Andrea, il Balzac di Porto Empedocle

Lo confesso. I romanzi di Montalbano sono stati per anni una delle mie droghe. Come ne usciva uno, ero il primo a prenderlo. E lasciavo qualsiasi altra lettura, qualsiasi altro lavoro, finché non l’avessi finito.

I limiti me ne erano, e sono, palesi. Trame un po’ cervellotiche. Un sotteso manifesto politico non sempre degno di un grande scrittore. Ma il piacere di narrare, il piacere di farsi leggere. In Camilleri c’è qualcosa di Soldati, uno dei sommi narratori degli ultimi decennî, che ancora non è stato riconosciuto da tutti per tale. E poi: costruire i cicli è da pochi. Il ciclo narrativo ti dà la rassicurazione di trovare luoghi e personaggi familiari sempre lì, immobilizzando l’edax tempus, e dà anche a te l’illusione di non invecchiare. Ma per costruire un ciclo senza renderti ridicolo o stucchevole, devi essere un grande scrittore. Devi essere Dumas e Balzac. Camilleri è stato il Balzac di Porto Empedocle. E poi, non è nemmeno vero che i romanzi di Montalbano siano solo cosa commerciale: come il ciclo televisivo avente a protagonista il bravo e antipatico Zingaretti. Ci sono finezze psicologiche nelle figurette dei comprimarî; c’è l’acre ironia con la quale vengono descritti il Questore, il suo capo di gabinetto, i magistrati.

Camilleri ha lavorato tutta la vita da uomo di cultura, e anche da eccellente regista. Il successo gli è arriso tardi; chi potrebbe rimproverargli di aver voluto arrivare anche al successo commerciale? Il vero punto debole del ciclo Montalbano è una finta lingua, che non è siciliano e non è italiano, un’esca lanciata al lettore sprovveduto per far colore locale a buon mercato. In questo, Camilleri ha tradito la sua terra.

Montalbano muore con lui. Ma vivrà il resto della sua produzione, quella “alta”, che i romanzi commerciali hanno messo in ombra. Innanzitutto: c’è il grande indagatore di Pirandello e Sciascia, che meriterebbe subito un’edizione a parte. La Biografia del figlio cambiato (2000) è un’opera squisita ed erudita che da sola farebbe la grandezza di uno scrittore. Poi c’è un romanzo atrocissimo, basato su ricerche storiche e dedicato al clero siciliano. Esso è stato sempre il più corrotto, il più materialista, il più colluso con la mafia, il più interno alla gestione del potere e degli affari. Leggete La setta degli angeli (2011) e trasecolate di orrore e ammirazione. Leggete La bolla di componenda (1993). Dante occupa uno dei più sottili episodî teologici dell’Inferno, quello di Guido di Montefeltro, per spiegare il complessissimo meccanismo dell’assoluzione: onde un peccatore, divenuto santo penitente, va all’Inferno per un vizio di procedura. I preti siciliani vendevano le assoluzioni, bollate: col peccato e la data della sua commissione in bianco, da riempirsi dall’acquirente. Ognuno poteva ammazzare chi voleva e quando voleva.

E poi ci sono tanti altri romanzi meravigliosi. Ripeto: la capacità di Camilleri di inventare trame è straordinaria, e il piacere di narrare è degno di Soldati. Insieme con un’immaginazione di un grottesco loico ch’è al mille per mille siciliano, e lo fa erede di Pirandello, Sciascia, ma anche in parte dei siciliani orientali, Verga e De Roberto. La concessione del telefono, La stagione della caccia, Il figlio del Negus, La scomparsa di Cutò. Questo è il grande Camilleri. Che, nel rievocarlo, il meglio non venga schiacciato dal peggio.

 

Il salario minimo aiuta pure i sindacati

C’è un progetto di legge sul lavoro di grande importanza che sta seguendo il suo iter in Commissione Lavoro al Senato e che merita di essere illustrato. La sua portata è notevole, anche se su di esso si sono addensati i pareri più diversi. È il progetto n. 658 sul cosiddetto salario minimo legale, ma che in realtà ha un contenuto anche più vasto e importante. Vediamolo come esso è attualmente con gli emendamenti presentati dal M5S (quelli della Lega sono stati ritirati).

