Governo, M5S spera: “Non ci sarà rimpasto, solo un turn over”

Sì al rimpasto, ma con il turn over. Ossia senza cambiare i rapporti di forza tra i gialloverdi. Così auspicano i Cinque Stelle, e così ha accennato Matteo Salvini nel vertice di governo di mercoledì mattina a Palazzo Chigi. Dove ha parlato della possibilità di rivedere “la squadra della Lega”. E nel M5S hanno letto quelle parole come un riferimento a una possibile nomina del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti come Commissario europeo, tutt’altro che scontata ma possibile.

Ed è evidente che il suo spostamento comporterebbe la necessità di sostituirlo con un altro nome pesante: magari con l’attuale ministra alla Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, come sussurrano fonti trasversali di Lega e Movimento. Ergo anche la Bongiorno, responsabile Giustizia del Carroccio, andrebbe sostituita. Ma di certo l’idea del turn over è più potabile anche per il M5S, che temeva e teme di pagare dazio nel rimpasto dopo il 17 per cento nelle Europee, ossia di dover cedere caselle di peso. “Finché Salvini non parla apertamente di rimpasto noi non ci muoviamo, e non è affatto detto che questo succeda” spiegano dai piani alti del Movimento. Ma l’ipotesi resta quella di sostituire due ministri, quella alla Salute Giulia Grillo e quello alle Infrastrutture Danilo Toninelli, con altri 5Stelle. Anche se i due interessati, e in particolare Grillo, sono tutt’altro che rassegnati all’idea. E comunque si dovrà aspettare la nomina del Commissario europeo, è l’unica certezza dentro il governo. Mentre Luigi Di Maio, il capo politico del M5S, deve decidere cosa fare dei risultati della graticola, ovvero la valutazione interna dei sottosegretari, sentiti negli scorsi giorni dai parlamentari e dai presidenti delle varie commissioni dei 5Stelle. Almeno 4-5 sottosegretari, raccontano, sono stati bocciati dalle valutazioni (anonime) degli eletti, basate su parametri come “capacità di ascolto” e “presenza”. Ma anche in questo caso, Di Maio e il Movimento potrebbero attendere l’eventuale rimpasto su più larga scala. Anzi, il turn over.

Negoziato Ue, il Tesoro spreme gli utili a Cdp

Non era mai successo nella storia della pubblica Cassa Depositi e Prestiti. Ma il negoziato con l’Ue per evitare la procedura sul debito ha, per così dire, stuzzicato la fantasia, o la disperazione, del ministero dell’Economia, che ha deciso di incassare tutti gli utili della controllata che gestisce gli oltre 160 miliardi e dispari del risparmio postale.

Ieri il cda della Cassa ha convocato per venerdì una nuova assemblea dei soci per distribuire anche l’utile 2018 che era stato messo a riserva: si tratta di altri 794,5 milioni per il Tesoro (che ha l’82,7% del capitale) e 152 per le fondazioni bancarie (15,9% delle azioni). Lo ha deciso il ministero dell’Economia, in quanto azionista di controllo. Solo un mese fa, il 23 maggio, approvando il bilancio 2018, Cdp aveva staccato una maxi-cedola: su 2,5 miliardi di utili, un dividendo di 1,5 miliardi (+15,5% sul 2017), dei quali 1,3 sono andati al dicastero guidato da Giovanni Tria. Che li userà per mostrare a Bruxelles un deficit più basso. Con un risvolto surreale. Nel 2016 il governo Renzi, ministro Pier Carlo Padoan, alzò il tasso con cui il Tesoro remunera l’enorme liquidità che Cdp deposita su un conto presso il dicastero. Quell’anno il margine di interesse della Cassa, sceso nel 2015 sotto il miliardo, schizzò del 126%. Da allora quella scelta ha sempre sostenuto gli utili sbandierati da Cdp. Così il Tesoro da un lato versa i soldi a Cassa, dall’altro se li riprende sotto forma di dividendi. E in questa partita di giro incassano gratis le fondazioni. A breve sarà convocato anche un nuovo cda per risolvere il nodo delle nomine nelle partecipate. Lo stallo è soprattutto sui vertici di Sace, che assicura il commercio italiano con l’estero, dove Tria spinge per la riconferma mentre l’ad della Cassa Fabrizio Palermo per un ricambio. Il compromesso è chiuso: resta il presidente Beniamino Quintieri (amico di Tria), l’ad sarà sostituito.

Gli 800 milioni appena spremuti serviranno invece al governo per mostrare a Bruxelles un deficit 2019 al 2,1% del Pil contro il 2,5 stimato dall’Ue. Faranno parte delle maggiori entrate “non tributarie” che insieme a quelle tributarie frutteranno 3,2 miliardi. Cifre che figureranno nell’assestamento di bilancio che verrà approvato mercoledì in Consiglio dei ministri, dove verranno anche tagliati definitivamente i 2 miliardi “congelati” in manovra. A questi il governo vuole aggiungere anche i 3 miliardi che saranno risparmiati su Reddito di cittadinanza e Quota 100. Insomma, una dote da 8 miliardi che dovrebbe garantire i conti del 2019 senza manovre correttive.

Resta il nodo del 2020, dove a bilancio ci sono 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva, che Tria vuole sostituire, per almeno 10 miliardi, con clausole che impegnano a tagli automatici di spesa. Considerati i risparmi delle due misure, che ci saranno anche il prossimo anno, restano da trovare coperture per altri 10 miliardi. Resta da vedere se Tria riuscirà a convincere Lega e M5S.

