Zingaretti in piazza con i sindacati uniti: “Ripartiamo dal Sud”

Un altropasso a sinistra per Nicola Zingaretti. Il segretario del Pd stamattina è a Reggio Calabria per partecipare alla manifestazione nazionale dei sindacati. Il corteo di Cgil, Cisl e Uil – intitolato #FuturoalLavoro – è stato indetto per far tornare al centro dell’agenda politica i temi del lavoro e del Meridione: “Ripartiamo dal Sud per unire il Paese”. I tre leader dei sindacati – Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo – rivendicano una seria politica industriale, investimenti, e rilancio delle Regioni del Mezzogiorno.

Il segretario del Pd parteciperà al corteo che parte alle 9.30 da piazza De Nava per concludersi in piazza del Duomo. L’annuncio della sua presenza è stato dato dal commissario del Pd calabrese, Stefano Graziano: “Saremo in piazza al fianco dei sindacati a Reggio Calabria per ribadire la centralità del Mezzogiorno per le politiche di sviluppo del Paese, che purtroppo non rappresentano una priorità dell’agenda politica del governo a trazione leghista. Ribadiamo il no del Pd ai progetti di autonomia differenziata che metteranno una pietra tombale sulla questione meridionale”.

Autolesionismo Pd: vota con Lega e Fdi e azzoppa il possibile candidato sindaco

Nemmeno il tempo di vedere Virginia Raggi tagliare in affanno il terzo anniversario del suo mandato in Campidoglio – tra rifiuti in strada, autobus che circolano a singhiozzo, attacchi da parte del centrodestra ora a trazione leghista e inviti a fare un passo indietro dalle colonne del Messaggero – che il Pd romano ha rispolverato il suo colpo preferito: l’autolesionismo.

In uno dei quattro Municipi cittadini governati dal centrosinistra, il terzo, ovvero la zona del Salario, su un emendamento in consiglio municipale i dem hanno votato insieme nientemeno che alla Lega e a Fratelli d’Italia, in aperto disaccordo con le scelte della presidente Giovanni Caudo.

Urbanista con lunga esperienza nell’housing sociale, docente universitario, Caudo è stato l’assessore in materia della giunta di Ignazio Marino, defenestrata proprio con le dimissioni in massa dei consiglieri Pd ad ottobre del 2015.

Da qui la profonda amarezza del minisindaco che deve aver provato una sensazione di dejà vù. Dopo il voto in assemblea municipale Caudo ha ammesso sconsolato: “È l’ulteriore dimostrazione dell’atteggiamento di chi intende la politica in modo asfittico, non in grado di accogliere il bisogno di prendere parola, di partecipazione e di coinvolgimento che si respira nella Città”. Poi l’affondo: “Si tratta di un atto politico ostile nei confronti del presidente e della sua giunta”.

A causare il voto contrario una divergenza tutto sommato confinata ad una vicenda locale: i servizi da prevedere all’interno della Casa dei Diritti e delle Differenze di Genere appena autorizzata dal Municipio. Oltre al consultorio e ai progetti a sostegno delle donne e dei minori, il presidente e la giunta avrebbero voluto dedicare parte degli spazi anche all’inclusione sociale. I requisiti di accesso ai bandi per l’assegnazione dei servizi sarebbero stati all’origine dello scontro.

C’è chi ipotizza, però, che il Pd territoriale abbia voluto mandare un messaggio a Caudo, considerato da alcuni esponenti troppo schierato su tematiche di sinistra e vicino ad una serie di assessori provenienti dalla società civile, a partire da quello alla cultura, l’intellettuale Christian Raimo.

Una crisi che si apre ad appena un anno dalle elezioni municipali, arrivate dopo che i 5 stelle avevano sfiduciato la loro presidente, Roberta Capoccioni, per contrasti interni alla maggioranza.

Visto il palese imbarazzo per la convergenza in aula con il centrodestra, tra i vertici del Pd romano e i consiglieri capitolini nessuno ha voluto commentare quanto accaduto.

Una situazione che conferma anche l’impressione della debolezza della segreteria cittadina retta dal renziano Andrea Casu, con diversi luogotenenti del partito che sottotraccia lavorano per chiederne le dimissioni rimproverandogli scarsa autonomia dalla sua corrente nelle scelte.

