Caso Rixi, il vicepremier snobba i pm

Davanti ai magistrati non si è presentato. Un legittimo impedimento suo, il pranzo al Quirinale in vista del Consiglio europeo e un impedimento professionale del suo avvocato, Claudia Eccher, hanno costretto il giudice Roberto Ruscello a rinviare il processo al 5 luglio.

Si risolve nel giro di una decina di minuti il primo appuntamento di Matteo Salvini al Tribunale di Torino, dove è imputato di vilipendio all’organo giudiziario, reato punito con una multa tra i mille e i cinquemila euro.

Il 14 febbraio 2016, nel corso di un comizio elettorale a Collegno (Torino), il segretario della Lega aveva lanciato un attacco alla magistratura “colpevole” di aver messo sotto accusa alcuni leghisti, nella fattispecie Edoardo Rixi, allora assessore regionale della Liguria e vicesegretario federale della Lega Nord.

Pochi giorni prima, esattamente il 2 febbraio, Rixi era stato rinviato a giudizio per peculato e falso in atto pubblico con altri consiglieri regionali nell’ambito dell’inchiesta sui rimborsi illeciti ottenuti dai gruppi consiliari, fatto per il quale il 30 maggio scorso è stato condannato a tre anni e cinque mesi di reclusione, con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In seguito a quella condanna Rixi si è dimesso dall’incarico di viceministro del governo alle Infrastrutture e Trasporti.

A Collegno, nel corso del congresso della Lega piemontese, Salvini difese il suo vice a spada tratta: “Se so che qualcuno nella Lega sbaglia sono il primo a prenderlo a calci nel culo e a sbatterlo fuori. Ma Rixi è un fratello e lo difenderò fino all’ultimo da quella schifezza che è la magistratura italiana”.

La Procura di Torino, allora guidata da Armando Spataro, aprì un’inchiesta, ma a lungo dovette aspettare dal ministero della Giustizia l’autorizzazione a procedere necessaria quando si vuole indagare qualcuno per vilipendio. L’ex guardasigilli Andrea Orlando non rispose e per tre volte Spataro dovette sollecitare una decisione, arrivata soltanto da Alfonso Bonafede il 9 ottobre scorso.

Sono passati più di tre anni da quell’episodio, ragione per cui ieri il procuratore aggiunto Emilio Gatti ha chiesto al Tribunale di non conteggiare ai fini della prescrizione il tempo trascorso. Sulla questione il giudice si pronuncerà nelle prossime udienze, ma nel frattempo ha accolto la sospensione della prescrizione per quel che riguarda il legittimo impedimento dell’imputato. “Compatibilmente con gli impegni, che sono numerosi, il ministro vuole prendere parte a questo processo, ha interesse a seguire la vicenda”, dichiara l’avvocato Eccher. “Salvini lancia il sasso, nasconde la mano e scappa dai processi”, attacca il deputato Pd Walter Verini.

Addio Nord, il Carroccio si chiama “Lega Salvini”

Alberto da Giussano nel simbolo ci sarà ancora. Ma nel nuovo corso del Carroccio, ormai a trazione nazionale, soprattutto ci sarà bisogno di Roberto Calderoli, smagato frequentatore di norme e regolamenti. E che per questa sua indiscussa competenza è costretto agli straordinari nel ruolo di traghettatore, ora che si tratta anche di formalizzare il passaggio dalla Lega Nord alla Lega per Salvini premier. Proprio a lui è stato affidato il compito di coordinare il comitato per la revisione dello statuto. Insediato venerdì scorso nello storico fortino di via Bellerio per limare alcuni connotati del nuovo soggetto politico che includa come componenti tutte le regioni italiane e non solo quelle sopra il Po.

