è un sarrista perché nella stessa intervista attacca pure De Laurentis: “Il Napoli – dice Di Maio – purtroppo è abituato a scoprire talenti e poi regalarli ad altre squadre. È successo già con Lavezzi, Cavani e mister Sarri”. Un attacco frontale – secondo gli esegeti – al “pappone” Aurelio (così lo chiamano i nemici), oculato e spesso contestato presidente della squadra azzurra. Insomma Giggì, finché vuoi giocare con la politica passi, ma sul resto hai poco da scherzare: il calcio è una cosa seria.