Di Maio promette: “In galera i grandi criminali del fisco”

“In Italia c’è un problema serio che molti fanno finta di non vedere: i grandi evasori! Un governo che si definisce del cambiamento non può far finta di non vedere queste cose e deve intervenire per tutelare gli italiani onesti. Non ci sono altre soluzioni: il carcere! Questa è la strada da intraprendere e questa è la strada che prenderemo!”. Così il vicepremier Luigi Di Maio su Facebook. “Il problema è che finora lo Stato se l’è sempre presa con i più deboli, con chi non riesce ad arrivare alla fine del mese. Ma è troppo facile fare la voce grossa con chi non riesce nemmeno a sfamare i propri figli, bisogna prendersela con chi evade regolarmente, con chi lo fa quasi per mestiere e si arricchisce giorno dopo giorno alle spalle di migliaia di famiglie che, giustamente, lamentano scarsi servizi nel Paese – ha aggiunto –. Il Movimento 5 Stelle i grandi evasori ha iniziato a combatterli, dando maggiori capacità operative alla Guardia di finanza. Abbiamo intensificato gli sforzi e io credo una cosa, molto semplice: se sei un grande evasore che se la spassa, ebbene se sei uno che invece di rispettare come tutti le regole pensi solo a truffare lo Stato ti devi fare il carcere. Punto”.

Ecco quanto costa il gay pride con Marco Carta

Se Marco Carta abbia rubato o no alla Rinascente non lo sappiamo, di sicuro però sappiamo che il cantante ha qualche problema con la verità. Il giorno dopo l’episodio del furto infatti, l’organizzatore del Gay Pride a Modena, Matteo Giorgi, aveva scritto un post su Facebook: “Se Marco Carta avesse accettato l’invito al Modena Pride, anziché farci sfanculare dal suo management in maniera inconcepibilmente sgarbata, magari anziché trovarsi in quella situazione sarebbe stato in una piazza in una moltitudine di colori”. Si riferiva al fatto che aveva invitato Carta come ospite d’onore del Pride il primo giugno, ma la trattativa non era andata in porto. La ragione, aveva poi spiegato Giorgi al Fatto, era che Carta aveva fatto una richiesta economica piuttosto esosa: 8.000 euro. Alla fine, a Modena, erano andati Benji e Fede, gratis. La faccenda lasciava perplessi perché proprio Carta, un anno fa, aveva fatto coming out in tv (alla vigilia dell’uscita del suo disco) e quindi si presumeva che la sua presenza potesse essere un momento importante anche per lui. Del resto aveva dichiarato che il coming out era stato un percorso difficile e che si era liberato anche per chi non riusciva a farlo. Ieri, in conferenza stampa, Carta ha dichiarato: “Io non sapevo nulla della richiesta, hanno parlato col mio manager. Ho chiesto al mio manager di mandarmi la mail, non sono stati chiesti 8.000 euro, ma meno”. Ora, a parte che i manager fanno le veci degli artisti e prendono decisioni condivise con gli artisti, la mail visionata dal Fatto parla chiaro: Massimiliano Notario, il suo manager, ha chiesto 6.500 euro più Iva (dunque 7.150 euro) più spese di vitto e alloggio per tre persone. La somma fa approssimativamente gli 8.000 euro in questione. Del resto, quando prima del suo coming out gli si chiedeva se fosse omosessuale, Carta rispondeva: “Non sono gay, la gente è molto cattiva”. Ecco, non ha chiesto 8.000 euro, quelli del Modena Pride sono molto cattivi.