“Siamo a un tornante delicato. Ma a differenza che nel passato qui la delicatezza del passaggio non è di natura politica. Il problema è strettamente legale. Vogliamo evitare di irritare la Procura di Genova” sussurrano in molti. Che riferiscono come le modifiche serviranno soprattutto a mettere al sicuro il “patto” siglato con i magistrati che hanno disposto la confisca del patrimonio della Lega Nord per la storiaccia dei 49 milioni di rimborsi incassati e non dovuti tra il 2008 e il 2010. E su cui, miracolosamente, è stata ottenuta la possibilità di un rimborso allo Stato in comodissime rate spalmate in 80 anni o poco meno.

La parola d’ordine tra i maggiorenti di via Bellerio “è tener fede a quella fruttuosa interlocuzione tra la Procura e gli avvocati della Lega”. E che hanno consigliato a Matteo Salvini di non farsi sfuggire la frizione nella fretta di approdare finalmente al partito sovranista e nazionale a cui lavora da quando ha scalato il Carroccio: e nonostante i bollori, il “Capitano” ha assecondato, per almeno un anno, i suoi centurioni. E lui è stato un soldatino: ha indossato tutte le felpe di “prima al Sud” o “Roma nel cuore” che ha potuto in giro per le piazze italiane, ma senza accelerare il processo interno o peggio dare l’impressione di voler fare della Lega Nord una “bad company”. Ma ora è il momento di sciogliere i nodi.

Il tesseramento per il 2019 della Lega per Salvini premier partirà nel weekend nelle piazze della Penisola. Ma ancora va risolto un problema non da poco, perché è invece tutto fermo quello che riguarda i militanti per così dire storici, tra cui i parlamentari. Che sono ancora, con gli eletti nella amministrazioni locali, anche i maggiori contribuenti della Lega Nord. E che non sanno che pesci pigliare rispetto alla questione del tesseramento.

Che fare? “In teoria chi aveva la tessera del Carroccio nel 2018 farebbe in tempo a rinnovarla fino alla fine di giugno. “Forse alla fine si deciderà di prorogare questo termine in attesa che si risolva la questione dello statuto e del nuovo soggetto politico” ipotizza un senatore della vecchia guardia del partito nato per l’Indipendenza della Padania.

Il partito ha chiuso il bilancio 2018 con un disavanzo di oltre 16 milioni di euro determinato dall’iscrizione a debito dell’importo corrispondente al valore netto delle somme oggetto del famigerato sequestro giudiziario del Tribunale di Genova. Ma che – ha scritto il tesoriere Giulio Centemero – “è stato caratterizzato dal robusto incremento del consenso sul territorio che ha garantito al partito un sensibile incremento proventi attivi”. Cioè più eletti e quindi più soldi.

Anche di questo snodo si dovrà occupare il comitato Calderoli, che di tornanti della storia se ne intende essendo entrato nella Lega Lombarda all’inizio degli anni 90, poi confluita insieme alla Liga Veneta e alla Lega Piemontese, nella Lega Nord. Che oltre ai versamenti degli eletti, ha tra le sue proprietà la sede di via Bellerio. E naturalmente pure il pratone di Pontida. Mitico.

Conte e la richiesta del collega in mutande: “Sblocchi la legge 788”

Che l’Italia sia un Paese a suo modo meraviglioso, lo dimostrano anche scene così: ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è intrattenuto in un lungo colloquio con un uomo in mutande. Succede a Napoli. Conte, in visita in città, si affaccia da un balcone. Sul terrazzo del palazzo di fronte ci sono due uomini. Quello in mutande, appunto, attacca il discorso: “Presidè, sono un collega civilista in pensione da un anno, volevo dirle una cosa, approfitto…”. Conte non si scompone: “Prego”. L’avvocato suggerisce: “C’è una proposta di legge presentata il 12 settembre al Senato, titolo 788”. Il premier è curioso: “Oggetto?”. Risposta: “I redditi cartolarizzati. Pagando il 20% del prezzo al concessionario, riparte l’Italia. Salvini la tiene nascosta”. Conte promette: “Controllo”. L’avvocato in mutande, più tardi, è stato intervistato da Fapage: “Se mi fossi andato a vestire avrei perso l’attimo”.