Dopo l’amarezza iniziale, Caudo ieri sera ha convocato un’assemblea pubblica per riflettere sul da farsi, valutando con i territori se tentare di ricucire o arrivare ad uno scontro, magari stavolta anticipando lui i consiglieri dem e consegnando le dimissioni.

Una mossa che, però, potrebbe rivelarsi controproducente per uno dei nomi più accreditati per la corsa a candidato sindaco del centrosinistra tra due anni, capace di unire uno schieramento più ampio del solo Pd che guarda a sinistra come alle realtà dell’associazionismo civico: insomma lo schema apprezzato dal segretario Nicola Zingaretti.

A furia di manovre il centro è intasato, aspettando Cairo

Tutto, o quasi, dipende dal Pd. Perché, per dirla come Beppe Fioroni, “se il partito si snatura e diventa una forza solo di sinistra, tradendo le sue radici originarie, allora è chiaro che tutta la parte di centro del partito, dai liberali ai cattolici democratici, non potranno restarsene lì, fermi…”. Tanto più, aggiunge l’ex Dc, se poi qualcuno pensa di aprire un dialogo con i 5Stelle. Come, un po’ a sorpresa, ha presagito addirittura Antonello Giacomelli, leader di Base riformista, la corrente di Luca Lotti. “Il Pd non può autoescludersi a vita. C’è il proporzionale e da soli non arriveremo al 51%”, ha detto un paio di giorni fa all’Huffington Post. Ma se davvero il Pd dovesse sterzare ancor di più a sinistra, come sta già facendo, visto che gli uomini e le donne della segreteria sono tutti o quasi riconducibili al segretario, allora qualcosa al centro potrebbe accadere. Come ha ipotizzato quella gran vecchia volpe di Pier Ferdinando Casini, sempre a mezzo stampa. “Al centro c’è una prateria, almeno un 10 per cento, quindi, cari ragazzi, datevi una mossa…”, ha detto l’ex presidente della Camera, rieletto nelle file del Pd.

Il suo invito faceva riferimento alla costruzione di una forza alleata coi dem ed era rivolto a Matteo Renzi e Carlo Calenda. I cui destini sono destinati a incrociarsi pur restando divisi. Calenda, poi, cambia idea ogni minuto. Il suo ultimo orizzonte conosciuto sarebbe quello di dar vita a un soggetto che aiuti appunto il Pd a prendere voti al centro, spinto dal suo maggiore sponsor, Paolo Gentiloni. Peccato che il nostro sia stato appena eletto in Europa proprio nelle liste del Pd e andarsene subito a fondare un nuovo partito non è il massimo della coerenza. “Lo faccio solo con il benestare di Zingaretti”, ha spiegato. E per ora tutto tace.

Ben diversa, invece, la situazione di Renzi. Che nel Pd ci sta sempre più stretto. La vicenda di Luca Lotti ha evidenziato quanto astio ci sia ancora tra i renziani e il resto del partito, con attacchi taglienti e scambi al veleno. Un piccolo partito di scissionisti renziani potrebbe nascere anche domani. Il problema, per loro, è però di prospettiva. Dove vanno? La carta vincente, per l’ex segretario, sarebbe puntare a una sorta di Nazareno bis, farsi promotore di una “nuova Margherita” che aggreghi pezzi di Pd, ma pure di forzisti in sofferenza, che non ambiscono a diventare gli scendiletto di Salvini. Per questo, nelle ultime settimane, si è fatto un gran parlare di contatti tra i renziani e forzisti anti-Lega. Come Mara Carfagna, Gianfranco Miccichè, Stefania Prestigiacomo. E Paolo Romani. Il problema però è doppio. “È tutto vero, contatti ci sono stati”, conferma un parlamentare azzurro vicino a Mara, “ma ci sono due problemi: la presenza di Renzi, che è molto ingombrante. E poi, con chi ti allei? Bisognerebbe avere il coraggio di andare alle urne da solo e vedere che succede”. Ora però tutto si è congelato con la nomina di Carfagna a coordinatrice azzurra. E lì che l’ex ministra vorrà giocarsi tutte le sue carte, per prendersi il partito e renderlo più autonomo dalla Lega. Ma se fallisse e al congresso dovesse spuntarla Giovanni Toti, allora la tela che Mara aveva iniziato a filare con alcuni dem potrebbe essere ripresa. “La carta vincente è quella di presentarsi da soli alle urne. Al centro, è dimostrato, vince solo chi ha coraggio e ci mette la faccia”, osserva un altro ex Dc, Gianfranco Rotondi. Ma un partito Renzi-Carfagna potrebbe muoversi sulla falsariga del Psi craxiano: alleato a destra (Dc) o a sinistra (Pci) alla bisogna.