La bandierina dell’autonomia: Zaia regala ai neonati veneti il vessillo della Serenissima

Venezia

In Italia, Matteo Salvini trasforma la Lega Nord in Lega per Salvini Premier, con lo slogan “Prima gli italiani”. Ma nelle province venete, dove i fedeli del Carroccio sono ormai la metà degli elettori, il governatore Luca Zaia continua sulla linea che ne ha fatto le fortune elettorali: “Prima i veneti”. E promuove un disegno di legge che stanzia 100 mila euro per regalare, fino al 2021, a ogni bambino nato in Veneto, la bandiera che fu emblema della Serenissima.

Saranno i Comuni, nella giornata del 25 marzo, Festa del popolo veneto, a consegnarla ai genitori dei piccoli. Il disegno di legge ha avuto il via libera della Prima commissione, è quindi pronto per l’approvazione in consiglio regionale. Che sia uno dei fiori all’occhiello della maggioranza leghista, lo dimostra il pedigree dei firmatari. Il primo è Gabriele Michieletto della Lista Zaia. Poi Roberto Ciambeti, presidente del consiglio regionale. E Luca Coletto, ex assessore alla Sanità, migrato nel governo Conte a fare da sottosegretario.

Nella legge leghista non mancano le contraddizioni. Siccome la bandiera verrà consegnata “ai nati della Regione del Veneto nel corso dell’anno precedente”, ne consegue che ne beneficeranno tutti i neonati. Anche i figli di genitori stranieri. Nel 2017 i nuovi nati in Veneto sono stati 37 mila, per il 20% figli di non italiani. È una forma di riconoscimento dello “ius soli” tanto aborrito da Salvini e dalla Lega. I pargoletti avrebbero perlomeno l’imprinting di “veneti”, se non il riconoscimento di “cittadini italiani”.

I consiglieri di opposizione si sono sbizzarriti. “Forse sarebbe meglio regalare pannolini e omogenizzati, invece di bandiere” sostengono Claudio Sinigaglia, Graziano Azzalin e Orietta Salemi del Pd. Piero Ruzzante (LeU), Patrizia Bartelle (Italia in Comune) e Cristina Guarda (Lista Moretti) la definiscono una presa in giro: “Nel 2017 la Lega ha fatto una legge per bloccare le iscrizioni agli asili alle famiglie provenienti da fuori regione. Ora dicono alle stesse famiglie: i vostri figli non avranno l’asilo, ma vi regaliamo la bandiera del leòn!”.

È solo tradizione, spiega la relazione del disegno di legge: “In una società nella quale ogni giorno nascono e fioriscono raffigurazioni di ogni genere, emblemi destinati al dimenticatoio (…) nulla di meglio di una bandiera di un Popolo, è all’opposto di queste figure caduche. E nulla, meglio di una famiglia, può trasmettere il valore importante dell’amore verso la propria terra”. Il Veneto.

Conte in trincea a Bruxelles tratta su debito e poltrone

La notte è lunga a Bruxelles. È lunga per il premier, Giuseppe Conte, che lavora per evitare la procedura di indebitamento eccessivo per l’Italia, a colpi di lettere e di rivendicazioni del ruolo dell’Italia, che non bastano alla Commissione europea.

Conte mette sul tavolo 5 miliardi (2 facevano parte dell’accordo di dicembre) ma la Ue ne vuole 6 e dal conteggio esclude i 2 già congelati. Data cerchiata per la decisione, il 9 luglio, all’Ecofin. Ma la notte è lunga anche per i 27 leader europei, che ieri sera alla trattativa sui top jobs europei hanno dedicato una cena, con fumata nera scontata. Con loro, oltre a Tusk e Juncker, anche Federica Mogherini. Si devono decidere i nomi di presidente della Commissione, presidente del Consiglio, presidente del Parlamento, ma nel pacchetto c’è anche il presidente della Bce. Accordo difficile e in salita, soprattutto perché Angela Merkel vorrebbe alla guida della Commissione un tedesco (dunque, Manfred Weber) e Emanuel Macron si oppone. Il modo per provare a convincerla sarebbe dare alla Germania la guida della Bce, cosa che trova un muro condiviso.

L’Italia, però, è in affanno nel tentativo di far pesare la propria posizione geografica e lo status di paese storicamente europeo per evitare la procedura. Conte passa la giornata a “intercettare” i leader: non incontri in agenda, ma una serie di interlocuzioni. Con Tusk, con Juncker, soprattutto con la Merkel, che vede appena arriva e poi poco prima di cena. La Cancelliera gli riferisce il bilaterale con Macron e gli assicura che lo terrà aggiornato su quello che si decide ad altri tavoli. Il massimo a cui può aspirare l’Italia, con un governo che non fa parte delle famiglie politiche di maggioranza.

A Bruxelles il premier era arrivato dichiarando: “Il candidato ideale dell’Italia alla presidenza della Commissione è quello che si predispone a ridiscutere le nuove regole”. Che però non significa che l’Italia ha intenzione di romperle, ma che vuole avviare una fase costituente. In una pausa della cena, il premier chiarisce: “Le regole sono quelle, ma noi confidiamo che la Corte dei Conti a fine mese certificherà che i numeri sono quelli che gli faremo vedere noi”. E esclude una “manovra correttiva” perché “le nostre misure hanno dato più gettito”. Pur dicendosi “molto preoccupato”. A Palazzo Chigi si studia “un percorso tecnico” e “un percorso politico”. E al Commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, che dice: “Le regole vanno rispettate”, da Chigi si risponde viceversa che “devono essere interpretate”. A Malta, al vertice dei paesi Ue del Mediterraneo, Conte ha parlato con Macron: avrebbe incassato una buona predisposizione nei confronti dell’Italia. Ma poi per tutti c’è l’incognita Salvini. A sera a chi gli chiede se la Commissione si indurisce rispetto ad alcune frasi che arrivano da Roma, Conte risponde: “Sarebbe gravissimo”.