Il testimonial leghista nei guai per caporalato

“L’obiettivo è combattere il caporalato. Niente più schiavi in Calabria”. Tuonava così il ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio (Lega Nord) il 5 settembre dell’anno scorso a Lamezia Terme in occasione di un incontro in cui si è discusso di lotta ai caporali. Al suo fianco c’era Alberto Statti, presidente di “Confagricoltura Calabria” e titolare della “Società agricola Lenti”, una delle più importanti cantine calabresi. La stessa che ieri è finita al centro di un’inchiesta della Guardia di Finanza. L’imprenditore Statti che da anni predica contro il caporalato (nel 2016 lo definì “una piaga per le aziende che operano nella legalità”, ndr), oggi si ritrova indagato per estorsione ai danni dei suoi dipendenti.

Con lui, nell’inchiesta denominata “Spartaco” sono indagate altre otto persone. Nei confronti di tutti, il procuratore di Lamezia Terme Salvatore Curcio ha chiesto e ottenuto dal gip il sequestro di beni fino al valore di 835 mila euro, “ritenuti l’illecito profitto derivante dalle attività estorsive e di autoriciclaggio”. I pm hanno scoperto 37 lavoratori sfruttati dall’imprenditore Statti e dagli altri indagati tra cui due avvocati e la segretaria, Maria Costanzo, addetta alle assunzioni e alle buste paga.

Queste non corrispondevano mai a quanto realmente ricevuto dai dipendenti, costretti a lavorare più ore di quelle previste dal contratto collettivo nazionale e senza percepire nemmeno il trattamento di fine rapporto.

Centinaia di migliaia di euro che dovevano andare ai lavoratori e che, invece, finivano nelle tasche dell’imprenditore Statti descritto dagli investigatori come “il dominus delle fattispecie delittuose”. La Guardia di Finanza ha riscontrato, inoltre, “trattamenti retributivi diversi tra uomini e donne”. Se i primi, non tutti, arrivavano anche a 40 euro per otto ore nei campi, le donne non superavano le 24-30 euro al giorno. Tra queste c’è una donna che ha lavorato per l’azienda di Statti dal 1974, senza ferie e senza Tfr: “Non ho mai percepito altre indennità. La busta paga la firmavo soltanto senza neppure leggere gli importi. Ho accettato queste condizioni, poiché ho bisogno di lavorare. Ho dovuto mantenere anche due figli”. Quando è scoppiata l’inchiesta, due anni fa, dopo i primi controlli della Finanza, Statti avrebbe cercato di correre ai ripari facendo firmare delle conciliazioni agli operai ai quali non veniva rilasciata alcuna copia del verbale. I dipendenti venivano assistiti da un avvocato scelto dall’imprenditore.

Neanche a dirlo: hanno rinunciato “a ogni legittima pretesa accettando esigue somme”.

“L’avvocato non mi ha spiegato nulla. Io non ho capito che stavo rinunciando a tutti i miei diritti” è lo sfogo di una dipendente dopo aver capito di aver perso più di 40 mila euro che le spettavano. E tornano attuali le parole pronunciate a settembre dal ministro leghista dell’Agricoltura: “Tutte le volte che verrà fatta qualcosa per combattere il caporalato ci sarà una nota stampa del ministro Centinaio per elogiare le forze dell’ordine”. Una nota stampa che ieri, dopo il sequestro all’imprenditore Statti, ancora non è arrivata.

Ora Di Battista offre lo scudo: “Se si vota deroga ai 2 mandati”

“Le fragilità del governo targato 5 Stelle?”: Alessandro Di Battista continua a dire la sua. Ospite ieri sera del programma Otto e mezzo, l’ex deputato pentastellato ha raccontato le sue prospettive e speranze per questa legislatura. Non risparmiando critiche e suggerimenti per avversari e alleati, e con lo sguardo al futuro del Movimento.

