Batteria renziana contro Provenzano: “Nicola lo sconfessi”

La terra ruota su se stessa con il suo moto incessante, stagione dopo stagione. Intanto il Pd continua a parlare solo del Pd. I dem litigano su se stessi: l’ultima linea di frattura è stata marcata con la segreteria presentata da Nicola Zingaretti cinque giorni fa. L’ennesimo pretesto è un’intervista al Fatto del nuovo responsabile Lavoro, Giuseppe Provenzano, che ha espresso alcuni concetti, come si suol dire, “di sinistra”. Come la seguente: “L’abolizione dell’articolo 18 è stata un errore”, “Il Jobs Act va rivisto”, “Serve uno Statuto dei nuovi lavori e dei lavoratori”, “Presidiare il centro non può essere compito del Pd, dobbiamo tornare alla distinzione tra destra e sinistra”.

Parole che hanno fatto accapponare la pelle a diversi esponenti della vecchia maggioranza, ancora poco a loro agio con l’idea che il partito, dopo il congresso che ha eletto la nuova segreteria, abbia preso una direzione diversa da quella che aveva generato una lunga serie di sconfitte elettorali.

Così ieri è partito un fitto fuoco di fila dalla batteria renziana su Provenzano: tweet, messaggi e dichiarazioni, che si somigliano molto, dalla “base riformista” del Nazareno. Quello ironico del capogruppo al Senato, Andrea Marcucci: “Ho il dubbio che Peppe Provenzano abbia sbagliato partito. Le sue considerazioni sul lavoro, sul Pd, e sul centro, sono totalmente diverse da quanto ha detto ieri in direzione il suo segretario Zingaretti. Se qualcuno avverte il nuovo componente della segreteria, fa una cosa utile”. Quello allarmato della senatrice, ex sindacalista, Teresa Bellanova: “Urge un chiarimento del segretario Zingaretti. Sul tema se il Pd debba o meno presidiare il centro. Il Pd nasce come forza riformista la cui mission (sic) è parlare alla sinistra ma anche al centro”. Quello perentorio di Dario Parrini: “Dire, come fa Peppe Provenzano della segreteria, che la rappresentanza del centro non è più compito del Pd, significa minare le basi su cui nacque il Pd e negare la vocazione maggioritaria richiamata anche ieri da Zingaretti”. Sul tema si è speso anche il Foglio, giornale di riferimento dei reduci del renzismo: “Cancellare una stagione di riformismo è un rischio che un partito d’opposizione non può permettersi di correre”.

Massimiliano Smeriglio, neoeletto da indipendente nelle liste del Pd alle Europee, braccio sinistro di Zingaretti già alla Regione Lazio, commenta l’ultima spaccatura nel microcosmo democratico: “Forse per il Pd è arrivato il momento di smetterla di occuparsi solo di se stesso e dei suoi problemi interni. Provenzano ha parlato di discontinuità, di un nuovo patto sociale, di salario minimo, di un ragionamento complesso sul reddito di cittadinanza, di lavoro. Ha parlato di argomenti concreti, indispensabili per rilanciare il campo democratico e lo stesso Pd”. Dal congresso, sostiene Smeriglio, è emerso il bisogno di una “nuova collocazione politica e sociale” del partito. Traduzione: la svolta a sinistra l’hanno decisa gli elettori. “Credo la necessità di tutti – conclude l’europarlamentare – sia quella di interrogarsi su cosa serva all’Italia, più di quello che serve al Pd. Occupiamoci di cose concrete. Il cambiamento è già nei fatti, nelle primarie che hanno eletto Zingaretti con il 67% dei voti. Si sono espressi gli elettori e i simpatizzanti del Pd. Non è che ogni giorno si può riaprire la partita. Guardiamo avanti”.

L’autosospeso Lotti presiede la corrente “anti-Zingaretti”

Apresiedere la riunione di Base Riformista, martedì, dopo la direzione del Pd, c’erano Luca Lotti e Lorenzo Guerini. Il primo, decisamente provato, non ha messo comunque in discussione la sua leadership. Anzi, ha mantenuto un profilo politico, senza mettere sul tavolo del dibattito il suo coinvolgimento nel caso del Csm: sulla questione non ha pronunciato neanche una parola.

