Strage Viareggio, 7 anni a Moretti

“Spero che adesso avrò il tempo per piangere mia figlia”. E dicendo quella parola, figlia, Daniela Rombi si lascia andare. Piange, finalmente. Ci ha messo dieci anni; da quel 29 giugno 2009 quando un treno esplose nella stazione di Viareggio causando 32 morti. È bastato a Daniela sentire il giudice pronunciare quella frase: “È colpevole di…”, e i muscoli del volto si sono liberati da una tensione terribile. Certo, per mettere la parola fine al processo ci vorrà la Cassazione. Ma l’appello di ieri conferma l’impianto del primo grado.

“Sette anni a Mauro Moretti”, pronuncia la presidente del collegio. E nell’aula si diffonde un sospiro. Nessun applauso, né fischi, i parenti delle vittime di Viareggio si sono sempre comportati così. Moretti, l’ex signore delle ferrovie italiane è diventato il simbolo del processo. Pena confermata, ma con una novità: Moretti è stato riconosciuto responsabile non solo come ex ad di Rfi (cioè della rete), ma anche come ex ad di Fs cioè della holding. “La sentenza conferma che c’era un’organizzazione verticistica”, annota Riccardo Carloni, avvocato di parte civile.

È quello che dice, con la semplicità di un padre, Claudio Menichetti: “Macché vendetta, noi abbiamo solo cercato che fossero individuate le responsabilità. E fosse fatta giustizia. Soltanto se affermiamo la responsabilità dei vertici, le grandi società si batteranno per la sicurezza”.

Ma non c’è soltanto Moretti. Ci sono i sei anni di condanna per Michele Mario Elia (ex ad Rfi) e Vincenzo Soprano (ex ad di Trenitalia).

Condannato anche l’ex ad di Cargo Chemical, Mario Castaldo (6 anni). Ma le pene più pesanti sono andate ai manager delle ditte tedesche e austriache responsabili anche della manutenzione del treno che provocò il disastro: tenendo conto della prescrizione dei reati di incendio e lesioni colpose (sconto di 6 mesi) la Corte ha condannato a 8 anni e 8 mesi Rainer Kogelheide della società Jungenthal e Peter Linowski di Gatx Rail Germania. Otto anni, invece, per Johannes Mansbarth ex ad di Gatx Rail Austria e Roman Mayer responsabile manutenzione carri merci di Gatx Austria.

“Impianto confermato, ma con una visione diversa: vengono assolti i dirigenti medi, mentre sono considerati responsabili i vertici delle società. Ma qui parliamo di manager con migliaia di dipendenti”, sussurra un avvocato uscendo dall’aula, “potrebbe essere l’inizio di una nuova giurisprudenza, valida magari anche per il Morandi”.

Sono le 13:20 quando la folla esce dall’aula 32 del Tribunale di Firenze, con quella scritta grande “La legge è uguale per tutti”. Escono gli avvocati vocianti, chi soddisfatto, chi pronto a ricorrere in Cassazione. E ci sono i familiari, decine, gente che è stata presente a ogni santa udienza: 140 in primo grado, 40 in appello. C’erano sempre, per seguire, testimoniare; portare la foto di chi non c’è più stampata su quelle magliette indossate o appoggiate sulle 32 sedie vuote.

Sì, forse Daniela ieri ha potuto piangere, liberarsi. Ma nessuno dimenticherà. Come Marco Piagentini. Lui che lottò per mesi con ustioni sul 90 per cento del corpo e che ieri era in aula. Piagentini che ha perso la moglie e due dei tre figli, ma è riuscito nell’opera più dura: non diventare il simbolo del dolore, ma della battaglia per avere giustizia. Perfino della speranza. Marco che vive, ma ricorda tutto: “Rivedo l’esplosione, il momento che ho trattenuto il fiato e mi sono trovato coperto di macerie. E dentro il corpo sentivo un caldo terribile. Un forno che mi bruciava”.

