“Negli Usa scrivere ‘pet’ è vietato, sennò offendi gli animali”

America, il Paese della libertà, ma non troppo: come il cinema, la tv e le università, anche l’editoria è minacciata dalla dittatura del politicamente corretto, che espunge dalla pagina tutto ciò che è considerato sconveniente. Così è capitato a Francesca Marciano, scrittrice e sceneggiatrice (già David di Donatello per Maledetto il giorno che t’ho incontrato di Carlo Verdone), che sta lavorando a una raccolta di racconti, in uscita nel 2020 con Penguin Random House.

Signora Marciano, le hanno censurato qualcosa?

Indubbiamente c’è un incremento della vigilanza: in una similitudine in cui mi riferivo al canto dei gabbiani che risuonano come alla chiamata del muezzin, mi è stato chiesto di togliere il riferimento al muezzin e di evitare la parola moschea perché vanno usati con cautela. Altro esempio: uno dei personaggi di una festa si presenta vestito “con una gonna leopardata come Gloria Gaynor”, nota cantante afroamericana. Bene, ho dovuto togliere il riferimento a lei perché l’idea che un uomo, per di più bianco, si travesta da nero è percepito come poco rispettoso. O ancora: parlo di un abito, una gonna indiana del Rajasthan. Mi è stato detto di non descriverla così perché si tratta di appropriazione culturale. È lo stesso problema che stanno affrontando stilisti e designer che si ispirano ad altre tradizioni (vedi Carolina Herrera, accusata dal segretario alla Cultura del Messico di aver copiato indebitamente i capi dei nativi americani). Tutto ciò che riguarda altre culture è inappropriato.

Il primo degli argomenti sensibili è la religione, soprattutto musulmana…

Sì, insieme all’etnia e ad alcuni aggettivi come “grasso”. Ma la parola inutilizzabile che più mi ha sconvolto è pet, animale domestico. Stupefatta, ho cercato su Google; un articolo consigliava addirittura il sinonimo: animal companion, compagno animale.

Cioè “pet” offenderebbe la dignità animale?

Apparentemente è così; è chiaro che poi possiamo ignorarlo. Però qualcuno, più di uno in America, pensa che quell’espressione qualifichi l’animale come proprietà, mentre companion dà l’idea della convivenza con esso, senza specificare alcun padrone o possesso.

Dopo il #MeToo parlare di donne è più complicato?

Io personalmente non mi sono mai imbattuta in censure su questo. Forse, inconsciamente, sono politicamente corretta in quanto donna: scherzo… Però mi è stato chiesto di modificare una frase in cui un uomo, che amava una ragazza più giovane, sognava di averla tutta per sé: in inglese il verbo own, possedere, è malvisto e fraintendibile. Sono vent’anni che scrivo per questo editore americano, e sempre con la stessa editor, che è molto più allarmata di un tempo. Il politicamente corretto rischia di trasformarsi in censura. Da parte degli artisti c’è la paura che chiunque possa distruggerti un lavoro se, anche un singolo dettaglio, viene considerato politicamente scorretto.

Ma a chi giova allora tutta questa correttezza?

Io per prima credo nell’importanza e nel peso delle parole: eliminare le espressioni discriminatorie è un primo passo per estirpare le discriminazioni reali. Trovo inaccettabile nominare le persone in base alla loro nazionalità, come “il filippino”, “la rumena”… Dire “il bangla”, per designare il negozio gestito da una persona del Bangladesh, è poco rispettoso, così come parlare di persone di colore o no. Però c’è un limite a tutto.

Chi stabilisce il limite etico? E a che diritto o titolo?

Questo è il punto spinoso. In Italia però non siamo allo stesso livello di paranoia.

Ci arriveremo?

No, non credo. Abbiamo un carattere diverso, siamo più tolleranti ed elastici.

Altri aneddoti censori?

Una agente si è sentita rifiutare un manoscritto perché il protagonista era un misogino e quindi impubblicabile. Peccato che il romanzo fosse ambientato nel V secolo in Persia! Spesso c’è mancanza di cultura: tutto va contestualizzato; altrimenti rischiamo di cancellare la storia.

Il sesso resta un tabù? Penso agli amori loliteschi o alle minoranze Lgbt.

C’è una politica di enorme rispetto per le minoranze. Ma il limite è sottile, oltre si sfocia nella bigotteria. I giovani, però, non si sorprendono delle censure: ci sono nati dentro.

A Hollywood, sul set, hanno introdotto la figura del “garante del sesso”: c’è un corrispettivo nell’editoria?

Non saprei: non credo che il problema sia il sesso in sé, ma la discriminazione o quello che è giudicato tale. Ad esempio, un bianco non può scrivere di un nero o di un messicano… E si arriva al paradosso: noi scrittori dobbiamo inventare storie, ma solo quelle che riguardano noi stessi. Come se un uomo non potesse scrivere di donne: quindi cancelliamo Emma Bovary, Anna Karenina e gran parte della letteratura? È ridicolo, se non pericoloso.

Otranto, la “zingarata” fuori Roma del dott. Carlo

Otranto, le vestigia del cinema che fu, e che è ancora. Il patron di Napoli Calcio e Filmauro Aurelio De Laurentiis fa il pieno di autografi, ma finisce trollato: “Presidente, presidente…”, e poi il ragazzino gli serve l’esultanza “Siuuu” dello juventino Cristiano Ronaldo.

Perché un selfie non si rifiuta mai, e lo sa bene l’highlander di casa Filmauro, Carlo Verdone: gli chiedono una foto, ché “se no quando ci ricapita”, lui ribatte con sarcastica paranoia, “ma perché, devo mori’?”.