Dopo l’autosospensione dal Pd, con l’intenzione di uscire dal gruppo dem alla Camera e passare al Misto continua a dirigere la corrente che conta più parlamentari tra i Dem: ieri erano un’ottantina. Guerini, per l’ennesima volta, si è posto come “tessitore” e “mediatore”: il dialogo con Nicola Zingaretti è aperto e passa per il riconoscimento della “vocazione maggioritaria” del Pd. Tradotto: niente scissioni al centro, niente avalli al progetto di Carlo Calenda. “Abbiamo fatto il punto – spiega un big della componente – valutando positivamente gli esiti della Direzione soprattutto in relazione al punto politico che avevamo posto, cioè il profilo identitario del Pd (un partito plurale, casa di tutti i riformisti) e sulla riaffermazione della vocazione maggioritaria”. Ma a causa della situazione di Lotti il momento è confuso e le valutazioni poco lucide. Dentro Br la spaccatura è alle porte: i duri e puri andranno verso l’area di Roberto Giachetti, i dialoganti prima o poi potrebbero pure finire in maggioranza.

La riunione di martedì è stata apparentemente composta: pochi cenni alla questione Lotti, al netto della solidarietà, molte questioni organizzative in vista dell’assemblea che si farà a Montecatini il 5, 6 e 7 luglio. Ammesso che la corrente ci arrivi intatta. Nell’ultima riunione ufficiale c’erano stati tutta una serie di interventi (a partire da quello di Antonello Giacomelli, il terzo capo corrente) sulla necessità di allontanare il voto. Dietro le quinte si ragionava pure sul dialogo con il Movimento 5 Stelle, proprio per evitare le urne. Perché se ci saranno le elezioni, la maggiore parte di loro in Parlamento non tornerà. In questo momento, anche questa strategia sembra ferma: impossibile riuscire a fare delle mosse compatte in questo momento. Martedì alla fine non se n’è parlato.

Il nutrito gruppo dei partecipanti si è concentrato su come poter contare e condizionare il Pd. Con un certo livello di depressione di fondo, per il fatto di dover stare da ospiti abbastanza indesiderati, in un partito nel quale hanno fatto da padroni. “I giudizi espressi restano, non è che si cambia idea”.

Jens, dai, smettila, così ci fai piangere

Non era lui,lo disegnavano così. Oggi che ci si mostra dal vero, si scopre che Jens Weidmann, capo della Bundesbank (la banca centrale tedesca) in quota Angela Merkel, è un agnellino, un pezzo di pane: larghi sorrisi, ospitalità, capacità di mediazione. Non siamo sicuri, ma pare che abbia una nonna di Bari. Povero Jens, per anni i media ostili l’hanno fatto passare per quello antipatico, rigorista, attento solo (e ferocemente) agli interessi tedeschi e per questo oggi la gente non si fida. Dicono: fa il conciliante perché vuole succedere a Draghi e gli serviranno anche i voti dei terroni. Vili menzogne. Jens davvero pensa che si può discutere del surplus commerciale tedesco senza farsi prendere dal nervosismo come ha detto recentemente (e che sarà mai?). E pure il sofferto ripensamento di ieri sul cosiddetto “scudo salva-spread” per cui trascinò Mario Draghi in Tribunale (perdendo) fa parte del vero Jens Weidmann che finalmente può venire allo scoperto: “Aveva ragione Draghi – ha detto ieri a Die Zelt – La mia posizione non aveva una base legale. Era dettata dalla preoccupazione che la politica monetaria sarebbe finita nel vortice della politica di bilancio”. In tedesco hanno una parola bellissima e intraducibile per queste epifanie che giungono al termine di un complesso percorso intellettuale e spirituale: Paraculen.

Autostrade, rinviato il vertice: tutto aperto su Alitalia e Morandi

Ancora nulla di fatto sul fronte infrastrutture. Ieri pomeriggio era in programma a Palazzo Chigi un vertice con il premier Giuseppe Conte, il vice Luigi Di Maio e il ministro Danilo Toninelli. Al centro dell’incontro ci sarebbe dovuto essere il tema di Autostrade e la sua controllante Atlantia. Argomento delicato: la società, come noto, ha un contenzioso con l’esecutivo dopo il crollo lo scorso anno del Ponte Morandi di Genova. Il vertice di governo è stato rinviato “per motivi di tempo”. Atlantia è coinvolta in diversi dossier sensibili per il governo, come la revoca delle concessioni dopo il crollo del ponte Morandi di Genova (su cui ha insistito ieri sera Alessandro Di Battista, ospite di Otto e mezzo) e la revisione delle tariffe autostradali. Questioni che peraltro si intrecciano con la partita Alitalia. Il nome della società dei Benetton continua a circolare in merito al salvataggio della compagnia di bandiera. Per Matteo Salvini Atlantia è un “partner naturale” da coinvolgere nell’operazione, il Movimento Cinque Stelle invece è apertamente ostile a questa soluzione, anche per il conflitto d’interessi di Atlantia che già controlla la società Areoporti di Roma (come ha sottolineato ieri ancora Di Battista).