In questo scenario, l’Italia assiste alla trattativa sulle nomine da spettatore poco in grado di incidere. Tusk avrebbe assicurato che farà in modo di evitare un Presidente della Commissione ostile al nostro paese. Ma il risiko è complicato. Il bilaterale di Merkel e Macron si rivela un braccio di ferro. Ieri sera sui tavoli della cena c’erano ancora i nomi dei 3 Spietzenkandidat (oltre a Weber, Frans Timmermans per il Pse e Margarethe Vestager per l’Alde). Nessuno di loro parte con grandi possibilità. E nel borsino sale Michael Barnier, che andrebbe bene anche alla Spagna di Pedro Sanchez, attualmente il più forte nel Pse. Ma il corrispettivo – che sarebbe Weidmann alla Bce – non va bene a nessuno. Per il Consiglio ricorre il nome di Mark Rutte. Poco quotato anche perché c’è la necessità di bilanciare con una donna. Ma è tutta una girandola di nomi. Il rinvio potrebbe riservare sorprese: il 2 luglio l’Europarlamento deve votare il suo Presidente. Questo significherebbe “rompere” con un imprevisto la logica del pacchetto. L’Italia continua a far presente di volere un Commissario “economico di peso” (Commercio, Concorrenza o Mercato interno). In cima alla lista c’è Giancarlo Giorgetti. La trattativa è lontana.

La gaffe sui fondi per il Sud fa ripartire la secessione

In Parlamento bisogna stare attenti. È un’ovvietà che in questi giorni hanno appreso – dopo le epiche defaillance del Pd (fondi alle periferie, minibot, etc.) anche deputati e membri del governo grillini: l’allegro via libera, lunedì notte, a un emendamento della leghista Comaroli che intendeva esautorare il governo nazionale – e in particolare la ministra M5S Barbara Lezzi – dalla gestione del Fondo di sviluppo e coesione (decine di miliardi) a favore delle Regioni non solo ha costretto maggioranza e governo a un precipitoso dietrofront parlamentare, ma ha pure condannato i 5 Stelle a resuscitare le famigerate “autonomie regionali” che erano finite su un binario morto.

Festeggia il veneto Luca Zaia, ieri ricevuto al Viminale da Matteo Salvini: “Si sta scrivendo una pagina di storia che ridarà efficienza a tutta Italia e cambierà pelle alla Repubblica”. Sotto la retorica, c’è comunque il diktat: “Un’autonomia che comprende tutte le 23 materie consentite dalla Costituzione” (e richieste in modo assai estensivo dalla sua Regione). “Indietro non si torna”, sintetizza con apposita foto con Zaia e piccola ruspa postata sui social il ministro dell’Interno. Le intese con Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, però, difficilmente saranno in discussione “al prossimo Consiglio dei ministri”, come sostiene la Lega: i nodi politici, infatti, sono ancora tutti lì.

Breve riassunto dei fatti. Pietra dello scandalo è stato il Fondo di sviluppo e coesione (Fsc), che ha programmazione pluriennale (si sta concludendo il ciclo 2014-2020 da 60 miliardi) ed è coordinato dall’apposita Agenzia che fa riferimento al ministero per il Sud – quello guidato da Lezzi appunto – visto che l’80% dei fondi sono destinati proprio al Mezzogiorno.

Una proposta di modifica al decreto Crescita, frutto di una mediazione Lega-M5S, intendeva concedere la gestione diretta dei fondi del prossimo ciclo pluriennale alle Regioni che avessero speso bene i vecchi fondi: in sostanza, e com’è facilmente intuibile, quelle del Nord. Non è questo, però, il testo approvato: nella notte di lunedì in commissione Bilancio è passata invece la nuova formulazione della leghista Comaroli – col parere favorevole del relatore grillino Raduzzi e dell’altrettanto grillina sottosegretaria Castelli a nome del governo – che invece esautora del tutto il ministero e assegna a tutte le Regioni “la titolarità e la gestione di tutte le risorse Fsc destinate al territorio regionale”.

La ministra interessata, pur con 36 ore di ritardo, non l’ha comprensibilmente presa bene. Non è solo una questione di potere personale, ma anche di gruppo e progetto politico: i 5 Stelle hanno il ministero, ma nessun governatore. Va detto che “l’emendamento Comaroli” ha fatto rizzare i capelli anche alla Ragioneria generale dello Stato, che ha fatto notare per iscritto come il ciclo di programmazione 2021-27 “non è avviato né tantomeno finanziato con risorse statali” e quindi le modalità della sua gestione andrebbero “più utilmente e organicamente definite” più in là: tanto più che non essendoci ancora il Fondo “non si comprende cosa si intenda” con “titolarità e gestione delle risorse”. Il “parere contrario” della Ragioneria non è servito a bloccare l’emendamento, l’incazzatura di Lezzi sì: ieri il decreto Crescita è tornato in commissione per alcune modifiche, compreso lo stralcio della norma incriminata. La versione finale sarà approvata oggi con la fiducia.

Problema: la “generosità”, per così dire, della Lega coincide – casualmente, sostengono gli interessati – col ritorno in auge del regionalismo differenziato. Subito dopo il Consiglio dei ministri di mercoledì sera, infatti, la Lega faceva sapere che le intese con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna “saranno al prossimo Cdm”, quello di mercoledì prossimo che dovrebbe votare l’assestamento del bilancio dello Stato nell’ambito della trattativa con l’Ue.