Del resto, Si vive una volta sola, titolo e programma d’intenti del nuovo film, sul set in Puglia fino al 22 luglio e dal 12 febbraio 2020 in sala. Carlo vi incarna “un medico in maniera solida: in Viaggi di nozze era da ridere, un carattere, in Manuale d’amore facevo un pediatra, un dentista in Italians, qui per la prima volta ho il bisturi in mano, il paziente sotto i ferri. Cazzeggiamo, parliamo della Roma, e intanto leviamo il tumore: il silenzio non c’è mai in sala operatoria, mi sono informato con gli amici…”. Già, la sua notoria passione è per la farmacologia, e viene da lontano: “Valdoni, Stefanini, D’Agostino, i luminari erano di casa, ancora piccolo io ne ero affascinato. Sicché se oggi posso fare bene per miei amici, lo faccio”, e giù a prescrivere e – è capitato più volte – salvare vite. Con l’ausilio di un guanto da cucina, ha messo “il dito nel sedere”, pardon, ha fatto un’ispezione rettale a un amico, male assistito da un barone, e gli ha trovato una brutta cosa, per tempo; analogamente provvidenziale la diagnosi di “una sindrome di Stevens-Johnson scambiata per varicella: allo Spallanzani la mia amica l’hanno presa per i capelli, e cortisone”. Di laurea in Medicina ha solo quella honoris causa della Federico II di Napoli, eppure chiedergli lumi è all’ordine del giorno, anzi, della sera: “Mi chiamano all’ora di cena, io sto col petto di pollo in bocca, ma rispondo come il professor Raniero Cotti Borroni di Viaggi di nozze: ‘Non mi disturbi affatto’. In genere ci prendo, ma poi demando sempre ai medici”.

Dunque, ecco il suo professor Umberto Gastaldi, chirurgo internista vocato all’oncologia in ospedale pubblico “mica clinica”, e la sua formidabile équipe, l’assistente Corrado Pezzella (Max Tortora), la strumentista Lucia Santilli (Anna Foglietta) e l’anestesista Amedeo Lasalandra, colui che – confessa l’interprete Rocco Papaleo – per rinserrare le fila e stemperare le tensioni professionali e, sopra tutto, i fallimenti privati diviene “la vittima designata” di goliardate e tranelli. Sicché Carlo ritrova la cistifellea di Un sacco bello e la eleva al soglio pontificio: il Papa sofferente ma non troppo è visitato e rimandato a settembre, la delazione – fittizia – di Lasalandra viene sbattuta in prima pagina, con sommo scorno dello sbeffeggiato.

Reminiscenze del Fabris di Compagni di scuola (1988)? Lo vorrebbero Aurelio (“Il grande freddo è il nostro maestro, e anche quel film di Carlo: arriva un certo momento nella vita in cui fare i conti, tra giusto e meno giusto, fatto bene e non fatto bene”), il figlio Luigi, lo stesso Papaleo, non Verdone: “Piuttosto, c’è un po’ di Amici miei, quella dinamica divertente: l’obiettivo dei nostri scherzi è l’anestesista, lo mettiamo in mezzo fin troppo, ci scarichiamo sul più debole. È un film abbastanza cattivo”.

Scritto dal regista con l’abituale Pasquale Plastino e Giovanni Veronesi, che vorrebbe fare una serie proprio da Amici miei, ma Aurelio – per ora – non concede i diritti, Si vive una volta sola infila un po’ di sorprese. Carlo se ne va dall’Urbe, scopre la Puglia, trova “cortesia, ospitalità e maestranze al livello di Cinecittà”: non è ancora il caro Remo Remotti di “Me ne andavo da quella Roma dimmerda! Mamma Roma: addio!”, ma ci siamo quasi, perché con “Benedetta follia ho faticato talmente tanto, il campo base era a cinque chilometri, sul set ci siamo squagliati. E poi sono molto addolorato, disorientato: una volta passarci il weekend era il massimo, ora come posso il venerdì me ne vado in campagna, Roma non ha più attrazione”.

De profundis? Macché, Verdone si culla la figlia che “ha trovato la sua strada: basta cinema, fa la dietologa”, invidia la Berlino in cui “bastano tre firme per comprare casa”, si scompiscia per Tortora che fa il verso al Rugantino e quei “film demmerda con Adriano Celentano che faceva il romano”. In Puglia il suo professor Gastaldi e l’équipe cercheranno on the road il senso della vita, poi per Carlo arriverà una serie autobiografica – scritta da Nicola Guaglianone, in predicato per Amazon – e, forse, un altro film targato Filmauro e scritto da due venticinquenni.

Alla bisogna, potrebbe servire a De Laurentiis come allenatore: tra un Sarri “curvaiolo” e un Ancelotti “aziendalista”, un Verdone di lotta e di governo.

 

L’Iran abbatte un drone Usa. The Donald: “Un grave errore”

“L’Iran ha commesso un grave errore!”, Questo il tweet del presidente Donald Trump dopo l’abbattimento del drone sullo stretto di Hormuz. Per l’Iran, che lo ha tirato giù con un missile, il drone aveva sconfinato; per la marina americana, il velivolo era a 34 chilometri dal confine. “Sul drone non avevamo nessuno – ha aggiunto Trump – questo avrebbe fatto una enorme differenza”. Una precisazione ambigua, visto che i droni sono pilotati a distanza da piloti specializzati che manovrano una consolle. Di certo chi fra i falchi di Washington – come il segretario per la Homeland Security, John Bolton – cercano lo scontro aperto con il regime degli ayatollah, ora scalpita. L’abbattimento del drone potrebbe giustificare una azione militare da parte americana? L’episodio rappresenta il primo scontro che coinvolge direttamente Iran e Stati Uniti dall’esplosione della nuova crisi nel Golfo, dopo il ritiro degli Usa dall’accordo sul nucleare e le sanzioni contro Teheran. L’Iran non aiuta: è stato un “chiaro messaggio” all’America, ha detto il generale Hossein Salami, comandante dei Pasdaran.