In tutto ciò, poi, ci sono soggetti spuri. Cosa avrà in mente, per esempio, Urbano Cairo? O il leader della Fim-Cisl Marco Bentivogli? E poi c’è Più Europa. Che oggi tiene a Roma la sua assemblea nazionale. “Gli unici titolati a parlare di centro, al momento, siamo noi. Il nostro campo è per natura al fianco del Pd. Anche se pure Zingaretti ci sta trattando un po’ male…”, chiosa, con un sorriso, un altro volpone come Angelo Sanza.

I Verdini tra dem e Salvini: Lotti saluta la first lady del Carroccio

Nei giorni di copioso gossip sulla relazione con Matteo Salvini, prima coppia scoppiata e subito dopo indirizzati verso l’altare, nell’ultima settimana di maggio che ha spinto la Lega al trionfo delle elezioni europee, in maniera fortuita eppure calorosa, Francesca Verdini, compagna del ministro dell’Interno e figlia dell’ex berlusconiano Denis, incontrava e salutava con sfoggio di confidenza l’ex ministro Luca Lotti, il renziano che parla poco e si muove assai, come hanno svelato le trame per le nomine al Consiglio superiore della magistratura negli alberghi romani con diversi togati e un collega del Partito democratico, l’ex sottosegretario Cosimo Ferri.

Il servizio di Diva e Donna in edicola testimonia una riunione in un caffè di piazza San Lorenzo in Lucina – il quartiere generale di Verdini padre – tra Luca, Denis e il fratello Tommaso, di professione ristoratore con un locale a due minuti a piedi da Montecitorio. Francesca e Luca “il lampadina”, archetipo del pensiero renziano efficace e sbrigativo, si danno il cambio al tavolo con estrema cordialità.

Francesca non partecipa al conciliabolo si presume politico, perciò è assente in un momento di potenziale imbarazzo per il ruolo di compagna del capo del Carroccio. Il rapporto tra Denis e Luca, però, ha radici lontane e non soltanto per ragioni geografiche, entrambi toscani con marcato accento toscano. Tra Denis di Fivizzano e Luca di Montelupo fiorentino c’è sintonia sin dai tempi dell’esordio di Matteo Renzi sindaco di Firenze e poi il lungo asse per la riforma costituzionale, il continuo supporto parlamentare della esigua guarnigione di verdiniani chiamata “gruppo Ala”, fino a una segnalazione (che non ebbe seguito, ndr) di Denis a Lotti di un giudice per il Consiglio di Stato, episodio che ha costretto Luca a testimoniare davanti ai magistrati di Messina. Francesca non c’entra con la vita del padre, lo scaltro Denis che lasciato il Parlamento e dedica tempo e forze a difendersi in più processi, ma la conoscenza di Luca, l’amico di papà, rende interessante anche la posizione di Salvini sull’inchiesta di Perugia che ha scoperchiato il marcio attorno al Csm.

Per esempio, proprio ieri, il ministro dell’Interno, dopo un’intemerata contro la diffusione delle intercettazioni di carattere privato, è intervenuto sul tema e ha citato Lotti: “È il momento di fare una seria, approfondita e decisiva riforma della magistratura. Se fai il magistrato e fai politica ti dimetti per sempre dalla magistratura e non torni più a fare il magistrato. La riforma la chiedo a prescindere dalla vicenda del Csm. Lotti è politicamente lontanissimo da me, ma con una magistratura divisa per correnti che decide nomine e posti fino a ieri come decidevano?”. Più o meno, e fa riflettere, Salvini usa gli stessi concetti di Renzi, che però ha l’esigenza politica di proteggere un esponente del “giglio magico”, fidato collaboratore da sempre. Strano, o almeno bizzarro.

Il vociare del Parlamento, luogo in cui vincono la furbizia e la malizia, ha già ribatezzato Verdini con l’etichetta “il suocero di Salvini”, un fresco e fiero leghista anche per necessità, e il timore, umanamente comprensibile, di subire una condanna definitiva in Cassazione dopo la sentenza di appello a 6 anni e 10 mesi per la bancarotta del Credito fiorentino e dunque di finire in carcere. Il saluto di Francesca al “lampadina” Lotti non ha significati particolari, se non ricordare che Francesca porta in dote l’influenza politica del padre che non ha interrotto mai, s’apprende, il dialogo con certi ambienti del renzismo. E quindi traslando, per scherzare e neanche troppo, Salvini si trova un futuribile suocero che pare leghista, giurano quelli che in Parlamento le cose le sanno e le mormorano, eppure sta all’opposizione, addirittura con i renziani.