Difficile che sia così, ma il treno è ripartito. Ieri la ministra degli Affari regionali, la leghista Erika Stefani, ha visto brevemente Giuseppe Conte per poi mettere a verbale: “L’autonomia è ufficialmente incardinata. Con Conte abbiamo stabilito la road map sulle fasi finali della trattativa”. Tradotto: non c’è stato alcun passo avanti dall’inizio dell’anno sui tre testi, ma ora il premier inviterà i ministeri “non pervenuti” a fare un passo avanti e trattare con la Lega (ma per questo servirà un accordo politico tra i due capi).

Com’è noto, manca del tutto l’accordo – in particolare sulle proposte di Lombardia e Veneto – con Salute, Ambiente, Infrastrutture, Cultura, Lavoro e Sviluppo economico. Col ministero dell’Economia c’è una sorta di pre-intesa generica, ma all’ultima occasione in cui gli è stata chiesta un’opinione il ministro Giovanni Tria ha definito alcune proposte delle Regioni interessate “fuori dalla Costituzione”. E la potestà esclusiva su soldi e patrimonio sono un bel pezzo del regionalismo differenziato come lo concepiscono Zaia e soci (Salvini, pur non del tutto convinto, deve lasciar fare).

Che il treno delle autonomie, pur ripartito, sia lontano dalla stazione lo dicono le parole di Luigi Di Maio: “Il punto qui è politico e lo evidenzio senza mezzi termini: a questo Paese serve un grande piano per il Sud. E l’unico modo coerente e corretto per affrontare l’Autonomia è elaborare soluzioni per il Sud”. Vaste programme, diceva un tizio. Del resto la road map strappata dalla Stefani non è un orario ferroviario e d’altronde, nonostante Salvini, i treni insistono a non arrivare in orario.

Almeno scusatevi

Il 23 gennaio 2009 il Fatto non esisteva ancora, se non nella mente e nelle speranze di un pugno di giornalisti stufi della censura e dell’autocensura dei giornaloni. Chi scrive collaborava ancora con l’Unità. E raccontò in beata solitudine la storia di Gabriella Nuzzi, la pm di Salerno appena punita dal Csm insieme al collega Dionigio Verasani e al suo procuratore Luigi Apicella. Quest’ultimo fu sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e se ne andò in pensione, mentre i due giovani pm furono cacciati da Salerno – su richiesta del cosiddetto ministro Angelino Alfano e fra gli applausi del presidente Giorgio Napolitano e del suo degno vicepresidente Nicola Mancino – col divieto di svolgere mai più le funzioni inquirenti. La stessa gogna era toccata pochi mesi prima a Luigi De Magistris per le sue indagini sul malaffare a Catanzaro. Nuzzi e Verasani pagarono quelle sulle denunce di De Magistris contro chi gli aveva scippato le inchieste in Calabria, ma anche su quel giglio di campo di Vincenzo De Luca. Il Csm li definì “eversivi” e le loro indagini “finalizzate alla destabilizzazione e all’eversione dell’istituzione dello Stato”. Invece non avevano fatto che il proprio dovere, sequestrando un mese prima a Catanzaro le carte dell’inchiesta Why Not negate da mesi dai colleghi calabresi (che si ribellarono con una controindagine illegale e un controsequestro eversivo: due atti spacciati da Napolitano e dai giornaloni per uno “scontro fra Procure”).

Il presidente dell’Anm, anziché difenderli, si felicitò col plotone di esecuzione di Palazzo dei Marescialli per la “risposta sollecita” a una “pagina nera” della storia della magistratura e perché “il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi”. Così, quel 23 gennaio di dieci anni fa Gabriella Nuzzi, privata delle funzioni, umiliata e costretta a emigrare a Latina col figlio appena nato, scrisse una lettera al presidente dell’Anm per dimettersene. Il presidente era Luca Palamara, già leader dei centristi di Unicost. Ma anche il segretario Giuseppe Cascini, progressista di Md, e i conservatori di MI si unirono ai festeggiamenti per la fucilazione dei tre colleghi “rei” di indagare secondo la Costituzione. Nel novembre scorso la Corte d’appello di Salerno ha confermato la bontà della loro indagine sullo scippo illecito dei fascicoli Why Not e Poseidone dalle mani di De Magistris da parte dei superiori, legati a filo doppio agli imputati chiave: un abuso d’ufficio, ormai prescritto, commesso dall’allora procuratore aggiunto Murone, dall’allora Pg Favi, i parlamentari FI Pittelli e Galati, il ras della Compagnia delle Opere Antonio Saladino.

In un paese serio, quei pm verrebbero reintegrati e risarciti con tante scuse. Invece, curiosamente, contro i provvedimenti del Csm non c’è possibilità di revisione. Qualcuno potrebbe almeno scusarsi, ma nessuno lo fa. Ora Gabriella Nuzzi ha rilasciato una bella intervista al sito di Micromega, squarciando il velo d’ipocrisia che avvolge lo scandalo Palamara-Lotti-Ferri-Csm: “Sorprende che ci sia voluto un trojan nel cellulare di Palamara (peraltro attivo solo pochi giorni) per ‘scandalizzare’ le correnti e porle di fronte alle macerie di un disastro che, assai colpevolmente, hanno contribuito a provocare”. Oggi Cascini, membro del Csm sempre per Md, tuona contro la “nuova P2”. Ma nel 2009 partecipava con Palamara alla fucilazione dei tre colleghi che pestavano i piedi sbagliati. Sai le risate se allora un Trojan fosse stato inoculato nel cellulare di Palamara, o di un altro capocorrente, o di un membro del Csm. Avrebbe immortalato trame ben più gravi, dal Quirinale in giù, di quelle che oggi scandalizzano tanti tartufi: perché non si parlava di nominare tizio o caio alla Procura di Roma, ma di stroncare la carriera a chiunque si azzardasse a mettere il naso nei santuari politico-affaristico-massonici della Calabria. Prima De Magistris, poi i tre pm di Salerno, infine la gip milanese Clementina Forleo che aveva osato difenderli in tv. Del resto, nel 2012, appena la Procura di Palermo intercettò i telefoni di Nicola Mancino, ex numero 2 del Csm sospettato di falsa testimonianza sulla Trattativa, si imbatté nei suoi traffici con Napolitano, il consigliere giuridico del Quirinale e due Pg della Cassazione per dirottare l’inchiesta Stato-mafia lontano da Palermo.