Weber, Timmermans e la staffetta. L’accordone di Bruxelles (e l’Italia spera)

A Bruxelles, in vista del Consiglio europeo di oggi e domani, si racconta che ci sarebbe già un pacchetto di nomine sul tavolo. E sarebbe il frutto dell’“accordone” a 4: Pse, Ppe, Alde e Verdi. Vede Manfred Weber, lo Spietzenkandidat dei Popolari, a presidente della Commissione europea, Frans Timmermanns (quello dei Socialisti) alla guida del Consiglio, e poi una staffetta per la presidenza del Parlamento: due anni e mezzo Guy Verhofstadt (Alde) e due e mezzo Ska Keller (Verdi). Si vedrà se si tratta solo di pre-tattica, come sembra, a giudicare dalle posizioni dei principali leader europei. Angela Merkel e Emmanuel Macron sono distanti. Il presidente francese ha bloccato Weber alla guida della Commissione e vorrebbe la Spietzenkandidat dell’Alde, ovvero Margarithe Vestager. L’Italia punta a un presidente della Bce in continuità con Draghi, a un presidente della Commissione non ostile (non vuole la Vestager) e a un Commissario economico di peso. Si parla sempre di più di Giancarlo Giorgetti.

Salvini, prove di crisi sul dl Crescita. E il Movimento: “Ci vogliono ricattare”

Matteo Salvini gioca alla crisi. Sorride e picchia, promette e sfascia. Vuole fare impazzire i Cinque Stelle, quelli che cercano di incassare senza sanguinare, che provano a non perdere la testa e soprattutto il governo. Ma il Carroccio alza la posta, fino al limite. Perché entra a gamba tesa sul Decreto Crescita, toglie i soldi per il Sud a una ministra grillina e in cambio pretende le autonomie tutte e subito.

Poi c’è Salvini che rispara ad alzo zero contro l’Europa dei vincoli, quindi se ne infischia del premier Giuseppe Conte che predica e rincorre la pace con la Ue. Così è il governo del cambiamento, un teatro dove il capo della Lega è sempre più carnefice e il Movimento protesta fuori taccuino contro “i ricatti” dei coinquilini. Anche, e nonostante il vertice mattutino a Palazzo Chigi, con Conte, il ministro dell’Economia Tria, i due vicepremier e ministri vari. E proprio in riunione Salvini butta lì quella parola che finora aveva sempre ignorato: rimpasto. “Forse potremmo spostare qualche sottosegretario”, sillaba. Un messaggio tutto per Di Maio, che i ministri ora non vorrebbe più toccarli, ma i sottosegretari sì, e dalla graticola a 5Stelle, la “verifica” con i parlamentari, ne sono usciti a pezzi almeno 4-5. Ma sono soprattutto schermaglie, sopra il burrone. Perché è vero, Salvini nel vertice non insiste sulla mina chiamata flat tax. E dopo l’incontro è tutto un assicurare che è andato bene e che il clima era tranquillo.

Però il sospetto affiora, sorpassa i filtri. “A sentire certe frasi sembra quasi che Matteo Salvini voglia la procedura d’infrazione, che la cerchi” sussurra una fonte di peso dei 5Stelle. Ossia che voglia finire in fretta fuori strada. Il primo dei problemi per Luigi Di Maio, il capo politico che tentenna: deciso a inseguire l’altro vicepremier per non lasciargli il ruolo di critico della Ue tutta austerità e parametri, ma nel contempo costretto a non esagerare, perché lui il punto di caduta con la Ue serve. Però Salvini gli scappa come un’anguilla.