La Lega resta un coinquilino ingombrante a Palazzo Chigi, per la continua campagna elettorale portata avanti dal leader della Lega: “Salvini è efficace in questa fase, ma attenzione, perché anche Renzi è stato efficace, in una certa fase – nota Di Battista –. Ma tra essere furbi ed essere bravi, c’è una bella differenza…”. E non nega l’incertezza del delicato equilibrio dell’esecutivo, conservato a prezzo di continui compromessi: “Mi auguro, da cittadino, che il governo non cada – ha dichiarato – Se Salvini lo farà cadere per ragioni elettorali, affari suoi”. Se tale evenienza si verificasse a breve – come credono molti analisti politici, forse prima dell’estate, per andare a votare a settembre – Di Battista propone una deroga per uno dei dogmi del Movimento: il tetto dei due mandati. Una prescrizione che altrimenti impedirebbe a molti esponenti pentastellati attualmente in carica, fra cui anche il vicepremier Luigi Di Maio, di ricandidarsi: “Chiedo – dice – di non contare questa legislatura”. Una risposta forse dovuta, per spegnere le polemiche che vorrebbero l’ex deputato in contrapposizione col vicepremier, a cui vorrebbe soffiare la poltrona e la posizione di leader dei grillini.

Dopo essersi preso un anno sabbatico, l’ex deputato rivela la sua visione da “outsider” e fa un bilancio su questa prima esperienza istituzionale del Movimento: “Il primo anno al governo per noi è stato difficile e esaltante. Lo sapevo che sarebbe stato difficile perché noi siamo brave persone, che si sono chiuse nei ministeri per fare il loro lavoro. Ci vuole del tempo – come dice Grillo – perché le cose che abbiamo fatto si possano vedere concretamente”. E conclude: “Anche se finissimo al 3%, ma vedessi persone che prendono il reddito di cittadinanza, io sarei comunque soddisfatto”.

Proprio questa lunga corsa dei grillini verso il Parlamento e i problemi che ne sono derivati sono i protagonisti del suo ultimo libro Politicamente scorretto, uscito il 17 giugno per Paper First, in cui dichiara: “Siamo sempre stati sfrontati di fronte al potere. Abbiamo il dovere di esserlo anche se al potere ci siamo noi”.

Un testo che già fa discutere, per la veemenza contro le pecche dei suoi colleghi. Quando lo si accusa di essersi allontanato dai 5Stelle e di voler perseguire obiettivi personali, invece che quelli comuni, Di Battista risponde seccato: “Sono attivista del M5S, esponente, mi sono guadagnato sul campo il diritto e il dovere di dire la mia. Questo libro, chi lo ha letto lo sa che è un atto di amore verso il Movimento in una fase di sviluppo e di passaggio, è stato un anno difficile. È a sostegno del Movimento e di Luigi Di Maio”.

E incalzato dalle domande della conduttrice Lilli Gruber però ammette: se si tornasse al voto, si candiderebbe “al 100%”.

Il procuratore Greco e lo scandalo nomine: “Non ci appartiene”

Il procuratore di Milano Francesco Greco prende le distanze della bufera che si è abbattuta sul Csm: “Un mondo che non ci appartiene, che non appartiene soprattutto ai magistrati del Nord, e che vive negli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana”. La Roma dei salotti si sarebbe trasformata nella Roma degli inciuci, da cui nemmeno il massimo organo della magistratura è riuscito a salvarsi. In occasione del ricordo del collega e amico Walter Mapelli, procuratore di Bergamo, scomparso dopo una lunga malattia, Greco rimarca l’estraneità sua e dei suoi collaboratori rispetto alla decisione delle nomine, che sarebbero state concordate a tavolino da giudici e politici, con “logiche di funzionamento che ci hanno lasciati sconcertati e umiliati”. Greco ha spiegato che avrebbe voluto Mapelli come aggiunto a Milano. Invece le sue richieste, anche per le Procure limitrofe, erano state respinte: “Io penso che una domanda come la sua avrebbe dovuto portare i consiglieri del Csm a stappare bottiglie di champagne. Invece ci siamo resi conto che il suo lavoro (di recuperare soldi per l’erario) non era utile per ottenere un incarico direttivo”.