Purtroppo nessuna intercettazione coincise con altre pagine nere del Csm e della magistratura associata: altrimenti avremmo ascoltato in diretta i diktat di Napolitano sul contrasto fra il procuratore milanese Edmondo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo, affinché il Csm cacciasse quello sbagliato: cioè Robledo. O quelli per punire i “colpevoli” dell’inchiesta Trattativa, Francesco Messineo e Nino Di Matteo. O per cancellare il voto del Csm che aveva osato votare il candidato più titolato alla Procura di Palermo, Guido Lo Forte, anziché il più “affidabile” Franco Lo Voi. E le pronte obbedienze a 90 gradi delle correnti di destra, centro e sinistra, sempre appecoronate ai piedi del Colle. Tutte queste vergogne non portano soltanto la firma di Palamara, comodo parafulmine per scaricare tutti gli scandali, come se avesse fatto tutto da solo. Ma anche quelle degli altri papaveri togati, sempre usi a trasvolare dall’Anm al Csm ai vertici di Procure, Tribunali e Cassazione senza soluzione di continuità. E a obbedire agli ordini della politica e del Quirinale, con tanti saluti all’indipendenza e all’autogoverno della magistratura. Noi, che passiamo per difensori d’ufficio delle toghe, siamo orgogliosi di averli sempre bastonati. E di aver sempre difeso chi, come Gabriella Nuzzi, indaga senza guardare in faccia nessuno. Il Fatto è nato ed esiste anche per questo.

Serve la “Febbre” per dare un nome alle cose

“Il virus dell’Hiv appartiene al mondo, soprattutto. Riguarda più voi, che me. È il risultato di una sovrapposizione di sguardi, strato su strato”. Quando Jonathan Bazzi scopre di essere sieropositivo ha 31 anni e tutto comincia con un sintomo: la febbre. Costante, che sale e scende, che lo fa sudare ogni notte e non passa mai. Ed è proprio Febbre il titolo del suo libro, un racconto in prima persona della sua vita prima e dopo l’Hiv. Un’autobiografia sincera, brutale, ironica e profonda. Un romanzo d’esordio nato dall’esigenza di condividere e incoraggiare a “superare la cultura del segreto, dell’omertà, della vergogna”. Tutto comincia in quella che Bazzi definisce il Bronx del Nord: “Sono cresciuto a Rozzano, cap 20089, un paese piccolo ma neanche poi tanto, all’estrema periferia sud di Milano, costruito in mezzo alla campagna che costeggia il Naviglio, in direzione Pavia”. In questo quartiere che è “una specie di Sud senza il calore del Sud”, Jonathan nasce da “genitori troppo giovani”, impreparati al suo arrivo. “Non mi sono mai sentito il progetto di nessuno dei due. Mia madre dice che anche se la mia nascita non è stata programmata, sono stato voluto. Poi però, finito in fretta l’amore, sono diventato il figlio di una famiglia che non c’era più”. Sua madre Tina ci prova, cerca di fare del suo meglio ma prima dei 13 anni Jonathan vivrà con i nonni. Suo padre Roberto, invece, andrà via di casa pochi anni dopo la sua nascita. Saranno il compagno Marius e sua madre a stargli accanto durante il periodo più difficile, quello che segue la diagnosi. Un periodo segnato dai dubbi, dalla paura, dalla depressione e dall’attesa che la cura faccia effetto.

Bazzi è un fiume in piena. Parla della sua omosessualità, dell’infanzia difficile, delle difficoltà a scuola e di chi lo chiamava “ricchiò, femminiell’, frocio, frì frì”. Ma anche delle prime esperienze sessuali, delle chat, e poi dell’amore della sua vita, Marius. Il libro alterna racconti del passato alla cronaca dettagliata che lo ha portato a dare un nome a quella maledetta febbre. Al centro dei ricordi di Jonathan c’è la famiglia. I nonni, gli zii ma soprattutto mamma e papà. “A voler essere onesti – si legge – non c’è proprio niente da ricomporre: una famiglia non c’è mai stata. Al massimo c’è stata una prova, un esperimento”.

Tutta la paura di Jonathan, però, si è trasformata in coraggio e poi in questo libro, una seduta di psicanalisi, uno flusso di coscienza. “Non mi sono mai pentito di aver parlato apertamente della mia condizione. Tante persone mi scrivono, mi ringraziano e ogni volta mi emoziono. Ma ci tengo a dire che non mi sento un attivista. Ho raccontato la mia storia di omosessuale, sieropositivo, nato in una casa popolare, balbuziente e senza famiglia”.

“Il nostro mondo, ma diverso”: così i classici leggono il futuro

Pubblichiamo stralci della “lectio” che Lesley Nneka Arimah terrà stasera a “Letterature”, il Festival internazionale di Roma che si svolge nella Basilica di Massenzio

Quest’intervento è focalizzato su un mio interesse letterario particolare, la fiction speculativa. Questa definizione, nell’uso che ne faccio, si riferisce a opere di narrativa in cui ritroviamo elementi fantastici che sono assenti dal mondo della realtà. Si tratta di storie che affondano le radici nel nostro passato e si ritrovano in modo consistente in quell’insieme di opere che definiamo “i classici”.