Imamoglu toglie ancora il sonno a Erdogan

I giorni a venire saranno cruciali per il signore e padrone della Turchia: il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan. Sul fronte internazionale, il Sultano potrebbe venire colpito da inedite sanzioni americane nonostante Turchia e Stati Uniti siano alleati Nato. Su quello interno, il presidente della Repubblica turca potrebbe assistere alla seconda sconfitta in tre mesi del candidato sindaco per il comune di Istanbul del partito della Giustizia e Sviluppo – l’Akp di cui Erdogan è cofondatore e leader – ossia il fedelissimo Binali Yidirim, giá premier prima della riforma costituzionale del 2017 che ha consegnato al capo dello Stato poteri assoluti. Ieri Erdogan ha sottolineato che nel caso in cui gli Stati Uniti decidessero di “sanzionare” Ankaraper la sua decisione di acquistare il sistema antimissilistico russo S-400, anzichè i Patriot americani, “la Turchia troverá il modo di reagire”. In realtá Erdogan ha un gran timore delle sanzioni a causa della devastante crisi economica e finanziaria in cui ha fatto sprofondare il paese, considerato in recessione da tutte le istituzioni economiche internazionali. Per quanto riguarda la “questione Istanbul”, la megalopoli di 18 milioni di abitanti motore politico economico del paese, il candidato del partito laico repubblicano (Chp), Ekrem Imamoglu, che aveva vinto per 13 mila voti alle votazioni amministrative dello scorso 31 marzo, sarebbe avanti di almeno due punti . Alcuni sondaggi lo danno in vantaggio addirittura di 7.

In seguito alla decisione presa il 6 maggio dal Consiglio supremo delle elezioni turche (YSK) di annullare il risultato relativamente al comune di Istanbul, queste elezioni locali hanno ora assunto una valenza nazionale. Di più: si sono trasformate in un test sulla tenuta democratica della Turchia e, di conseguenza, dell’uomo che la governa da vent’anni. Le pressioni esercitate dal partito di Erdogan sul Consiglio Supremo Elettorale avrebbero convinto molti dei dieci milioni di elettori, tra i quali anche una parte di coloro che finora avevano dato la preferenza all’Akp, a tornare alle urne per eleggere il politico defraudato. Prima d’ora nella Turchia moderna, a parte i governi militari, mai si era assistito a un simile tentativo di piegare il voto ai desiderata di un presidente attraverso prove prefabbricate e pressioni nei confronti di un contrappeso indipendente quale la YSk. Forse a rendere indispensabile per Erdogan e il suo partito la continuitá al vertice del Comune di Istanbul è la necessità di nascondere un presunto buco finanziario generato nei venticinque anni continuativi di amministrazione Akp. Erdogan iniziò la sua carriera politica nel 1994 come sindaco proprio di Istanbul, suo luogo di nascita. Secondo indiscrezioni, la Corte dei conti avrebbe un dossier in cui si dimostrano gravi irregolaritá nel bilancio del municipio .

Yemen, anche Usa e Londra bloccano le armi ai sauditi

Non è un buon momento per la casa regnante dell’Arabia Saudita e per il suo principe plenipotenziario, Mohamed bin Salman. Ieri, un uno-due inaspettato le è stato sferrato da due alleati strategici, Stati Uniti e Gran Bretagna, che hanno posto un altolà alla vendita di armi utilizzate nella guerra in Yemen, dove l’Arabia Saudita appoggia il governo contro la rivolta sostenuta dall’Iran. Notizia che segue quella del giorno precedente relativa al dossier dell’Onu che indica proprio in Bin Salman il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi.

Negli Stati Uniti è stato il Senato, a maggioranza repubblicana, a votare con 53 voti a 45 la prima di tre risoluzioni che impedirebbero le vendite per 8,1 miliardi di dollari autorizzate a fine maggio dall’Amministrazione Trump. I contratti riguardano vendita di armi, munizioni e manutenzione di velivoli ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania. Nella scelta dei senatori ha pesato moltissimo il rapporto dell’Onu sull’omicidio Kashoggi.

Ma anche la Gran Bretagna ha annunciato ieri la sospensione delle vendite di armi. Lo ha spiegato direttamente alla Camera dei Comuni il ministro del Commercio estero, Liam Fox, adeguandosi al verdetto della Corte d’appello di Londra che ha dichiarato illegale la procedura finora seguita. Cox ha voluto precisare che l’esecutivo – che attende il cambio della guardia dopo le dimissioni di Theresa May – non condivide il parere dei giudici e intende far ricorso di fronte a un terzo grado di giudizio contro la sentenza. Ma intanto la vendita è stata fermata.

Per Ryad, quindi, i fattori di difficoltà si moltiplicano e sembrano inserirsi in un quadro sistemico. Sul piano economico il calo del prezzo del petrolio nel triennio 2015-2017 ha fatto diminuire gli introiti erariali provocando un deficit crescente. Sul piano diplomatico, la guerra in Yemen, che nasconde un conflitto a distanza con il principale nemico, l’Iran, si trascina da anni senza esito e con sofferenze incredibili tra la popolazione civile. Il conflitto con il Qatar è in corso e l’area mediorientale è ben lontana dal trovare una stabilizzazione. Le riforme interne sembrano molto di facciata, mentre si intravede una società che vorrebbe evolvere rispetto ai dettami di una delle monarchie più reazionarie al mondo.