Gli articoli 1 e 2 espongono la vera essenza del progetto. Si tratta di una attuazione davvero generalizzata dell’art. 36 della Costituzione: il precetto rivolto al datore di lavoro di corrispondere ai lavoratori una retribuzione proporzionata e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro prestato. Essenziale, però, è il modo con cui viene concretato. Si tratta di corrispondere un “trattamento economico complessivo (…) non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore in cui opera l’impresa”. Questo è fondamentale per dissipare le obiezioni e i dubbi avanzati con riguardo ad altre proposte che si limitavano a stabilire per legge un salario orario minimo (esempio 8,50 euro, 9, ecc.) valido per ogni settore e per ogni qualifica. Così sarebbe letale per la contrattazione collettiva, ma il progetto n. 658 fa tutt’altro, perché estende a tutti i lavori un trattamento economico complessivo che si ricava dai contratti collettivi. Questa estensione è il vero nervo vitale del progetto. Si badi che “il trattamento economico complessivo” non è solo un salario orario, ma comprende maggiorazioni delle indennità, delle assenze retribuite, delle mensilità aggiuntive, ecc. È vero che l’articolo 2 prevede anche una tariffa minima oraria non inferiore a 9,00 euro lordi, ma nel quadro normativo descritto è una norma di chiusura che potrà essere applicata in concreto solo alle qualifiche più basse e nei settori marginali dell’economia che prevedono trattamenti più poveri. Una sorta di integrazione al minimo di salari orari delle qualifiche più basse.

Potrà accadere naturalmente che debbano essere corretti verso l’alto in questo modo anche i minimi tabellari previsti da alcuni contratti collettivi pur stipulati da sindacati confederali, ma questa è appunto una la lotta al “lavoro povero”. Importante è anche il fatto che secondo l’articolo 2 il riferimento al trattamento economico complessivo dei contratti collettivi vale anche per il lavoro parasubordinato, ossia per i co.co.co. Purtroppo al momento contempla solo le collaborazioni organizzate dal committente anche con riguardo ai tempi e ai luoghi di lavoro, laddove il riferimento dovrebbe essere in realtà generale per rendere veramente giustizia a questa categoria (le cosiddette false partite Iva).

L’articolo 3, poi, elimina anche l’obiezione che si è spesso sentita alla idea di estendere i trattamenti del contratto collettivo: il fatto che a volte per il medesimo settore esistono contratti collettivi diversi, alcuni decisamente peggiorativi. L’articolo 3 aggira il problema obbligando a riferirsi ai contratti più rappresentativi. Importante è poi che l’art. 4 preveda che il trattamento economico complessivo obbligatorio resta quello previsto dal contratto anche se scaduto (e fino al suo rinnovo). In questo modo il salario minimo non potrà indurre i datori di lavoro a disdette generalizzate dei contratti collettivi. Di notevole rilievo, infine, è la previsione (art. 4 quater) di un procedimento giudiziario del tutto simile a quello dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori in caso di comportamenti datoriali “diretti a impedire o limitare l’applicazione delle disposizioni della presente legge”. La legittimazione processuale attiva è riconosciuta alle organizzazioni sindacali le quali, quindi, sono per ogni verso valorizzate e non certo emarginate da questo progetto.

E veniamo alla portata politica, che è di grande respiro, perché riguarda direttamente, e per la prima volta, quella parte di popolazione povera e sottooccupata che sopravvive in condizioni di sotto-salario e di carenza di sicurezza e tutela, fuori dal “cono di luce” degli “standard” di contrattazione collettiva. Se questi diventassero generali e obbligatori si aprirebbe una stagione nuova anche per tutti i soggetti politici e sindacali che volessero essere protagonisti di un grande processo emancipatorio. In ogni piccolo Comune potrà, per esempio, essere aperto un “sportello dei lavoratori poveri e disoccupati” per applicare la nuova legge e nulla impedisce che venga realizzato non solo da organizzazioni autonome e settoriali, come sicuramente accadrebbe, ma anche e anzitutto dagli stessi sindacati confederali, che in quel progetto dovranno, pertanto, intravedere non una sorta di interferenza in consolidate relazioni industriali, ma una importante opportunità di rilancio della loro azione.