Csm, la rinuncia di Petralia: “Sono sdegnato”

Avevano fatto il suo nome, senza che ne sapesse nulla, il pm Luca Palamara, i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti e i compagni notturni – consiglieri del Csm – che volevano piazzare magistrati, secondo le loro convenienze, in diversi uffici giudiziari, soprattutto Roma. E così Dino Petralia, procuratore generale di Reggio Calabria, il 17 giugno ha revocato la domanda per procuratore di Torino.

Ha inviato una lettera riservata al presidente della Quinta commissione Mario Suriano, togato di Area (progressisti) come lui. Quel Suriano che l’ormai ex consigliere Antonio Lepre (Mi, conservatori), tra i commensali notturni, quasi temeva (“Io vorrei dire che siamo già pronti per Roma ma Suriano farà l’ira di Dio”). Petralia per spiegare il ritiro parla di “amarezza”, “di perdita di entusiasmo”. Il 9 maggio lo avevano evocato. Ferri: “L’altro giorno ho visto Ermini (vicepresidente del Csm, ndr) che passeggiava e mi ha detto che Cascini (capogruppo di Area al Csm, ndr) è andato da lui a chiedergli di aiutare Petralia a Torino”. Palamara è perplesso: “Io non ho sentito che Ermini andava per aiutare Petralia”.

Interviene Luigi Spina, togato di Unicost (centristi), poi dimessosi: “E perché non va da Cascini a dire aiuta Viola (il pg di Firenze, che vogliono a Roma, ndr)? Allora (Ermini, ndr), si chiamasse Cascini e dicesse: ‘Ho fatto un’ottima manovra per Petralia, guarda che se non rompi i coglioni su Viola, ti votano Petralia’”. L’idea di Spina non convince affatto, tanto che un altro ex togato, Corrado Cartoni (MI) ribatte: “Non devi mettere in mezzo Cascini”. Interviene pure Lotti, che vuole togliere da Firenze il procuratore Giuseppe Creazzo (il suo ufficio ha messo sotto inchiesta i genitori di Matteo Renzi): “Se quello di Reggio (Petralia) va a Torino, è evidente che questo posto è libero. E quando Creazzo capisce che non c’è più posto per Roma, fa domanda (per Reggio, ndr)…”. Ma per Palamara l’idea non funziona, la partita di Torino “ormai è aperta”.

Una settimana dopo, c’è un convegno di Area a Bari a cui partecipa anche Petralia. Ci risulta che il pg reggino chiede conto ai togati al Csm della sua corrente come mai la nomina di Torino fosse ferma e le sue quotazioni venivano date al ribasso. Interpellato dal Fatto, Petralia conferma: “Mi dissero che erano subentrate forti difficoltà perché c’era un isolamento di Area per il suo arroccamento su un candidato diverso a Roma (Franco Lo Voi, procuratore di Palermo, ndr). Sono stato sul punto di ritirarmi, ma dopo quello che è emerso sono sdegnato, non voglio più andare a Torino. Questa scelta mi è costata, da vittima, però, non voglio passare per altro”. Palamara, in queste settimane, nel dire che tanti candidati lo cercavano per avere aiuto, sembra aver fatto riferimento anche a Petralia. “Era venuto a Reggio Calabria – risponde il procuratore generale – per organizzare una partita di calcio dei magistrati, in quel- l’occasione mi aveva manifestato grande apprezzamento. Mi aveva fatto piacere perché avevo inteso che anche il suo gruppo (Unicost, ndr) era favorevole alla mia nomina”. Nella lettera che ha inviato al Csm si capisce che Petralia vuole allontanare da sé sospetti e combutte e, allo stesso tempo, rifiuta la tesi di coloro che vogliono in un angolo chi, suo malgrado, è finito nelle intercettazioni: “L’acquisita consapevolezza di una tale esclusione dal posto di Torino mi ha provocato una profonda amarezza manifestata peraltro anche in espliciti e sdegnati sfoghi avuti con colleghi vari e di tutti i gruppi e che tale sentimento di recente si è ulteriormente amplificato fino a raggiungere una condizione di sconfortante sfiducia, alimentata anche da alcune recentissime notizie di stampa in cui nella scelta del nuovo procuratore di Torino si dovrebbe privilegiare l’etica piuttosto che i titoli, con riferimento a chi nei dialoghi intercettati non fosse mai stato citato”.