L’uomo ha sempre cercato di spiegare l’inspiegabile, usando l’immaginazione per colmare le lacune. Le storie a cui mi riferisco non esistono solo in quanto vestigia del passato, ma costituiscono una fonte di ispirazione per ciò che viene scritto nel presente, poiché vengono continuamente reinventate e reinterpretate sulla base del nostro attuale sentire. La fiction speculativa esiste da quando esiste l’immaginazione, come dimostrano le fiabe, i racconti popolari e la mitologia.

Ora mi concederò una breve digressione prima di procedere rapidamente verso l’evoluzione che la fiction speculativa ha subìto in tempi moderni e il futuro che attende i classici in quest’ambito specifico. Ho scoperto che quasi ogni opera di fiction speculativa rientra in una delle tre categorie che indico qui di seguito. Ho chiamato la prima “Il nostro mondo, ma diverso”. Le storie che rientrano in questa categoria non richiedono grandi costruzioni fantastiche perché l’autore usa come sfondo la struttura del mondo reale, aggiungendovi un guizzo particolare. Costruire un mondo è normale in ogni tipo di letteratura, sia realistica che speculativa. Spesso non ci rendiamo conto che è esattamente quello che avviene anche nella fiction realistica, perché in questo caso il mondo rappresentato ci è familiare. Se nel paese da cui proveniamo le forchette sono un oggetto comune, non sprechiamo tempo a spiegare di che cosa si tratta. Lo stesso vale per il denaro; non ci viene neanche in mente di spiegare che cos’è e perché scambiamo dei pezzi di carta con dei beni. Tutto questo fa parte del nostro mondo e di come è costruito. Gli autori di fiction storica a sfondo realistico sanno bene che cosa significa costruire un mondo, perché il loro compito è quello di riprodurre le convenzioni fisiche e culturali del passato attorno alle quali gravitano le vicende narrate. E sono proprio questi due aspetti a essere indispensabili nella costruzione di un mondo: quello fisico – ciò che indossano le persone, le strutture in cui vivono e lavorano e via dicendo – e quello culturale – i comportamenti, la gerarchia sociale, il successo, cose di questo tipo.

Nella fiction speculativa che rientra nella categoria “Il nostro mondo, ma diverso”, quest’ultima parte, il “ma diverso”, riguarda l’aspetto culturale, perché è lì che ha buon gioco la capacità di inventare e dare nuova energia a un mondo che è molto simile al nostro. Questo tipo di fiction lascia spazio all’analisi sociale: il mondo descritto è abbastanza familiare perché sia possibile esplorare o commentare le nostre convenzioni sociali.

La seconda categoria è “Il nostro mondo, radicalmente cambiato”. In essa rientrano i romanzi distopici, e pure quelli utopici, anche se questi ultimi vivono un momento di grande difficoltà. Le storie che appartengono a questa categoria si pongono in un rapporto antitetico con il mondo attuale, di cui immaginano una versione futura, a volte migliore, a volte peggiore della nostra.

La terza categoria è “Il mondo nuovo di zecca”. In essa l’autore inventa un mondo originale in ogni suo aspetto, da quelli fisici a quelli culturali. Alcuni ci sono familiari, come la gravità, le emozioni e via dicendo, ma in linea di massima tutto il resto è frutto della fantasia.

“La mia Italia è senza paura. Le donne? Professioniste”

Pochi credevano che Roberto Mancini fosse così bravo. Pochissimi pensavano che in quattro partite ufficiali della Nazionale, dopo appena un anno di gestione, avrebbe vinto sempre e, di fatto, conquistato la qualificazione all’Europeo dell’anno prossimo, il primo itinerante, gara inaugurale a Roma, finale a Londra. Non accadeva dall’86-87, l’allenatore era Azeglio Vicini e Mancini di quella Nazionale era parte attiva e qualificata. Altra affinità: prima del gol preso a Torino da Dzeko, l’Italia di Mancini non ne subiva da 600 minuti, proprio come 29 anni fa. Non basta. Dopo qualche astensione iniziale, gli azzurri hanno preso a segnare a ripetizione: 21 reti in 13 partite e con 15 giocatori diversi. Non c’è un bomber, né un leader: c’è la squadra.

Complimenti Roberto, da c.t. dell’Italia del calcio è riuscito a conquistare un popolo di diffidenti?

Conquistato no, perché basta perdere qualche partita e la gente cambia opinione radicalmente. È che venivamo da un momento difficile, il fatto di non essere andati ai Mondiali aveva deluso tutti e qualcuno pensava che non fossimo più in grado di rialzarci.

C’è un merito che si riconosce?

Quello no. Però credevo che in Italia ci fossero giocatori di valore, non potevano essere tutti scomparsi come sembrava. Così ho dato spazio a tanti giovani.

La nostra Nazionale ha già qualche campione in squadra?

I giovani possono diventare grandi, essere campioni è un discorso un po’ più complesso che riguarda la maturità e la continuità. È difficile dire dove possano arrivare ragazzi come Kean e Zaniolo.

Che cosa ha cambiato nella sua Italia?

Volevamo fare qualcosa di diverso e giocare in maniera diversa.

Così, per esempio, ha cominciato a convocare tanti ragazzi e spesso più di trenta elementi.