Piagentini non vive più in via Ponchielli. Quelle case di fronte ai binari, grigie, con la loro semplice dignità operaia, sono state sostituite da casette colorate. E sono di altri bambini le voci sul piazzale.

Dieci anni, la vita va avanti (e chissà se sia motivo di speranza, dolore o entrambi): ieri nell’atrio del Tribunale del Tribunale di Firenze aggrappato al seno della madre c’era Andrea, pochi mesi. Sua madre dopo quella notte è viva. La zia vicino non c’è più.

Autostrade, l’Autorità rivede le tariffe. Le aziende si infuriano

Più trasparenza sui pedaggi e maggiore certezza sugli investimenti. Sulle tariffe autostradali si volta pagina: l’Autorità di regolazione dei trasporti ha approvato definitivamente il nuovo sistema tariffario, teso a garantire trasparenza ed equità dei pedaggi, con benefici in arrivo per automobilisti, per i quali si potrebbe profilare anche un calo dei pedaggi. Decisione cui plaudono i consumatori ma contro la quale si scagliano le società concessionarie. “È un blocca cantieri”, ha attaccato l’Aiscat, l’associazione dei concessionari, preoccupata di difendere un sistema che finora ha garantito profitti d’oro ai signori delle autostrade, con rincari al casello assicurati ogni anno assai slegati dagli investimenti realmente effettuati. “Vuol dire che siamo sulla buona strada”, ha replicato il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli (M5S). Il nuovo sistema riguarderà subito 16 concessionarie (da Autostrade per l’Italia dei Benetton a Strada dei Parchi, dall’Autostrada dei Fiori alla Milano Serravalle), i cui Piani economico finanziari (Pef) erano scaduti da anni. Col Decreto Genova, infatti, è stata estesa la competenza dell’Authority anche alle concessioni in essere e non solo alle nuove.

Scandalo toghe, oggi Mattarella parlerà al plenum Csm

Lo scandalo delle nomine pilotate al Csm è talmente grave ed evidente che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella farà un discorso “molto duro” al plenum straordinario di oggi. Al Colle le ultime limature le faranno persino stamattina, consapevoli della straordinaria importanza.

Ci si attende una condanna verso i comportamenti emersi e che hanno portato alle dimissioni di ben quattro consiglieri togati e all’autosospensione di un quinto, per aver parlato di nomine, Procura di Roma in testa, con il pm romano Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione e con i parlamentari del Pd Cosimo Ferri, toga in aspettativa e Luca Lotti, imputato nella capitale.

La sensazione è che per la magistratura sia l’ultimo treno per recuperare credibilità, andata in picchiata. Dunque, il presidente, si diceva ieri in ambienti quirinalizi e consiliari, andrà anche oltre la reprimenda, chiederà di “voltare pagina” perché non possono esserci ombre sull’indipendenza delle toghe, gli italiani devono tornare ad avere “fiducia”. Ed è questo Consiglio “incrinato” che deve farcela, “raddrizzato” dai nuovi togati “puliti” al posto dei dimissionari.

Il presidente Mattarella, d’altronde la settimana scorsa aveva indetto elezioni suppletive per il 6 e 7 ottobre per sostituire i dimissionari Luigi Spina e Antonio Lepre, in quota pm, spiegando perché non ha optato per lo scioglimento: “Comporterebbe la rielezione dei suoi membri con i criteri attuali e contrasterebbe con la necessità di cambiare le procedure elettorali da più parti richieste”. Non a caso il premier Giuseppe Conte, molto vicino al capo dello Stato, ha dichiarato che per un nuovo sistema bisogna studiare una soluzione che faccia recuperare “fiducia ai cittadini”.