Il problema della vendita di armi che vengono destinate alla guerra in Yemen riguarda anche l’Italia per via delle bombe Rwm prodotte in Sardegna. Il governo finora ha preso tempo, ma non è riuscito ad assumere alcuna iniziativa.

È quanto sottolinea il Pd con Lia Quartapelle secondo cui “il governo non può più restare indifferente”. Sul fronte governativo, però, l’unica dichiarazione è del capogruppo in commissione Esteri al Senato, il 5Stelle Gianluca Ferrara, che chiama in causa proprio il ministero degli Esteri: “Da oltre un mese la Farnesina non risponde alla nostra interrogazione parlamentare con cui abbiamo chiesto di spiegarci perché non abbia ancora provveduto a fare lo stesso con le bombe della Rwm”. L’interlocutore scelto da Ferrara è il ministro Moavero e il sottosegretario leghista agli Esteri, Guglielmo Picchi: “Non abbiamo avuto nessuna risposta, né da parte del ministro Moavero, né da parte del sottosegretario Picchi che ha la delega in materia di esportazione di armamenti”. E così il senatore 5Stelle ha presentato una proposta concreta: “La Farnesina potrebbe adottare un provvedimento sulla base del Trattato Onu sul commercio di armamenti e della Posizione comune europea”. Ma il punto, spiega ancora il senatore, è modificare la legge 185 che regola il commercio di armi, per “porre fine all’assurda mancanza di controlli sulle forniture militari in regime di cooperazione bilaterale, ma anche per rendere automatico, non più discrezionale, il diniego di autorizzazioni”. Se fosse vero che è sufficiente una rapida modifica alla 185, non sarebbe difficile farlo. Altri Paesi sembrano siano in grado di farlo meglio.

Molestie, pedofilia, una vendetta: ecco perché Silvia è sparita

Di Silvia non si sa niente dal momento della sua scomparsa. Sparita nel nulla. A parte il silenzio stampa chiesto dalla Farnesina – un atteggiamento di routine che serve più a mantenere segreti inconfessabili che a salvaguardare la vita degli ostaggi, o l’inquinamento delle relative indagini – in questi casi si riesce sempre ad avere qualche informazione. Questa volta no. Niente.

“Scusi, ma Silvia Romano ha dormito qui?”. La signora indiana che gestisce la guest-house Marigold, nel caotico centro di Mombasa, non solo è gentile, ma collaborativa. Così, dopo averle spiegato perché stiamo indagando sul rapimento, chiama subito il figlio Aash Sahiko che si presenta con i registri degli ospiti. Dopo una veloce ricerca, arriva la risposta: “Sì, è stata qui il 22 settembre e la notte tra il 5 e il 6 novembre”. Hillary Duenas, la collega americana che mi accompagna in questo viaggio (e che sarà molto importante nell’aprire bocche apparentemente cucite), chiede e ottiene il permesso di fotografarne le pagine. “Silvia è venuta qui sola?”, domandiamo. “Certo”, rispondono madre e figlio. “Ha pagato il prezzo della camera singola. È arrivata, ed è ripartita, sola”. Aash Sahiko se la ricorda bene: “Una bella ragazza così resta impressa. Ero contento quando l’ho poi rivista a novembre”.

Proprio la sera del 20 novembre, a Chakama, in Kenya, Silvia Romano sparisce. “Ma è venuto qualcuno della polizia keniota o agenti italiani a chiedere informazioni su Silvia?”, chiediamo ad Aash Sahiko. “No, nessuno. Quando abbiamo saputo del rapimento della ragazza, pensavamo di ricevere la visita di qualche investigatore… ci siamo meravigliati: non è comparso nessuno”.

La prima cosa che salta agli occhi cercando le tracce di questa ragazza di 23 anni è che le indagini sono state carenti, che c’è una competizione tra le varie polizie dell’ex colonia britannica, e tra queste e l’esercito che si è occupato di scandagliare tutto il territorio al confine con la travagliata Somalia. Ci chiediamo io e la collega Hillary: com’è possibile che nessun inquirente si sia fatto vivo per verificare che la ragazza fosse sola? Silvia, bella, giovane e dinamica, non poteva non attrarre attenzioni. Erano in tanti a farle la corte o addirittura a dichiararle amore, come Alfred Scott un fisioterapista dell’ospedale di Mombasa che su Facebook proclama di essersi innamorato di lei.

Tre le ipotesi sul rapimento su cui lavora la polizia di Nairobi

Alla polizia di Nairobi, vengono formulate tre ipotesi: sequestro per ottenere un riscatto; sequestro per tapparle la bocca su accuse di pedofilia di cui sarebbe stata testimone a Likoni; sequestro per mettere a tacere un caso di molestie a Chakama, un villaggio nell’entroterra di Malindi.

Silvia arriva per la prima volta in Kenya il 22 luglio dell’anno scorso. Aveva conosciuto un italiano, Davide Ciarrapica durante una festa di beneficenza. Il 31enne di Seregno gestisce un centro per bambini a Likoni, un villaggio separato da Mombasa da un braccio di mare che si può superare con un traghetto. La ragazza intravede la possibilità di fare qualcosa a favore dei più deboli. Così, quel giorno, si imbarca per Mombasa con lui.

Imbarazzante una dichiarazione rilasciata verbalmente da Ciarrapica a un detective keniota. Impossibile per me riportare qui i particolari scabrosi. Riferisce costernato l’investigatore: “Senza alcun pudore Davide, durante un colloquio il 15 maggio scorso, racconta che Silvia, durante il viaggio in aereo, gli è saltata addosso. Piuttosto strano, mi è sembrato un modo per screditarla ai miei occhi. Io non gli ho creduto”.