Questo l’abbiamo fatto nelle ultime due partite della stagione, contro Grecia e Serbia, perché eravamo a fine campionato e non potevo rischiare di chiamare calciatori che nel frattempo fossero già in vacanza. E poi, purtroppo, c’è sempre qualcuno che è infortunato e devo rimandarlo a casa.

Sì, però mi sembra che lei aggreghi più giocatori in modo da poter fare con loro dei piccoli stage di conoscenza.

Esatto. È vero che devo metterne più di uno in tribuna, ma intanto stanno con noi, imparano le nostre abitudini, si vedono, si conoscono.

Se dovesse attribuire una qualità alla sua Nazionale quale indicherebbe?

Non è attendista, non aspetta, è molto tecnica e gioca nella metà campo avversaria.

Anche lei preferisce far costruire il gioco da dietro.

Sì, più i difensori costruiscono e meno i centrocampisti si abbassano.

Come le è venuta l’idea del doppio centrale di centrocampo?

Non è stata una mia idea, avevo visto che Di Biagio aveva schierato Verratti e Jorginho in una delle partite in cui ha guidato la Nazionale prima che arrivassi.

Era contro l’Argentina, in amichevole, a Manchester.

Mi erano piaciuti e l’abbiamo riproposta. Ho sempre avuto nelle mie squadre un paio di costruttori a centrocampo.

Il sistema di gioco è ormai codificato ed è il 4-3-3. Quali sono, invece, i suoi principi tattici?

Squadra alta che gioca nella metà campo avversaria, in grado di tenere palla e di verticalizzare spesso.

Dal punto di vista del carattere?

Giocare senza paura.

Il contropiede?

Più facile che lo subiamo, ma è una variabile che mettiamo in conto.

Stiamo dominando il girone di qualificazione. Forti noi o deboli gli altri?

Rispondo con un esempio. Abbiamo incontrato la Grecia e l’abbiamo battuta in casa sua. Sappiamo che Grecia e Turchia si assomigliano molto e che hanno elementi di qualità. L’importante è non farli giocare perché altrimenti prendono coraggio e diventano temibili. E la Francia ha perso in Turchia.

Dove possiamo arrivare?

Dopo esserci qualificati aritmeticamente, e nel minor tempo possibile, dobbiamo dare minuti di gioco ai più giovani e continuare a crescere. Il processo è appena cominciato.

Mario Balotelli ha chiuso con la maglia azzurra?

No, non è fuori e lui lo sa. Ma sa anche che ormai è un uomo e deve cambiare, deve fare gol e deve ritrovare la fisicità che aveva prima. Mario l’ho lanciato io, quindi lo conosco bene. Per l’età e la qualità è uno dei migliori, dipenderà da lui. Il tempo dei giochi da ragazzi è finito.

In giorni come questi non posso non chiederle cosa pensa del calcio femminile in generale.

È migliorato sotto tutti i punti di vista. Sicuramente riconoscere anche alle calciatrici uno status di professioniste permetterebbe una crescita ulteriore del movimento.

Non crede che chi lo sottovaluta o, addirittura lo disprezza, capisca poco di calcio in assoluto?

Sinceramente non so perché lo sottovalutino. Se qualcuno pensa al calcio come a uno sport per soli uomini sbaglia, ogni disciplina ha una sua versione maschile e una femminile. Forse in Italia la mancanza, almeno fino a qualche anno fa, di un campionato di alto livello ha penalizzato la conoscenza del femminile.

Che effetto le fa sapere che Italia-Brasile di martedì sera ha avuto un’audience televisiva superiore a Italia-Grecia maschile?

Fa sempre piacere che una Nazionale, qualunque essa sia, venga seguita da una platea molto vasta. Resto convinto che se Nazionali fanno bene, oltre a trasmettere entusiasmo a tutti, sono da traino per l’intero movimento nel maschile e nel femminile.

Torniamo alla squadra dei suoi ragazzi. Se le dicessero che, al prossimo Europeo, arrivate tra le prime quattro, firmerebbe?

No.

“Le prove contro Lula sono solide, altro che complotto”

Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana, è stata un complotto per impedire a Lula di tornare presidente e riportare la destra al governo? È quanto sostiene un’inchiesta del sito Intercept, basata su materiali inediti, email private e messaggi vocali che ha promesso di rendere via via pubblici. Il Fatto ne discute con Rodrigo Chemim, magistrato del pubblico ministero dello Stato brasiliano di Paraná.

È attendibile l’inchiesta di Intercept?

È presto per dirlo. Gli avvocati e i sostenitori di Lula hanno sempre sostenuto che l’inchiesta giudiziaria fosse una persecuzione politica. Ma le prove in tribunale contro di lui nel caso dell’appartamento che ha ricevuto in regalo da un imprenditore non lasciano spazio per questa versione. Le prove sono state valutate, dopo la sentenza del giudice Moro, da altri otto magistrati in due diverse istanze della giustizia brasiliana (Trf e Stj) che hanno all’unanimità confermato la condanna di Lula. C’è anche una nuova condanna per altri 12 anni di reclusione, decisa da un’altra giudice, Gabriela Hardt, che ha sostituito Moro nel caso del sito di Atibaia. E ci sono altre otto cause penali contro Lula per vari reati di corruzione e riciclaggio che saranno affrontate da altri magistrati.

Le accuse di Intercept sono: contatti privati tra il pm Deltan Dallagnol e il giudice Moro prima del processo; suggerimenti all’accusa da parte di Moro, prima di questi processi a Lula; valutazioni politiche dei magistrati contro Lula e il suo partito che dimostrano la loro non imparzialità.