Eni, il giallo dei rapporti tra Lotti, Amara e Descalzi

L’ex ministro Luca Lotti, parlando con il pm di Roma Luca Palamara, avrebbe detto di aver ricevuto dall’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, alcune carte su Domenico Ielo, fratello del procuratore aggiunto di Roma Paolo, che ha lavorato come consulente per l’Eni. Intercettata dai pm di Perugia, questa conversazione è stata trasmessa alla procura di Milano, che ne sta valutando la portata investigativa. A rivelarlo è stato ieri l’Espresso. L’operazione sarebbe stata utile a screditare il procuratore aggiunto di Roma Ielo che ha chiesto il rinvio a giudizio di Lotti nell’inchiesta Consip. “Nego di aver ricevuto qualsiasi pezzo di carta o informazione dal dottor Descalzi con il quale non ho contatti dal 2016”, ha commentato Lotti. Stando alle rivelazioni de l’Espresso, però – magari millantando – Lotti avrebbe confidato di averle ricevute. “Eni – è la nota diffusa dall’ufficio stampa del colosso petrolifero – smentisce in modo categorico che l’ad Descalzi abbia mai consegnato a Lotti documentazione relativa al fratello del Dottor Ielo. L’ad di Eni si riserva di intraprendere le vie legali a tutela della propria reputazione”. Quel che appare invece sicuro è che Lotti abbia conosciuto un altro uomo legato all’Eni: l’ex avvocato esterno Piero Amara, al centro di numerose inchieste, inclusa quella sul “depistaggio” ordito, attraverso il pm Giancarlo Longo della Procura di Siracusa, per affossare i consiglieri indipendenti dell’Eni, Luigi Zingales e Karina Litvak. Un depistaggio che, secondo la Procura di Milano, serviva anche a indebolire l’inchiesta sulla presunta maxi tangente, pagata da Eni in Nigeria, che vede Descalzi imputato per corruzione internazionale.

Ieri Amara e Lotti sono stati ascoltati dal tribunale di Messina nel processo “sistema Siracusa” che vede indagato l’ex avvocato Eni. I due non si sono nemmeno salutati. Lotti, dopo due convocazioni andate a vuoto, ieri pomeriggio s’è presentato a Messina per essere sentito come testimone. Il renziano è finito nella lista dei testimoni per una email scritta dall’ex presidente della Regione Sicilia Giuseppe Drago, deceduto nel 2016, e inoltrata all’esponente del Pd da Denis Verdini.

L’ex senatore di Ala, in sostanza, nel 2016 caldeggiava la nomina al Consiglio di Stato dell’ex giudice amministrativo Giuseppe Mineo, oggi accusato di corruzione in atti giudiziari. Una raccomandazione, poi non andata a buon fine, per la quale Verdini, secondo i pm, avrebbe ricevuto circa 300 mila euro da Amara. Da qui l’imputazione di finanziamento illecito ai partiti contestata dalla Procura di Messina a Verdini finito al centro di quello che Amara definisce “un contesto di cortesie varie”.

Tornando a Lotti, la sua deposizione è stata breve perché i pm e il collegio della difesa hanno deciso di acquisire il verbale di interrogatorio reso l’8 agosto dell’anno scorso davanti ai pm a cui aveva già spiegato il contatto con l’esponente di Ala per quanto riguarda la nomina del giudice Mineo. Qualche concetto, comunque, ieri Lotti l’ha ripetuto: “Ho ricevuto una email dall’onorevole Denis Verdini”.

E ancora: “Nello svolgimento delle mie funzioni, – ha affermato l’ex ministro – il mio compito era quello di raccogliere le segnalazioni dei partiti (di maggioranza e d’opposizione) presenti in Parlamento e poi il Consiglio dei ministri avrebbe vagliato il curriculum migliore”.

“Sono nomine governative e spettano alla politica – ha ribadito l’ex ministro ai giornalisti uscendo dal Tribunale – Il Consiglio di Stato doveva dare il parere sui nomi che venivano proposti dal Consiglio dei ministri. Su Mineo ha dato parere negativo per cui la nomina non andò a buon fine”.