Altro che voto anticipato: è l’estate dell’incubo trojan

Giorni fa, un deputato di un partito che non dico a cui chiedevo novità sulla durata del governo, mostrandosi scarsamente interessato all’argomento mi ha interrotto citando un articolo sull’uso investigativo del trojan pubblicato sul Fatto (penso si riferisse all’intervista di Vincenzo Iurillo all’esperto informatico Gioacchino Genchi). Voleva conferme che il virus che trasforma i telefonini in microspie ambientali surriscalda l’apparecchio e scarica rapidamente la batteria. “È vero che esiste un congegno che misura la temperatura dei cellulari?”, ha chiesto con voce speranzosa.

Ho risposto che non lo sapevo ma ho capito che mentre noi giornalisti ci affanniamo a vaticinare su elezioni anticipate a settembre, o nella primavera prossima o chissà quando, non teniamo conto delle conseguenze imprevedibili che il subdolo bacillo elettronico potrebbe scatenare nel mondo politico, e in quello del potere diffuso, dopo aver devastato la magistratura con il caso Palamara-Csm. Sarà l’estate del trojan? Neanche a farlo apposta proprio ieri, il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha pronunciato tre frasi davvero poco tranquillizzanti per il nostro deputato, e per tutti coloro interessati al riscaldamento indotto dei loro cellulari. La prima: “La legge Spazzacorrotti ha introdotto il trojan e da cinque mesi stiamo scoprendo tantissimi casi che non avremmo scoperto”. La seconda: “Noi non possiamo riportare le lancette indietro nel tempo, a quando la politica pensava che fosse giusto che il popolo italiano non doveva sapere cosa accadeva in certi contesti. La lotta alla corruzione non deve arretrare di un millimetro”. La terza: “Sulla pubblicazione delle intercettazioni il governo seguirà il principio della Cassazione: si possono diffondere i dialoghi che hanno ‘preminente interesse pubblico’”.

Alla luce della dottrina Bonafede, non è difficile immaginare i pensieri che frulleranno nella testa di coloro che agiscono “in certi contesti”. Per esempio: cinque mesi sono un’eternità e se sono nel mirino di qualche pm vai a sapere cosa ha registrato nel frattempo quel cz di telefonino che tengo sempre in tasca. Oppure: non mi ricordo se quella volta che… lo avevo spento o era rimasto acceso? Il problema però potrebbe allargarsi a dismisura poiché, come dimostra l’inchiesta Csm, grazie all’implacabile trojan le intercettazioni ambientali sono come la pesca a strascico: chi piglia piglia, e soltanto dopo si vede se ci sono o no reati. Come ha sperimentato a sue spese il consigliere Corrado Cartoni che, malgrado si fosse assopito sul divano durante una riunione notturna sulle nomine, è stato lo stesso individuato da una innocente frase di Cosimo Ferri: “Si è svegliato Corrado”. E patatrac. Naturalmente, diamo per scontato che la stragrande maggioranza, anzi la totalità di coloro che ricoprono incarichi pubblici siano persone perbene che nulla hanno da temere dal trojan. E che, dunque il futuro del governo sarà influenzato dalle consuete dinamiche di maggioranza, giammai dalla lotta alla corruzione, “che non arretrerà di un millimetro”.