Non si capisce niente. Finché non ci si ritrova al bar tutti assieme. Così diversi. Così uguali. Denis, Luca e Francesca.

Bankitalia, la riforma della governance in Senato da luglio

La riformadella governance di Banca d’Italia, che si è già attirata gli strali dei pasdaran italiani dello status quo, sarà incardinata in Parlamento a luglio “per poi avviare le audizioni e la discussione generale”. Lo ha detto ieri il presidente della commissione Finanze del Senato, il leghista Alberto Bagnai: l’iter partirà con una richiesta di parere preventivo alla Bce, una decisione presa “con la presidente del Senato Casellati che aveva segnalato l’esigenza” di interpellare Francorte. La proposta di legge è firmata dai capigruppo a Palazzo Madama tanto della Lega che dei 5 Stelle: “Sicuramente la riforma ha il nostro appoggio”, ha detto Matteo Salvini dopo che Giuseppe Conte aveva spiegato ai giornalisti a Bruxelles di non aver ancora letto il testo. La legge è semplice: attribuisce in parte al governo e in parte al Parlamento il potere di nomina dei componenti del direttorio di Bankitalia (lo stesso meccanismo di nomina della Bundesbank) e porta sotto il controllo parlamentare anche lo Statuto della banca centrale. “È un’adeguamento del nostro ordinamento agli standard europei più virtuosi”, sostiene Bagnai, e “non vorrei si scatenasse una polemica pretestuosa sull’indipendenza dell’istituto, che noi rispettiamo”.

Sequestro Sea Watch, archiviati Conte e i due vicepremier

La Sea Watch 3 ”è entrata in Italia in maniera unilaterale e senza le necessarie autorizzazioni della Guardia Costiera”. Con questa motivazione il tribunale dei ministri di Catania ha archiviato la posizione del premier Giuseppe Conte, dei vice Matteo Salvini e Luigi di Maio e del ministro Danilo Toninelli, accusati di sequestro di persona per non aver fatto sbarcare la nave della ong tedesca tra il 24 ed il 30 gennaio. Una decisione che fa esultare Salvini, mentre la nave umanitaria, sei mesi dopo, oggi si trova nella stessa condizione: da 9 giorni in mare con 43 migranti salvati senza il permesso di entrare nel porto di Lampedusa. Intanto, però, in 100 hanno trovato il modo di arrivare sull’isola: 81 su un gommone lasciato al largo da un peschereccio che è stato poi sequestrato dalla Guardia di finanza. È stato lo stesso Salvini a comunicare la decisione del Tribunale dei ministri: “Non fu sequestro ma semplicemente richiesta di ordine e regole? Bene! Processi e indagini non mi fanno paura, ma sono felice che anche la magistratura confermi che si possono chiudere i porti alle navi pirata. Continuerò a difendere i confini”. L’archiviazione ha riguardato anche Conte, Di Maio e Toninelli, che avevano condiviso la linea del Viminale.

“Il carrierismo ha svilito questo mestiere”

Pubblichiamo il testo dell’intervento al plenum straordinario del Csm di ieri di Piercamillo Davigo, membro togato di AeI (Autonomia e Indipendenza)

Quarantuno anni fa, quando mi accingevo a diventare magistrato, svolgevo un’altra attività, peraltro meglio retribuita di quanto sarebbe stata di lì a poco quella di uditore giudiziario, come allora si chiamava il magistrato in tirocinio.

Mi consigliai con un anziano funzionario dell’ufficio dove lavoravo e gli dissi: “Lei cosa farebbe al mio posto? Andrebbe a fare il magistrato o rimarrebbe qui?”. E questo mi rispose: “Io credo che, nella vita di un essere umano, non ci sia missione più nobile di quella di cercare di rendere giustizia”.