 

Crisi M5S. L’unica salvezza è staccare la spina e tornare all’opposizione

Da lettore del “Fatto” noto una schizofrenia di giudizi espressi sul M5S dopo le elezioni europee 2019. Però finora nessuno ha spiegato il crollo al 17%, perché – se questo era prevedibile – nessuno lo ha messo in conto prima del voto? E poi perché quei voti sono andati a Salvini o in astensione? Non è forse perché gli elettori si aspettavano un atteggiamento simile al programma di Salvini? Travaglio ha fatto riferimento alla vera realtà del Paese e non a quella finta della tv, per cui perché il M5S dovrebbe sentirsi responsabile di quel crollo? Di Maio ora deve pedalare per risalire la china, dice Scanzi, che non spiega però i veri errori del M5S che hanno prodotto quel crollo. Gli elettori del M5S se cambiano voto preferiranno sempre votare Salvini e non il Pd.

Michele Lenti

 

Gentile Lenti, ho cercato di spiegare il crollo 5Stelle praticamente ovunque: su queste pagine, in tivù, nella mia pagina Facebook. Lei, però, mi impone di tornare sull’argomento. E sia. Il crollo era prevedibilissimo, anche se non in queste proporzioni, solo che ogni volta che lo dicevo partiva la litania talebana dei “sondaggi pilotati”. (Ri)cito qui alcuni dei tanti motivi. Non aver saputo comunicare quanto fatto al governo (più della Lega). Un’informazione quasi sempre astiosa. La sensazione d’esser proni a Salvini. Un Di Maio prima troppo mansueto e poi troppo barricadero. L’osceno salvataggio di Salvini sulla Diciotti. Alcuni esponenti di governo surreali. Alcune baracconate (tipo Di Maio sul balcone). Soprattutto: essersi fidati come polli di Salvini, uno che i 5Stelle se li mangia a colazione. Dopo la scoppola, certo più severa delle colpe effettive, Di Maio barcolla. Lo capisco: per lui è durissima. Ma più si imbullona alla poltrona e più i 5Stelle evaporano. Il voto al M5S è un voto “esigente”: infatti i “nuovi astensionisti” sono più che altro persone di sinistra che mai torneranno al Pd (Zingaretti è a oggi attrattivo come una sogliola suicida) e che avevano dato ai 5Stelle l’ultima possibilità per riappassionarsi alla politica. Quando ho alluso al “pedalare per risalire la china”, ho citato l’amico Peter Gomez. Per quanto mi riguarda, il 26 maggio il governo è morto e quello attuale non è che un cadaverino. Scriverne è noiosissimo. È come parlare coi morti, e io non sono un medium. L’unica salvezza, per i 5Stelle, è staccare la spina e tornare a fare opposizione. Nel frattempo avremo il Salveloni, la terza stazione del calvario dopo Renzusconi e Salvimaio. Condoglianze e buona catastrofe.

Andrea Scanzi

Mercatone Uno, Cig straordinaria nel 2019 per 1.800 lavoratori

È in arrivo la cassa integrazione straordinaria per i 1.800 lavoratori di Mercatone uno lasciati a casa dopo l’improvviso fallimento dell’acquirente Shernon Holding, su cui è in corso un’inchiesta per bancarotta fraudolenta. La svolta è arrivata nel corso dell’incontro al ministero dello Sviluppo economico tra il vice capo di gabinetto del Mise Giorgio Sorial, il sottosegretario Davide Crippa, i rappresentanti delle Regioni coinvolte, i sindacati e i tre nuovi commissari straordinari del gruppo, estratti a sorte due giorni fa: si tratta di Giuseppe Farchione, Luca Gratteri e Antonio Cattaneo. Secondo il verbale che hanno firmato le parti, la cig straordinaria partirà dal 24 maggio (giorno in cui il tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento della Shernon) e durerà fino al 31 dicembre 2019. I lavoratori non percepiscono lo stipendio dal mese di aprile, quando ne hanno ricevuto solo due terzi.

Intanto, come già altre banche, anche Unicredit ha deciso di dare la possibilità ai lavoratori di Mercatone Uno in difficoltà di sospendere le rate dei mutui della casa per un periodo fino a dodici mesi.