Così all’ora di pranzo il ministro dell’Interno è già su Facebook: “Noi dobbiamo poter competere ad armi pari: alcune norme europee, vincoli, norme europee, sono state studiate a tavolino per aiutare qualcuno a Berlino e a Parigi e fregare tutti gli altri”. Ed è fuoco anche contro il normalizzatore Conte. Mentre dentro la Camera tornano i fantasmi del voto a settembre, quello che Di Maio vuole schivare a tutti i costi, come ha ribadito ai suoi ministri lunedì scorso. “Dopo aver visto Salvini da Trump tanti dei nostri si sono impressionati” conferma un sottosegretario del M5S. Poco dopo dentro Montecitorio rintocca un segnale che sa di crisi. Perché si apprende di un emendamento della Lega al Decreto Crescita che toglie i soldi del Fondo per la coesione al ministero del Sud, quello della 5Stelle Barbara Lezzi, e lo trasferisce alle Regioni. E si parla di decine di miliardi. Le commissioni unite Bilancio e Finanze della Camera lo hanno approvato nella notte, con il parere favorevole del relatore del M5S Raphael Raduzzi e della viceministra all’Economia grillina Laura Castelli. “Ma avevamo un accordo sugli emendamenti, il testo è stato cambiato all’ultimo e il parere favorevole era stato dato su un altro testo depositato dalla Castelli” dicono dal Movimento.

Di certo scoppia un cortocircuito, dentro il M5S e dentro i gialloverdi. Lezzi s’infuria, e l’esame in Aula del testo viene sospeso per cercare di rimediare. Poco dopo la stessa ministra diffonde sillabe di guerra: “L’emendamento verrà stralciato, ma ha rappresentato un atto di totale scorrettezza. Chiunque lo abbia presentato, Lega o non Lega, dovrà chiedere scusa e dare delle spiegazioni”. Però non può essere così semplice. E infatti il Carroccio rilancia, chiedendo in cambio dello stralcio un’accelerazione sulle Autonomie, con un testo da portare in Consiglio dei ministri da qui a pochi giorni. I Cinque Stelle provano a controllarsi.

Di Maio raduna i suoi per un vertice lampo e poi dal Movimento distillano frasi nere di rabbia: “Gli italiani sapranno giudicare i diversi comportamenti in questa vicenda. Noi non avremmo mai fatto quello che ha fatto la Lega sul Dl Crescita, adesso loro ci stanno ricattando sulle autonomie”.

In serata è tempo di Consiglio dei ministri. E si parte dopo le 21, con oltre un’ora di ritardo. Il milionesimo indizio della febbre gialloverde. Con Salvini che non vuole guarire, perché è un untore felice di esserlo.

Ilva, Arcelor rivuole lo “scudo penale”: Lega dice sì, M5S no

Ci sono due storie in quest’ennesimo capitolo del romanzo dell’Ilva di Taranto, oggi di proprietà della multinazionale ArcelorMittal. La prima – che sta spaccando (di nuovo) il governo – ha a che fare con la cronaca politica e inizia quando la Camera respinge un emendamento di Maria Elena Boschi al decreto Crescita. Cosa chiedeva l’ex ministra? Di abolire il comma che toglierà ai nuovi proprietari dell’acciaieria – a partire da settembre – il “lasciapassare penale” inventato dal governo Renzi, che rimarrà in vigore solo per i commissari governativi e solo per applicare l’Autorizzazione integrata ambientale (gli interventi che dovrebbero far inquinare meno l’Ilva).

dopo il no all’emendamento Boschi arriva, ieri, una nota di ArcelorMittal, che chiede proprio di reintrodurre lo “scudo”: “Lo stabilimento di Taranto è sotto sequestro dal 2012 e non può essere gestito senza che ci siano le necessarie tutele legali fino alla completa attuazione del Piano ambientale”, mentre “il decreto Crescita, nella sua formulazione attuale, cancella le tutele legali esistenti quando ArcelorMittal ha accettato di investire nello stabilimento”, tutele necessarie “per evitare di incorrere in responsabilità relative a problematiche che gli attuali gestori non hanno causato”. Quelle tutele, peraltro, sono contenute anche nel contratto di subentro firmato dalla multinazionale con l’allora ministro Carlo Calenda e, dunque, la loro cancellazione potrebbe diventare causa di ricorso legale dell’azienda e persino essere considerata causa di annullamento del contratto. Insomma, consegnata la testa di cavallo, ora “ArcelorMittal Italia resta fiduciosa che venga ripristinata la certezza del diritto”.