Dopo quelle parole, io decisi di lasciare quell’ufficio e di abbracciare la funzione di magistrato. Sono rimasto attonito negli ultimi anni, nel vedere come questo anelito – che per tanto tempo aveva ispirato la stragrande maggioranza dei magistrati anche in momenti difficilissimi, anche in momenti in cui i magistrati cadevano sotto il terrorismo e sotto il crimine organizzato – forse è stato sostituito da un pericoloso carrierismo, da una caccia a quelle che sprezzantemente vengono chiamate le “medagliette”. Titoli il più delle volte solo formali e privi di reale contenuto di professionalità, ma da invocare al fine di ottenere promozioni.

Sempre che di promozioni si possa parlare, alla luce di una Costituzione che dice – come è stato ricordato – che i magistrati si distinguono tra loro solo per differenti funzioni.

E questo si è innestato su un’altra pericolosa deriva, volta a fronteggiare l’immane differenza fra la possibilità degli apparati giudiziari di produrre decisioni e una domanda di giustizia che non ha equivalenti in altri Paesi europei, forse incontrollata, con una spinta aziendalistica.

Noi non fabbrichiamo bulloni: le soluzioni volte ad aumentare la produttività si sono rivelate il più delle volte controproducenti.

Era stato indicato un ufficio giudiziario come modello che tutti i magistrati italiani dovevano seguire: bene, quel modello ha determinato che quell’ufficio diventato sede disagiata; e neanche con i benefici previsti per la sede disagiata siamo riusciti a coprire i posti vacanti. Allora bisogna ripensare l’intero modello dell’organizzazione giudiziaria e cercare di riportare l’etica del magistrato a quella del dover rendere giustizia. È un’impresa difficile, ma io credo che ci siano le forze e le intelligenze per farlo.

Abbiamo bisogno signor Presidente del suo aiuto, della sua guida, della sua saggezza, della sua fermezza. E per questo la ringrazio di essere qui e confido in questo aiuto che oggi invoco.

Il bavaglio di Salvini: “Intercettazioni, in galera chi scrive”

La “nuova” politica come la vecchia: dito puntato non contro chi compie reati, ma contro chi li racconta. È l’eterna guerra italiana al termometro, colpevole di segnalare la febbre. Ed è il “nuovo” Matteo Salvini, questa volta, a prendersela con le intercettazioni, come ha fatto mille volte prima di lui il vecchio Silvio Berlusconi. Ma, secondo il suo stile, ci aggiunge il carico e invoca addirittura “la galera”: se ci sono “aspetti che riguardano la vita privata che escono dalla Procura e finiscono in edicola, dovrebbe finire in galera sia chi le fa uscire dalla Procura sia chi le pubblica sui giornali”. E ancora: “Non è civile che i giornali siano pieni di pezzi di intercettazioni senza alcuna rilevanza penale. È una cosa da quarto mondo”.

La “vita privata”, la “non rilevanza penale”: sono l’eterno cavallo di Troia contro i trojan, il solito pretesto per attaccare le intercettazioni. Il “nuovo” Salvini non riesce a prendersela con le intercettazioni in generale (“Se ci sono cose che riguardano processi e reati è giusto che li si legga”), ma intanto evoca addirittura lo spettro della galera per i giornalisti.

Lo ha fatto ieri, chiedendo “una seria e definitiva riforma della magistratura” – che in questo contesto suona piuttosto come una minaccia – a Milano, a margine del “Festival del lavoro”. Ma naturalmente è il caso Csm che fa da sfondo alle parole del segretario della Lega e vicepresidente del Consiglio. Più che la “vita privata”, le intercettazioni captate dai trojan hanno rivelato le possibili corruzioni di qualche magistrato e il mercato delle vacche al Consiglio superiore della magistratura, dove s’intrecciano rapporti incestuosi tra toghe e politici (anche indagati, come l’ex sottosegretario Luca Lotti) e si stringono accordi sotterranei per decidere i posti direttivi dei principali uffici giudiziari.