Circostanza confermata anche da Pietro Amara: “A mio avviso, Lotti non sapeva cosa ci fosse dietro. Ha semplicemente ricevuto una segnalazione da Verdini”.

Fin qui tutto liscio. Un po’ meno quando Lotti spiega il suo rapporto con Pietro Amara. Sotto giuramento il renziano ha detto di averlo conosciuto “verso la fine del 2015, mi sembra a una festa di Natale. Sinceramente non ricordo chi ci ha presentato”. L’anno scorso, però, davanti ai pm lo ricordava: “Mi fu presentato dall’avvocato Mantovani, capo legale dell’Eni”. Quando un avvocato di parte civile gli ha fatto notare la differenza tra le due dichiarazioni, Lotti si è rimesso alle dichiarazioni del primo verbale confermandolo integralmente. Compresa quindi la presentazione a Lotti di Amara da parte di Mantovani, che avrebbe visto al massimo una volta.

Il punto più delicato arriva alla fine della testimonianza quando si parla della società tra Amara e l’imprenditore amico in passato di Matteo e Tiziano Renzi oltre che di Lotti: Andrea Bacci. “Penso di avere visto Amara un’altra volta nel 2016. Non sono a conoscenza del rapporto societario tra Amara e Andrea Bacci. Che io ricordi – giura Lotti – non ci siamo mai incontrati insieme”.

Diversa la versione di Amara: “Bacci mi presentò Lotti nel 2014, nel periodo in cui si parlava della nomina di Descalzi all’Eni. Sia con Lotti che con Bacci si discusse di importanti rapporti commerciali. Lotti sapeva dei rapporti economici tra me e Bacci. Spingeva affinché Bacci fosse aiutato perché a suo dire aiutava molto il partito”. Interpellato dal Fatto, Bacci dice di avere presentato lui Amara e Lotti. Non ricorda però la data e il luogo. Nega, invece, sia che Lotti sapesse degli interessi economici comuni con Amara, sia di aver chiesto aiuti economici per il Pd.

Decreto Sicurezza, “super poteri” dei prefetti bocciati

Nessun super potere ai prefetti. Lo ha stabilito la Corte costituzionale che ieri ha bocciato una parte del decreto Sicurezza voluto da Matteo Salvini e diventato legge nel dicembre 2018. La Consulta infatti ha accolto le censure sull’articolo 28 che prevede un potere sostitutivo del prefetto nell’attività dei Comuni. Nello stesso tempo però sono stati dichiarati inammissibili i ricorsi contro il decreto sicurezza presentati da cinque Regioni (Calabria, Emilia Romagna, Marche, Toscana e Umbria) che ne hanno impugnato numerose disposizioni lamentando la violazione diretta o indiretta delle loro competenze. La Corte ha ritenuto che le nuove regole su permessi di soggiorno, iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo e Sprar (centri di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati) sono state adottate nell’ambito delle competenze riservate in via esclusiva allo Stato. In particolare, ha ritenuto che il decreto sicurezza non ha avuto incidenza diretta o indiretta sulle competenze regionali. Tuttavia non c’è stata alcuna valutazione sulla nuova legge: “Resta impregiudicata ogni valutazione sulla legittimità costituzionale dei contenuti delle norme impugnate”, sottolinea la Corte.

Figli e partito Mediaset: così B. si è ripreso Toti

Il giorno dopo la svolta, in Forza Italia quasi non ci si crede. È la prima volta che Silvio Berlusconi cede sovranità e affida il partito a due coordinatori veri, Mara Carfagna e Giovanni Toti, per portare il partito a congresso che, primarie o no, dovrà nominare poi un coordinatore unico. “Non ci faranno male tutte queste novità tutte insieme…?”, scherzava ieri un gruppetto di forzisti a Montecitorio.