Un’altra bomba arrivata al ministero dello Sviluppo economico dopo l’improvvisa e recente richiesta di cassa integrazione per altri 1.400 dipendenti dovuta al calo della domanda mondiale di acciaio. Nello staff di Luigi Di Maio non l’hanno presa bene, perché la mossa sullo “scudo” – sostengono – era stata concordata con ArcelorMittal: tanto più che sulla cosiddetta “scriminante penale” pende un giudizio di incostituzionalità su ricorso formalizzato dal Gip di Taranto a febbraio. Il problema adesso è un altro: il grido di dolore dell’azienda ha commosso la Lega, che ora vuole rimangiarsi la fine dello scudo penale votata pochi giorni fa. In attesa dell’ennesimo chiarimento tra Di Maio e Matteo Salvini (che nella tarda serata di ieri si sono visti a Palazzo Chigi), i lavori della Camera sul decreto Crescita sono stati sospesi e rinviati a oggi.

E poi c’è la seconda storia, un vero romanzo, che cova sotto la cenere della cronaca e riguarda le vere intenzioni dei nuovi padroni dell’Ilva. È noto che l’Europa è in forte sovra-capacità produttiva di acciaio e che lo stabilimento di Taranto, che perde un milione al giorno, tornerà redditizio solo quando ricomincerà a produrre almeno 8 milioni di tonnellate l’anno (oggi è sotto le 5). Il problema è che Arcelor non può farlo prima di aver portato a termine il Piano ambientale e, in ogni caso, solo a parità di emissioni rispetto a quelle previste per la soglia massima attuale di 6 milioni.

Non solo, Arcelor potrebbe rimanere bloccata a una produzione inferiore anche dopo: il ministero dell’Ambiente ha infatti avviato le pratiche per la nuova Autorizzazione integrata ambientale, sulla base di un esposto del Comune di Taranto che sottolinea il danno sanitario delle emissioni, e la nuova Aia dovrebbe contenere pure nuovi e più stringenti tetti alla produzione connessi con le emissioni inquinanti. Insomma, la multinazionale tra cassa integrazione e scudo penale sta probabilmente chiarendo che rimarrà in Puglia alle sue condizioni e, in caso contrario, avrà comunque impedito a un concorrente di mettere le mani sulla più grossa acciaieria d’Europa.

Tria modello Monti: tagli lineari per 10 miliardi per fermare l’Ue

Al ministero dell’Economia c’è chi evoca il parallelo dell’agosto 2011, governo Berlusconi, con l’impasse politica e la battaglia tra il ministro Giulio Tremonti e il premier sulle misure della manovra chiesta dalla Bce conclusa con l’inserimento di clausole di salvaguardia taglia-spesa. Le stesse che, 8 anni dopo, ancora sopravvivono sotto forma di aumenti automatici dell’Iva: nel 2020, per dire, a bilancio ce ne sono per 23 miliardi. E non è un caso che al Tesoro si stia virando verso una soluzione analoga: sostituire aumenti automatici di imposte con impegni a congelare, cioè a tagliare, le spese correnti.

È la linea a cui lavora il ministro dell’Economia Giovanni Tria per evitare la procedura di infrazione Ue sul debito, peraltro già anticipata martedì in un incontro con gli investitori a Londra. Tagliare 23 miliardi, però, è impossibile oltre che poco credibile: al Tesoro si ragiona su una cifra intorno ai 10 miliardi. Che questa linea, che Tria tiene in asse col premier e il Colle, possa passare al vaglio di M5S e soprattutto Lega resta da vedere. Il negoziato è doppio: con Bruxelles e all’interno del governo. L’obiettivo comune minimo è di rinviare la partita alla manovra d’autunno. Sul 2019, invece, le cose sono, per così dire, un po’ meno complicate.

Ieri Giuseppe Conte ha illustrato alle Camere la strategia del governo, che prenderà forma già oggi al Consiglio europeo che dovrà occuparsi delle nomine di vertice delle istituzioni Ue. “L’Italia – ha spiegato il premier – intende rispettare le regole europee, senza che ciò impedisca che, come paese fondatore e terza economia del continente, ci facciamo anche portatori di una riflessione incisiva su come adeguare le regole stesse”.

La volontà di rispettare le regole, però, non basta alla Commissione, dove i Paesi del blocco nordico premono per l’avvio della procedura. La linea da seguire, a grandi linee, viene definita in mattinata in un vertice a Palazzo Chigi con Tria, Di Maio e Salvini. “Incontro positivo”, spiega il premier, anche se il leghista poco dopo se ne va al Viminale e registra un video su Facebook in cui accusa Francia e Germania (“alcuni vincoli europei sono stati studiati per aiutare qualcuno a Berlino e Parigi e fregare tutti gli altri”). Conte illustra la strategia anche nel pranzo al Colle con Sergio Mattarella. Il primo passo arriva nel Consiglio dei ministri che parte in serata, dove Conte e Tria portano la legge di assestamento di bilancio: verrà approvata la prossima settimana, mentre ieri è passata solo la nota di bilancio. Una procedura, questa, che di norma avviene a settembre, ma stavolta viene anticipata per mettere nero su bianco i numeri con cui il governo intende mostrare a Bruxelles che già quest’anno il deficit sarà più basso del 2,5% del Pil stimato da loro: intorno al 2,1%, massimo 2,2.