Grandi evasori, a Milano i pm hanno recuperato 5,6 miliardi

Meno processi agli evasori, con risultati sempre incerti. E più soldi sicuri che entrano nelle casse dello Stato. È questo il “modello Milano” messo a punto dalla Procura guidata da Francesco Greco, che ha permesso al fisco di recuperare negli ultimi tre anni una cifra enorme: 5 miliardi e 600 milioni di euro. Sono il risultato delle trattative seguite a 121 verifiche fiscali ad aziende o persone fisiche considerate “grandi evasori”, a cui cioè sono state contestate evasioni superiori al milione di euro. Tra le aziende ci sono i big della net economy, da Amazon a Google, da Apple a Facebook. Ci sono i grandi della moda, da Prada ad Armani, da Gucci a Loro Piana. C’è Mediaset, insieme a tante altre grandi società con sede a Milano. Qualche persona fisica: Ezio Greggio, l’attore e conduttore televisivo che ha pagato al fisco 20 milioni; Carmine Rotondaro, l’ex manager del gruppo Kering (Gucci) che ha versato all’erario 13 milioni; Anna Maria Ghezzi, l’ultranovantenne vedova dell’imprenditore della moda Aldo Gavazzi, che ha pagato 15 milioni di euro.

Il “metodo Milano” nasce dalla collaborazione tra Procura, Guardia di finanza e Agenzia delle Entrate. Il percorso che porta al recupero di tasse non pagate parte a volte da un’indagine penale della Procura (come nel caso Gucci), altre volte da verifiche fiscali della Guardia di finanza. In questi casi, le Fiamme gialle stilano un verbale di constatazione che poi passano all’Agenzia delle Entrate la quale, dopo le sue verifiche, chiude un verbale di accertamento. A questo punto entra in campo la Procura, che avvia una interlocuzione con l’azienda che tiene conto di due piani: quello fiscale, per stabilire la cifra da pagare con l’“adesione all’accertamento”; e quello penale, che di solito si chiude con un patteggiamento. Con questo metodo, Gucci, a cui l’Agenzia delle Entrate chiedeva 1,4 miliardi di euro, ha accettato di pagare 1 miliardo e 250 milioni, facendosi “scontare” quanto già pagato al fisco in Svizzera. Qualche magistrato ha in passato contestato questo metodo di “giustizia negoziata”, sostenendo che le Procure non possono abdicare al loro ruolo di perseguire i reati (anche fiscali), trasformandosi in esattori delle tasse. Il procuratore Greco risponde ai dubbi ricordando che i reati tributari sono giudicati, secondo il codice, da un giudice monocratico che ha davanti, di solito, l’accusa rappresentata da un procuratore onorario (e non un pm esperto) e la difesa sostenuta invece da fior di avvocati e schiere di consulenti. Processi lunghi e difficili, dunque, con risultati di solito modesti. O del tutto nulli, visto che i reati di omessa dichiarazione e di infedele dichiarazione si prescrivono rapidamente. “Meglio portare a casa il risultato”, dicono alla Procura di Milano, e cioè il patteggiamento immediato davanti al giudice dell’indagine preliminare (gip), senza lunghi processi, e il versamento di una somma che chiuda il contenzioso con il fisco.

Questo meccanismo funziona quando le aziende sanno di avere di fronte interlocutori attendibili, e cioè una Procura in grado di guidare il rapporto con Guardia di finanza e Agenzia delle Entrate e di presentare al gip una proposta credibile di patteggiamento. Ma anche inflessibili: chi bara o nasconde una parte dell’evasione sa che sarà perseguito senza tregua. “Le aziende devono capire che conviene pagare. E a Milano – dice Greco – lo hanno capito”. Lo provano i 5,6 miliardi entrati nelle casse dell’erario nel triennio 2016-2017-2018.