Ma la rivoluzione potrebbe avere anche un secondo step. In questo riassestamento di potere, che ha lasciato sul terreno diverse vittime a cominciare da Antonio Tajani, si vocifera che pure Licia Ronzulli potrebbe restare appiedata, con l’ex Cavaliere che starebbe addirittura cercando un nuovo collaboratore da tenere al suo fianco: un uomo, questa volta, magari in arrivo da Mediaset. Molto dipenderà dalla figlia Marina, che finora ha difeso la senatrice milanese.

La famiglia, del resto, ha contato molto in questa accelerazione politica. La cui genesi va cercata subito dopo il voto europeo. Una settimana dopo il 26 maggio, infatti, i sondaggi già fotografavano una situazione peggiore rispetto alle urne, con FI sotto l’8,8%. E lunedì scorso, per la prima volta, si è registrato il sorpasso, con il partito di Giorgia Meloni qualche decimale sopra. Così l’ex Cavaliere si è deciso ad agire, stretto in una tenaglia che da una parte ha visto muoversi i familiari e, dall’altra, un’azione coordinata tra gli stessi Toti e Carfagna. I quali, deposte momentaneamente le armi, hanno deciso di collaborare per arrivare all’obiettivo comune.

Con Niccolò Ghedini come mediatore, si è fatto sentire Pier Silvio, con il benestare, dicono, di Mauro Crippa, patron dell’informazione Mediaset. Il partito del Biscione, sempre molto pro Lega e pro Salvini, da tempo suggeriva al leader di fare il possibile per non lasciare scappare Toti, il maggiore sponsor dell’alleanza con la Lega dentro FI. Cosa che sarebbe forse avvenuta il prossimo 6 luglio, quando il governatore ligure avrebbe annunciato la nascita di un nuovo partito con una convention a Roma. La scissione, anche piccola, non avrebbe fatto bene a un partito già moribondo. E che invece, adesso, dopo l’incontro di ieri con Carfagna, si è trasformato in un appuntamento unitario. “Lo spirito dell’appuntamento del Brancaccio è cambiato, ci sarò anch’io”, ha detto ieri l’ex ministra al termine dell’incontro col governatore ligure, in un volemose bene generale.

I due hanno iniziato a telefonarsi da un paio di settimane, fiutando l’occasione propizia. “O ce lo prendiamo adesso, questo partito, oppure non succederà mai e saremo destinati a una veloce sparizione…”, è stato il succo delle loro conversazioni. Ghedini appuntava, la famiglia spingeva e Berlusconi, che ieri ha fatto il suo esordio a Bruxelles, alla fine si è convinto. Anche perché “qui può accadere di tutto e bisogna tenersi pronti per le urne”, è stato il ragionamento del leader, che però in cuor suo è convinto che non si andrà al voto prima della prossima primavera. Ora i due generali ci sono e, da qui al congresso, toccherà alle truppe schierarsi per l’uno o per l’altra.

Sorpresa: i vitalizi dei condannati rischiano di tornare

Ancora non è il momento dei brindisi, ma poco ci manca. Perché la delibera che ha sospeso i vitalizi agli ex deputati incappati in una condanna penale, ha le ore contate. Proprio così: rischia infatti di finire rottamato uno degli atti più odiati di sempre per i leoni della Prima Repubblica. Ossia quello con cui l’Ufficio di presidenza della Camera, allora guidata da Laura Boldrini, aveva fatto piangere i loro onorevoli portafogli congelando l’assegno di cui avevano potuto godere fino a quattro anni fa, nonostante i guai con la giustizia.

Una delibera che aveva mandato su tutte le furie personaggi del calibro di Giulio Di Donato, già uomo forte del Psi di Bettino Craxi. O dell’ex ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo. Che come altri avevano presentato ricorso di fronte agli organi giurisdizionali della Camera per riavere ogni mese il dovuto. Più, naturalmente, gli arretrati per il periodo in cui erano stati lasciati a secco. E per questo erano arrivati a minacciare fuoco e fiamme anche a costo di trascinare l’amministrazione di Montecitorio di fronte alla Corte Costituzionale.