Silvia resta all’Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre di Davide per un mesetto, poi torna a Milano. Il 5 novembre rientra in Kenya. All’aeroporto di Mombasa, la attende Ciarrapica. Insieme vanno a Likoni, lei ci resterà poche ore: a fine giornata torna a Mombasa e si ferma a dormire al Marigold (come testimoniano i registri della guest-house). La mattina dopo corre a Chakama, insieme a due nuovi volontari appena arrivati ad Africa Milele, la onlus per cui lavorerà.

Inseguendo gli ultimi passi di Silvia: nel villaggio di Likoni

Nel centro di Likoni ci dà appuntamento una mamma che conosceva bene Silvia. Quando le chiediamo di raccontarci qualcosa della permanenza della ragazza quaggiù, scoppia in lacrime: “Le voglio bene, le voglio bene. Spero che torni presto. Io avevo tre bambine in quella struttura, poi le ho ritirate”. Perché? “Accadevano cose poco corrette e imbarazzanti. Tornate a casa, le mie figlie riferivano di strani atteggiamenti di Davide e del suo socio, Rama Hamisi Bindo”. Il pianto continua a dirotto.

Un keniota che lavorava nel centro di Ciarrapica, racconta: “No, non credo che ci siano stati casi di pedofilia, però un giorno mi hanno allontanato dicendo: ‘Conosci troppi segreti di questo posto. È meglio che tu vada via’. Fui licenziato in tronco”.

Una visita all’Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre lascia confusi e stupefatti. Hillary – che tra l’altro è anche medico, e così si presenta a loro – all’entrata viene accolta da una signora che si illumina in volto: “Ah, grazie al cielo, dottoressa. Lei è venuta qui per quella 14enne incinta”. Non è evidentemente così, ma Hillary entra ugualmente, sola. Mi racconterà poi, una volta fuori, di aver visto Davide Ciarrapica arrivare con la sua girlfriend, una stupenda 17enne.

Sappiamo che Silvia, dopo la sua prima esperienza a Chakama, rientra in Italia, promettendo a Davide che organizzerà, a beneficio del suo centro, incontri per raccogliere fondi. Cosa che farà in ottobre. Ritorna il 5novembre e va a Likoni, giusto il tempo per essere accolta freddamente dai bambini, che hanno l’ordine di restare sull’attenti immobili e di non salutarla, e da Davide, che l’accusa di non aver raccolto sufficiente denaro. I bambini qui fanno sempre una gran festa alla gente, specie quella che conoscono e che ha giocato tempo prima con loro. Quei ragazzini restano invece impietriti.

“Davide è un collerico irascibile”, racconta un altro ex impiegato. “In Italia recentemente è stato condannato a 6 anni di reclusione e 35mila euro di danni… aveva staccato a morsi un orecchio durante una rissa in una discoteca di Milano”.

Ciò che non torna: documenti spariti, una deposizione

Racconta uno degli inquirenti kenioti che sta cercando di dipanare l’intricata matassa: “Abbiamo avuto indicazioni sul fatto che Silvia manifestasse un certo disagio nei confronti della struttura dove, secondo lei, si sarebbero verificate molestie nei confronti dei piccoli ospiti. Quell’organizzazione è guardata con una certa benevolenza dalle autorità locali. Il socio e amico di Davide Ciarrapica, nonché proprietario della villa che la ospita, Rama Hamisi Bindo, è figlio di un famoso politico e gode di protezioni insospettabili”. Trasecolo. “Scusi?”. “Sì, gode di protezioni potenti”.

La polizia di Mombasa, secondo il nostro testimone che teme ritorsioni e mi intima per ben tre volte di non pubblicare il suo nome, non è mai intervenuta con la dovuta determinazione per indagare sul caso: “Ecco un rapporto riservato critico sul comportamento di come sia stata condotta l’indagine laggiù”, mormora tirando fuori dal cassetto un documento assai compromettente. Lo leggiamo, ma non ci permette di fotografarlo.

Nella sua deposizione del 15 maggio scorso alla polizia, Ciarrapica, che peraltro afferma di essere stato ascoltato dai carabinieri del Ros durante una sua visita in Italia in gennaio, dichiara di aver sconsigliato a Silvia di andare e prendere servizio a Chakama. Eppure, in una email che ho potuto vedere, c’è scritto esattamente il contrario. Anzi, è stato proprio lui a consigliarle di andare.

Ma quello che inquieta di più è che all’aeroporto di Mombasa sono spariti tutti i file su Silvia Romano. Ai visitatori che entrano in Kenya viene scattata una fotografia e vengono prese le impronte digitali. Una procedura che deve aver riguardato anche la ragazza milanese. Perché però nell’archivio della polizia aeroportuale non c’è niente di tutto ciò?

Riserva sorprese anche l’archivio della polizia di Malindi. L’11 novembre, nove giorni prima di essere sequestrata, Silvia, dopo aver chiesto consiglio alla presidente di Africa Milele, Lilian Sora, che dall’Italia le dà il suo totale benestare, si reca – con altri due volontari, Giancarlo e Roberta – nella centrale di polizia a denunciare un keniota che per qualche giorno ha soggiornato nello stesso affittacamere in cui da tempo vivono i volontari dell’associazione. L’uomo sarebbe Francis Kalama di Marafa, pastore anglicano: lo accusano di atteggiamenti equivoci nei confronti di alcune bambine. Una ricerca approfondita sui registri delle querele della polizia non porta a nulla. Gli agenti che se ne occupano e controllano i faldoni, allargano sconsolati le braccia. Eppure in un messaggio audio whatsapp,Silvia, che qualcuno dipinge come sprovveduta e che invece si dimostra testarda, legalista e amante della giustizia, racconta con una dovizia di dettagli di essere andata alla polizia e di aver avuto l’assicurazione che Kalama sarà arrestato e “le bambine sottoposte a un test medico”. Particolare assai pesante. La promessa comunque non avrà seguito: Kalama è sparito. Di lui nessuno ha più traccia, tantomeno gli investigatori, né si pensa abbia mai avuto notifica della denuncia.