Triste fine per l’Air Force Renzi: dai cieli alle aule di tribunale

Da simbolo ostentato del potere a rottame: più che una parabola discendente quella dell’Air Force Renzi è una picchiata. È passato poco più di un anno da quando quel jet preso a carissimo prezzo in leasing dallo smanioso Matteo (il valore del contratto era di circa 150 milioni, 70 solo per l’affitto) avrebbe dovuto illustrare la ritrovata grandeur italica. Ma è come se fosse passato un secolo, quell’aereo non lo vuole più nessuno, come se non avesse padri e madri, come se quelle ali scottassero. Non lo vuole Alitalia, che lo considera un fardello ingombrante e inutile. E non lo vuole nemmeno Etihad, la compagnia di proprietà dell’emiro di Abu Dhabi che aveva dato in leasing il jet alla stessa Alitalia a condizioni e a un prezzo che gli esperti del ramo considerano più da amatori che di mercato.

Anche la Presidenza del Consiglio è spiazzata da quell’aereo. Ai tempi di Renzi in quegli uffici si dettero tanto da fare per mettere a disposizione del capo del governo proprio quel tipo di velivolo (un Airbus A340/500), anche se molti sapevano che era un mezzo bidone e nella flotta di Stato c’erano già una decina di jet più validi e di grandi dimensioni adatti allo scopo. E tanto si prodigarono perché con un’altra bella spesa a carico dei contribuenti il jet di Renzi venisse allestito in configurazione vip per le lunghe trasvolate così da rendere confortevoli gli spostamenti di un così influente capo di governo.

Oggi a Palazzo Chigi ci sono altri inquilini che dopo aver bloccato lo scandalo di un aereo inutilmente strapagato, probabilmente non sanno più come comportarsi. Proprio un anno fa il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio e il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli si fecero fotografare sorridenti e soddisfatti accanto alla scaletta dell’aereo esibito come un trofeo di guerra informando cittadini ed elettori che grazie al pronto intervento dei nuovi governanti lo Stato italiano stava risparmiando un centinaio di milioni di euro. Sicuramente quelli che con l’Air Force Renzi sorridono sono gli avvocati perché, come quasi sempre succede in Italia, anche la storia dell’aereo più ambizioso del mondo è finita nelle aule dei tribunali. Non uno, ma due: a Roma in un giudizio amministrativo davanti al Tar per un contenzioso avviato dagli arabi di Etihad. E a Milano per una causa civile promossa da Alitalia. E non è finita perché indaga anche la Corte dei conti e, sorrette da un puntuale lavoro della Guardia di finanza, stanno arrivando a un punto di svolta anche le indagini promosse dalla Procura della Repubblica di Civitavecchia, titolata a giudicare sulle faccende di Alitalia.

Nelle settimane passate sono stati consegnati avvisi di garanzia a quasi tutti i personaggi di vertice della ex compagnia di bandiera ai tempi di Etihad e dell’affare Renzi. E al Fatto Quotidiano risulta che James Hogan, all’epoca vicepresidente di Alitalia in rappresentanza di Etihad, sia stato trattenuto per alcune ore in una saletta dell’aeroporto di Ginevra in attesa che rappresentanti degli inquirenti italiani potessero consegnargli documentazione di natura legale. Non è chiaro se in quelle carte si facesse riferimento anche alla vicenda dell’aereo di Matteo Renzi.

Il giudizio del Tar del Lazio è stato chiesto da Etihad, compagnia rappresentata legalmente in Italia dall’avvocato Antonio Di Pasquale dello studio Hogan Lovells. Secondo Etihad sarebbe illegittima la rescissione del contratto decisa da Alitalia su sollecitazione del governo gialloverde. È proprio per questa ragione che Etihad si rifiuta di riportare l’aereo di Renzi ad Abu Dhabi, perché se lo facesse riconoscerebbe implicitamente la fondatezza della rottura del contratto. Anche se c’è chi ritiene che la compagnia araba non si riprende il velivolo perché non le conviene essendo il valore di quel jet ormai così basso da non coprire le spese del viaggio di rientro.