Le dichiarazioni di Salvini aprono un problema dentro il governo: l’utilizzo dei trojan (cioè i programmi che trasformano in “cimici” i telefonini degli indagati e permettono di registrare le loro conversazioni e di copiare messaggi, chat ed email) è stato introdotto dalla legge “Spazzacorrotti” fortemente voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, Cinquestelle, che continua a difenderla: “Le intercettazioni rimangono uno strumento fondamentale per le indagini e hanno reso possibile la conoscenza di scandali. Io non posso portare indietro le lancette della storia”. E ancora: “Possiamo migliorare gli strumenti, ma non arretriamo di un millimetro sulle intercettazioni e sulla possibilità di utilizzare i trojan”. Anche perché “in passato il tema della privacy è stato usato dalla politica per tutelare se stessa”. In passato. E nel presente? Pure, si direbbe a guardare alcune inchieste giudiziarie in corso. Che riguardano anche la Lega di Salvini. Nel fascicolo dell’indagine sull’ex sottosegretario leghista Armando Siri, per esempio, è trascritta un’intercettazione ambientale del settembre 2018 in cui parlano l’ex deputato Paolo Arata e il figlio imprenditore Francesco, che fanno riferimento a 30 mila euro per Siri, in relazione a un provvedimento del governo per incentivare l’eolico (poi non presentato). “La conversazione intercettata”, scrivono i magistrati, “non consente di stabilire se i 30 mila euro siano stati effettivamente pagati o, al contrario, soltanto promessi. Ma questo, sotto il profilo della contestazione del reato, non cambia le cose”.

Scomode, le intercettazioni, quando svelano fatti sgraditi ai politici. Vecchi e “nuovi”. Ieri e anche oggi. O soprattutto oggi, mentre sono in corso le trattative dentro il governo tra Lega e Cinquestelle per la riforma del processo e del Csm. I due partner sono d’accordo, almeno a parole, sulla separazione tra magistratura e politica. “Un togato che entra in politica deve abbandonare la magistratura”, ha dichiarato Bonafede nei giorni scorsi. Ieri Salvini gli ha fatto eco: “Se fai il magistrato e poi fai politica, allora ti dimetti definitivamente dalla magistratura, non fai più il magistrato”. Ma poi ha aggiunto un assist a Luca Lotti, Pd, coinvolto insieme al magistrato Luca Palamara nella vicenda Csm: “Lotti è politicamente lontanissimo da me, ma con una magistratura divisa per correnti che decide nomine e posti, fino a ieri come decidevano?”. Così fan tutti, sembra dire Salvini, così si è sempre fatto.

Sulle intercettazioni e la loro pubblicazione, poi, Bonafede indica come bussola la Cassazione, secondo cui “le intercettazioni possono essere pubblicate nel diritto di cronaca e di informazione, in caso di notizie con preminente interesse pubblico”. Invece ieri Salvini indica senza giri di parole “la galera” per chi sgarra e pubblica cose “che non devono essere pubblicate”.

Una sponda inaspettata per un altro dei protagonisti del caso Csm, il politico (ed ex magistrato) Cosimo Ferri, Pd, che va oltre: le sue intercettazioni sono illegittime perché, per intercettare un parlamentare, “ai sensi dell’articolo 68 della Costituzione ci vuole la necessaria preventiva autorizzazione”.

Mattarella riapre la partita per il procuratore di Roma

Davanti ai consiglieri del Consiglio superiore della Magistratura (Csm), il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel giorno del plenum che ha presieduto, nella speranza che si possa risalire la china, inchiesta di Perugia permettendo, è costretto a ricordare quella che dovrebbe essere la pre-condizione naturale per chi ricopre ruoli istituzionali: “La Costituzione prescrive che l’assunzione di qualunque carica pubblica sia esercitata con disciplina e onore”. Il banco di prova più arduo e decisivo per capire se alle parole del presidente seguiranno i fatti dei consiglieri è la nomina del procuratore di Roma, attorno alla quale è scoppiato lo scandalo e che resta una partita aperta.

Non a caso il vicepresidente David Ermini, che non muove un passo senza consultare Mattarella, ha provato a stoppare chi tra i consiglieri della Quinta commissione, che propone le nomine, pensa, essendo tecnicamente possibile, di discutere a porte chiuse su un eventuale azzeramento della pratica, già votata il 23 maggio. Quella votazione “è valida – ha spiegato Ermini ai giornalisti –, passa al Plenum e il Plenum è sovrano. Può decidere qualsiasi cosa”. Cioè o votare per uno dei tre candidati già indicati dalla Quinta, o decidere un ritorno in Commissione, cosa già avvenuta in passato, specie se ci sono divisioni laceranti fra correnti che da anni e non solo da ora, si sono mosse con la logica “uno a te, uno a me” e con suggerimenti della politica. Dietro la dichiarazione di Ermini c’è un ragionamento sulla necessità di voler dimostrare agli italiani sfiduciati che – come ha detto Mattarella – “oggi si volta pagina” e che c’è un’esigenza di “assoluta trasparenza, di rispetto rigoroso delle regole”.