Gli esecutori sarebbero in carcere, e i mandanti?

Uno dei capi della polizia racconta a sua volta che in cella ci sono tre persone: un keniota giriama (l’etnia che abita sulla costa del Paese) dal nome Moses Luari Chende; un keniota di etnia orma (quella accusata di aver organizzato il sequestro), Gababa; e un somalo con un documento d’identità keniota ottenuto illegalmente, Ibrahim. “Loro sanno sicuramente qualcosa, ma sono degli esecutori. Aspettiamo che facciano i nomi dei mandanti”. Già. Hillary mi chiede: “Ma perché il vostro governo non immagina una forma di ‘protezione’ per loro in cambio di informazioni?”. È una domanda a cui non so rispondere. Il poliziotto prosegue nel suo racconto: “L’esercito ha chiuso le frontiere con la Somalia, ma non è stato assolutamente collaborativo sulle indagini. Eppure sono andati anche in villaggi remoti, dove per noi è difficile arrivare…”.

Alla centrale di polizia di Malindi scuotono la testa anche a sentire parlare delle autorità italiane: “È venuto qui il console onorario, Ivan del Prete, con un altro paio di persone, ma non hanno fatto granché. Ha chiesto informazioni, come sta facendo lei. Niente di più”.

Continua

Corona, l’eremita catodico non ha più “Carta Bianca”

Clamoroso a Carta Bianca. Mauro Corona meditava l’abbandono della trasmissione della Berlinguer, e Bianchina, come la chiama lui, l’ha subito accontentato, segandolo all’istante. Al cuor non si comanda, ma spiace veder scoppiare una coppia così affiatata, erede di Fazio-Littizzetto, perdere uno dei rari personaggi emergenti del video impegnato in un’impresa notevole, il riciclaggio dello scrittore in pagliaccio. Gli scrittori in Tv sono spariti, i libri pure a parte quelli di Vespa, ma questo Bukowski per principianti fa eccezione grazie a un paradosso molto italiano. Spregia la civiltà, gli sorridono i monti, scolpisce la pietra, intaglia il legno, si nutre di bacche, radici e valpolicella; però non perde occasione di vantarsene in diretta. La scalata – catodica – dell’eremita a favore di telecamera comincia nel 2003, quando si presentò da Daria Bignardi in bandana e canottiera; da allora lo si è visto arrampicare su ogni canale nei più svariati look in compagnia dell’ultimo volume (ne pubblica un paio all’anno). Con Carta Bianca è arrivata la consacrazione, Berlinguer gli ha dato lo stesso spazio che Giletti dà a Salvini. Ora tutto questo rischia di finire, ma forse non è detta l’ultima parola. L’amore non è bello se non è litigarello. Certo, in caso di riappacificazione dovrà essere lei a fare il primo passo. Non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno, ha dichiarato lui, e gli crediamo. Corona è uomo tutto di un pezzo. Al massimo, alza il gomito.

La cittadinanza passa per la storia

“La scuola, come la vedo io, è un organo ‘costituzionale’”. Questa felicissima frase di Piero Calamandrei è più attuale che mai, e può applicarsi anche alle altre istituzioni culturali, dalle università alle accademie ai musei ai teatri, alle biblioteche, agli archivi, agli istituti di ricerca. Eppure dobbiamo oggi chiederci: parliamo di scuola, ma quale scuola? Parliamo dell’insegnamento della Storia, ma quale insegnamento? di quale Storia?

È in corso in tutto il mondo una sorda lotta fra due concezioni dell’istruzione: come segmentato addestramento a singoli mestieri, fondato sulle competenze; o invece come apprendimento di una conoscenza puntata sulla creatività individuale e collettiva. Seguendo Calamandrei, la Costituzione può e deve servirci da bussola.

Punto di partenza è l’art. 9: La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tra il primo e il secondo comma c’è una strettissima relazione: la triangolazione cultura/ricerca/tutela configura infatti un patrimonio di creatività da preservare e da incrementare: per lo sviluppo e la prosperità del Paese, per la dignità della persona, per la pulsione verso l’eguaglianza, per i valori e la pratica della democrazia. Ma preservare e incrementare sono due facce della stessa medaglia: uno sguardo rivolto al tempo stesso verso il passato e verso il futuro non può darsi senza lo studio delle discipline storiche. Il diritto alla cultura nella Costituzione italiana si lega al concetto-chiave di bene comune, supremo principio ordinatore della Carta. Cultura, ricerca, tutela contribuiscono al “progresso spirituale della società” (art. 4) e allo sviluppo della personalità individuale (art. 3), legandosi strettamente alla libertà di pensiero (art. 21) e di insegnamento ed esercizio delle arti (art. 33), all’autonomia delle università, alla centralità della scuola pubblica statale, al diritto allo studio (art. 34); concorrono in misura determinante al principio di uguaglianza fra i cittadini, alla loro “pari dignità sociale” (art. 3), alla libertà e alla democrazia: perciò la loro funzione è costituzionalmente garantita. Tale diritto alla cultura esige un identico livello di buone pratiche in tutta Italia, come mostra nell’art. 9 il cruciale termine Nazione. Di conseguenza, ogni forma di devoluzione o differenziazione regionale della cultura, della scuola, della tutela è difforme dalla lettera e dallo spirito della Costituzione. La cultura fa parte dello stesso orizzonte di valori costituzionali che include il diritto al lavoro, la tutela della salute, la libertà personale, la democrazia. È in questo ambito che si deve collocare l’efficace studio della Storia nella formazione scolastica, e così pure la ricerca storica praticata nelle università e i suoi strumenti indispensabili (archivi e biblioteche).