Sul versante opposto, Alitalia ha avviato un’azione civile al Tribunale di Milano proprio per costringere Etihad a riprendersi l’aereo. È per questo che ora a Fiumicino trattano l’Air Force Renzi come una zavorra con le ali e lo tengono al riparo in un hangar se c’è posto ma se, invece, l’hangar serve per altro, lo mettono senza tanti complimenti alle intemperie a prendere la ruggine. La brutta storia dell’aereo di Renzi fu scoperta un anno fa da Gaetano Intrieri, allora consigliere del ministro Toninelli poi allontanato. Il quale, anche alla luce di ciò che è successo dopo, ribadisce: “È una truffa, qualcuno ci ha mangiato su con quell’aereo, non spetta a me dire chi, ma ci ha mangiato”.

Lavoro, +207 mila i contratti stabili. Giù i determinati

Nel primo trimestre 2019 l’occupazione è lievemente aumentata sia rispetto al quarto trimestre 2018 sia su base annua. Rispetto agli ultimi tre mesi del 2018 le posizioni a tempo indeterminato stando ai dati destagionalizzati delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sono salite di 207 mila mentre quelle a tempo determinato si sono ridotte di 69 mila. E sono calati di 20 mila unità anche i lavoratori in somministrazione, dopo 23 trimestri di crescita. Lo indica la Nota trimestrale sull’occupazione pubblicata da Istat, ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal. Il calo delle posizioni lavorative a termine è il primo dal secondo trimestre 2016. A spiccare è il numero di trasformazioni di contratti da livello determinato a livello indeterminato grazie al decreto Dignità in pieno vigore. Si tratta di dati molto diversi da quelli Istat – che sul primo trimestre davano un aumento complessivo degli occupati di 25 mila unità per effetto di un aumento dei permanenti e di un calo degli a termine – perché riguardano tutte le attivazioni, proroghe e trasformazioni di contratti da parte dei datori di lavoro. Nel complesso l’occupazione rispetto al quarto trimestre 2018 è cresciuta dello 0,4% e dell’1,1% su base annua.

Monumento ai portavoce caduti della Casellati

Va costruito al più presto un monumento ai portavoce del presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. L’ultimo caduto, il quarto in un anno, è Anna Laura Bussa, che s’è dimessa dopo tre mesi di incarico e dopo l’addio di Massimo Perrino, Antonio Bettanini, Maurizio Caprara. Comunicatori professionisti oppure stimati giornalisti, nessuno è riuscito a soddisfare (e sopportare) le aspirazioni mediatiche di Casellati, che al solito non riflettono il principio di realtà. Sarà l’alta quota dell’alta carica. Deve essere compito immane imbellettare la figura di un presidente del Senato che per i suoi capricci fa indignare il personale di Alitalia, che per i suoi interessi fa coincidere i viaggi istituzionali con i concerti del figlio Alvise (è accaduto l’anno scorso a New York), che omaggia la Fondazione Iseni promotrice dei progetti sul cicloturismo della figlia Ludovica, che ha trasformato l’appartamento di palazzo Giustiniani in un salotto romano per cene di vario tipo, che ha allestito attorno a sé un’ampia corte di ferro e altri, tanti, racconti o aneddoti che il Fatto ha segnalato. Niente, però, scalfisce le ambizioni di Casellati, che da Palazzo Madama s’immagina a Palazzo Chigi per un governo di emergenza nazionale o al Quirinale dopo Sergio Mattarella. E siccome ancora non si odono folle adoranti davanti a Palazzo Giustiniani, tranne il continuo andirivieni dei commensali, ecco che licenzia o fa licenziare chi le porta la voce, non potendo licenziare se stessa. Perché lo specchio che ci riflette, citando Jorge Luis Borges, è troppo abominevole per accettarlo. Avanti un altro specchio.