Da ciò che finora è pubblico, mi sembra precipitoso ipotizzare una collusione illegittima tra il giudice e la pubblica accusa. Contatti ​tra giudici e pubblici ministeri prima del processo sono normali nel modello brasiliano in cui non esistono Gip e Gup (giudici delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare) e in cui lo stesso giudice del dibattimento interviene anche nella fase preliminare.

I giudici avrebbero anche impedito a Lula, già condannato, di rilasciare un’intervista che avrebbe potuto rilanciare il candidato della sinistra e far perdere le elezioni alla destra di Bolsonaro.

Non ho titoli per parlare a nome dei pm di Lava Jato, ma i loro commenti in privato che sconsigliano di permettere un’intervista a Lula in carcere potrebbero essere legati al timore che l’inchiesta sulla corruzione venisse bloccata da un nuovo eventuale governo del Pt di Lula. Il candidato di Lula, Fernando Haddad, prometteva una riforma costituzionale per far tornare il pm subordinato al potere esecutivo. Ciro Gomes, candidato della sinistra che al secondo turno ha fatto confluire i suoi voti su Haddad, a proposito di Lava Jato aveva dichiarato che “era necessario far tornare la Procura nella sua scatola”. Naturale, in quel contesto, che i pm dicessero in privato di non volere l’elezione di Haddad.

Il giudice Moro si è presentato come arbitro, ma tra il 2015 e il 2017 parla con l’accusa e suggerisce le mosse per incriminare Lula.

Nella tradizione giuridica brasiliana è normale che i giudici parlino anche con pm e avvocati. Questa pratica si chiama “appello di orecchio”. Se si è travalicato, passando da conversazioni procedurali a fatti che compromettono l’imparzialità del giudice, scatta la nullità degli atti svolti dal giudice. Alcuni ministri del Supremo, la Corte costituzionale brasiliana, stanno già anticipando giudizi nel merito: il ministro Gilmar Mendes ha dato interviste sostenendo che Moro sarebbe stato “il capo” di Lava Jato e il pm Deltan uno “sciocco”, che otterrà il risultato di “annullare la condanna di Lula”. Ma quando il giudice Moro indica al pm il nome di una persona che potrebbe testimoniare, passa soltanto una notizia di reato che ha ricevuto dal suo ufficio, come stabilisce l’articolo 40 del codice di procedura penale. Il caso Lava Jato, come Mani Pulite in Italia, è diventato così noto che la gente cerca il giudice per trasmettere informazioni e lui, che non può indagare, deve girare le notizie al procuratore. Per ora non vedo violazioni dell’imparzialità. Ma la prudenza consiglia, per un giudizio definitivo, di attendere la pubblicazione di tutto il materiale promesso da Intercept. Già ora alcuni dialoghi sembrano a rischio: è il caso della richiesta fatta dal giudice Moro ai pm di criticare sulla stampa le contraddizioni di Lula nel suo interrogatorio. Obiettivo: depotenziare il discorso fatto in piazza da Lula dopo quell’interrogatorio, definito da Moro “spettacolino della difesa”. La richiesta di Moro ai pm può essere interpretata come semplice preoccupazione per evitare letture sbagliate della sua attività di giudice; oppure come consiglio procedurale alla Procura. In questo secondo caso violerebbe l’imparzialità e potrebbe provocare l’annullamento del processo.

Lava Jato si è presentata come grande inchiesta contro la corruzione, a destra e a sinistra. Ma gli unici effetti politici che ha raggiunto sono stati quelli di impedire la candidatura di Lula alla presidenza del Brasile e di far vincere Bolsonaro.

Ci sono 35 partiti politici in Brasile. Di questi, 33 sono obiettivi d’inchiesta di Lava Jato. Sono indagati anche i nemici politici dell’ex presidente Lula, come il deputato federale del Psdb Aecio Neves, che nel 2014 era un candidato alla presidenza del Brasile e ora è politicamente distrutto. Anche Eduardo Cunha, ex deputato federale del Pmdb che ha guidato l’impeachment contro la presidente Dilma, è stato condannato dal giudice Moro a 15 anni e 4 mesi di carcere ed è stato imprigionato dall’ottobre 2016. L’ex presidente Temer, anch’egli del Pmdb, considerato uno dei capi di quello che Lula e Dilma chiamano “colpo di Stato”, è stato arrestato due volte da Lava Jato. Negli ultimi tre anni, sono stati arrestati cinque ex governatori dello Stato di Rio de Janeiro. Nello Stato del Paraná, l’ex governatore Beto Richa del Psdb, il partito nemico del Pt e di Lula, è stato arrestato tre volte nell’ultimo anno. L’attenzione dei media internazionali si concentra su Lula, ma le conseguenze politiche negative sono state subite da tutti i partiti. Poi è successo in Brasile qualcosa di simile a ciò che è capitato dopo Mani Pulite in Italia: Silvio Berlusconi ha approfittato del vuoto del potere e ha vinto presentandosi come “estraneo” alla politica; da noi ne ha approfittato Bolsonaro.

Il giudice Moro, dopo aver condannato Lula, è diventato ministro di Bolsonaro. In Italia i pm di Mani Pulite Di Pietro e Davigo rifiutarono nel 1994 di entrare nel primo governo Berlusconi.

Non era appropriato saltare dalla magistratura alla politica. Ma posso capire quello che è successo al giudice. Proprio a causa della somiglianza tra Mani Pulite e Lava Jato, noi brasiliani temiamo che il nostro Paese possa seguire il destino dell’Italia: con Berlusconi, il Parlamento italiano ha approvato leggi che hanno svuotato i risultati di Mani Pulite. La paura che possa succedere lo stesso in Brasile ha spinto il giudice Moro ad accettare il ministero della Giustizia, per impedire l’azzeramento di Lava Jato.