Una notizia cattiva e una buona. Quella cattiva che esce dal Consiglio europeo finito ieri a Bruxelles è che tutte e quattro le principali nomine europee sono ancora da fare. E quindi il rischio maggiore per l’Italia è ancora presente, cioè che alla Bce vada il tedesco Jens Weidmann, l’oppositore delle politiche anti-crisi di Mario Draghi negli ultimi otto anni (ora dice di aver cambiato idea). Se uno degli incarichi di vertice fosse andato a un tedesco già nel Consiglio di ieri, il negoziato sulla Bce si sarebbe aperto senza l’opzione Weidmann. Invece resta tutto possibile. La notizia buona è che le probabilità di una procedura d’infrazione per debito contro l’Italia si riducono. Non perché qualcuno abbia creduto agli impegni (vaghi) presi dal premier Giuseppe Conte, ma perché se la decisione sulla procedura si sovrappone a quella delle nomine, l’Italia ha la possibilità di esercitare un certo potere di veto (sulle nomine, così da fermare la procedura).
L’unico risultato del negoziato di giovedì notte sembra essere la fine delle ambizioni dei tre Spitzenkandidaten, cioè i tre candidati alla Commissione indicati dai partiti durante la campagna elettorale. Ha prevalso la linea di Emmanuel Macron: il presidente francese vuole l’applicazione letterale dei trattati in base ai quali il presidente della Commissione viene scelto dal Consiglio, cioè dai governi. Ma se il socialista Frans Timmermans si è rassegnato, il popolare Manfred Weber, sostenuto dal primo partito alle elezioni, non ha perso le speranze. La sua tattica è semplice: “I Paesi del Sud Europa dovranno scegliere: o appoggiano me o si troveranno Weidmann alla Bce”, è il ragionamento che fa in queste ore. La cancelliera Angela Merkel per ora è impenetrabile: ha escluso di voler competere lei stessa per un incarico europeo, sembra pronta a sacrificare Weber, ma non è affatto chiaro se il vero obiettivo sia portare Weidmann a Francoforte.
Missione comunque difficile, visto che Macron ha già anticipato il suo veto (vuole su quella poltrona la francese Christine Lagarde, oggi al Fmi). I nomi che girano, dall’economista Kristalina Georgieva al premier croato Andrej Plenkovic che pure ha un ottimo rapporto con la Merkel, sono considerati a Bruxelles candidati troppo deboli per sopravvivere al rodeo delle nomine, nomi da bruciare in attesa di quelli veri.
Il 2 luglio c’è la seduta del Parlamento europeo che deve dare il suo voto di fiducia al presidente della Commissione scelto dal Consiglio che si riunirà il 30 giugno. A meno di ulteriori rinvii, i tempi sono quindi stretti. E questo per il governo Conte è una ottima notizia. “Le stelle sono allineate per l’Italia”, scrive in una nota della sua società LCMacro l’ex capo economista del Tesoro Lorenzo Codogno che prima dava una probabilità del 90 per cento alla procedura d’infrazione e ora non va oltre il 25.
Prima di approvare i report sulla violazione da parte dell’Italia della regola del debito (mancata correzione nel 2018), la Commissione ha voluto capire qual è il clima tra i governi. Se non propone la procedura e crede alle promesse di Roma, protesterà il fronte del rigore (Olanda in testa). Se sceglie la linea dura l’Italia, che pure è politicamente isolata, potrebbe creare parecchi problemi sulle nomine ai Paesi decisivi sul voto della procedura d’infrazione. Perché, ricorda Codogno, il 9 luglio l’Eurogruppo dovrà votare sull’eventuale proposta della Commissione di chiedere al Consiglio di avviare la procedura. Serve la maggioranza qualificata. L’Italia potrebbe costruire una minoranza di blocco con Francia e Spagna (i due Paesi al centro del risiko delle poltrone) oltre a Grecia e Cipro, per esempio. E per la Commissione sarebbe uno smacco terribile vedersi respingere la richiesta, perché significherebbe ammettere la propria sudditanza ai governi. E addio credibilità dei suoi moniti sui conti pubblici.
Nella logica europea, nessuno tenta una prova di forza se non è sicuro di vincerla. La Commissione, quindi, potrebbe rinviare ancora una volta lo scontro frontale con l’Italia aspettando la legge di Bilancio 2020.