Ermini, infatti, indica la via del Plenum per decidere il destino di quel voto di maggio in modo che i consiglieri parlino e votino sotto gli occhi di tutti. Ciascuno, dunque, potrà fare le proprie valutazioni su quanto accadrà. Inoltre, si eviterebbero eventuali ricorsi amministrativi dei candidati votati in Quinta: Marcello Viola (procuratore generale di Firenze, 4 preferenze); Giuseppe Creazzo (procuratore di Firenze, 1); Franco Lo Voi (procuratore di Palermo, 1). Se la commissione decidesse in autonomia di riaprire la pratica e non fossero più votati, potrebbero lamentarsene davanti al Tar, non essendoci stato un annullamento “legale” del voto del 23 maggio.

Il presidente Mattarella ha condannato con parole inequivocabili le notizie di trattative sulle nomine, a cominciare da quella di Roma durante un incontro fra 5 consiglieri togati con due parlamentari del Pd, Cosimo Ferri e Luca Lotti, pure imputato a Roma e Luca Palamara, pm romano, indagato a Perugia per corruzione. “Quel che è emerso da un’inchiesta in corso – ha sottolineato Mattarella –, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile. Il coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’Ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura”. E analizza quello che è sotto gli occhi di tutti: “Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio, ma anche dell’intero Ordine giudiziario”.

Ma il presidente, a cui si son rivolti in maniera accorata consiglieri come Piercamillo Davigo, Giuseppe Cascini, Alberto Benedetti, fa un atto di fiducia verso di loro: “Occorre far comprendere che la magistratura – e il suo organo di governo autonomo – hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare, nelle proprie scelte, rigore e piena linearità”. Sempre ieri, i giudici Giuseppe Marra e Ilaria Pepe sono subentrati come consiglieri al posto di Pierluigi Morlini, di Unicost (centristi) e Corrado Cartoni (MI, conservatori). Marra e Pepe sono di Autonomia e Indipendenza, quindi la corrente che vede al Csm Davigo e Sebastiano Ardita, raddoppia i seggi, da 2 a 4, ex aequo con i progressisti di Area. Unicost da 5 è scesa a 3 (oltre a Morlini è stato costretto a dimettersi Spina, pure indagato) e MI da 5 è scesa a 3, ma con uno di loro – Criscuoli – al momento ancora autosospeso. Una condizione che non è giuridicamente riconosciuta.

Oh sì, frustateciii!

Auguriamo sinceramente al Giornale Unico dell’Apocalisse che il 9 luglio i ministri delle Finanze dell’Ue deliberino questa benedetta procedura d’infrazione contro l’Italia. Perché se, Dio non voglia, dovessimo sfangarla anche stavolta, peggio che mai per merito di Giuseppe Conte, nelle migliori redazioni del bigoncio fioccherebbero i suicidi. Di massa. Avrete certamente notato, nelle rassegne stampa, il voluttuoso sadismo con cui questi patrioti alla rovescia implorano quel che resta di Juncker&Moscovici di punirci severamente, con pene esemplari, possibilmente col contorno di sevizie, supplizi, garrote, fruste, vergini di Norimberga, trattamenti alla Guantanamo o alla Abu Ghraib. Chiedono sangue, lacrime, patimenti, nessuna pietà. Intimano alle autorità europee di tenere duro e non fare scherzi, almeno stavolta: già sei mesi fa avevano tutti l’acquolina in bocca e lo champagne in ghiaccio, il prode Federico Fubini aveva già preannunciato gli strumenti di tortura stabiliti, la data dell’esecuzione e del funerale dell’Italia (21 novembre 2018). Poi invece, sul più bello, quelle pappemolli degli euroburocrati si calarono le brache. Che non si ripeta né ora né mai più.