A quanto pare però, adesso, una speranza per loro c’è: il Collegio presieduto dal Cinque Stelle Andrea Colletti, a cui si sono appellati alla Camera proprio per evitare che la questione finisse alla Consulta, ha deciso infatti di interpretare quella delibera. Che avrebbe profili di irragionevolezza. I quali invece in primo grado non erano stati ravvisati: e infatti gli stessi ricorsi nel 2016 erano stati respinti in blocco. Ovviamente gli onorevoli condannati non si erano arresi e tanta perseveranza ora potrebbe essere ricompensata. Quel che è certo è che se torneranno a mettere le mani sui vitalizi non potranno fare a meno di accendere un cero a Paola Severino, l’ex Guardasigilli passata alla storia per l’omonima legge. Che non prevede solo l’incandidabilità o la sospensione degli eletti finiti alla sbarra, ma pure a quali condizioni e soprattutto in che tempi possano riottenere l’agibilità politica.

Ebbene proprio la previsione contenuta nell’articolo 13 della legge in questione sarà a quanto pare il parametro che adotterà il collegio della Camera per decidere a chi ridare l’assegno.

Il criterio è che il congelamento del vitalizio sarà commisurato alla durata della pena comminata, così come accade per l’incandidabilità. Ora tocca solo capire se i termini per rientrare in possesso dell’assegno, per chi ha fatto ricorso, verranno fatti decorrere dalla data della sentenza definitiva o da quella in cui la Camera ha chiuso i rubinetti ai condannati. “Stando al delibera del 2015, oggi chi viene riabilitato e torna in Parlamento è chiamato a versare i contributi previdenziali, ma senza poterne godere a fine mandato per le pendenze giudiziarie passate”, spiegano dal Collegio. Non è chiaro se i De Lorenzo, i Di Donato, i Giancarlo Cito e gli altri in attesa torneranno mai a calcare i tappeti del Transatlantico. Ma a quanto pare entro metà luglio sapranno almeno quando rientreranno in possesso dell’agognato assegno. Che in fondo è sempre meglio che niente.

Perché da quattro anni sono costretti a stringere la cinghia. Anzi, a sentir loro, sono proprio disperati: la cessazione del vitalizio è stata una botta tremenda che li ha costretti a tirare avanti tra mille stenti. C’è chi come “Sua sanità” De Lorenzo ha pensato addirittura di dover portare l’amato presepe settecentesco al Banco dei pegni. L’ex sindaco di Taranto Cito ha denunciato di essere finito sul lastrico perché non aveva altri cespiti se non l’assegno della Camera. Per non parlare di Di Donato che nel frattempo causa separazione praticamente si è trovato ridotto in braghe di tela. Di fronte a tanta disgrazia, Montecitorio finora aveva fatto spallucce. Ma ora la partita è riaperta alla grande. E se le ristrettezze denunciate non consigliano di stappare lo champagne, forse almeno potranno brindare con la gazzosa. Cin.

Ilva, resta l’abolizione dello scudo penale. Confindustria irritata

Nonostante il pizzino di ArcelorMittal, nuova proprietaria dell’Ilva di Taranto, per ora il governo non fa retromarcia: lo “scudo penale” per i gestori dell’acciaieria sarà cancellato da settembre e resterà solo per i commissari governativi e solo per l’applicazione del Piano Ambientale. La disposizione sarà approvata oggi col voto di fiducia insieme al resto del cosiddetto decreto Crescita. La cosa non è piaciuta al mondo delle imprese. Tanto a quella di settore, Federacciai (“i patti vanno rispettati”), tanto Confindustria: “L’attenuazione dello scudo penale per eventuali reati ambientali relativi alla bonifica e al rilancio dell’Ilva di Taranto è un pessimo segnale per la reputazione del Paese. Si inducono gli investitori ad abbandonare il Paese e si scoraggiano nuovi investimenti”. Intanto nella partita rientra dalla finestra anche il governatore pugliese Michele Emiliano, che ha chiesto all’Organizzazione mondiale della Sanità di esaminare l’impatto sanitario dell’ex Ilva sulla città. Un impegno che arriva mentre il ministero dell’Ambiente studia modifiche all’Autorizzazione integrata ambientale dopo un esposto sul danno sanitario dell’impianto presentato dal sindaco di Taranto.