I risultati ottenuti, spiegano in Procura, sono figli anche della cultura della Voluntary disclosure realizzata a partire dal 2015. La “collaborazione volontaria” di chi aveva capitali all’estero e ha potuto regolarizzarli, dichiarandoli al fisco, ha permesso di “sbiancare” oltre 60 miliardi di euro, usciti dal “nero”, e ha portato nelle casse dello Stato 6 miliardi di tasse. Ma ha anche offerto al fisco – per la prima volta, a differenza di quanto succedeva prima con le sanatorie anonime – una imponente mole di documenti su attività finanziarie prima occulte. Ora i magistrati milanesi sono in attesa dei risultati che potrebbero arrivare dal Crs (Common reporting standard), il nuovo sistema che obbliga 110 Paesi del mondo ¬ compresi Svizzera, San Marino, Malta e le isole caraibiche da sempre paradisi fiscali – a scambiarsi dati bancari e finanziari, senza più bisogno di lunghe e incerte rogatorie penali. L’eterna gara tra chi evade e chi insegue gli evasori continua.

Messa di Parolin in terra confiscata: “La mafia è il male”

Il segretario di Stato vaticano ha celebrato messa su un terreno confiscato alla ’ndrangheta. La celebrazione è avvenuta in conclusione dei lavori del “II congresso eucaristico della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi” nella chiesa di san Gaetano Catanoso. Parolin, nell’omelia diffusa dal Vaticano, ha posto l’attenzione sulle “difficoltà economiche e sociali che vi trovate a vivere in questa particolare zona della Calabria, che a volte si manifestano nel modo più grave e talvolta più drammatico, anche attraverso il fenomeno delle attività criminose e mafiose e le preoccupanti forme di omertà e di corruzione che esso genera”. “Tutto questo – ha detto Parolin – è esattamente la negazione del messaggio del mistero dell’eucaristia, perché è egoismo, violenza, sopraffazione, individualismo diabolico. Il circolo d’amore, il mistero della comunione è sostituito dal circolo dell’odio, dal mistero del male che avvelena il cuore dell’uomo. Da una parte l’uomo è esaltato, amato fino al punto che Dio si dona come sorgente di acqua viva per la vita eterna, dall’altra l’uomo è calpestato, umiliato, odiato fino al punto da perdere ogni suo valore”.

Il 25 Aprile fischiarono il questore: “L’Anpi non offese nessuno”

Il 25 aprile non ci fu nessuna violenza e offesa da parte dei militanti dell’Anpi nei confronti di questore e prefetto di Prato. Per questo ieri la Procura toscana ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei circa 50 manifestanti che erano stati denunciati dal questore, Alessio Cesareo, per aver chiesto le sue dimissioni e del prefetto, Rosalba Scialla. I due erano stati contestati per aver autorizzato il corteo nazionale di Forza Nuova in occasione del centenario dei Fasci di Combattimento, lo scorso 23 marzo. Nella richiesta di archiviazione, il procuratore capo Giuseppe Nicolosi e il sostituto Gianpaolo Mocetti parlano di “legittimo dissenso” e scrivono che non ci furono “violenze e offese” nei confronti dei due rappresentanti delle istituzioni. Durante le celebrazioni ufficiali del 25 Aprile i manifestanti dell’Anpi avevano contestato con fischi, cartelli (“Prefetto vai a casa!”) e cori Scialla e Cesareo e dopo poche ore proprio il questore aveva inviato un telex “urgente” al ministero dell’Interno annunciando la denuncia in Procura per il reato di vilipendio contro la Repubblica e le istituzioni. Nella lettera inviata al Viminale il questore aveva definito le proteste “non rispondenti alla solennità della manifestazione”, ovvero “i cori per chiedere le dimissioni del prefetto Scialla” ma anche “i canti tipici della lotta partigiana” (Bella Ciao!). Così la prefettura aveva annunciato di voler “identificare” i 50 militanti e denunciarli ai magistrati. Subito dopo la Procura di Prato aveva aperto un fascicolo contro ignoti ma negli ultimi due mesi nessuno è stato indagato. Il sostituto procuratore Mocetti ha esaminato più volte le immagini raccolte dalla Digos durante la manifestazione, ma ha concluso che i cartelli e le proteste rappresentassero un legittimo dissenso nei confronti dell’operato di questore e prefetto.