La grande fuga dall’Irpef, sempre più iniqua (ed evasa)

Inefficiente e ingiusta: è questa la carta d’identità che emerge dal settimo rapporto sull’Irpef presentato ieri da Lef, l’associazione per la legalità e l’equità fiscale. Lo studio fotografa un sistema impositivo che lascia la porta aperta a un’evasione di massa per almeno 35 miliardi di euro l’anno su un totale di oltre 100, che richiederebbe invece un ingente incremento delle risorse umane impiegate nei controlli. Seppure ancora molto popolare, con i suoi 40 milioni di contribuenti, intere categorie risultano in fuga dalla progressività dell’Irpef. La lettura delle dichiarazioni presentate non è solo un esercizio di statistica fiscale, ma anche uno spaccato sociologico della società e dei comportamenti dei cittadini. Perlomeno di quelli che ancora fanno la denuncia dei redditi, anche se non tutti versano quanto denunciato tra una rottamazione, un condono e una cedolare secca.

Dal 2003 al 2017 la somma degli ammontari noti al fisco nelle quattro categorie di reddito da lavoro autonomo, impresa, da partecipazione e altri redditi è inferiore al solo reddito da pensione. Ed è pari a circa il 38-40% del reddito da lavoro dipendente nel periodo 2003-2007, per attestarsi attorno al 35% nel periodo 2008-2010, oscillare fra il 34% e il 30% nel periodo 2011-2016 e scendere per arrivare al 26% nel 2017, ultimo anno d’imposta disponibile per le statistiche in attesa delle dichiarazioni presentate nel 2019.

L’aumento del reddito complessivo denunciato dai circa 655 miliardi di euro ai quasi 824 del 2017, va di pari passo con l’uscita di alcune tipologie di reddito dal campo di applicazione dell’imposta: in particolare i redditi da capitale, gran parte dei redditi immobiliari e una parte dei redditi derivanti dall’esercizio di un’attività economica. Un fenomeno determinato anche dal costante diminuire del numero di soggetti che ufficialmente esercitano attività d’impresa, prevalentemente artigiani e commercianti. Rispetto al 2003 sono il 28,3% in meno. Le tre tipologie di reddito dichiarato, da lavoro autonomo, impresa e partecipazione, invertono il trend e crescono rispetto al Pil nominale e reale con percentuali a due cifre solo nel biennio 2006-2007, quando, annota lo studio, sono stati introdotti sistemi di tracciatura dei trasferimenti economici. Nel 2008 e nel 2009 si verifica una brusca inversione di tendenza in concomitanza con l’abolizione delle norme anti-evasione e di recupero della base imponibile. Si stima che il solo reddito da capitale posseduto dalle persone fisiche e sottoposto a imposta sostitutiva sia pari a circa 10 miliardi nel quinquennio 2011-2017.

La somma dei redditi che sfuggono ogni anno alla progressività dell’Irpef arriva a circa 43 miliardi, pari a circa il 5,22% del reddito complessivo dichiarato. Una fuga che non potrà che aggravarsi nel 2019, quando alla contabilizzazione si aggiungeranno i contribuenti che hanno aderito alla nuova Flat tax, stimati in circa 1,1 milioni di partite Iva. Il risultato è che ormai i redditi da lavoro dipendente e da pensione sostengono l’82% del reddito complessivo dichiarato nel regime dei 5 scaglioni e delle 150 detrazioni e deduzioni dell’Irpef. Nella curva della progressività, molto accentuata, i redditi medi sono i più penalizzati. Il peso maggiore dell’Irpef grava sui contribuenti con reddito complessivo compreso fra i 35 mila e i 50 mila euro, che subiscono una pressione media del 24,04%, contro il 19,63% registrato nel 2017 su tutti i dichiaranti Irpef. A tutti vanno aggiunte le addizionali regionali e comunali.

Lo studio segnala sempre nel 2017 uno squilibrio a vantaggio dei redditi sopra ai 50 mila euro e una sostanziale concentrazione del prelievo sui redditi medi fra i 20 mila e i 50 mila euro. Il complesso sistema di agevolazioni che coprono a pioggia e spesso in modo casuale tutti i settori di spesa ridisegna la curva delle aliquote formali in effettive. Detrazioni e deduzioni favoriscono solo coloro che possono abbattere in questo modo l’imposta dovuta. Ormai sono oltre 15 milioni i contribuenti che non possono dedurre nulla per incapienza, cioè per mancanza di imposta da pagare. Sono i più poveri e in questo modo vengono doppiamente penalizzati senza che lo Stato possa riconoscere loro il dovuto. Lo studio propone al riguardo l’uovo di colombo già sperimentato nell’America di Obama: l’introduzione di un’imposta “negativa” che comporta il versamento da parte dell’amministrazione finanziaria dell’importo maturato con le agevolazioni, in tutto o in parte. A ben vedere nel nostro ordinamento esiste già qualcosa di simile. Il credito d’imposta degli 80 euro è sostanzialmente un’erogazione diretta di denaro al lavoratore tramite il datore di lavoro. Ma anche il bonus di Renzi perderebbe questa caratteristica se rientrasse nelle tax expenditures classiche.