Di Maio sempre più infastidito da Dibba

Può dire qualsiasi cosa, con qualsiasi intento. Comunque Alessandro Di Battista non potrà cancellare il fatto che per Luigi Di Maio a oggi è una persona ostile. “Alessandro è finito nella lista nera” come sussurra preoccupato un parlamentare a lui vicino. E magari esagera, magari no.

Di sicuro c’è rabbia nei confronti dell’ex deputato, e “non solo da parte di Luigi” come ammette una fonte di governo. Anche se a Otto e mezzo, due giorni fa, Di Battista ha proposto di non applicare il vincolo dei due mandati ai parlamentari a 5Stelle in caso di voto anticipato, proprio per dare un segnale di pace al vicepremier. “Voleva ribadire che anche se si votasse a settembre il capo dovrà essere Luigi, anche in Parlamento” traducono un paio di eletti. Ma il capo e la sua cerchia non si fidano. “La questione non è all’ordine del giorno” riassume lo staff. Cioè si resta sulla possibile riforma del doppio mandato per i consiglieri comunali e municipali, annunciata dal capo una decina di giorni fa. Ma c’è altro. “Con Alessandro il rapporto è buono, ma noi dobbiamo pensare a lavorare” fa trapelare Di Maio. Ma sono decisamente più perfide le consuete fonti M5S: “Luigi pensa ad Alessandro ma pensa molto meno al suo nuovo libro”. E dietro c’è quel cattivo pensiero, che Di Battista spinga per le urne per ricandidarsi. Ma non solo. “Le sue critiche al M5S nel libro hanno fatto arrabbiare i parlamentari, Luigi deve tenere il gruppo” dicono dai piani alti. Proprio mentre l’ex deputato torna a invocare la revoca della concessione ad Autostrade, picchiando ancora sulla Lega “allineatissima al sistema, e infatti come il Pd si è fatto finanziare dai Benetton”.

Invece Di Maio e i suoi sono preoccupati per l’evento di domani a Catania dell’associazione Rousseau, dove Davide Casaleggio intervisterà Di Battista. Il figlio di Gianroberto, è noto e ieri lo ha fatto nuovamente trapelare, è contrario a toccare il doppio mandato. Ma non vuole affatto una guerra con Di Battista, lo stima e lo vorrebbe sempre in prima fila. Così saranno assieme sul palco siciliano, dove potrebbe apparire anche il veterano Max Bugani, socio dall’associazione Rousseau e vicecapo della segreteria di Di Maio a Palazzo Chigi. Due giorni fa sul Fatto Bugani aveva giustificato Di Battista per le critiche al M5S in Politicamente scorretto: “Nel momento in cui dice certe cose dà sfogo a ciò che pensano tantissimi elettori e iscritti”. Per poi assicurare: “Alessandro non vuole sostituire Di Maio, sono complementari”.

Parole per far scoppiare la pace. Ma alcuni parlamentari raccontano che il capo politico abbia preso “malissimo” l’intervista. Dentro Montecitorio, invece, in diversi discutono della proposta di Di Battista di ricandidare anche chi abbia fatto due mandati. E in via anonima sono in diversi a dire che non sarebbe una cattiva idea. Invece in chiaro parla il capogruppo Francesco D’Uva: “Se la legislatura durasse poco potrebbe essere un’idea da valutare, ma sono certo che andremo avanti per altri quattro anni, quindi parliamo del nulla”.