Per arrivarci viene intanto confermato il taglio dei 2 miliardi già “congelati” nella manovra di dicembre. A questi si aggiungeranno le maggiori entrate mostrate dalla dinamica dei primi mesi dell’anno (soprattutto da Iva e dal condono). L’obiettivo di Tria e Conte è però anche indicare che i 3 miliardi di risparmi stimati quest’anno da Reddito di cittadinanza e Quota 100 sulle pensioni andranno a ridurre il disavanzo. Su questo la Lega è d’accordo e i 5Stelle sembrano aver rinunciato all’idea di usare quei risparmi per altro (lo scomparso decreto Famiglia). Tirate le somme, 5 miliardi sufficienti a centrare l’obiettivo.

Nel Consiglio di ieri sera Conte ha illustrato anche la lettera che invierà a Bruxelles. Politica, come l’aveva annunciata: in sostanza, il premier confermerà che i numeri del 2019 sono migliori del previsto e non giustificano una procedura e poi parlerà delle regole Ue. L’Italia non vuole violarle, dirà, ma vanno ridiscusse: finora non hanno garantito il benessere degli europei.

Quanto alla trattativa con Bruxelles il nodo, come detto, restano gli impegni sul 2020. Ed è qui che il Tesoro lavora al maquillage in grado di rinviare la partita all’autunno. La Commissione non crede che l’Iva verrà disinnescata evitando il disavanzo e stima un deficit al 3,5% del Pil. Per questo Tria è pronto a sostituire una parte delle clausole con la promessa di tagli lineari alla spesa corrente, quella peraltro politicamente più delicata (prestazioni sociali, stipendi…). In sostanza una riedizione amplificata di quanto avvenuto nella trattativa con Bruxelles che a dicembre evito l’apertura dell’infrazione. Al netto delle promesse, nella manovra d’autunno restano almeno altri 13 miliardi da trovare (senza contare le spese indifferibili). E per questo servirà un compromesso con la Commissione per allentare il percorso di riduzione del deficit. Le stime di aprile parlavano di un deficit/Pil al 2,1% nel 2020 e all’1,8% nel 2021. Il governo punta almeno a lasciare invariato il deficit il prossimo anno. In ogni caso, Tria e Conte dovranno convincere la loro maggioranza. C’è tempo fino al 9 luglio, quando si riunirà l’Ecofin (i ministri delle finanze), a cui spetta la parola finale.

Il Caltagiro

Ieri, in stereofonia, quei due bocciuoli di rosa di Francesco Gaetano Caltagirone e Matteo Salvini hanno notificato l’ingiunzione di sfratto a Virginia Raggi. Il primo l’ha fatto con editoriale a tutta prima pagina del suo Messaggero, dal titolo: “Raggi incapace, Roma muore. Perché la sindaca deve passare la mano dopo tre anni di non governo”. Il secondo, sincronizzato al minuto, ha annunciato il programma della Lega per prendersi Roma con due anni di anticipo sulla scadenza della sindacatura. Nulla di strano, intendiamoci. La Lega è all’opposizione della giunta dei 5Stelle, anche se governa con loro a livello nazionale. E il Messaggero, cioè Caltagirone, è all’opposizione della Raggi fin da prima che la Raggi fosse eletta. Il 20 marzo 2016, in campagna elettorale, la candidata M5S aveva detto a Sky che, se eletta, avrebbe “cambiato il management di Acea, composto da un’accozzaglia di nomi in gran parte scelti da Caltagirone con il lasciapassare del suo amico Renzi”. Quattro giorni dopo il Messaggero sparò in prima pagina: “Il caso Acea. La Raggi parla e i romani perdono 71 milioni. Dopo le imprudenti dichiarazioni della candidata-sindaco, le azioni Acea crollano del 4,7%. Bruciati 142 milioni. Il danno maggiore è per il Campidoglio, azionista al 51%”. Morale: cari romani, non votate per una tizia che pronuncia “parole demagogiche e irresponsabili”, di cui “non comprende assolutamente la portata distruttiva”, un’ignorante “inesperta” che “parla senza rendersi conto dei danni che fa”. Figurarsi “che succederà se diventerà sindaco”.