La funzione e lo statuto della Storia come ingrediente essenziale della cultura non è un orpello esornativo della Costituzione, ma fa parte della sua più intima essenza. S’innesta sul ventaglio dei diritti della persona e della comunità dei cittadini. Non rappresenta un’astratta utopia, ma è consustanziale alla sovranità e alla cittadinanza. Le discipline storiche, in quanto componente imprescindibile della cultura, sono il cuore e il lievito dei diritti costituzionali della persona e insieme il legante della comunità. Sono funzionali alla libertà, alla democrazia, all’eguaglianza, alla dignità della persona. Non per niente, secondo il grande costituzionalista tedesco Peter Häberle, ai tre tradizionali elementi dello Stato (popolazione, governo e territorio) se ne aggiunge ormai un quarto, la cultura: “Il territorio di ogni Stato è reso unico dalla cultura specifica del Paese; va inteso come uno spazio culturale, non un factum brutum“. Così inteso, il territorio dello Stato corrisponde alla sua individualità e formazione storica. Esso è dunque impensabile senza un’estesa coscienza e conoscenza storica da parte dei cittadini.

Al mero addestramento tecnico alle professioni e ai mestieri, puntato sulle competenze, va dunque contrapposta la cultura come pensiero creativo, educazione alla cittadinanza e all’esercizio della democrazia, conoscenza mirata al pensiero critico e alla creatività individuale e collettiva. Per dirlo con le taglienti parole della filosofa americana Marta Nussbaum, oggi viviamo in “nazioni abitate da persone addestrate tecnicamente, che non hanno imparato a essere critiche nei confronti dell’autorità. Gente capace di produrre e di generare profitti, ma priva di fantasia. Un suicidio dell’anima”.

Nessuno contesta l’opportunità di una formazione professionale, ma essa non basta, né nei licei classico e scientifico, né negli istituti di formazione tecnica. La scuola dev’essere infatti, dappertutto, palestra del diritto alla cultura come esercizio dell’uguaglianza e arma per la democrazia.

Spesso si osserva (a ragione) che la storia degli ultimi decenni è trascurata da alcuni insegnanti, e dovrebbe dunque essere incrementata. Giusto. Ma una buona didattica deve saper rendere contemporanea anche la storia antica, se sappiamo fare “buon uso della Storia”. Prendiamo l’insegnamento delle civiltà classiche, che una visione tradizionale ha esaltato a modello perpetuo, insuperabile e universale, culla e madre dei valori “occidentali”. Ma si può adottare un altro approccio, secondo una prospettiva antropologica: valorizzare le affinità con altre culture antiche (Egitto, Siria….), sottolineare le differenze interne (la grecità di Siracusa non è identica a quella di Atene), analizzare le difformità dai nostri valori attuali. Per esempio, abbiamo mille ragioni di ammirare la democrazia ateniese, ma sappiamo che in essa le donne non votavano, e si praticava la schiavitù. Fra la democrazia antica e la nostra c’è dunque qualcosa di profondamente simile e qualcosa di irrimediabilmente diverso. La continua “ginnastica” (mentale e morale) fra il simile e il diverso dovrebbe essere il sale della didattica delle discipline storiche, che possono così diventare efficace chiave d’accesso alla molteplicità delle culture del mondo contemporaneo, educare a intenderne con pieno rispetto affinità e differenze: la giusta premessa per un serrato dialogo, ed è urgente, con i “nuovi italiani” che vengono da altre latitudini e culture. Perché (diciamolo con Hegel) “la prima categoria della coscienza storica non è il ricordo. È l’annuncio, l’attesa, la promessa”. La Storia, se bene insegnata e bene appresa, è la fucina del futuro.

Va tutelata l’Eni prima del suo amministratore

Non abbiamo idea se davvero l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, abbia fornito all’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti, documenti poi utilizzati per tentare di screditare il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo. Allo stesso modo, in attesa delle sentenze, non sappiamo se Descalzi sia colpevole nell’affaire delle tangenti versate dal colosso petrolifero in Nigeria, come sostiene la Procura di Milano. Sappiamo però che i maleodoranti affari che coinvolgono i vertici della più importante azienda controllata dallo Stato si stanno pericolosamente moltiplicando. Il caso dei presunti documenti contro Ielo, rivelato ieri da L’Espresso, è solo l’ultimo di una lunga serie. E, in attesa che la magistratura milanese stabilisca se Lotti diceva il vero o millantava quando parlava di Descalzi con l’ex segretario della Anm, Luca Palamara (sotto inchiesta per corruzione), dobbiamo fare i conti con alcuni fatti.