Poco più in là il delegato d’aula Daniele Del Grosso, vicino a Di Battista: “Alessandro ha detto quelle cose per togliere un’arma a Salvini”. Ma Di Battista vi serve ancora? “Lui funziona, è popolarissimo all’esterno”. E all’interno? “Con i nuovi non ha avuto chissà che contatti, ma i veterani lo conoscono”.

La Casaleggio ora fa soldi: il fatturato arriva a 2 milioni

L’anno di governo del Movimento 5 Stelle coincide con un sensibile aumento degli affari per la Casaleggio Associati, anche se si tratta di piccoli numeri. Il fatturato, secondo il bilancio del 2018 appena depositato, passa da 1,2 milioni di euro del 2017 a 2 milioni del 2018. Un balzo di oltre il 60 per cento, ma che lascia l’azienda guidata da Davide Casaleggio tra quelle di piccola taglia. I costi per la produzione, in dodici mesi, sono passati da 1,1 milioni a 1,8 milioni, ma l’utile di esercizio risulta in aumento considerevole, da 20.480 euro a 181.473 euro, tutti destinati a riserva. Niente dividendi per gli azionisti.

La nota integrativa spiega a cosa si deve l’andamento positivo nel 2018: “Il risultato è stato raggiunto grazie al consolidamento delle attività di consulenza strategica e di innovazione digitale verso le medie e grandi imprese”. In particolare, “il management ha intensificato e riposizionato l’attività consulenziale verso aree di business in forte espansione specializzandosi sulla ricerca in ambiti quali digital strategy, intelligenza artificiale, blockchain, sistemi di finanziamento dell’innovazione e modelli di integrazione fisica digitale”.

Nei mesi scorsi, il Fatto ha raccontato questa attività di “riposizionamento”, tra convegni, iniziative, consulenze e report sponsorizzati da aziende che vedono nella Casaleggio Associati un ponte verso il governo M5S. Il report annuale sull’eCommerce in Italia, per esempio, nel 2019 è stato finanziato tra gli altri da varie aziende con contributi tra i 5 e i 10.000 euro. Tra queste, Deliveroo, la multinazionale delle consegne che è impegnata in una trattativa sulle regole del settore con il ministero dello Sviluppo di Luigi Di Maio. Il rapporto sulla Blockchain è stato finanziato da aziende come Consulcesi e Poste (30.000 euro ciascuna).

La Casaleggio si è già adeguata a questo (relativo) salto dimensionale e, si legge nel bilancio, “ha cambiato sede rinnovando gli spazi sempre nel centro di Milano”. Il trasloco è avvenuto a inizio 2018, con l’apertura degli uffici di via Umberto Visconti di Modrone 30, vicino al Duomo. Al vecchio indirizzo è rimasta l’altra creatura di Davide Casaleggio, la Fondazione Rousseau che è ormai l’infrastruttura finanziaria del M5S.

La struttura della Casaleggio Associati resta minima: 13 dipendenti che costano, tutti insieme, 378.000 euro di salari e stipendi, in aumento rispetto ai 259.000 del 2017. Il consiglio di amministrazione ha un costo complessivo analogo a quello di un singolo dirigente Rai, 246.000 euro. Gli amministratori sono quattro: Davide Casaleggio è il presidente, poi ci sono tre consiglieri, Luca Eleuteri, Maurizio Benzi e Marco Maiocchi. Sono tutti e quattro soci, anche se Casaleggio detiene la quota di gran lunga maggioritaria, con il 60 per cento del capitale.

Per il 2019 è previsto “un ulteriore incremento delle attività di consulenza con un focus sulle Smart Company e cioè le imprese che grazie all’impatto della quarta rivoluzione industriale e l’utilizzo strategico delle tecnologie esponenziali riescono a sviluppare nuovi mercati e a essere disruptive nel proprio settore”. Sono in arrivo, inoltre, “nuove partnership” con aziende. Chissà se queste partnership sopravvivrebbero a una eventuale crisi nella maggioranza che vedesse il Movimento 5 Stelle uscire dall’area di governo.