Senza contare che il ministro Bonafede ha precisato che si agirà sulla “fuga di notizie che riguardano terzi citati nelle intercettazioni da parte di indagati, o fatti della vita privata che vanno tutelati”. Subito ho cercato di rassicurare la mia fonte: vedi, se non hai fatto nulla di male non hai nulla da temere, e poi sicuramente Bonafede vigilerà. Mi sono informato, ha replicato lui pimpante: il trojan smette di funzionare se stacchi la batteria o se ficchi il telefonino nel frigorifero.

Emerito infallibile e Bersani infame

L’altra sera, presentando il libro di Chiara Geloni, Titanic edito da PaperFirst, Pier Luigi Bersani ha rotto da sinistra il tabù su Re Giorgio alias il riverito Emerito Napolitano. L’ex leader del Pd si è soffermato sulla diversità di vedute, diciamo così, con il Colle nella tragica gestione del fatale 2013 e ha fatto finanche una battuta sull’antica appartenenza migliorista di Re Giorgio nel Partito. Non l’avesse mai fatto. Come il riflesso del cane di Pavlov, l’offesa bersaniana è stata immediatamente rispedita al mittente da due ex direttori dell’Unità nonché ex parlamentari: Peppino Caldarola ed Emanuele Macaluso.

Quello che colpisce, al di là della sostanza della polemica o, se volete, della discussione politica, è il tono greve da invettiva, se non insulto, riservato al pacifico Bersani, colpevole di aver detto pubblicamente ciò che nel Pd dicono da anni dietro le quinte: elencare, cioè, gli innumerevoli errori del realismo consociativo del capo dello Stato dal 2011 in poi, non a caso sempre in minoranza nel Pci. Caldarola ha addirittura scritto di “parole orrende” e di “infamia” bersaniana. Macaluso ha detto tout court che l’ex segretario del Pd “ non ha la stoffa” per fare politica. Un suggerimento: perché a questo punto non istituire la festa laica del dogma dell’infallibilità di Re Giorgio?

Vigilanza Rai: sì alla mozione di M5S e dem contro Foa

Per la tv pubblica Marcello Foa continua a essere più un problema che una risorsa. Ieri la Commissione di Vigilanza ha votato a favore della risoluzione che chiede al presidente della Rai di lasciare la presidenza di RaiCom perché “incompatibile” con la sua carica a Viale Mazzini, con un voto che ha visto la convergenza di Pd e 5Stelle (21 favorevoli, 9 contrari e 4 astenuti). I dem, insieme a LeU, hanno detto sì alla mozione proposta dai pentastellati, simile alla loro. Così, dopo l’impasse della settimana scorsa, con uno scontro tutto interno al M5S, i grillini si sono ricompattati sulla linea dura di Primo Di Nicola, spaccando la maggioranza di governo. A difesa di Foa hanno votato Lega e FdI, mentre FI si è astenuta.

Ma ora cosa accadrà? La risoluzione ha due step: in primo luogo “impegna il presidente della Rai a lasciare la presidenza di Raicom”. In caso negativo, impegna “il cda a rimuovere Foa dall’incarico nella consociata”. Tutto dovrà essere discusso nel prossimo consiglio e, come extrema ratio, non si può escludere l’ipotesi di un voto e, quindi, di un nuovo scontro. Sulla carta, i consiglieri contro Foa sono tre (Borioni, Laganà, Coletti) con due a favore (Rossi e Salini), sempre che Foa decida di non votare. Ieri l’azienda ha difeso la propria scelta, ribadendo la convinzione “della correttezza del proprio operato” e rimandando la questione al cda dove “si effettueranno tutte le valutazioni conseguenti”. Salini, del resto, dopo aver nominato Foa a RaiCom e aver difeso la scelta in Vigilanza, non può far altro che schierarsi col presidente. Anche se si sarebbe evitato volentieri questa nuova grana in cui l’ha messo l’altro inquilino del settimo piano. La risoluzione non è vincolante, ma è pur sempre un’indicazione del Parlamento, di fatto l’editore della tv pubblica. Entrambi, Foa e Salini, ne escono male. E ne esce male la Rai.