Sgominata la rete dei Di Lauro: con il clan dei Casalesi ci fu uno “scambio di favori”

Ci sono le traccedi una rara ed estemporanea alleanza tra il clan Di Lauro e il clan dei Casalesi, due mondi lontani nella geografia della criminalità campana, nelle circa 350 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare eseguita ieri che ha sgominato la rete di protezioni di cui ha goduto Marco Di Lauro per quasi 15 anni. La lunga latitanza si è interrotta solo a marzo, Di Lauro jr è stato scovato grazie alle intercettazioni del suo fedelissimo Salvatore Tamburrino, che stava andando a costituirsi dopo aver ucciso la moglie e volle far arrivare al boss un messaggio sulle sue intenzioni. E proprio Tamburrino, con i fratelli Marco e Salvatore Di Lauro, spicca nelle carte delle indagini dei carabinieri del Ros, coordinati dai pm anticamorra di Napoli Maurizio De Marco e Vincenza Marra e dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. Tra le accuse contestate ai 15 arrestati – alcuni già in carcere da tempo – ad un certo spunto esce la storia, che non è oggetto dei capi di imputazione, dei contatti di Tamburrino con C. R., ritenuto esponente del clan dei Casalesi, fratello di un detenuto al 41 bis, e con C. C., collegabile alla famiglia Schiavone di Casal di Principe (Caserta) attraverso una parente della moglie. Il braccio destro di Di Lauro chiede aiuto ai Casalesi per risolvere un problema: recuperare un prestito usuraio di 200.000 euro. Il 26 settembre 2014 avviene a Napoli un altro incontro sul tema e Tamburrino chiede a C. C. di intervenire sui creditori “attraverso i figli di Schiavone Francesco ‘Sandokan’ ”. I Ros la riassumono così: i Casalesi si dicono disponibili, proponendo uno “scambio di favori legato ad ad un credito a loro volta vantato nei confronti di un soggetto non meglio indentificato”. Secondo il Gip Luana Romano è una “vicenda che evidenzia la considerazione che il temibile clan dei Casalesi aveva dei Di Lauro”.

I primi due foreign fighters “scagionati”: “Combattere in Siria non è sintomo di pericolosità”

Non basta aver combattuto nel Nord della Siria al fianco dei curdi contro lo Stato islamico per essere ritenuto un pericolo sociale, neanche se si è un manifestante che protesta, anche con forza, contro le grandi opere oppure a sostegno di persone sfrattate o stranieri. Per questa ragione, Davide Grasso e Fabrizio Maniero, due “antagonisti” che si sono arruolati con l’Unità di protezione del popolo (Ypg), non sono socialmente pericolosi e non saranno sorvegliati speciali. Lo ha stabilito ieri il Tribunale di Torino che ha respinto la richiesta formulata dalla Procura torinese. È la prima decisione in Italia su un caso simile. Per altri tre, Maria Edgarda Marcucci, Paolo Andolina e Jacopo Bindi, sarà invece necessario un approfondimento.

La Procura riteneva che i cinque dovessero essere ritenuti socialmente pericolosi perché, avendo combattuto con l’esercito curdo e avendo imparato a usare armi (tranne Bindi, che si è occupato della società civile), avrebbero potuto utilizzare i nuovi metodi nelle loro battaglie politiche.

Il tribunale, però, ha messo in chiaro alcuni aspetti: per decidere non basta aderire a un’ideologia o a delle proteste, né basta il mero addestramento e l’impegno su fronti di guerra, ma bisogna considerare i comportamenti tenuti in Italia una volta tornati. Le condanne di Grasso e di Maniero sono arrivate in un periodo “non recente” e non hanno procedimenti pendenti. “L’osservazione del pubblico ministero circa la probabilità che l’arruolamento in un’organizzazione paramilitare determini l’impiego, nella commissione di reati, delle conoscenze acquisite in materia di armi resta, in quanto slegata da alcun contesto fattuale, meramente congetturale”, si legge nella sentenza su Grasso, difeso dall’avvocato Lea Fattizzo. Per Maniero, assistito da Frediano Sanneris, “l’esperienza siriana non incide” perché mancano “fatti concreti” che facciano ritenere “attuale” la sua pericolosità.