Il primo riguarda la moglie congolese dell’ad di Eni, Marie Magdalena Ingoba. La signora Descalzi nel 2014, fino a sei giorni prima della nomina del marito ad amministratore delegato della società petrolifera, risultava proprietaria di una società lussemburghese, la Cardon Investment sa, che controllava un nugolo di società chiamate Petro service fornitrici in Africa di Eni per centinaia di milioni euro. La signora oggi sostiene di non aver mai avuto nulla a che fare con la Cardon e nega il conflitto d’interessi, sebbene i documenti in possesso delle autorità finanziarie del Lussemburgo dicano il contrario. Anche questo caso, come in quelle relativo alle parole di Lotti, delle due l’una: o la signora mente o qualcuno ha tentato d’incastrarla. Pochi dubbi ci sono invece sulla vicenda che coinvolge l’avvocato siracusano Pietro Amara, consulente legale dell’Eni e per sua stessa ammissione corruttore di politici e magistrati. Amara tira le fila di un’altra manovra. Un depistaggio, condotto con la complicità di toghe corrotte di piccole procure meridionali, fatto di esposti in cui si denunciavano falsi complotti contro Descalzi. Una trama oscura ideata per alleggerire la posizione dell’amministratore delegato di Eni nel processo per le tangenti nigeriane. Amara, che tra molte reticenze collabora con i pm di Milano e di Roma, sostiene di aver ordito da solo la manovra pro Descalzi per fare un favore a Eni. I pm non ne sono convinti, ma per ora non hanno la prova del contrario.

Ma se nei tribunali il garantismo è d’obbligo e Descalzi va per il momento considerato una vittima di molteplici sfortunate circostanze e coincidenze, nella gestione della cosa pubblica vanno invece applicati principi di normale prudenza. Il bene da tutelare è l’Eni, con tutto quello che rappresenta dal punto di vista economico e geopolitico per il nostro Paese. Descalzi è certamente stato un manager operativo che ha ben meritato nei vari scenari in cui l’azienda petrolifera è impegnata. Ma non è l’unico amministratore delegato possibile. Quello che è accaduto durante i suoi anni di dirigenza è sconcertante. E da un momento all’altro rischia di risultare completamente disastroso per Eni e per l’Italia. Per questo il governo ha il dovere di prendere subito in mano il dossier riguardante la sua successione. Ogni giorno di ritardo espone la nostra azienda più importante a rischi incalcolabili. Descalzi va sostituito. Per il bene suo, dell’Eni e di tutti gli italiani.

Una Maturità di congiurati vecchi e nuovi

Buono l’esordio della “nuova” seconda prova della maturità classica, che da quest’anno prevede la versione di un testo in una delle due lingue antiche e il confronto con un testo (tradotto) nell’altra. Il brano latino di Tacito sulla congiura di Otone contro l’imperatore Galba (69 d.C.) era pregnante ma non troppo complesso da tradurre. Soprattutto, a differenza di quanto accaduto in precedenti simulazioni, il brano latino e quello greco (di Plutarco, in questo caso) erano coevi e chiaramente legati da un’origine comune: la loro stretta consonanza ha condotto in passato alcuni studiosi, tra cui Arnaldo Momigliano, a pensare addirittura che l’autore greco avesse letto quello latino (in realtà oggi si crede piuttosto che abbiano attinto a una o più fonti comuni, tra cui forse anche il grande Plinio il Vecchio).

Ovviamente, data la vicinanza dei testi, il passo greco (tradotto) poteva aiutare assai nella comprensione e nella resa del più ellittico (anche se non criptico) dettato tacitiano: questo fatto rafforzerà le critiche di chi, con piena ragione, ritiene che le nuova modalità della prova mirino ad agevolare l’opera di versione stricto sensu, e dunque a spostare il baricentro dalla conoscenza linguistica alla “cultura” antica; si potrà in parte ovviare a tale problema se nel correggere la traduzione le commissioni terranno conto non solo del “senso generale”, ma anche del dettaglio linguistico e sintattico delle rese dei singoli maturandi. Di certo, se lo spirito della nuova prova era quello di mettere a confronto le due letterature del mondo classico, non si poteva desiderare nulla di meglio di Tacito, che punteggia la sua rigorosa prosa con nessi poetici (strictis mucronibus, “snudati i pugnali”, che è già virgiliano) e parole acutamente risemantizzate (miraculum nel senso di “curiosità”), e di Plutarco, l’autore delle Vite parallele che anche qui, nel descrivere la fine di Galba, mostra fini trame e reminiscenze letterarie (Otone è definito “ardito e intrepido” esattamente come Muzio Scevola dinanzi a Porsenna nella Vita di Publicola).

Se poi il brano offerto in traduzione fosse stato allungato di qualche riga, gli studenti avrebbero avuto modo di imbattersi in una delle tipiche affermazioni plutarchee (e ben poco tacitiane) di fede nei vaticini e nei segnali divini, che in occasione della congiura di Otone mirabilmente predissero quanto stava per accadere. Tra le rare discrepanze fra Tacito e Plutarco, forse la più significativa è proprio quella sottolineata da una delle domande della prova, ossia l’atteggiamento di Otone durante la congiura: mentre in Plutarco Otone è presentato come un uomo pavido, timoroso di essere scoperto già durante il momento dell’aruspicina, e poi all’atto pratico terrorizzato dalla scarsità dei propri seguaci armati, in Tacito (come poi nel passo di Svetonio che racconta la stessa vicenda) dopo un momento di smarrimento egli mette in scena la propria proclamazione quasi costretto a viva forza dai congiurati, quasi insomma stesse giungendo al potere “controvoglia”.

L’antico è inattuale? Tutta questa vicenda si svolse tra il Palatino, il Velabro e il Tempio di Saturno, le cui colonne ancora si ergono nel Foro di Roma: a pochi passi da tali luoghi, in un inverno di molti secoli dopo (2014 d.C.), un ambizioso segretario fiorentino venne esortato dalla direzione del suo partito, “spade in pugno”, a sobbarcarsi al “rischio personale” di guidare un nuovo governo, de facto pugnalando il premier in carica, come Galba suo antico alleato e come lui rimasto al potere per un anno scarso. Galba, stai sereno.