Infine il contrasto all’evasione. Le tabelle di Lef e i dati dell’Agenzia delle Entrate che comparano l’andamento del Pil con i redditi e l’imposta indicano che i controlli dell’amministrazione finanziaria hanno inciso sull’aumento dell’adesione spontanea dei contribuenti sottoposti ad accertamento solo nei tre anni successivi e non hanno avuto un effetto di deterrenza sugli altri evasori.

Retromarcia di Toti: torna da B. per fare il ticket con Carfagna

Dunque alla fine Giovanni Toti potrebbe addirittura restare dentro Forza Italia. Ieri, dopo mesi di gelo e scontri col governatore della Liguria che sembrava già fuori dal partito, Berlusconi e Toti si sono visti, a pranzo, in Palazzo Grazioli. Dov’è stato sottoscritto una sorta di accordo secondo cui il governatore, insieme a Mara Carfagna, scriverà le regole del congresso azzurro da tenersi entro la fine dell’anno. Regole che potrebbero includere anche le primarie, chieste da tempo da Toti. Nel team congressuale entreranno anche Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini, con la supervisione di Antonio Tajani, ma saranno Toti e Carfagna, rispettivamente in rappresentanza di nord e sud, ad avere in mano il boccino. Una clamorosa retromarcia del governatore, dunque, che da tempo chiede di superare FI per dar vita a una nuova forza insieme a Lega e Fdi. Ma che finora non era arrivato alla rottura anche, forse, per i sondaggi davvero poco incoraggianti sul nuovo partito. Ma potrebbe anche trattarsi, da parte di B., di una sorta di tregua con Salvini in chiave elettorale, visto che Toti viene considerato più vicino al vicepremier che all’ex Cavaliere. Ci si prepara al voto?

Quella non è legittima difesa: cari penalisti, spiegatelo bene

Un appello agli avvocati di Catanzaro per smontare la propaganda sulla legittima difesa. È l’iniziativa di Jasmine Cristallo che nelle settimane scorse, proprio dalla Calabria, aveva fatto partire la “rivolta dei balconi” dando vita a una nuova stagione del dissenso dal basso che ha accompagnato la campagna elettorale per le europee del ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Un appello lanciato sulla pagina facebook del sito “La Nuova Calabria” che ha pubblicato un video in cui Cristallo ha spiegato la necessità di una nuova narrazione sul tema della legittima difesa monopolizzata, sui social, da messaggi “fuorvianti e piuttosto pericolosi” come quelli di Salvini e della Meloni all’indomani dell’episodio del tabaccaio che ha ucciso un rapinatore sparando da un balcone a Pavone Cavanese, in provincia di Torino.

Jasmine Cristallo si “rifiuta di risultare indifferente” all’hashtag #iostocoltabaccaio dei due esponenti politici del centrodestra. “Non voglio – dice – che il mio appello risulti uno strumento politico. La mia posizione non deve portare acqua a nessun mulino. Se una persona nel cuore della notte sente dei rumori al piano di sotto, si alza e invece di chiamare il 113 decide di affacciarsi alla finestra e di farsi giustizia da solo, non è più legittima difesa. Il tabaccaio senza dubbio è una vittima di episodi gravissimi. Però questa disperazione non può essere cavalcata da chi vuole ottenere consensi. Bisognerebbe evitare che passino messaggi devianti”.

Alcuni penalisti di Catanzaro hanno già risposto all’appello illustrando la riforma sulla legittima difesa “in maniera pratica e senza tecnicismi”. “Qui – conclude Cristallo – non è più un problema politico ma è un problema etico, un problema morale. È necessario che determinati messaggi arrivino anche alla famosa casalinga di Voghera”.