Repubblica: “Figuraccia europea”, “La furbata da un miliardo. Il governo si prende il tesoretto di Cassa Depositi e Prestiti per placare l’Ue” (un dividendo extra richiesto dallo Stato in quanto azionista), “Procedura d’infrazione più vicina”. La Stampa: “L’Europa boccia l’Italia. Bruxelles gela il premier: i tagli non bastano. Procedura d’infrazione più vicina”, “Dietro le parole niente”. Il Giornale: “Scippano militari, imprese e pensionato. La Ue non molla sul debito: servono 5 miliardi”. Libero: “Conte pronto a ricevere schiaffi”, ma per fortuna “Silvio dà una mano al sedicente premier”. L’altra sera, a Otto e mezzo, si discuteva delle nomine dei nuovi commissari europei e Corrado Formigli osservava che “fare un italiano commissario al Bilancio sarebbe come mettere Dracula all’Avis” (vecchia battuta di Beppe Grillo su Antonio Gava ministro dell’Interno, ma Formigli non lo sapeva, altrimenti avrebbe evitato l’infettiva citazione): perfetto luogo comune del Giornale Unico dell’Apocalisse, convinto che la maggioranza giallo-verde abbia bruscamente e inopinatamente interrotto una lunga e virtuosa serie di governi guidati da Cavour, Quintino Sella, Einaudi e De Gasperi. Più onesto e sorprendente è stato Sebastiano Barisoni, vicedirettore di Radio24 (Confindustria), che faceva notare da qual pulpito vengono le eurolezioni di rigore all’Italia.

Cioè a un Paese che mette sul piatto quasi 3 miliardi risparmiati dalle minori spese per il Reddito di cittadinanza e Quota 100, oltre a qualche altro miliardo sgraffignato qua e là, si presenta con un rapporto deficit-Pil più vicino al 2 che al 2,5% e non merita alcuna sanzione. Non da solo, almeno, visto che la Francia si accinge a sforare per l’ennesima volta, col beneplacito degli eurobucrocrati, la sacra e inviolabile soglia del 3%. E attenzione: Pierre Moscovici, il commissario Ue agli Affari economici, disse sei mesi fa che “per la Francia lo sforamento oltre il 3% del deficit-Pil può essere preso in considerazione in modo limitato, temporaneo ed eccezionale”, perché il povero Macron doveva varare un piano anti-povertà da 10 miliardi per rispondere alla rivolta dei “gilet gialli” e “rispondere all’urgenza del potere d’acquisto dei francesi” (beati loro). Quindi, mentre l’Italia doveva retrocedere dal 2,4 al 2,04, la Francia che aveva già avuto l’ok per il 2,8% otteneva il via libera per il 3,5%. Si dirà: ma la Francia ha un debito pubblico pari al nostro ma un Pil più alto. Vero: ma quella del 3% è una soglia invalicabile del Patto di Stabilità che prescinde dall’entità del debito: “Il superamento del 3% è considerato eccezionale se determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato membro… o nel caso sia determinato da una grave recessione economica”. Del 3,5% non parla nessun trattato. E comunque considerare la rivolta dei Gilet gialli, innescata dall’aumento delle accise sulla benzina e dalle politiche dell’Eliseo, un “evento inconsueto” significa dire che è la rabbia popolare, e non la crisi economica, a legittimare la violazione delle regole europee. Infatti la Spagna del socialista Pedro Sánchez s’infilò subito nel pertugio, anzi nella voragine, annunciando il salario minimo a mille euro, con un aumento del deficit anche rispetto a quello già bocciato dall’Ue.

Ma c’è di più. Nel 2012, quand’era ministro delle Finanze del governo Hollande, e la Francia sfondava regolarmente il tetto del 3% (per dieci anni consecutivi, con tanto di procedura d’infrazione permanente), Moscovici rilasciò un’intervista al New York Times e disse delle regole europee le stesse cose che oggi dicono Conte, Di Maio e Salvini: “La visione generale nella Commissione europea è neoliberista o ortodossa. Io sono un socialista, un socialdemocratico! In Francia abbiamo libere elezioni, siamo noi a determinare le nostre politiche e stiamo difendendo la nostra strada. Il problema dell’Europa è che è percepita come punizione e non come aiuto per gli Stati”. Quando Ivo Caizzi, corrispondente del Corriere a Bruxelles, gli rinfacciò quelle parole che oggi definirebbe “populiste” e “sovraniste”, il tartufòn le liquidò imbarazzato come “propositi da campagna elettorale”. Poi aggiunse che lui, da ministro, aveva ridotto il debito: balle, visto che quando dirigeva le Finanze francesi (2012-2014) il debito di Parigi schizzò dall’87,7 al 94,8% del Pil (oggi è al 98,4%). Meglio avrebbe fatto a cavarsela con il leggendario motto di Jean-Claude Juncker al terzo whisky: “La Francia è la Francia”. E ho detto tutto.