Muore di cancro per il rifiuto della chemio, genitori condannati. La madre: “Lo rifarei”

Trenta minuti di camera di consiglio. Un dibattimento che si è svolto nell’arco di tre udienze durate ore e giornate, dopo mezzora il tribunale di Padova ieri ha condannato a due anni Rita Benini e Lino Bottaro, genitori di Eleonora, la minorenne che tra il 2015 e il 2016 si è ammalata di una grave forma di leucemia.

Eleonora è morta 15 giorni dopo aver compiuto 18 anni, il 29 agosto del 2016. La decisione della famiglia di trasferirsi in Svizzera e intraprendere il percorso del discusso metodo Hamer escludendo cure tradizionali come la chemioterapia. Il 29 agosto 2016, i genitori vengono iscritti nel registro degli indagati, omicidio colposo aggravato dalla prevedibilità degli eventi. Nel 2017, il Gup si pronuncia per il non luogo a procedere, perchè “il fatto non costituisce reato” ma l’accusa ricorre in Appello. In primo grado i genitori erano stati assolti. Ieri il processo, pena sospesa.

Le motivazioni della sentenza verranno depositate tra 90 giorni; considerando la pausa di agosto, solo a ottobre si potrà conoscere cosa ha indotto la giudice ad accogliere la richiesta di condanna formulata nell’ipotesi accusatoria del pubblico ministero che in aula ha affermato: “Eleonora si sentiva nelle mani del padre, che decideva ogni terapia, precludendole l’unica che le avrebbe potuto salvare la vita”. Lino Bottaro non era presente. La moglie Rita ha dichiarato: “La verità la sappiamo solo noi genitori, Eleonora e Dio. Non ho niente da nascondere. Credo nella giustizia terrena quando è al servizio di quella di divina. Rifarei tutto”. L’accusa ha chiesto anche l’acquisizione degli atti per un’eventuale imputazione di Paolo Rossaro, medico di base radiato dall’Ordine, condannato per la morte di un paziente. È stato ipotizzato che il medico possa, in qualche modo, aver influenzato la famiglia.

Raffaella Giacomin, legale della famiglia, sottolinea l’urgenza che emergano notizie vere. Non diffuse in modo scorretto, gravemente lesive per la famiglia già provata: tre anni prima aveva perso il primogenito per un arresto cardiaco mentre era in montagna. Sul fronte giudiziario Giacomin dichiara di voler aspettare la “deposizione delle motivazioni della sentenza per capire il percorso logico-giuridico che ha portato a questa sentenza che ricordo è diversa da quella di primo grado anche perché in tutto il processo non è stato portato alcun nuovo elemento. In ogni caso, interporremo appello”.

Dal telefono di casa risponde Paolo Benciolini il medico legale a cui il Tribunale dei minori, a suo tempo, aveva assegnato la potestà genitoriale tolta alla madre e al padre. Il medico non rilascia interviste, al più aiuta a capire una vicenda così sofferta e delicata. Eleonora era una “grande minore” – un termine usato per definire i ragazzi che stanno per diventare maggiorenni – quando il medico ha cominciato a contattarla via email, mentre lei era già in Svizzera arrivata da Bagnoli, piccolo comune della bassa padovana. Era marzo 2015. Il dott. Benciolini ha tentato di ridare fiducia ai genitori rispetto alle cure tradizionali alle quali Eleonora si sarebbe potuta sottoporre. Voleva che ci credessero, che ci credesse anche Eleonora che ha poi ritrovato nell’ospedale di Schiavonia vicino a Monselice in provincia di Padova, poche settimane prima della sua morte.