Nella fretta, le zelanti penne caltagironiche si scordarono di indicare i consoci del Comune in Acea: soprattutto il principale, col 15,8%, cioè Caltagirone che pagava loro lo stipendio. Quanto al crollo del titolo a causa della Raggi, era una fake news. L’intervista fu domenica 20 (a mercati chiusi) e il calo azionario mercoledì 23: difficile che in Piazza Affari se ne stiano tre giorni paralizzati a compulsare le frasi di una candidata prima di organizzare la fuga dal titolo. Ma soprattutto: il crollo del titolo non costò un euro (figurarsi 71 o 142 milioni) al Comune né ai “romani”: a meno che costoro non avessero venduto titoli Acea proprio in quei giorni. Purtroppo i romani non credettero al Messaggero e plebiscitarono la Raggi col 67,15%. L’ottavo re di Roma, abituato con gli altri sindaci a scriversi i piani regolatori a domicilio per riempire la città di capolavori come le Vele di Tor Vergata, i cantieri della MetroC, i quartieri-alveare nelle periferie e candidarsi al Premio Attila alla carriera, si listò a lutto.

Ma le provò tutte per convincere la Raggi a tradire l’impegno elettorale di ritirare la candidatura alle Olimpiadi 2024. Era chiaro che, se la sindaca avesse garantito ai palazzinari l’ennesima mangiatoia a spese nostre, avrebbe avuto cinque anni di buona stampa, anche se l’avessero beccata a rapinare le banche o a scippare le vecchiette. Invece la Raggi mantenne la promessa e salvò la città dal default che di solito segue ai Giochi (vedi Atene, Rio de Janeiro e figurarsi Roma con i suoi 15 miliardi di debiti). E si attirò addosso un bombardamento atomico permanente, quotidiano, preconcetto su tutti i media, a prescindere dai suoi errori (tanti) e dai suoi meriti (pochi). Una guerra senza quartiere che, se fosse stata ingaggiata prima contro i sindaci precedenti, avrebbe risparmiato a Roma quasi tutti i suoi guai. Prima l’assalto all’ottima assessora all’Ambiente Paola Muraro, dipinta come una Riina in gonnella fino alle dimissioni e poi prosciolta da tutto. Poi la mostrificazione della stessa Raggi, un giorno Messalina mangia-uomini, uno corrotta, uno riciclatrice di polizze, uno fascista, uno comunista, uno vecchia e racchia, sempre colpevole di tutto, anche dei topi ottuagenari, delle buche secolari, delle piogge autunnali.

La infilarono persino nel dossier prefettizio dei complici di Mafia Capitale, salvo poi scoprire (e nascondere) che i Casamonica vogliono farle la pelle per aver demolito i loro villini abusivi, sempre tollerati dai sindaci bravi e capaci, quelli che avevano consegnato le chiavi del Campidoglio a Buzzi&Carminati&C. e accumulato 15 miliardi di debiti. La Raggi e la sua giunta hanno colpe enormi: molti assessori e manager delle municipalizzate scelti male e cambiati come calzini, ritardi abissali su rifiuti, strade, trasporti, degrado e periferie. Ma, come sempre accade ai 5Stelle, pàgano i loro pochi meriti: l’onestà personale e la correttezza amministrativa, i bandi di gara (prima pressoché sconosciuti) per ogni appalto e iniziativa pubblica, il freno alla deriva poliziesca salviniana, la lotta agli affitti non pagati dai compagnucci de sinistra e dai camerati okkupanti di Casa Pound, il via libera allo stadio della Roma (purtroppo appannaggio di un concorrente di Caltagirone) ma senza speculazione, il salvataggio di Atac col concordato preventivo, le battaglie contro la privatizzazione dell’acqua (meraviglioso ieri, sul Messaggero del socio Acea, il peana all’“Acea gioiello dai conti floridi, a riprova che la cura e il controllo dei privati giova anche a chi vorrebbe addirittura l’acqua pubblica”). Ora infatti tutti, Messaggero in testa, lavorano indefessi per un bel sindaco leghista anche a Roma, e pretendono che la Raggi gli liberi la poltrona con due anni d’anticipo perché i caltagirini han deciso così. Salvini è pronto: non si dà pace che “la giunta neghi perfino il taser ai vigili come previsto dal Dl Sicurezza” (ecco cosa manca a Roma: il taser ai vigili!). E annuncia: “Stiamo lavorando in tutti i quartieri per un programma alternativo. L’obiettivo è rilanciare la città e confermare anche qui il buon governo della Lega”. Tipo alla Regione Lombardia o a Legnano, per dire.