Esplode palazzina in pieno centro: tre morti nella notte

È di tre morti il bilancio di un’esplosione che ha causato il crollo totale di una palazzina a Gorizia. È successo verso le 4:20 di giovedì al civico 87 nella centralissima via XX settembre, a pochi isolati dal fiume Isonzo. Secondo la prima ricostruzione, a causare lo scoppio sarebbe stata una fuga di gas. Gli inquilini dello stabile di due piani, un rialzato e il solaio, sono stati travolti dalle macerie: per loro, soffocati nel sonno, non c’è stato scampo nonostante l’intervento tempestivo dei soccorritori. Per ore i vigili del fuoco hanno cercato superstiti, ma quelli che inizialmente sembravano essere dispersi, poco dopo l’alba si sono trasformati in vittime. Sono tre in tutto gli appartamenti coinvolti: in uno viveva la coppia che ha perso la vita, nel secondo una persona sola, deceduta, mentre il terzo alloggio al momento della deflagrazione sarebbe stato vuoto. Le immagini girate dai pompieri mostrano una scena di guerra: dell’edificio non rimane più nulla, solo mattoni e laterizi. Il tetto è ormai inesistente. Nemmeno i muri portanti hanno retto e alcuni frammenti sono finiti nelle case di fronte. I vicini sono stati svegliati dal forte boato.

L’ergastolo ostativo non viola i diritti dei detenuti

Signor direttore, lo scorso 13 giugno 2019, una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (che non è un organo dell’Unione europea ma di un diverso sistema sovranazionale, il Consiglio d’Europa) ha ritenuto che l’Italia violi i diritti dei detenuti, allorquando li condanni all’ergastolo c.d. ostativo.

La legge italiana prevede alcuni benefici per i detenuti: per esempio, lavoro fuori dal carcere, permessi premio e misure alternative alla detenzione. La stessa legge (art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario) stabilisce che tali benefici siano esclusi per i condannati in via definitiva per i fatti più gravemente lesivi del senso di umanità e della civile convivenza, tra cui – per esempio – l’omicidio in ambito mafioso, l’associazione finalizzata al traffico di droga, i reati legati alla pornografia e alla prostituzione minorile e altri. Ecco il carattere “ostativo” di simili condanne: esso si può superare solo se il condannato collabora con la giustizia.

È una regola saggia: la Costituzione (art. 27) vuole che la pena tenda a rieducare il reo. Come giudichiamo che questo obiettivo sia a portata di mano? Il Parlamento italiano ha ritenuto – per questi casi – che un sintomo della rieducazione sia, non solo la buona condotta in carcere, ma anche un’attiva cooperazione a sconfiggere il fenomeno di cui le condotte condannate sono state odiosa manifestazione (il ricorrente, in questo caso, era stato riconosciuto responsabile di associazione mafiosa, omicidio e altri reati). In pratica, si esige che il condannato (che – è bene ricordarlo – ha avuto nel processo tutte le garanzie di legge) mostri un tangibile segno di resipiscenza. Tanto più nei casi di clan mafiosi, nei quali è preminente l’interesse pubblico a recidere il legame tra i membri in carcere e quelli rimasti fuori.

Una famosa sentenza della Corte costituzionale del 1988 (scritta da Renato Dell’Andro, allievo di Aldo Moro) ha affermato che, nel diritto penale, la solidarietà (art. 2 della Costituzione) si deve combinare con la rieducazione, in uno sforzo convergente dei cittadini e dello Stato. Questo è il senso della legge italiana, che la Corte europea dei diritti non ha colto.

La stessa Corte EDU cade poi in una contraddizione: essa ha (giustamente) condannato diverse volte l’Italia per non aver tutelato a sufficienza le vittime dei reati, omettendo di apprestare sufficienti e concrete misure preventive e protettive, contro persone che avevano già manifestato di essere capaci di delinquere (v. le sentenze Talpis del 2017 e V.C. del 2018). In definitiva, la Corte di Strasburgo non può condannare il nostro ordinamento per una cosa e anche per il suo contrario.