“Le donne devono emergere per qualità. E non per quote”

“Un premio in quanto regista donna? Non per me, grazie”. Per fortuna il Ciak d’Oro – Colpo di fulmine che Valeria Golino si è meritata ieri sera per Euforia è ben distante da tale motivazione, e infatti ha suscitato il sorriso dell’autrice e attrice italo-greca. Che tuttavia non manca di fare le sue valutazioni sulle quote rosa e su “questo tempo importante” per la posizione della donna nella società, rivelando anche una prossima stagione di cinema italiano e internazionale dove sarà assoluta protagonista.

Quanta euforia le ha portato questo Ciak d’oro così speciale?

Un Colpo di fulmine a un film che si chiama Euforia suona psichedelico! Scherzi a parte sono sinceramente felice. Non so chi l’abbia deciso, penso la redazione, è un premio allegro, un gesto d’affetto e credo di stima verso di me e di apprezzamento verso il mio film.

Soprattutto non è un premio a Golino “in quanto” regista donna.

Appunto. Fosse stato così avrei risposto “no, grazie, non per me. Datelo ad altri”. Non penso sia ancora necessario ribadire al mondo che non siamo dei panda o delle tigri bianche in via d’estinzione da proteggere. È deprimente se non allarmante ritrovarsi a ripetere questi concetti.

Ormai i maggiori festival hanno firmato la famosa carta dei 50 +50 per il 2020 per equiparare la presenza di genere fra registi. Servirà a cambiare le cose in profondità?

Anzitutto spero ci siano abbastanza registe donne con delle opere di qualità da presentare ai festival per onorare e giustificare la loro presenza. Costringersi a prendere dei film solo perché sono girati da donne è un’offesa per tutte noi. Dunque la speranza è che, prima di tutto, le donne possano realizzarli questi film e in seconda battuta farsi rispettare nelle selezioni festivaliere. Le questioni legate alle donne nel mondo del lavoro sono sempre state complesse e controverse, questo però è un tempo importante per noi e non dobbiamo sprecarlo. Ma bisogna distinguere gli ambiti.

In che senso?

Nel senso che ci sono modalità diverse affinché questo cambiamento culturale in corso – che riguarda tutte e tutti – sia effettivamente agevolato. Ad esempio la carta del 50 + 50 è una delle tante mosse, magari un po’ goffe, per iniziare in qualche modo a modificare la situazione. Si tratta di una nuova regola che aspira a “normalizzare” la presenza femminile nel mondo dell’audiovisivo ma non dimentichiamo che molte cose vanno legiferate a livello politico. Mi riferisco al tema principale che riguarda le pari opportunità degli stipendi e naturalmente coinvolge tutti gli ambiti e settori. Ci vuole una legge perché la parità diventi concreta e irreversibile, e trovo incredibile serva ancora parlarne.

Tornando alla sua attività di sceneggiatrice e regista, può rivelarci qualcosa sul suo terzo film?

Ho appena cominciato con le mie sceneggiatrici e onestamente siamo ancora in alto mare, proprio in quella fase di magma creativo piena di confusione e di idee. Però posso dire che stiamo lavorando sulla vita di una donna a inizio secolo, quindi sarà un film in costume ma non di genere storico.

A Cannes l’abbiamo ammirata nel film di Céline Sciamma, “Portrait de la jeune fille en feu”, prossimamente anche nelle sale italiane. E poi dove la vedremo?

Prestissimo nell’esordio alla regia di Igort, 5 è il numero perfetto, accanto a Servillo e Buccirosso. Poi nel nuovo lavoro di Gabriele Salvatores, Se ti abbraccio non aver paura, con Santamaria e Abatantuono, in quello molto “sperimentale” dell’americano ma cosmopolita Jonathan Nossiter al fianco di Nick Nolte (di cui interpreto la moglie), Alba Rohrwacher e Charlotte Rampling e infine nella nuova e attesa opera di Costa-Gavras sulla crisi economica in Grecia tratta dal libro di Yanis Varoufakis, Adulti nella stanza. Lì ho il ruolo della moglie dell’ex ministro delle Finanze e – finalmente per la prima volta – recito in greco, la mia seconda lingua.